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martedì 27 novembre 2018
Catechesi sul Giudizio Universale
1. Poche verità sono più spesso o più chiaramente proclamate nella Scrittura che quella del giudizio generale. Ad essa i profeti dell'Antico Testamento si riferiscono quando parlano del "Giorno del Signore" (Gioele 3: 4; Ezechiele 13: 5; Isaia 2:12), in cui le nazioni saranno convocate in giudizio. Nel Nuovo Testamento la seconda Parusia, o venuta di Cristo come Giudice del mondo, è una dottrina spesso ripetuta. Lo stesso Salvatore non solo predice l'evento, ma ritrae graficamente le sue circostanze (Matteo 24:27; 25:31.). Gli Apostoli danno un posto di primo piano a questa dottrina nella loro predicazione (Atti 10:42, 17:31) e scritti (Romani 2: 5-16; 14:10; 1 Corinzi 4: 5; 2 Corinzi 5:10; 2 Timoteo 4: 1; 2 Tessalonicesi 1: 5; Giacomo 5: 7). Oltre al nome Parusia (parusia), o Avvento (1 Corinzi 15:23; 2 Tessalonicesi 2:19), la Seconda Venuta è anche chiamata Epifania, epifania o Apparizione (2 Tessalonicesi 2: 8; 1 Timoteo 6:14; 2 Timoteo 4: 1; Tito 2:13), e Apocalisse o Rivelazione (2 Tessalonicesi 2: 7; 1 Pietro 4:13). Il tempo della Seconda Venuta è detto "quel giorno" (2 Timoteo 4: 8), "il giorno del Signore" (1 Tessalonicesi 5: 2), "il giorno di Cristo" (Filippesi 1: 6 e 2: 16), "il giorno del Figlio dell'uomo" (Luca 17:30), "l'ultimo giorno" (Giovanni 6: 39-40).
2. La credenza nel giudizio generale ha prevalso in ogni momento e in tutti i luoghi della Chiesa. È contenuto come un articolo di fede in tutti i credi antichi: "Salì in cielo, da lì verrà per giudicare i vivi e i morti" (Credo degli Apostoli). Verrà di nuovo con gloria per giudicare sia i vivi che i morti "(Credo di Nicea)." Di lì verrà per giudicare i vivi e i morti, alla cui venuta tutti gli uomini devono risorgere con i loro corpi e devono rendere conto delle loro azioni "(Credo di S. Atanasio) universale. La testimonianza patristica di questo dogma del giudizio universale è chiara e unanime.
Segni che devono precedere il Giudizio generale
Le Scritture menzionano alcuni eventi che devono aver luogo prima del giudizio finale. Queste predizioni non erano intese come indicazioni del tempo esatto del giudizio, poiché, come dice Cristo, quel giorno e quell'ora sono noti solo al Padre e arriveranno quando meno se lo aspettano. I segni devono prefigurare l'ultimo giudizio e mantengono la fine del mondo presente nelle menti dei cristiani, senza tuttavia eccitare inutili curiosità.
I teologi di solito elencano i seguenti sette eventi come segni del giudizio finale:
Predicazione generale della religione cristiana
Riguardo a questo segno il Salvatore dice: "E questo vangelo del regno sarà predicato in tutto il mondo, per una testimonianza a tutte le nazioni, e allora verrà il compimento" (Matteo 24:14). Secondo la maggioranza degli interpreti, Cristo sta parlando della fine del mondo.
Una grande apostasia
Per quanto riguarda questo evento, San Paolo ammonisce i Tessalonicesi (2 Tessalonicesi 2: 3) che non devono essere terrorizzati, come se il giorno del Signore fosse vicino, perché deve prima venire una grande apostasia. Per i Padri e gli interpreti la grande apostasia vuol dire una grande riduzione del numero dei fedeli attraverso l'abbandono della religione cristiana da parte di molte nazioni. Alcuni commentatori citano come conferma di questa credenza le parole di Cristo: "Ma tuttavia il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà, pensi, fede sulla terra?" (Luca 18: 8).
Il regno di Anticristo
Nel passaggio sopra menzionato (2 Tessalonicesi 2: 3 ss.) San Paolo indica come un altro segno del giorno del Signore, la rivelazione dell'uomo del peccato, il figlio della perdizione. "L'uomo del peccato" qui descritto è generalmente identificato con l'Anticristo, il quale, dice San Giovanni (1 Giovanni 2:18), arriverà negli ultimi giorni. Sebbene su questo argomento prevalga molta oscurità e divergenza di opinione, è generalmente ammesso dai precedenti e da altri testi che prima della Seconda Venuta sorgerà un potente avversario di Cristo, che sedurrà le nazioni con le sue meraviglie e perseguiterà la Chiesa.
Straordinarie perturbazioni della natura
Le Scritture indicano chiaramente che il giudizio sarà preceduto da turbamenti insoliti e terrificanti dell'universo fisico (Matteo 24:29, Luca 21: 25-26). Le guerre, le pestilenze, le carestie e i terremoti predetti in Matteo 24: 6. - le calamità degli ultimi tempi.
La conflagrazione universale
Negli scritti apostolici ci viene detto che la fine del mondo sarà determinata da una conflagrazione generale, che tuttavia non annienterà la creazione presente, ma cambierà forma e aspetto (2 Pietro 3: 10-13; 1 Tessalonicesi 5: 2; Apocalisse 3: 3 e 16:15). Le scienze naturali mostrano la possibilità che una tale catastrofe sia prodotta nel normale corso degli eventi, ma i teologi tendono generalmente a credere che la sua origine sarà del tutto miracolosa.
La tromba della risurrezione
Diversi testi del Nuovo Testamento menzionano una voce o una tromba che risveglierà i morti alla risurrezione (1 Corinzi 15:52; 1 Tessalonicesi 4:15; Giovanni 5:28). Secondo San Tommaso (Supplemento 86: 2) vi è riferimento in questi passaggi o alla voce o all'apparizione di Cristo, che causerà la risurrezione dei morti.
"Il segno del Figlio dell'Uomo che appare nei cieli"
In Matteo 24:30, questo è indicato come il segno che precede immediatamente l'apparizione di Cristo per giudicare il mondo. Con questo segno i Padri della Chiesa generalmente comprendono l'apparizione nel cielo della Croce su cui è morto il Salvatore o di una meravigliosa croce di luce.
Circostanze che accompagnano il Giudizio generale
Tempo
Come detto sopra, i segni che precedono il giudizio non forniscono un'indicazione accurata del momento in cui avverrà (Marco 13:32). Quando i discepoli chiesero al Salvatore: "Signore, vuoi che in questo momento ristabilisca il regno in Israele?" Rispose: "Non è per te che tu sappia i tempi o i momenti che il Padre ha messo in suo potere" (Atti 1: 6-7). L'incertezza del giorno del giudizio è continuamente sollecitata da Cristo e dagli Apostoli come incentivo alla vigilanza. Il giorno del Signore verrà "come un ladro" (Matteo 24: 42-43), come un lampo che appare all'improvviso (Matteo 24:27), come una trappola (Luca 21:34), come il Diluvio (Matteo 24:37).
Luogo del giudizio
Tutti i testi in cui si fa menzione della Parusia, o Seconda Venuta, sembrano implicare abbastanza chiaramente che il giudizio generale avrà luogo sulla terra. Alcuni commentatori deducono da 1 Tessalonicesi 4:16 che il giudizio si terrà nell'aria, il nuovo essere portato nelle nuvole per incontrare Cristo; secondo altri la profezia di Gioele (3: 1 ss.) pone l'ultimo giudizio nella Valle di Giosafat.
Il Giudice
Che questo giudizio sia attribuito a Cristo, non solo come Dio, ma anche come Uomo, è espressamente dichiarato nella Scrittura; poiché sebbene il potere di giudicare sia comune a tutte le Persone della Trinità, tuttavia è attribuito specialmente al Figlio, perché a Lui anche in modo speciale è ascritta la saggezza. Ma che Cristo come uomo giudicherà il mondo è confermato da Cristo stesso (Giovanni 5: 26-28). Alla seconda venuta Cristo apparirà nei cieli, seduto su una nuvola e circondato dalle schiere angeliche (Matteo 16:27, 24:30, 25:31). Gli angeli serviranno il giudice (Matteo 24:31). Gli eletti aiuteranno Cristo in una capacità giudiziaria (1 Corinzi 6: 2). La vita dei giusti sarà di per sé una condanna dei malvagi (Matteo 21:41), la cui punizione sarà approvata pubblicamente. Ma gli Apostoli saranno giudici del mondo poiché la promessa di sedere su dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele (Matteo 19:28) sembra implicare una reale partecipazione all'autorità giudiziaria. Secondo un'opinione molto probabile, questa prerogativa è estesa a tutti coloro che hanno adempiuto fedelmente i consigli del Vangelo (Matteo 19: 27-28). Non si sa nulla del modo in cui verrà esercitata questa autorità delegata. San Tommaso congettura che i più grandi santi faranno conoscere la frase di Cristo agli altri (Supplemento 88: 2).
Chi sarà giudicato
Tutti gli uomini, sia buoni che cattivi, secondo il Simbolo Atanasiano, appariranno nel giudizio per rendere conto delle loro azioni. Gli angeli e i demoni non saranno giudicati direttamente, poiché il loro destino eterno è già stato fissato.
Oggetto del Giudizio
Secondo i teologi il giudizio abbraccerà tutte le opere, buone o cattive, perdonate come pure i peccati imperdonati, ogni parola oziosa (Matteo 12:36), ogni pensiero segreto (1 Corinzi 4: 5). Con l'eccezione di Pietro Lombardo, i teologi insegnano che anche i peccati segreti dei giusti saranno resi manifesti, affinché il giudizio possa essere completo e che la giustizia e la misericordia di Dio possano essere glorificati. Ciò non farà soffrire o imbarazzare i santi, ma aggiungerà alla loro gloria, proprio come il pentimento di San Pietro e Santa Maria Maddalena è per questi santi una fonte di gioia e onore.
Forma del Giudizio
La procedura del giudizio è descritta in Matteo 25: 31-46 e nell'Apocalisse 20:12. I commentatori vedono in quei passaggi descrizioni allegoriche intese a trasmettere in modo vivido il fatto che nel giudizio finale la condotta e i deserti di ciascun individuo saranno resi evidenti non solo alla propria coscienza, ma alla conoscenza del mondo riunito. È probabile che non si pronuncino parole nel giudizio, ma che in un istante, attraverso un'illuminazione divina, ciascuna creatura comprenderà completamente la propria condizione morale e quella di ogni altra creatura (Romani 2:15). Molti credono, tuttavia, che le parole della frase: "Vieni, benedetto", ecc. E "Allontanati da me", ecc. Saranno veramente indirizzate da Cristo alla moltitudine dei salvati e dei perduti.
Risultati del Giudizio generale
Con l'adempimento della sentenza pronunciata nel giudizio finale, i rapporti e le relazioni del Creatore con la creatura trovano il loro culmine, sono spiegati e giustificati. Essendo compiuto lo scopo Divino, la razza umana raggiungerà, come conseguenza, il suo destino finale. Il regno di Cristo sull'umanità sarà il seguito del Giudizio Generale.
mercoledì 21 novembre 2018
La traduzione del Gloria: problematiche sottese a Lc 2,14
Notizia recentissima e suscitante un malcelato scalpore è il già preannunziato cambiamento della traduzione italiana in uso nella liturgia riformata del Pater e del Gloria, resi, a detta della Conferenza Episcopale Italiana, "più fedeli al testo evangelico".
Sull'inopportunità della nuova traduzione del Pater si è già detto e scritto molto nei siti e nei giornali cattolici, citando i commenti dei Padri e dei Dottori della Chiesa in sostegno della traduzione più lineare del ne nos inducas in tentationem. Senza scomodare sì ampi commentari, leggere i quali è comunque opera meritoria per la nostra formazione, sarebbe bastato riportare alla mente alcuni passi scritturali molto conosciuti: per esempio, il brano evangelico in cui Nostro Signore fu portato dallo Spirito nel deserto "per essere tentato", oppure il fatto che Iddio ci metta alla prova "come oro nel crogiuolo", richiamato in Sapienza 3,6, Giobbe 23,10 e altri passi ancora. San Paolo stesso afferma che Dio "darà la tentazione e il modo di uscirne". Ma, ancora più semplicemente, sarebbe bastata una minima conoscenza della lingua latina (e prima ancora di quella greca): i Vangeli riportano il termine εἰσενέγκῃς, congiuntivo aoristo del verbo εἰσφέρω, letteralmente "portare dentro"; l'equivalente latino (condivide infatti la radice indoeuropea *bher, idea di "portare", e il prefisso ingressivo) sarebbe infero, rispetto al quale induco (lett. "condurre dentro") presenta una sfumatura già più moderata. E, volendo, basterebbe conoscere anche soltanto la lingua italiana, esulando un po' dall'impiego stereotipato, semplicistico e sovente erroneo che se ne fa oggi, per rendersi conto che indurre, al di là della sfumatura quasi di atto subdolo cui lo colleghiamo ai nostri giorni, ha una gamma di significati ben più ampia.
Invocare la fedeltà al testo originario e la conoscenza delle lingue classiche appare tuttavia inutile di fronte alla CEI, le cui traduzioni sono sempre state caratterizzate da un'abbondante quantità di errori. Tra i più noti, un pro multis che diventa "ecumenicamente" per tutti e un ut intres sub tectum meum che diventa di partecipare alla tua mensa (traduzioni che farebbero sorridere e piangere al contempo qualsiasi insegnante di ginnasio le trovasse scritte dall'alunno in versione).
La stessa traduzione del Pater ne contiene almeno uno palese e grossolano, ancorché diffuso già in passato, ossia quello di leggere malo come ablativo di malum (per fare una battuta, almeno non hanno tradotto "liberaci dalla mela"!), quando assai più probabilmente (quasi certamente, se confrontiamo con il greco, in cui πονηρὸς,-ὰ,-ὸν [nel testo al gen. πονηροῦ] indica preferibilmente un essere, piuttosto che una cosa) è ablativo del maschile malus, cioè il Maligno. E questo solo per soffermarci all'errore evidente, senza entrare nell'annosa questione della doppia valenza di ἐπιούσιος (quotidiano e sovrasostanziale), sulla quale sono stati scritti libri interi.
Proprio però una pretesa fedeltà al testo originale di fronte invece all'errore e alla mistificazione evidenti del testo stesso impone di fare una riflessione, per quanto breve, anche sull'altro testo liturgico modificato in detto frangente, ovverosia il Gloria in excelsis. La cosiddetta "dossologia maggiore", che non è altro che una collazione di versetti più o meno in sequenza, si è storicamente presentata sotto molte forme: il testo latino presenta alcune aggiunte rispetto a quello greco, ma si ferma a in gloria Dei Patris, mentre il secondo prosegue con altri numerosi versetti; il rito aquilejese, giusto per citarne uno, prevedeva ben due forme di dossologia maggiore, di cui una contenente un rafforzamento del concetto trinitario con l'aggiunta di un et Sancte Spiritus, e l'altro con il tropo Mariae filius, riservato alle feste della Madonna. Tuttavia, un versetto è sicuramente inalienabile e certo, ovverosia il primo, tolto direttamente dal Vangelo (S. Luca 2,14). Eppure, i novatori-traduttori hanno voluto andare a toccare proprio quello!
Il discorso attorno a questo versetto, e particolarmente al sostantivo εὐδοκία(ς) (rarissimo nella prosa cristiana antica, hapax nella Sacra Scrittura) è quantomai complesso; partiamo intanto dal testo latino: tanto quello geronimiano (IV sec.), quanto quello della Vetus Itala (II-III sec.) e persino la pessima "ritraduzione" (se così si può chiamare) fatta negli anni '50 sono concordi nell'affermare: et in terra pax hominibus bonae voluntatis, con un normalissimo genitivo di qualità, ch'è stato comunemente tradotto nelle lingue nazionali di buona volontà.
Lessi uno studio paralinguistico che giustificava la traduzione (già circolante da decenni) amati dal Signore, in cui dunque gli uomini diventano oggetto della benevolenza di Dio, appellandosi alla diatesi del verbo greco δοκέω (onde il deverbativo εὐδοκία); tale lettura mi è parsa alquanto imprecisa, anzitutto perché nessun elemento mi fa supporre la passività del termine, in secondo luogo perché (cosa che lo stesso studio era costretto ad ammettere) se anche fosse passivo, nessun elemento se non un'improbabile interpretazione ad sensum determinerebbe il soggetto, e soprattutto perché sarebbe difficilmente giustificabile (anche tirando in ballo i semitismi) trasformare un genitivo qualitativo in una sorta di proposizione relativa passiva.
Se volessi indicare in greco negli uomini in cui si compiace, forte dei modelli a me noti, impiegherei di preferenza un participio chiaramente passivo (magari esplicitando pure l'agente) e soprattutto l'articolo! Se anche supponessimo per semitismo che un genitivo possa indicare un'idea più complessa, e ammesso (e non concesso) che si debba intendere il termine passivamente, in assenza di articolo non è usualmente possibile in greco rendere una determinazione selettiva, dunque in ogni caso amati dal Signore non dovrebbe restringere il campo a una sola parte dell'umanità (qui in realtà può esserci anche altra lettura, vide infra).
Questi sono solo alcuni dei problemi evidenti della nuova traduzione; se volessimo però fare realmente quello che non hanno fatto i traduttori della CEI, cioè andare a vedere i testi originali, ci accorgeremmo che la lezione Δόξα ἐν ὑψίστοις Θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις εὐδοκίας, abbondantemente oggi spacciata per originale, non compare che in un'edizione di critica filologica quale il Novum Testamentum Graece di Eberhard Nestle (Münster, Institut für neutestamentliche Textforschung, 1898), rivista nel '27 dal figlio Erwin e poi nel '52 da Kurt Aland (onde la sigla Nestle-Aland con cui s'indica comunemente questa edizione critica). Essa raccoglieva le osservazioni critiche di numerosi filologi; relativamente a Luca 2 si rifaceva all'interpretazione (originale e unica) di Konstantin von Tischendorf (+1874), teologo e filologo di Lipsia, che dallo studio di alcuni manoscritti sinaitici e delle citazioni patristiche suppose di dover leggere l'ultima parola di Luca 2,14 come il genitivo εὐδοκίας (sua argomentazione tra le più solide fu che gli antichi traduttori latini della Scrittura dovessero avere di fronte un genitivo per aver tradotto tutti concordemente bonae voluntatis).
Tutti le edizioni precedenti si rifanno però alla lezione che potremmo a buon diritto considerare corretta quantomeno per l'importanza ricoperta nella Storia della Chiesa e per il consenso unanime avuto per secoli (principio di Tradizione), tuttora ufficiale nella Bibbia e nella liturgia della Chiesa Greca, che recita: Δόξα ἐν ὑψίστοις Θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις εὐδοκία. Il discusso genitivo risulta essere quindi un nominativo! Il versetto suonerebbe dunque così: Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace sulla terra e benevolenza tra gli uomini.
Questa è indubbiamente una lectio facilior, che in filologia verrebbe a priori scartata o comunque guardata con sospetto e sottovalutata rispetto alla lectio difficilior (per un principio che, pur da cultore di filologia, mi ha sempre fatto sorridere e, a leggere Luciano di Samosata, pare facesse sorridere già nel II secolo d.C.). Tuttavia lo studio della Sacra Scrittura non può assimilarsi a quello degli altri testi antichi, perché s'inserisce nell'alveo di una Tradizione di origine apostolica e divina, tràdita sino a noi attraverso i Padri, che è di valore estremamente superiore a qualsiasi ragionamento filologico (anche perché, viste le bizzarre posizioni di molti [presunti] filologi biblisti dell'ultimo secolo, ci sarebbe di che riscrivere l'intera Bibbia e buttare a mare buona parte del sostrato scritturale della nostra Fede...).
La quasi totalità delle traduzioni antiche della Sacra Scrittura (prescindendo da quella slava, che rispecchia i testi costantinopolitani del IX secolo) segue la lezione appena presentata. Tra tutte, segnalo la Bibbia di Re Giacomo (1611), che riporta: Glory to God in the highest, and on earth peace, good will toward men; e la Bibbia di Giovanni Diodati (1649): Gloria a Dio ne’ luoghi altissimi, Pace in terra, Benivoglienza inverso gli uomini. Anche se queste versioni afferiscono all'ambito riformato, sono imprescindibili testi di studio per chiunque affronti l'annosa questione della traduzione di testi biblici, soprattutto per la ratio e il modus operandi encomiabilmente preciso che vi fu dietro (il calvinista ginevrino Diodati non era certo gran teologo, nemmeno a detta degli eretici, ma era un eccellente e dotto linguista, peraltro uno dei pochi al tempo ad avere conoscenza profonda dell'ebraico, e la sua traduzione, ancora una volta a prescindere dall'eretica e pietistica interpretazione teologica che ne dà nelle note, è sempre stata riconosciuta dagli accademici come un lavoro filologico di magistrale portata e straordinaria accuratezza).
A questo punto, sciolte le questioni filologiche, è d'uopo ripercorrere brevemente le vicende storiche. Come molte delle "libere interpretazioni" delle versioni CEI della Scrittura (quelle presentate all'inizio sono le più note perché fanno parte della liturgia, ma la Bibbia CEI è zeppa di traduzioni a dir poco fantasiose), queste novità non sono frutto di un'invenzione originale, ma sono ricalcate da traduzioni protestanti recenti (le quali, a differenza di quelle antiche, sono prive di metodo linguistico affidabile, e sono volte principalmente a veicolare concetti teologici distorti): in Italia per esempio la Bibbia tradotta dal valdese Luzzatti nel 1927 presenta: pace in terra fra gli uomini ch’Egli gradisce!; e nella più o meno coeva Riveduta inglese si legge: on earth peace among men in whom he is well pleased.
Onde potrebbero esserci anche delle obiezioni teologiche da muovere alla nuova e discussa traduzione. Infatti, a seconda che gli amati dal Signore siano intesi in senso ampliativo o restrittivo, siamo di fronte a due posizioni dottrinali diverse e ambedue problematiche:
a) Se amati dal Signore è ampliativo, s'inserisce in quella corrente di "buonismo teologico" che in realtà prelude all'universalismo per cui viene meno il dogma extra Ecclesiam nulla salus, dacché tutti gli uomini sarebbero amati dal Signore.
b) Se invece è restrittivo (questa pare non essere la lettura che viene data oggi dai nuovi traduttori, ma probabilmente era quella di Luzzatti), si conforma alla dottrina calvinista dell'elezione incondizionata, per cui Dio ha già scelto alcuni da salvare (quelli che ama e che sono destinati a essere salvati; cfr. dottrina della perseveranza dei santi) e altri da dannare (quelli che non ama, e dunque ai quali non si applica il frutto della Redenzione, cfr. dottrina della redenzione limitata). Una dichiarazione di protestantesimo estremo abbastanza palese.
In ambo i casi, viene meno un concetto della dottrina ortodossa che invece (sia o meno la traduzione esatta, come abbiamo detto) l'espressione agli uomini di buona volontà rendeva appieno, cioè la sinergia necessaria tra la grazia divina e l'azione degli uomini (che ovviamente parte dalla volontà) perché questi ultimi raggiungano la salvezza ottenuta loro dal Cristo.
Infine, possiamo fare una riflessione sulla base che spinge i novatori a modificare il testo del Gloria, così come quello del Padre Nostro, che è una base tristemente umana e razionale che va contro l'essenza del Cristianesimo e la Rivelazione. San Paisios l'Athonita diceva che tutti gli errori del mondo cristiano in Occidente si possono ricondurre a uno solo: il razionalismo. In altre parole, il ragionare umanamente sulla Rivelazione anziché viverla, sino a modificarla per rendere "umana essa stessa". Come scrive qui un amico riferendosi alle modifiche al Pater: "Queste riforme indicano un profondo VUOTO di spiritualità, ossia di vita in Cristo, vuoto colmato da soli ragionamenti che appiattiscono e svuotano la rivelazione. Siamo peggio che nell'eresia, almeno nelle eresie storiche c'era rispetto almeno per qualcosa..."
Sull'inopportunità della nuova traduzione del Pater si è già detto e scritto molto nei siti e nei giornali cattolici, citando i commenti dei Padri e dei Dottori della Chiesa in sostegno della traduzione più lineare del ne nos inducas in tentationem. Senza scomodare sì ampi commentari, leggere i quali è comunque opera meritoria per la nostra formazione, sarebbe bastato riportare alla mente alcuni passi scritturali molto conosciuti: per esempio, il brano evangelico in cui Nostro Signore fu portato dallo Spirito nel deserto "per essere tentato", oppure il fatto che Iddio ci metta alla prova "come oro nel crogiuolo", richiamato in Sapienza 3,6, Giobbe 23,10 e altri passi ancora. San Paolo stesso afferma che Dio "darà la tentazione e il modo di uscirne". Ma, ancora più semplicemente, sarebbe bastata una minima conoscenza della lingua latina (e prima ancora di quella greca): i Vangeli riportano il termine εἰσενέγκῃς, congiuntivo aoristo del verbo εἰσφέρω, letteralmente "portare dentro"; l'equivalente latino (condivide infatti la radice indoeuropea *bher, idea di "portare", e il prefisso ingressivo) sarebbe infero, rispetto al quale induco (lett. "condurre dentro") presenta una sfumatura già più moderata. E, volendo, basterebbe conoscere anche soltanto la lingua italiana, esulando un po' dall'impiego stereotipato, semplicistico e sovente erroneo che se ne fa oggi, per rendersi conto che indurre, al di là della sfumatura quasi di atto subdolo cui lo colleghiamo ai nostri giorni, ha una gamma di significati ben più ampia.
Invocare la fedeltà al testo originario e la conoscenza delle lingue classiche appare tuttavia inutile di fronte alla CEI, le cui traduzioni sono sempre state caratterizzate da un'abbondante quantità di errori. Tra i più noti, un pro multis che diventa "ecumenicamente" per tutti e un ut intres sub tectum meum che diventa di partecipare alla tua mensa (traduzioni che farebbero sorridere e piangere al contempo qualsiasi insegnante di ginnasio le trovasse scritte dall'alunno in versione).
La stessa traduzione del Pater ne contiene almeno uno palese e grossolano, ancorché diffuso già in passato, ossia quello di leggere malo come ablativo di malum (per fare una battuta, almeno non hanno tradotto "liberaci dalla mela"!), quando assai più probabilmente (quasi certamente, se confrontiamo con il greco, in cui πονηρὸς,-ὰ,-ὸν [nel testo al gen. πονηροῦ] indica preferibilmente un essere, piuttosto che una cosa) è ablativo del maschile malus, cioè il Maligno. E questo solo per soffermarci all'errore evidente, senza entrare nell'annosa questione della doppia valenza di ἐπιούσιος (quotidiano e sovrasostanziale), sulla quale sono stati scritti libri interi.
Proprio però una pretesa fedeltà al testo originale di fronte invece all'errore e alla mistificazione evidenti del testo stesso impone di fare una riflessione, per quanto breve, anche sull'altro testo liturgico modificato in detto frangente, ovverosia il Gloria in excelsis. La cosiddetta "dossologia maggiore", che non è altro che una collazione di versetti più o meno in sequenza, si è storicamente presentata sotto molte forme: il testo latino presenta alcune aggiunte rispetto a quello greco, ma si ferma a in gloria Dei Patris, mentre il secondo prosegue con altri numerosi versetti; il rito aquilejese, giusto per citarne uno, prevedeva ben due forme di dossologia maggiore, di cui una contenente un rafforzamento del concetto trinitario con l'aggiunta di un et Sancte Spiritus, e l'altro con il tropo Mariae filius, riservato alle feste della Madonna. Tuttavia, un versetto è sicuramente inalienabile e certo, ovverosia il primo, tolto direttamente dal Vangelo (S. Luca 2,14). Eppure, i novatori-traduttori hanno voluto andare a toccare proprio quello!
Il discorso attorno a questo versetto, e particolarmente al sostantivo εὐδοκία(ς) (rarissimo nella prosa cristiana antica, hapax nella Sacra Scrittura) è quantomai complesso; partiamo intanto dal testo latino: tanto quello geronimiano (IV sec.), quanto quello della Vetus Itala (II-III sec.) e persino la pessima "ritraduzione" (se così si può chiamare) fatta negli anni '50 sono concordi nell'affermare: et in terra pax hominibus bonae voluntatis, con un normalissimo genitivo di qualità, ch'è stato comunemente tradotto nelle lingue nazionali di buona volontà.
Lessi uno studio paralinguistico che giustificava la traduzione (già circolante da decenni) amati dal Signore, in cui dunque gli uomini diventano oggetto della benevolenza di Dio, appellandosi alla diatesi del verbo greco δοκέω (onde il deverbativo εὐδοκία); tale lettura mi è parsa alquanto imprecisa, anzitutto perché nessun elemento mi fa supporre la passività del termine, in secondo luogo perché (cosa che lo stesso studio era costretto ad ammettere) se anche fosse passivo, nessun elemento se non un'improbabile interpretazione ad sensum determinerebbe il soggetto, e soprattutto perché sarebbe difficilmente giustificabile (anche tirando in ballo i semitismi) trasformare un genitivo qualitativo in una sorta di proposizione relativa passiva.
Se volessi indicare in greco negli uomini in cui si compiace, forte dei modelli a me noti, impiegherei di preferenza un participio chiaramente passivo (magari esplicitando pure l'agente) e soprattutto l'articolo! Se anche supponessimo per semitismo che un genitivo possa indicare un'idea più complessa, e ammesso (e non concesso) che si debba intendere il termine passivamente, in assenza di articolo non è usualmente possibile in greco rendere una determinazione selettiva, dunque in ogni caso amati dal Signore non dovrebbe restringere il campo a una sola parte dell'umanità (qui in realtà può esserci anche altra lettura, vide infra).
Questi sono solo alcuni dei problemi evidenti della nuova traduzione; se volessimo però fare realmente quello che non hanno fatto i traduttori della CEI, cioè andare a vedere i testi originali, ci accorgeremmo che la lezione Δόξα ἐν ὑψίστοις Θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις εὐδοκίας, abbondantemente oggi spacciata per originale, non compare che in un'edizione di critica filologica quale il Novum Testamentum Graece di Eberhard Nestle (Münster, Institut für neutestamentliche Textforschung, 1898), rivista nel '27 dal figlio Erwin e poi nel '52 da Kurt Aland (onde la sigla Nestle-Aland con cui s'indica comunemente questa edizione critica). Essa raccoglieva le osservazioni critiche di numerosi filologi; relativamente a Luca 2 si rifaceva all'interpretazione (originale e unica) di Konstantin von Tischendorf (+1874), teologo e filologo di Lipsia, che dallo studio di alcuni manoscritti sinaitici e delle citazioni patristiche suppose di dover leggere l'ultima parola di Luca 2,14 come il genitivo εὐδοκίας (sua argomentazione tra le più solide fu che gli antichi traduttori latini della Scrittura dovessero avere di fronte un genitivo per aver tradotto tutti concordemente bonae voluntatis).
Tutti le edizioni precedenti si rifanno però alla lezione che potremmo a buon diritto considerare corretta quantomeno per l'importanza ricoperta nella Storia della Chiesa e per il consenso unanime avuto per secoli (principio di Tradizione), tuttora ufficiale nella Bibbia e nella liturgia della Chiesa Greca, che recita: Δόξα ἐν ὑψίστοις Θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις εὐδοκία. Il discusso genitivo risulta essere quindi un nominativo! Il versetto suonerebbe dunque così: Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace sulla terra e benevolenza tra gli uomini.
Questa è indubbiamente una lectio facilior, che in filologia verrebbe a priori scartata o comunque guardata con sospetto e sottovalutata rispetto alla lectio difficilior (per un principio che, pur da cultore di filologia, mi ha sempre fatto sorridere e, a leggere Luciano di Samosata, pare facesse sorridere già nel II secolo d.C.). Tuttavia lo studio della Sacra Scrittura non può assimilarsi a quello degli altri testi antichi, perché s'inserisce nell'alveo di una Tradizione di origine apostolica e divina, tràdita sino a noi attraverso i Padri, che è di valore estremamente superiore a qualsiasi ragionamento filologico (anche perché, viste le bizzarre posizioni di molti [presunti] filologi biblisti dell'ultimo secolo, ci sarebbe di che riscrivere l'intera Bibbia e buttare a mare buona parte del sostrato scritturale della nostra Fede...).
La quasi totalità delle traduzioni antiche della Sacra Scrittura (prescindendo da quella slava, che rispecchia i testi costantinopolitani del IX secolo) segue la lezione appena presentata. Tra tutte, segnalo la Bibbia di Re Giacomo (1611), che riporta: Glory to God in the highest, and on earth peace, good will toward men; e la Bibbia di Giovanni Diodati (1649): Gloria a Dio ne’ luoghi altissimi, Pace in terra, Benivoglienza inverso gli uomini. Anche se queste versioni afferiscono all'ambito riformato, sono imprescindibili testi di studio per chiunque affronti l'annosa questione della traduzione di testi biblici, soprattutto per la ratio e il modus operandi encomiabilmente preciso che vi fu dietro (il calvinista ginevrino Diodati non era certo gran teologo, nemmeno a detta degli eretici, ma era un eccellente e dotto linguista, peraltro uno dei pochi al tempo ad avere conoscenza profonda dell'ebraico, e la sua traduzione, ancora una volta a prescindere dall'eretica e pietistica interpretazione teologica che ne dà nelle note, è sempre stata riconosciuta dagli accademici come un lavoro filologico di magistrale portata e straordinaria accuratezza).
A questo punto, sciolte le questioni filologiche, è d'uopo ripercorrere brevemente le vicende storiche. Come molte delle "libere interpretazioni" delle versioni CEI della Scrittura (quelle presentate all'inizio sono le più note perché fanno parte della liturgia, ma la Bibbia CEI è zeppa di traduzioni a dir poco fantasiose), queste novità non sono frutto di un'invenzione originale, ma sono ricalcate da traduzioni protestanti recenti (le quali, a differenza di quelle antiche, sono prive di metodo linguistico affidabile, e sono volte principalmente a veicolare concetti teologici distorti): in Italia per esempio la Bibbia tradotta dal valdese Luzzatti nel 1927 presenta: pace in terra fra gli uomini ch’Egli gradisce!; e nella più o meno coeva Riveduta inglese si legge: on earth peace among men in whom he is well pleased.
Onde potrebbero esserci anche delle obiezioni teologiche da muovere alla nuova e discussa traduzione. Infatti, a seconda che gli amati dal Signore siano intesi in senso ampliativo o restrittivo, siamo di fronte a due posizioni dottrinali diverse e ambedue problematiche:
a) Se amati dal Signore è ampliativo, s'inserisce in quella corrente di "buonismo teologico" che in realtà prelude all'universalismo per cui viene meno il dogma extra Ecclesiam nulla salus, dacché tutti gli uomini sarebbero amati dal Signore.
b) Se invece è restrittivo (questa pare non essere la lettura che viene data oggi dai nuovi traduttori, ma probabilmente era quella di Luzzatti), si conforma alla dottrina calvinista dell'elezione incondizionata, per cui Dio ha già scelto alcuni da salvare (quelli che ama e che sono destinati a essere salvati; cfr. dottrina della perseveranza dei santi) e altri da dannare (quelli che non ama, e dunque ai quali non si applica il frutto della Redenzione, cfr. dottrina della redenzione limitata). Una dichiarazione di protestantesimo estremo abbastanza palese.
In ambo i casi, viene meno un concetto della dottrina ortodossa che invece (sia o meno la traduzione esatta, come abbiamo detto) l'espressione agli uomini di buona volontà rendeva appieno, cioè la sinergia necessaria tra la grazia divina e l'azione degli uomini (che ovviamente parte dalla volontà) perché questi ultimi raggiungano la salvezza ottenuta loro dal Cristo.
Infine, possiamo fare una riflessione sulla base che spinge i novatori a modificare il testo del Gloria, così come quello del Padre Nostro, che è una base tristemente umana e razionale che va contro l'essenza del Cristianesimo e la Rivelazione. San Paisios l'Athonita diceva che tutti gli errori del mondo cristiano in Occidente si possono ricondurre a uno solo: il razionalismo. In altre parole, il ragionare umanamente sulla Rivelazione anziché viverla, sino a modificarla per rendere "umana essa stessa". Come scrive qui un amico riferendosi alle modifiche al Pater: "Queste riforme indicano un profondo VUOTO di spiritualità, ossia di vita in Cristo, vuoto colmato da soli ragionamenti che appiattiscono e svuotano la rivelazione. Siamo peggio che nell'eresia, almeno nelle eresie storiche c'era rispetto almeno per qualcosa..."
martedì 20 novembre 2018
Presentazione della Vergine al Tempio - Madonna della Salute
Σήμερον τῆς εὐδοκίας Θεοῦ τὸ προοίμιον,
καὶ τῆς τῶν ἀνθρώπων σωτηρίας ἡ προκήρυξις.
Ἐν Ναῷ τοῦ Θεοῦ τρανῶς ἡ Παρθένος δείκνυται,
καὶ τὸν Χριστὸν τοῖς πᾶσι προκαταγγέλλεται.
Αὐτῇ καὶ ἡμεῖς μεγαλοφώνως βοήσωμεν·
Χαῖρε τῆς οἰκονομίας τοῦ Κτίστου ἡ ἐκπλήρωσις.
Quest'oggi è il preludio della benevolenza di Dio,
l'annunzio della salvezza degli uomini.
Nel Tempio di Dio agli occhi di tutti si mostra la Vergine
e a tutti preannunzia il Cristo.
A lei pur noi acclamiamo a gran voce:
Salve, o compimento del disegno salvifico del Creatore!
(Apolytikio della festa)
καὶ τῆς τῶν ἀνθρώπων σωτηρίας ἡ προκήρυξις.
Ἐν Ναῷ τοῦ Θεοῦ τρανῶς ἡ Παρθένος δείκνυται,
καὶ τὸν Χριστὸν τοῖς πᾶσι προκαταγγέλλεται.
Αὐτῇ καὶ ἡμεῖς μεγαλοφώνως βοήσωμεν·
Χαῖρε τῆς οἰκονομίας τοῦ Κτίστου ἡ ἐκπλήρωσις.
Quest'oggi è il preludio della benevolenza di Dio,
l'annunzio della salvezza degli uomini.
Nel Tempio di Dio agli occhi di tutti si mostra la Vergine
e a tutti preannunzia il Cristo.
A lei pur noi acclamiamo a gran voce:
Salve, o compimento del disegno salvifico del Creatore!
(Apolytikio della festa)
Σήμερον τὰ στίφη τῶν Πιστῶν
συνελθόντα,
πνευματικῶς
πανηγυρίσωμεν,
καὶ τὴν θεόπαιδα
Παρθένον καὶ Θεοτόκον,
ἐν Ναῷ Κυρίου
προσαγομένην, εὐσεβῶς
ἀνευφημήσωμεν·
τὴν προεκλεχθεῖσαν ἐκ
πασῶν τῶν γενεῶν,
εἰς κατοικητήριον τοῦ
Παντάνακτος Χριστοῦ, καὶ Θεοῦ τῶν
ὅλων,
Παρθένοι, λαμπαδηφοροῦσαι
προπορεύεσθε,
τῆς Ἀειπαρθένου τιμῶσαι,
τὴν σεβάσμιον πρόοδον,
Μητέρες, λύπην
πᾶσαν ἀποθέμεναι, χαρμονικῶς
συνακολουθήσατε,
ὑμνοῦσαι τὴν Μητέρα
τοῦ Θεοῦ γενομένην,
καὶ τῆς χαρᾶς τοῦ
κόσμου τὴν πρόξενον.
Ἅπαντες οὖν
χαρμονικῶς, τὸ χαῖρε σὺν τῷ Ἀγγέλῳ
ἐκβοήσωμεν,
τῇ Κεχαριτωμένῃ, τῇ ἀεὶ
πρεσβευούσῃ, ὑπὲρ τῶν ψυχῶν ἡμῶν.
Oggi noi, moltitudini dei fedeli qui convenute,
celebriamo spiritualmente una solennità,
e acclamiamo devotamente la Vergine, figlia di Dio e Deipara,
che viene condotta nel Tempio del Signore:
la prescelta fra tutte le generazioni
per essere dimora di Cristo, Re universale e Dio di tutte le cose;
O vergini, fate strada recando lampade,
per onorare l'augusto cammino della sempre Vergine;
O madri, deposta ogni tristezza, seguitela con gioia,
inneggiando a colei che è divenuta Madre di Dio,
e causa della gioia del mondo intero.
Tutti dunque con gioia insieme all'Angelo cantiamo l'Ave
alla piena di grazia, a colei che sempre intercede per le anime nostre.
(Poema di Sergio Aghiopolita, sec. VIII)
***
Come ogni anno, nella Festa della Presentazione della Beata Vergine Maria al tempio, la città di Venezia rinnova il suo voto solenne alla Madonna della Salute, per la cui benigna intercessione la città lagunare fu salvata dalla terribile epidemia di peste bubbonica del 1630-31.
Il tempio votivo della Madonna della Salute progettato da Baldassare Longhena
e consacrato il 21 novembre 1687 in ringraziamento alla Madonna della Salute
L'accensione dei ceri votivi in onore della Madonna
L'icona della Μεσοπαντιτίσσα (o Μεσοϋπαπαντίσσα), la "Mediatrice di Pace",
giunta da Candia nel 1670 e venerata nella Basilica di S. Maria della Salute a Venezia.
Nel tondo si trova la scritta Unde origo, inde salus, da cui il noto titolo di "Madonna della Salute"
(Venezia "nacque" il 25 marzo, festa dell'Annunciazione, quindi ebbe la sua origine dalla Madonna, e in Ella avrà anche la sua salvezza)
lunedì 19 novembre 2018
La sessualità nella disciplina morale dei Padri
Riportiamo di seguito le discipline patristiche (dai Canoni dei Concilj Ecumenici e del Patriarca di Costantinopoli Giovanni IV il Digiunatore), in materia di sessualità, soprattutto riguardo le penitenze e mortificazioni prescritte a coloro che hanno commesso peccati carnali. Risulta particolarmente interessante l'ultimo paragrafo, anche nell'ottica della querelle sorta, ormai due anni fa, in seguito all'esortazione apostolica Amoris Laetitia.
1. I peccati carnali.
E’considerato peccato carnale ogni uso della sessualità al di fuori del Mistero del Matrimonio e ogni uso della sessualità, che, seppur all’interno del Matrimonio, non sia finalizzato all’unione fra gli sposi.
I pensieri impuri ai quali si acconsente sono da considerare peccati. “ L’acconsentimento è la causa dell’inizio delle punizioni “ (Canone 7, di San Giovanni il Digiunatore). “La lotta contro i pensieri carnali è meritevole sia della corona [ cioè del premio] , sia della punizione “ (Canone 6, di San Giovanni il Digiunatore ).” Se l’anima si sottomette alle inclinazioni cattive [della carne, acconsentendo ai pensieri carnali e impuri ] è punita, se [resiste e ] vince, riceve il premio”.
“ Se un fedele, che è stato tentato in sogno, chiede se è conveniente permettergli di comunicarsi o meno , la risposta è : se è soggetto al desiderio della donna, non è conveniente; ma se è la tentazione di Satana, che a causa di questo motivo cerca di allontanarlo dal comunicarsi con i Misteri divini, è conveniente permettergli di comunicarsi, perché il tentatore non cesserà in quel periodo, quando è conveniente permettergli di comunicarsi, di attaccarlo “ (Canone 12 di Timoteo Alessandrino).
"Gli assalti dei desideri carnali attraverso il pensiero nel cuore non sono punibili, essendo peccati non ancora commessi “ (Canone 4, di Giovanni il Digiunatore).
“L’accondiscendenza ai pensieri carnali si purifica con 12 metanie” (Canone 5, di San Giovanni il Digiunatore).
Il IV Canone del Concilio locale di Neocesarea, stabilisce che “ Se una persona ha sentito il desiderio per una donna e ha concepito il convincimento di giacere con lei ma questo suo desiderio non si è attualizzato, sembra che lui sia stato salvato dalla grazia”. Se questo non si concretizza per impedimenti esterni, ma perché il pensiero non è arrivato fino ad acconsentire all’atto, quindi “fino alla morte “ - come lo interpreta Zonaras - deve essere punito dal suo padre spirituale per l’aver acconsentito al solo pensiero.
“Colui che è stato profanato dall’emissione di seme, durante il sonno, si esclude per un giorno dalla Comunione e si crede che si purifica da questa profanazione cantando il Salmo 50 e facendo 49 metanie (Canone 8, di San Giovanni il Digiunatore , ma anche Canone 4 Dion. Alex.; Canone 1 di Atanasio; Canone 12 Timoteo Alessandrino)
“Ma colui che viene profanato da sveglio dalla perdita di seme, gli si impedisce di comunicarsi per 7 giorni e, in ognuno di questi giorni, canti il Salmo 50 e faccia 49 metanie „ (Canone 9 di Giovanni il Digiunatore , ma anche Canone 4 Dion. Alex.; 1 Atanasie; 12 Timoteo Alessandrino).
Masturbazione : “ Colui che si masturba sarà punito con 40 giorni di xirofagia – mangiando, cioè, solo cibo asciutto – e 100 metanie ogni giorno” (Canone 10, di San Giovanni il Digiunatore ).
Masturbazione in due : “ La profanazione assieme con altri, come fanno coloro che praticano la masturbazione in due, viene punita con la penitenza indicata per la masturbazione per 80 giorni “ (Canone 11, di San Giovanni il Digiunatore ).
Atti riconducibili alla masturbazione: “Ricevono la stessa epitimia tra le donne, quelle che si sono baciate e palpeggiate con gli uomini, ma non sono arrivate alla penetrazione” (Canone 13, di San Giovanni il Digiunatore ).
Masturbazione in coloro che appartengono al clero : Se qualcuno del clero, prima della consacrazione, è caduto nella passione di Malachia [masturbazione ], non può essere curato altro che impedendogli, innanzitutto, l’accesso al sacerdozio, ricevendo poi un’epitimia appropriata e così, dopo, permettergli l’accesso al sacerdozio. Ma se si è infiammato per questa passione dopo aver ricevuto la consacrazione sacerdotale, per un anno gli venga interdetta la celebrazione e venga punito con le epitimie dovute, ritorni al sacerdozio. Ma se, dopo aver conosciuto il peccato, fa questo una seconda volta o una terza fa questo, gli venga impedita la celebrazione e passi fra i laici (Canone 12 di Giovanni il Digiunatore ).
"Colui che ha rapporti sessuali completi con la propria fidanzata, prima del Matrimonio, secondo San Basilio il Grande , deve essere scomunicato per 11 anni ; noi diciamo che per 2 anni , dopo l’ora Nona , mangi cibo asciutto e faccia, ogni giorno, 300 metanie . Se però è negligente, in questo, assolva le prescrizioni decise dai Padri” (Canone 25, di Giovanni il Digiunatore).
Balsamone estende l’applicazione della sanzione della deposizione, a proposito del 70esimo canone di San Basilio, per il cunnilingus, cioè per la contaminazione o profanazione delle labbra che va oltre il bacio appassionato e che si produce in seguito all’uso delle labbra della vulva della donna come di una coppa. Ciò riguarda, quindi, più in generale, i palpeggiamenti, la masturbazione e il sesso orale, nonché ovviamente il rapporto sessuale vero e proprio : tutti questi atti non escludono semplicemente, per un certo periodo di tempo, dalla celebrazione della Liturgia ma comportano, appunto, la deposizione allo stato laicale.
Il 59esimo Canone di San Basilio il Grande, prevede che colui che ha peccato di incontinenza e si è profanato con la lussuria “[…] rimarrà escluso dalla partecipazione ai Misteri per sette anni: due saranno di pianto, e due saranno trascorsi assieme a coloro che ascoltano [ nel pronaos], due in ginocchio, e per uno solo anno assieme all’assemblea [nel naos] ; l'ottavo anno egli sarà ammesso alla Comunione […] “. E’ peccato di incontinenza o lussuria il rapporto eterosessuale tra due persone libere, così come specifica il IV Canone di San Gregorio di Nissa . Se una delle due persone in questione o entrambe non sono libere si tratta di adulterio, che è punito con una pena maggiore. Sono parimenti considerati adulterio la pederastia e il rapporto con gli animali, entrambi contro natura e per questo adulterini. (Altri riferimenti: Canoni 48 e 61 degli Apostoli; 87, 93, 98 del Concilio di Trullo; Canone 20 del Concilio di Ancira; Canoni 1 e 8 del Concilio di Neocesarea; Canone 102 del Concilio di Cartagine; Canoni 3, 7, 9, 18, 21, 31, 37, 38, ,39, 58, 59, 59, 60, 62, 63, 77 di Basilio il Grande ).
Il Canone 4to di Grigorio di Nyssa esclude dalla Comunione per 18 anni per chi commette atti di lussuria con uomini, ma il Canone 62 di Basilio il Grande per 15 anni. Noi riteniamo che per tre anni debba essere escluso dalla Comunione, piangendo e digiunando, e mangiando cibo secco verso sera e facendo 200 metanie al giorno. Ma se si da all’ozio [ alla negligenza rispetto a queste indicazioni] allora osservi i 15 anni di penitenza per l’intero periodo ( Canone 29 di Giovanni il Digiunatore . Si vedano anche i Canoni 7, 62 di Basilio il Grande; Canone 4 di Gregorio di Nissa).
“Le violazioni subite attraverso lo stupro sono senza colpa. Così, anche la schiava, se è violentata dal padrone, non deve essere incolpata “ ( Canone 49 di San Basilio il Grande) . Questo Canone assolve da qualunque colpa quelle donne che sono costrette al peccato, trovandosi sotto il dominio di altri [ violenza carnale e stupro ].
“Se un presbitero, prima della sua ordinazione, ha commesso peccato di commistione carnale e dopo la sua ordinazione lo confessa, non può più officiare “ (Canone 9 del Primo Concilio, Ap. cc. XXV, LXI; cc. IX, X di Neocaesarea; cc. III, V, VI di Theophilus).
I chierici che commettono il peccato mortale [fino alla consumazione dell’atto, secondo Zonaras ] , anche se sono degradati dal loro rango, non devono essere esclusi dalla società dei laici. Perché "La tua vendetta non esiga la pena due volte per lo stesso reato" ( Canone 32 di San Basilio il Grande, Ap C. XXV, Cc IV, XXI del 6to Concilio Ecumenico; C XXXV del Concilio di Cartagine, Cc III, XVII, XXXII, LI di San Basilio il Grande).Interpretazione. Vi è un peccato mortale e un peccato non mortale, dice San Giovanni Evangelista (nella sua Prima Lettera, 5: 16-17). Così, secondo altri Padri, e soprattutto secondo Metrophanes il vescovo di Smirne nella sua interpretazione dell’ Epistola, una diversa interpretazione deve essere data al peccato mortale da quella data al peccato non mortale. Secondo Zonaras un peccato mortale è quello che ha raggiunto la fase di realizzazione e di attualizzazione, di essere, vale a dire, un peccato mortale, mentre un peccato che non è mortale è un peccato che non ha raggiunto il punto di realizzazione e attualizzazione, ma si è fermato al punto di consenso o manifestazione della volontà di commettere il peccato in questione (si veda il Canone IV di Neocesarea). Così l'attuale Canone afferma che tutti i chierici che commettono un peccato mortale sono suscettibili di essere deposti, ma non devono essere esclusi dalla comunità - o, parlando in modo più esplicito – devono stare alla destra a pregare insieme con i laici, in accordo con quel passo della Scrittura che dice: "Tu non esigerai la stessa vendetta due volte per lo stesso reato." Tali chierici, tuttavia, non hanno il diritto alla Comunione, nel senso che no possono essere partecipi dei divini Misteri. Leggi anche il Canone Apostolico XXV e il Canone III dello stesso San Basilio.
Colui che pecca carnalmente rimarrà escluso dalla Comunione per sette anni, che siano due di pianto, due assieme agli ascoltatori [nel pronaos durante le funzioni liturgiche ] e due in ginocchio [durante le funzioni liturgiche ] e per l’ultimo anno assieme ai laici [ nel naos] ; l'ottavo anno egli sarà riammesso alla Comunione.( Canone 59 di Basilio il Grande, anche Canone 29 di San Basilio il Grande e Canone 4 di San Gregorio di Nissa). Interpretazione. Questo Canone prescrive che chi pecca carnalmente si astenga dai Misteri per sette anni. Durante i primi due di questi egli resterà nel pianto; durante i successivi due dovrà ascoltare in compagnia con gli altri ascoltatori (o audients); per ulteriori due anni dovrà stare in ginocchio; per un anno, poi, starà insieme con i fedeli; e l'ottavo anno gli dovrà essere accordato il diritto a partecipare alla Comunione. Si veda anche il Canone XXII dello stesso San Basilio il Grande.
Per chi sposa e ha rapporti carnali con un parente, il canone 54 del Sesto Concilio prevede 7 anni di penitenza, dopo aver cancellato il contratto di matrimonio. Secondo il canone LXVIII (68) di San Basilio, tuttavia, tali rapporti devono essere trattati allo stesso modo della pena di adulterio, cioè 15 anni di penitenza.
2. Comunione agli sposati in chiesa
In generale, sono considerati peccati di incontinenza o lussuria quei rapporti sessuali tra persone legittimamente sposate che non rispettano le seguenti indicazioni generali: gli sposati dovrebbero, di comune accordo, astenersi dai rapporti sessuali per attendere alla preghiera e al digiuno. In merito a queste indicazioni, San Gregorio di Nazianzo, che si riferisce genericamente a questi periodi, come i periodi dedicati alla preghiera, afferma che questa astinenza periodica deve essere “[…] costruita su un consenso mutuo per attendere insieme alla preghiera, la più preziosa delle attività […] “, e precisa: “[…] Questa non è una legge [ nel senso che lui non vuole imporre una legge ] , ma un consiglio […] “ (Discorso, XL,18).
“Domanda. Se una donna si unisce di notte con suo marito, o un uomo con la propria sposa, e si fa la Liturgia, è conveniente che si Comunichino o no ? Risposta. Non è conveniente, perché l’Apostolo dice esplicitamente che non venga meno uno all’altra se non per reciproco accordo, durante il periodo opportuno, per dedicarsi alla preghiera e poi si uniscano di nuovo, per non essere tentati da Satana alla dissolutezza (I Cor. 7, 5) ( Continenza per la Comunione - Canone 5 di Timoteo Alessandrino ).
“[…] Per le relazioni con le donne, la regola del giudizio è che esse siano ordinate alla procreazione. Se dunque si mira al piacere, si giudica male, erigendo a bene ciò che non lo è affatto, e, conseguenza necessaria, si abusa della donna [ o del proprio corpo] nell’unirsi a lei […] “ ( San Massimo il Confessore). Come lui, Clemente d’Alessandria sottolinea che gli sposi in tutto, nei rapporti sessuali come nel prendere i pasti – e in ciò va inquadrato anche il digiuno - e nel regolarsi per il riposo notturno, non devono agire sotto l’impulso del desiderio: siamo infatti – dice – figli della volontà non del desiderio.
Il 13 Canone di Timoteo, prevede che coloro che sono legittimamente sposati " sarebbe opportuno che si astenessero dai rapporti sessuali il Sabato e la Domenica, poiché in questi giorni si eleva al Signore il Sacrificio spirituale " . La Grande Pravila di Matei Basarab del 1652, una raccolta e interpretazione dei Canoni, per difendere la Romania dalle influenze calviniste e cattoliche dell’epoca :" Non si deve impedire all’uomo e alla donna di unirsi fisicamente, ad esclusione di quando si devono preparare alla preghiera e alla Santa Comunione " ( Pravila Mare, 170 ) . San Simeone di Tessalonica istruisce coloro che sono sposati, così : " Dobbiamo sapere che coloro che si uniscono attraverso il Matrimonio si sono legati a Dio e sono puri, per la chiamata di Colui che è Puro. Per questo, devono conservare il Matrimonio esente da profanazione e vivano in pace e devozione . Coloro che si sono uniti a Dio con onore, purezza e amore, preservino la loro unione in un pensiero unanime, in pace, come un grande dono, perché ne risponderanno davanti a Dio assieme agli altri doni divini ricevuti, avendo cura dei propri corpi e delle loro anime. Perché solo in questo modo Dio sarà con loro: Che crescano i figli nel Timore di Dio ( Efeseni 6, 4 ) , che facciano elemosina e si redimano [liberino] " ( San Simeone di Tessalonica, op. cit., cap. 262 ) .
La Pravila Mare di Matei Basarab, al cap. 170, riporta queste indicazioni per la purezza fisica degli sposi: " Lo sposo e la sposa non si trovino nel desiderio carnale né sabato, né perché in questi giorni, più che negli altri, si serve la divina Liturgia. Sabato per le anime dei defunti e domenica per la Resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Questo avvenga con l’intesa di entrambi, cioè che sia di reciproco accordo e secondo la volontà del marito e della moglie " . Ancora il Grande Molitfelnical Mare, detto Trebnic, al quale afferisce anche l’Eucologio Barberini , pagina 519, prescrive per la continenza fisica degli sposi: "Nei Quattro Digiuni , così come mercoledì e venerdì, quale segno di amore per Dio “ . Così, i giorni di astinenza dai rapporti sessuali, per gli sposi, sono mercoledì, venerdì, sabato, domenica e tutti i giorni di digiuno e di festa dell’anno. Gli sposi devono avere due giorni di purificazione prima di andare in chiesa nei giorni di festa, ma, quando vogliono comunicarsi, oltre i quattro periodi di digiuno, devono osservare almeno una settimana di purificazione prima di ricevere i Purissimi Doni e tre giorni dopo la Santa Comunione .
Quindi sono giorni di astinenza il mercoledì ed il venerdì, i sabati e le domeniche, il giorno della Decapitazione di Giovanni Battista (29 agosto), il giorno dell’Elevazione della Santa Croce (14 settembre), i giorni di festa che vanno da Pasqua fino alla Domenica di Tommaso (la Settimana della Luce) , da Natale al Battesimo e in tutte le feste dell’anno. In alcuni casi ho visto includere, tra i giorni nei quali non si potrebbero avere rapporti anche il lunedì, se si intende osservare il digiuno anche in questo giorno, ma non ho ancora trovato un preciso riferimento canonico .
Il Canone 65 di Giovanni il Digiunatore (Unione contro natura [sodomia] con la propria moglie) :” Se qualcuno pratica la sodomia con la propria moglie, si applica una penitenza di 8 anni, mangiando cibo asciutto [xirofagia] dopo l’Ora Nona e facendo 200 metanie al giorno .
3. Comunione ai conviventi (caso per caso)
Il 98esimo canone del Concilio Quinisesto , considera come matrimonio adulterino, quindi da equiparare all’adulterio, per il quale sono previsti 15 anni di penitenza, come detto, i matrimoni avvenuti tra due persone delle quali una fosse, in precedenza, fidanzata, in chiesa, con un’altra persona, vivente al momento del matrimonio, e con la quale si era scambiata gli anelli ed il bacio, consacrando, come detto, questi gesti, in chiesa.
Il caso di matrimonio con eretici è considerato come concubinato e da invalidare se intervenuto dopo il Battesimo della parte ortodossa. Se, invece, al momento del matrimonio erano tutti e due eretici ed uno è divenuto dopo ortodosso, allora può essere mantenuto.
Le ragazze che, senza il consenso e l’accordo del padre fuggono con gli uomini sono colpevoli di fornicazione. Ma se è possibile che si riconcilino con i genitori possono essere riammesse alla Comunione, ma non direttamente; esse devono, al contrario, essere sottomesse ad una penitenza di tre anni.
Interpretazione. Il presente Canonico prescrive che tutte le fanciulle e le vergini che sono sotto il controllo e l'autorità del padre e fuggono dietro gli uomini, o, in altre parole, volontariamente e di propria iniziativa si sono offerte ai loro amanti, sono colpevoli di fornicazione e non possono essere sposate legittimamente. Ma se in seguito i genitori di tali vergini si riconciliano ed accordano il loro consenso che i rapitori o gli amanti delle loro figlie convivano con loro, sembrerebbe che quello che è successo all'inizio della vicenda può essere sanato, e che il loro stato di fornicatori può essere modificato in legittimo Matrimonio. Tuttavia, quando gli uomini e le donne fanno cose del genere, non devono essere perdonati subito e immediatamente ottenere il permesso di partecipare della Comunione, ma devono osservare un canone penitenziale di tre anni (Canone 38 di Basilio il Grande) .
1. I peccati carnali.
E’considerato peccato carnale ogni uso della sessualità al di fuori del Mistero del Matrimonio e ogni uso della sessualità, che, seppur all’interno del Matrimonio, non sia finalizzato all’unione fra gli sposi.
I pensieri impuri ai quali si acconsente sono da considerare peccati. “ L’acconsentimento è la causa dell’inizio delle punizioni “ (Canone 7, di San Giovanni il Digiunatore). “La lotta contro i pensieri carnali è meritevole sia della corona [ cioè del premio] , sia della punizione “ (Canone 6, di San Giovanni il Digiunatore ).” Se l’anima si sottomette alle inclinazioni cattive [della carne, acconsentendo ai pensieri carnali e impuri ] è punita, se [resiste e ] vince, riceve il premio”.
“ Se un fedele, che è stato tentato in sogno, chiede se è conveniente permettergli di comunicarsi o meno , la risposta è : se è soggetto al desiderio della donna, non è conveniente; ma se è la tentazione di Satana, che a causa di questo motivo cerca di allontanarlo dal comunicarsi con i Misteri divini, è conveniente permettergli di comunicarsi, perché il tentatore non cesserà in quel periodo, quando è conveniente permettergli di comunicarsi, di attaccarlo “ (Canone 12 di Timoteo Alessandrino).
"Gli assalti dei desideri carnali attraverso il pensiero nel cuore non sono punibili, essendo peccati non ancora commessi “ (Canone 4, di Giovanni il Digiunatore).
“L’accondiscendenza ai pensieri carnali si purifica con 12 metanie” (Canone 5, di San Giovanni il Digiunatore).
Il IV Canone del Concilio locale di Neocesarea, stabilisce che “ Se una persona ha sentito il desiderio per una donna e ha concepito il convincimento di giacere con lei ma questo suo desiderio non si è attualizzato, sembra che lui sia stato salvato dalla grazia”. Se questo non si concretizza per impedimenti esterni, ma perché il pensiero non è arrivato fino ad acconsentire all’atto, quindi “fino alla morte “ - come lo interpreta Zonaras - deve essere punito dal suo padre spirituale per l’aver acconsentito al solo pensiero.
“Colui che è stato profanato dall’emissione di seme, durante il sonno, si esclude per un giorno dalla Comunione e si crede che si purifica da questa profanazione cantando il Salmo 50 e facendo 49 metanie (Canone 8, di San Giovanni il Digiunatore , ma anche Canone 4 Dion. Alex.; Canone 1 di Atanasio; Canone 12 Timoteo Alessandrino)
“Ma colui che viene profanato da sveglio dalla perdita di seme, gli si impedisce di comunicarsi per 7 giorni e, in ognuno di questi giorni, canti il Salmo 50 e faccia 49 metanie „ (Canone 9 di Giovanni il Digiunatore , ma anche Canone 4 Dion. Alex.; 1 Atanasie; 12 Timoteo Alessandrino).
Masturbazione : “ Colui che si masturba sarà punito con 40 giorni di xirofagia – mangiando, cioè, solo cibo asciutto – e 100 metanie ogni giorno” (Canone 10, di San Giovanni il Digiunatore ).
Masturbazione in due : “ La profanazione assieme con altri, come fanno coloro che praticano la masturbazione in due, viene punita con la penitenza indicata per la masturbazione per 80 giorni “ (Canone 11, di San Giovanni il Digiunatore ).
Atti riconducibili alla masturbazione: “Ricevono la stessa epitimia tra le donne, quelle che si sono baciate e palpeggiate con gli uomini, ma non sono arrivate alla penetrazione” (Canone 13, di San Giovanni il Digiunatore ).
Masturbazione in coloro che appartengono al clero : Se qualcuno del clero, prima della consacrazione, è caduto nella passione di Malachia [masturbazione ], non può essere curato altro che impedendogli, innanzitutto, l’accesso al sacerdozio, ricevendo poi un’epitimia appropriata e così, dopo, permettergli l’accesso al sacerdozio. Ma se si è infiammato per questa passione dopo aver ricevuto la consacrazione sacerdotale, per un anno gli venga interdetta la celebrazione e venga punito con le epitimie dovute, ritorni al sacerdozio. Ma se, dopo aver conosciuto il peccato, fa questo una seconda volta o una terza fa questo, gli venga impedita la celebrazione e passi fra i laici (Canone 12 di Giovanni il Digiunatore ).
"Colui che ha rapporti sessuali completi con la propria fidanzata, prima del Matrimonio, secondo San Basilio il Grande , deve essere scomunicato per 11 anni ; noi diciamo che per 2 anni , dopo l’ora Nona , mangi cibo asciutto e faccia, ogni giorno, 300 metanie . Se però è negligente, in questo, assolva le prescrizioni decise dai Padri” (Canone 25, di Giovanni il Digiunatore).
Balsamone estende l’applicazione della sanzione della deposizione, a proposito del 70esimo canone di San Basilio, per il cunnilingus, cioè per la contaminazione o profanazione delle labbra che va oltre il bacio appassionato e che si produce in seguito all’uso delle labbra della vulva della donna come di una coppa. Ciò riguarda, quindi, più in generale, i palpeggiamenti, la masturbazione e il sesso orale, nonché ovviamente il rapporto sessuale vero e proprio : tutti questi atti non escludono semplicemente, per un certo periodo di tempo, dalla celebrazione della Liturgia ma comportano, appunto, la deposizione allo stato laicale.
Il 59esimo Canone di San Basilio il Grande, prevede che colui che ha peccato di incontinenza e si è profanato con la lussuria “[…] rimarrà escluso dalla partecipazione ai Misteri per sette anni: due saranno di pianto, e due saranno trascorsi assieme a coloro che ascoltano [ nel pronaos], due in ginocchio, e per uno solo anno assieme all’assemblea [nel naos] ; l'ottavo anno egli sarà ammesso alla Comunione […] “. E’ peccato di incontinenza o lussuria il rapporto eterosessuale tra due persone libere, così come specifica il IV Canone di San Gregorio di Nissa . Se una delle due persone in questione o entrambe non sono libere si tratta di adulterio, che è punito con una pena maggiore. Sono parimenti considerati adulterio la pederastia e il rapporto con gli animali, entrambi contro natura e per questo adulterini. (Altri riferimenti: Canoni 48 e 61 degli Apostoli; 87, 93, 98 del Concilio di Trullo; Canone 20 del Concilio di Ancira; Canoni 1 e 8 del Concilio di Neocesarea; Canone 102 del Concilio di Cartagine; Canoni 3, 7, 9, 18, 21, 31, 37, 38, ,39, 58, 59, 59, 60, 62, 63, 77 di Basilio il Grande ).
Il Canone 4to di Grigorio di Nyssa esclude dalla Comunione per 18 anni per chi commette atti di lussuria con uomini, ma il Canone 62 di Basilio il Grande per 15 anni. Noi riteniamo che per tre anni debba essere escluso dalla Comunione, piangendo e digiunando, e mangiando cibo secco verso sera e facendo 200 metanie al giorno. Ma se si da all’ozio [ alla negligenza rispetto a queste indicazioni] allora osservi i 15 anni di penitenza per l’intero periodo ( Canone 29 di Giovanni il Digiunatore . Si vedano anche i Canoni 7, 62 di Basilio il Grande; Canone 4 di Gregorio di Nissa).
“Le violazioni subite attraverso lo stupro sono senza colpa. Così, anche la schiava, se è violentata dal padrone, non deve essere incolpata “ ( Canone 49 di San Basilio il Grande) . Questo Canone assolve da qualunque colpa quelle donne che sono costrette al peccato, trovandosi sotto il dominio di altri [ violenza carnale e stupro ].
“Se un presbitero, prima della sua ordinazione, ha commesso peccato di commistione carnale e dopo la sua ordinazione lo confessa, non può più officiare “ (Canone 9 del Primo Concilio, Ap. cc. XXV, LXI; cc. IX, X di Neocaesarea; cc. III, V, VI di Theophilus).
I chierici che commettono il peccato mortale [fino alla consumazione dell’atto, secondo Zonaras ] , anche se sono degradati dal loro rango, non devono essere esclusi dalla società dei laici. Perché "La tua vendetta non esiga la pena due volte per lo stesso reato" ( Canone 32 di San Basilio il Grande, Ap C. XXV, Cc IV, XXI del 6to Concilio Ecumenico; C XXXV del Concilio di Cartagine, Cc III, XVII, XXXII, LI di San Basilio il Grande).Interpretazione. Vi è un peccato mortale e un peccato non mortale, dice San Giovanni Evangelista (nella sua Prima Lettera, 5: 16-17). Così, secondo altri Padri, e soprattutto secondo Metrophanes il vescovo di Smirne nella sua interpretazione dell’ Epistola, una diversa interpretazione deve essere data al peccato mortale da quella data al peccato non mortale. Secondo Zonaras un peccato mortale è quello che ha raggiunto la fase di realizzazione e di attualizzazione, di essere, vale a dire, un peccato mortale, mentre un peccato che non è mortale è un peccato che non ha raggiunto il punto di realizzazione e attualizzazione, ma si è fermato al punto di consenso o manifestazione della volontà di commettere il peccato in questione (si veda il Canone IV di Neocesarea). Così l'attuale Canone afferma che tutti i chierici che commettono un peccato mortale sono suscettibili di essere deposti, ma non devono essere esclusi dalla comunità - o, parlando in modo più esplicito – devono stare alla destra a pregare insieme con i laici, in accordo con quel passo della Scrittura che dice: "Tu non esigerai la stessa vendetta due volte per lo stesso reato." Tali chierici, tuttavia, non hanno il diritto alla Comunione, nel senso che no possono essere partecipi dei divini Misteri. Leggi anche il Canone Apostolico XXV e il Canone III dello stesso San Basilio.
Colui che pecca carnalmente rimarrà escluso dalla Comunione per sette anni, che siano due di pianto, due assieme agli ascoltatori [nel pronaos durante le funzioni liturgiche ] e due in ginocchio [durante le funzioni liturgiche ] e per l’ultimo anno assieme ai laici [ nel naos] ; l'ottavo anno egli sarà riammesso alla Comunione.( Canone 59 di Basilio il Grande, anche Canone 29 di San Basilio il Grande e Canone 4 di San Gregorio di Nissa). Interpretazione. Questo Canone prescrive che chi pecca carnalmente si astenga dai Misteri per sette anni. Durante i primi due di questi egli resterà nel pianto; durante i successivi due dovrà ascoltare in compagnia con gli altri ascoltatori (o audients); per ulteriori due anni dovrà stare in ginocchio; per un anno, poi, starà insieme con i fedeli; e l'ottavo anno gli dovrà essere accordato il diritto a partecipare alla Comunione. Si veda anche il Canone XXII dello stesso San Basilio il Grande.
Per chi sposa e ha rapporti carnali con un parente, il canone 54 del Sesto Concilio prevede 7 anni di penitenza, dopo aver cancellato il contratto di matrimonio. Secondo il canone LXVIII (68) di San Basilio, tuttavia, tali rapporti devono essere trattati allo stesso modo della pena di adulterio, cioè 15 anni di penitenza.
2. Comunione agli sposati in chiesa
In generale, sono considerati peccati di incontinenza o lussuria quei rapporti sessuali tra persone legittimamente sposate che non rispettano le seguenti indicazioni generali: gli sposati dovrebbero, di comune accordo, astenersi dai rapporti sessuali per attendere alla preghiera e al digiuno. In merito a queste indicazioni, San Gregorio di Nazianzo, che si riferisce genericamente a questi periodi, come i periodi dedicati alla preghiera, afferma che questa astinenza periodica deve essere “[…] costruita su un consenso mutuo per attendere insieme alla preghiera, la più preziosa delle attività […] “, e precisa: “[…] Questa non è una legge [ nel senso che lui non vuole imporre una legge ] , ma un consiglio […] “ (Discorso, XL,18).
“Domanda. Se una donna si unisce di notte con suo marito, o un uomo con la propria sposa, e si fa la Liturgia, è conveniente che si Comunichino o no ? Risposta. Non è conveniente, perché l’Apostolo dice esplicitamente che non venga meno uno all’altra se non per reciproco accordo, durante il periodo opportuno, per dedicarsi alla preghiera e poi si uniscano di nuovo, per non essere tentati da Satana alla dissolutezza (I Cor. 7, 5) ( Continenza per la Comunione - Canone 5 di Timoteo Alessandrino ).
“[…] Per le relazioni con le donne, la regola del giudizio è che esse siano ordinate alla procreazione. Se dunque si mira al piacere, si giudica male, erigendo a bene ciò che non lo è affatto, e, conseguenza necessaria, si abusa della donna [ o del proprio corpo] nell’unirsi a lei […] “ ( San Massimo il Confessore). Come lui, Clemente d’Alessandria sottolinea che gli sposi in tutto, nei rapporti sessuali come nel prendere i pasti – e in ciò va inquadrato anche il digiuno - e nel regolarsi per il riposo notturno, non devono agire sotto l’impulso del desiderio: siamo infatti – dice – figli della volontà non del desiderio.
Il 13 Canone di Timoteo, prevede che coloro che sono legittimamente sposati " sarebbe opportuno che si astenessero dai rapporti sessuali il Sabato e la Domenica, poiché in questi giorni si eleva al Signore il Sacrificio spirituale " . La Grande Pravila di Matei Basarab del 1652, una raccolta e interpretazione dei Canoni, per difendere la Romania dalle influenze calviniste e cattoliche dell’epoca :" Non si deve impedire all’uomo e alla donna di unirsi fisicamente, ad esclusione di quando si devono preparare alla preghiera e alla Santa Comunione " ( Pravila Mare, 170 ) . San Simeone di Tessalonica istruisce coloro che sono sposati, così : " Dobbiamo sapere che coloro che si uniscono attraverso il Matrimonio si sono legati a Dio e sono puri, per la chiamata di Colui che è Puro. Per questo, devono conservare il Matrimonio esente da profanazione e vivano in pace e devozione . Coloro che si sono uniti a Dio con onore, purezza e amore, preservino la loro unione in un pensiero unanime, in pace, come un grande dono, perché ne risponderanno davanti a Dio assieme agli altri doni divini ricevuti, avendo cura dei propri corpi e delle loro anime. Perché solo in questo modo Dio sarà con loro: Che crescano i figli nel Timore di Dio ( Efeseni 6, 4 ) , che facciano elemosina e si redimano [liberino] " ( San Simeone di Tessalonica, op. cit., cap. 262 ) .
La Pravila Mare di Matei Basarab, al cap. 170, riporta queste indicazioni per la purezza fisica degli sposi: " Lo sposo e la sposa non si trovino nel desiderio carnale né sabato, né perché in questi giorni, più che negli altri, si serve la divina Liturgia. Sabato per le anime dei defunti e domenica per la Resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Questo avvenga con l’intesa di entrambi, cioè che sia di reciproco accordo e secondo la volontà del marito e della moglie " . Ancora il Grande Molitfelnical Mare, detto Trebnic, al quale afferisce anche l’Eucologio Barberini , pagina 519, prescrive per la continenza fisica degli sposi: "Nei Quattro Digiuni , così come mercoledì e venerdì, quale segno di amore per Dio “ . Così, i giorni di astinenza dai rapporti sessuali, per gli sposi, sono mercoledì, venerdì, sabato, domenica e tutti i giorni di digiuno e di festa dell’anno. Gli sposi devono avere due giorni di purificazione prima di andare in chiesa nei giorni di festa, ma, quando vogliono comunicarsi, oltre i quattro periodi di digiuno, devono osservare almeno una settimana di purificazione prima di ricevere i Purissimi Doni e tre giorni dopo la Santa Comunione .
Quindi sono giorni di astinenza il mercoledì ed il venerdì, i sabati e le domeniche, il giorno della Decapitazione di Giovanni Battista (29 agosto), il giorno dell’Elevazione della Santa Croce (14 settembre), i giorni di festa che vanno da Pasqua fino alla Domenica di Tommaso (la Settimana della Luce) , da Natale al Battesimo e in tutte le feste dell’anno. In alcuni casi ho visto includere, tra i giorni nei quali non si potrebbero avere rapporti anche il lunedì, se si intende osservare il digiuno anche in questo giorno, ma non ho ancora trovato un preciso riferimento canonico .
Il Canone 65 di Giovanni il Digiunatore (Unione contro natura [sodomia] con la propria moglie) :” Se qualcuno pratica la sodomia con la propria moglie, si applica una penitenza di 8 anni, mangiando cibo asciutto [xirofagia] dopo l’Ora Nona e facendo 200 metanie al giorno .
3. Comunione ai conviventi (caso per caso)
Il 98esimo canone del Concilio Quinisesto , considera come matrimonio adulterino, quindi da equiparare all’adulterio, per il quale sono previsti 15 anni di penitenza, come detto, i matrimoni avvenuti tra due persone delle quali una fosse, in precedenza, fidanzata, in chiesa, con un’altra persona, vivente al momento del matrimonio, e con la quale si era scambiata gli anelli ed il bacio, consacrando, come detto, questi gesti, in chiesa.
Il caso di matrimonio con eretici è considerato come concubinato e da invalidare se intervenuto dopo il Battesimo della parte ortodossa. Se, invece, al momento del matrimonio erano tutti e due eretici ed uno è divenuto dopo ortodosso, allora può essere mantenuto.
Le ragazze che, senza il consenso e l’accordo del padre fuggono con gli uomini sono colpevoli di fornicazione. Ma se è possibile che si riconcilino con i genitori possono essere riammesse alla Comunione, ma non direttamente; esse devono, al contrario, essere sottomesse ad una penitenza di tre anni.
Interpretazione. Il presente Canonico prescrive che tutte le fanciulle e le vergini che sono sotto il controllo e l'autorità del padre e fuggono dietro gli uomini, o, in altre parole, volontariamente e di propria iniziativa si sono offerte ai loro amanti, sono colpevoli di fornicazione e non possono essere sposate legittimamente. Ma se in seguito i genitori di tali vergini si riconciliano ed accordano il loro consenso che i rapitori o gli amanti delle loro figlie convivano con loro, sembrerebbe che quello che è successo all'inizio della vicenda può essere sanato, e che il loro stato di fornicatori può essere modificato in legittimo Matrimonio. Tuttavia, quando gli uomini e le donne fanno cose del genere, non devono essere perdonati subito e immediatamente ottenere il permesso di partecipare della Comunione, ma devono osservare un canone penitenziale di tre anni (Canone 38 di Basilio il Grande) .
sabato 10 novembre 2018
Belluno: nella devastazione resta in piedi la Croce
BELLUNO - A destra e a sinistra, niente. Di fronte e dietro, nulla. In quella zona di Colle Santa Lucia detta Peze, martoriata dall'uragano, è resistito solo il crocifisso detto appunto el Crist de Peze.
Una presenza quasi surreale, vista la devastazione che si vede tutt'attorno, che sta dando origine a dei piccoli pellegrinaggi.
Una pianta di crisantemo è comparsa in questi giorni, quasi come una sorta di ringraziamento a quel Gesù che almeno ha aiutato a preservare le vite umane del paese.
E non sono mancate le persone che si sono fermate, anche solo un attimo rallentando il passo, a rivolgere un pensiero o una preghiera.
[Fonte]
giovedì 8 novembre 2018
Disponibile l'Ordo Missae celebrandae del 2019!
E' da ora disponibile l'Ordo Missae celebrandae del 2019
secondo le rubriche del Messale Romano
con i supplementi per le diocesi delle Venezie
realizzato dal circolo Traditio Marciana!
L'opuscolo, realizzato per le cure di Nicolò Ghigi, contiene il calendario liturgico giorno per giorno dell'anno ecclesiastico 2019 (dal 2 dicembre 2018 al 30 novembre 2019), con le indicazioni necessarie alla celebrazione della messa quotidiana e festiva, secondo le rubriche del Messale Romano ed. VI dopo la tipica (1952), con il supplemento con le messe proprie per le diocesi del territorio storico delle Venezie (Patriarcato di Venezia, Arcidiocesi di Udine, Arcidiocesi di Gorizia, Arcidiocesi di Trento, Diocesi di Adria, Diocesi di Bergamo, Diocesi di Brescia, Diocesi di Bressanone, Diocesi di Belluno e Feltre, Diocesi di Concordia, Diocesi di Padova, Diocesi di Treviso, Diocesi di Trieste e Capodistria, Diocesi di Verona, Diocesi di Vicenza, Diocesi di Vittorio Veneto).
A differenza dei calendari che un tempo venivano editati dalle diocesi per i propri sacerdoti completamente in latino, le rubriche descritte nell'Ordo da noi realizzato sono state tradotte in italiano per facilitare la comprensione e la corretta attuazione delle stesse da parte dei fruitori.
Per ottenere gratuitamente la versione digitale del calendario
è sufficiente scrivere una email a traditiomarciana@gmail.com
martedì 6 novembre 2018
Un orientamento al contrario è segno di una teologia contradditoria
di Peter Kwaniewski
I Cattolici che si addentrano in discussione serie riguardo la liturgia, desiderando forse conoscere l'oggetto di tutto questo trambusto, rapidamente scopriranno che una delle domande più scottanti, e per un certo verso la più importante, è l'orientamento della liturgia. Qual è il grosso problema legato alla direzione in cui il prete guarda durante la Messa?
Per cominciare, il costume di tutti i Cristiani di offrire e partecipare alla liturgia Eucaristica rivolti verso Oriente ha le stesse radici apostoliche e la stessa universalità nella Storia della Chiesa, che possiede per esempio l'uso dell'acqua battesimale, la preghiera dei salmi, il culto della Risurrezione di Cristo la domenica, la venerazione della Madre di Dio e dei santi, e delle loro reliquie. Come dato di fatto, l'orientamento verso oriente è anteriore all'uso di paramenti sacri ufficiali, di edifici sacri consacrati, e persino del Credo Niceno Costantinopolitano che recitiamo ogni domenica. [...]
Si pensi in tal modo: Vorresti tu, praticante cattolico, che la domenica fosse abolita, rimpiazzata da un altro giorno della settimana, o semplicemente levata dal calendario? Questa sarebbe una deviazione inconcepibile dalla pratica Cristiana. Vorresti che tutti i salmi fossero rimossi dalla messa e dall'Ufficio Divino? Potremmo rimpiazzare il battesimo con una cerimonia civile, o smettere di onorare la nostra Santa Madre perché ciò potrebbe farci sentire quali bimbi immaturi od offendere le femministe anti-materne? O avere preti che celebrano in jeans e maglietta, perché questi sono gli abiti comuni dei nostri giorni, come vesti e mantelli erano gli abiti comuni dell'età antica? Impossibile! Non può accadere che ciò che si è fatto per millenni venga all'improvviso cancellato.
Ma è esattamente quel che si è fatto con il culto rivolto ad orientem. Per circa duemila anni, il clero e i fedeli insieme si rivolgevano nella stessa direzione, in attesa di Cristo e in Sua adorazione, di Colui che già si è fatto presente nel mistero della Sacratissima Eucaristia, Colui che ha da venire alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti e il mondo nel fuoco.
Rivolgersi ad orientem preserva l'orientamento escatologico della liturgia. Quando i primi Cristiani si riunivano la domenica per rendere culto al Signore, essi si trovavano ad anticipare la seconda venuta di Cristo; questa sembra essere la più antica caratteristica del nostro culto pubblico. Come nota dom Gregory Dix, la "forma primordiale" della celebrazione domenicale non era tanto una celebrazione che guardava alla risurrezione di Cristo della prima Pasqua, o a qualche particolare mistero o momento della Sua vita terrena, ma che piuttosto guardava avanti con lungimiranza al ritorno del Signore nella gloria, supplicandolo di liberarci dalle malie del peccato, della morte, e dell'inferno. La messa domenicale riguardava la vita nel secolo venturo, che i primi Cristiani, che si trovavano a soffrire amare e terribili tribolazioni, dovevano tenere in gran considerazione, dacché pregavano e speravano di restare nella fede: "non c'indurre in tentazione ma liberaci dal male". Per questa ragione, il guardare a oriente nella preghiera era un simbolo intenso: dopo le tenebre e la notte oscura, il sole sarebbe sorto gloriosamente all'orizzonte, da est, emanando luce e calore.
Per non menzionare tutti i passi scritturali, ripetutamente commentati dai Padri della Chiesa, che chiamano Cristo "l'Oriente", o dicono che Egli ascende a Oriente, o che Egli viene da Oriente (cfr., inter alia, Ps. 67,34; Atti 1,10-11; Mt. 24,27; Zacc. 6,11-12).
Nel voltare il prete verso la gente, ci si è decisamente allontanati da quello che era il più antico, il più significante, il più distintivo costume del nostro culto come Cristiani. Quando ci rivolgiamo ad orientem, ritorniamo con decisione ai fondamentali della fede Cristiana e alla sua prassi originaria. Ironicamente, nell'adottare la novità del versus populum - un supposto "ritorno alla pristina prassi" secondo gli studiosi della metà del XX secolo, le cui conclusioni sono state smentite dal lavoro degli studiosi successivi - si è fatto sì ch'andasse perduto il più antico elemento di tutti.
Non è difficile vedere perché questo costume avrebbe dovuto quasi potersi considerare l'essenza stessa del culto Cristiano. Molto semplicemente, il culto riguarda Dio, e non riguarda noi stessi. O, meglio, riguarda noi solo nella misura in cui noi siamo da Dio, in Dio e per Dio, il nostro Creatore, Salvatore, Santificatore e Giudice. Laonde, anche nella misura in cui, come dice San Tommaso Aquinate, la liturgia è fatta per ke nostre necessità, imperocché Dio, che è infinitamente buono, non vuol guadagnre nulla per Se stesso, essa è comunque fatta per l'amore e la lode e il ringraziamento di Dio, che è l'origine e il compimento di tutte le nostre necessità. Le nostre necessità , in breve, sono PER DIO; la nostra necessità più profonda e di andare oltre noi stessi in Lui. Il maggior proposito del culto è di portarci fuori da noi stessi e stabilirci in Dio. In questo senso, ogni aspetto del culto liturgico che non ha chiaramente il suo fine in Dio, Padre e Figliuolo e Santo Spirito, o ogni aspetto che sembra avere il suo fine in noi, non è liturgia, qualunque altra cosa sia (e.g., autostima, costume sociale, terapia, superstizione).
Quindi, la posizione ad orientem semplicemente esprime l'atto di adorazione in se stesso, mentre quella versus populum esattamente lo contraddice. Questo è il motivo per cui non è solo poco adatto, ma financo antitetico alla religione. Il teologo Max Thurien, scrivendo (la qual cosa ha del sorprendente) nel giornale ufficiale vaticano Notitiae osservava, in un'affermazione che ne anticipava una di Ratzinger simile e assai più famosa ripresa in Lo Spirito della Liturgia:
"L'intera celebrazione [della Messa] è spesso condotta come se fosse una conversazione e un dialogo in cui non v'è più spazio per l'adorazione, la contemplazione e il silenzio. Il fatto che il celerante e i fedeli si guardino costantemente in faccia gli uni gli altri chiude la liturgia in se stessa".
Sulla stessa linea, il cerimoniere papale Guido Marini notò durante una conferenza a Roma:
"Ai nostri tempi, l'espressione "celebrare rivolti al popolo" è entrata nel vocabolario comune... Una siffatta espressione sarebbe categoricamente inaccettabile quando venisse a esprimere una proposizione teologica. Teologicamente parlando, la santa Messa, infatti, è sempre indirizzata a Dio per mezzo di Cristo nostro Signore, e sarebbe un grave errore immaginare che l'orientamento principale dell'atto sacrificale sia la comunità. Un siffatto orientamento, perciò, il voltarsi verso il Signore, deve animare la partecipazione interiore di ciascuno durante la liturgia. Parimenti, è ugualmente importante che questo orientamento sia ben visibile anche nel segno liturgico".
Marini ci aiuta a vedere non solo che l'oggetto della liturgia dovrebbe sempre essere Dio, o l'uomo-Dio, Gesù Cristo, e mai meramente l'uomo, ma anche che quest'orientamento oggettivo (non passiamo evitare l'Oriente nemmeno nel nostro modo ordinario di parlare!) dovrebbe essere visibile, evidente al senso, facilmente comprensibile dall'intelletto, e facilmente traducibile nel movimento del desiderio che noi chiamiamo "amore", che è ordinato verso il bene - verso un bene esterno a noi, nel caso del nostro fine ultimo.
Rappresenterò il contrasto tra le due contradditorie posizioni in relazione ai loro significati di soggetto e oggetto.
Nella posizione ad orintem, la relazione soggetto/oggetto appare come uomo/Dio. Il prete guarda e agisce come immagine di Cristo, come mediatore tra Dio e l'uomo. Paradossalmente, la centralità del prete nel vecchio rito serve a enfatizzare che Dio è il solo e unico oggetto di culto, dacché il prete è in tal modo ovviamente assimilato al suo ufficio di alter Christus.
Nella posizione versus populum, la relazione soggetto/oggetto appare come popolo/prete. Il prete, pur colle migliori intenzioni, guarda e agisce come il presentatore autorizzato di un evento comunale; il posizionarsi vis-à-vis gli conferisce una sorta di autocratica prominenza come l'unico al quale l'assemblea è subordinata e legata. Questa potrebbe essere la ragione psicologica per cui alcuni preti compensano ciò con informalità, scherzi, beffe, sorrisi, gesti, applausi - lo stesso "eccessivo contrapporsi" del prete nel versus populum sembra esigere un ridimensionamento di tale eccesso - e lo fa attraverso l'enfatizzazione del fatto che egli è "uno di noi", dopo tutto! Quanto triste è che l'unica vera e ovvia via per mostrare che il prete sia "uno di noi" - e cioè, che egli guardi nella stessa direzione verso la quale ciascuno guarda e che offra il sacrificio per loro conto, lo stesso sacrificio che essi offrono nei loro cuori - è stato rigettato come un simbolo opaco e scaduto, da rimpiazzarsi con un modello che trasforma la messa in qualcosa fatto nei riguardi del popolo e, in un certo senso, a lui imposto. In realtà, la messa è qualcosa che Gesù Cristo, secondo la Sua natura umana, compie nei riguardi della Santisima Trinità, come la grandiosa preghiera Suscipe Sancta Trinitas perfettamente esprime, e noi possiamo unirci ad essa.
Ironicamente, per un rito che è stato pensato come meno clericale e più popolare, il prete nel nuovo rito diventa assai più centrale, al centro dell'attenzione per via della sua personalità, del suo "stile popolare" o del suo "modo di esser prete". Il versus populum non fa altro che sottolineare la disgraziata amplificazione della presidenza umana, a costo di assimilarla alla kenosis e all'unica mediazione di Cristo.
Kathleen Pluth rappresenta brillantemente il problema e la soluzione. Avendo detto di sé ch'ella odia esser causa di distrazione per gli altri cantando di fronte alla chiesa, ed ella preferirebbe assai trovar rifugio in un coro (i cantori dovrebbero essere ascoltati, non veduti!), ella poi passa a considerare il celebrante della messa:
"Il ruolo del prete è esponenzialmente più complesso. Egli non può nascondersi. Il suo ruolo è intrinsecamente, e in un certo senso primariamente, visibile, dacché guida l'assemblea attraverso il velo, nel Sancta Sanctorum. Noi lo seguiamo [...]. Per secoli il simbolismo del nostro "seguire" il prete era chiaro. Nondimeno, nel periodo postconciliare, e senza un diretto riferimento negli stessi documenti del Concilio, il carattere della relazione tra il prete e il popolo è stato notevolmente distorto con la postura versus populum.
Quando le persone si guardano le une gli altri, mirano a esser gradite. Hanno contatto visivo; sorridono per incoraggiarsi. C'è una parola che descrive detta gestualità: flattery [suona più o meno come "adulazione", ma qui il senso è più complesso e appena definito, ndt]. La gente "adula" i propri preti e i loro preti li adulano, con un rapporto medio, direi, di 500 a 1. Nulla di tutto ciò è incoraggiato nei documenti del Concilio. La postura versus populum, è particolarmente mondana. Essa pone il prete non come un modello da seguire, ma come l'ospite di un talk show da compiacere nella misura in cui egli ci compiace. Non ci sono ragioni per questo.
Gli sguardi verso Dio dovrebbero essere resi chiaramente nella Liturgia (si guardi la Hierarchia Ecclesiastica dello Pseudo Dionigi per una meravigliosa esposizione di come questo dovrebbe funzionare), ma di contro il nostro cammino verso Dio è oscurato da una serie di contatti visivi e risposte che distraggono. La liturgia della domenica è fondamentale per tutti, e per molti è l'unico contatto con la Chiesa. Pertanto, i suoi simboli dovrebbero esprimere la Verità, inclusa la verità circa le relazioni ecclesiastiche, che non dovrebbero essere in funzione del compiacimento ma del servizio. Il salmista canta: "Rivesti di santità i tuoi sacerdoti / i fedeli canteranno di gioia". La postura ad orientem permette ai preti di essere preti e pure al popolo di essere se stesso, mentre tutti insieme si rivolgono a Dio.
Di conseguenza, era un gran vantaggio del demonio volgere i preti verso la gente, creando un cerchio magico di affermazioni di vicinanza che fanno decadere l'esperienza della messa a livello di uno scambio orizzontale, un avanti e indietro nella quotidianità. Non v'è nulla di trascendente in questo; al contrario, Dio è addomesticato, domato, manipolabile - non è Colui che riceve il sacrificio, ma un argomento di conversazione".
Nel contesto occidentale [e non solo, ndt], inoltre, laddove l'uso di una lingua sacra è stata la prassi pressoché universale e priva d'eccezione per la maggior parte della storia della Chiesa, l'introduzione del vernacolare - e fino a poco tempo fa, di un banale e noioso vernacolare - ha pure contribuito a questo livellamento serpentino. Ad orientem, l'uso del latino, il canto piano, inginocchiarsi per la comunione, sono mezzi semplici ma potenti per ricusare l'orizzontalismo democratico che ha afflitto la liturgia degli ultimi cinquant'anni. Lo smantellamento di tutto ciò - la rimozione delle balaustre, la pratica della comunione in piedi (rispetto a come si è sviluppata la prassi occidentale nel secondo millennio), la ricezione della comunione in mano, l'abolizione del chierico colla patena e via così - tutti questi sono coerenti con una prospettiva più ampia della deformazione dell'atto di culto in un atto di precipitosa autostima, che ricorda ossessivamente quanto avvenuto nel Giardino dell'Eden.
[FONTE. Traduzione a cura di Traditio Marciana]
I Cattolici che si addentrano in discussione serie riguardo la liturgia, desiderando forse conoscere l'oggetto di tutto questo trambusto, rapidamente scopriranno che una delle domande più scottanti, e per un certo verso la più importante, è l'orientamento della liturgia. Qual è il grosso problema legato alla direzione in cui il prete guarda durante la Messa?
Per cominciare, il costume di tutti i Cristiani di offrire e partecipare alla liturgia Eucaristica rivolti verso Oriente ha le stesse radici apostoliche e la stessa universalità nella Storia della Chiesa, che possiede per esempio l'uso dell'acqua battesimale, la preghiera dei salmi, il culto della Risurrezione di Cristo la domenica, la venerazione della Madre di Dio e dei santi, e delle loro reliquie. Come dato di fatto, l'orientamento verso oriente è anteriore all'uso di paramenti sacri ufficiali, di edifici sacri consacrati, e persino del Credo Niceno Costantinopolitano che recitiamo ogni domenica. [...]
Si pensi in tal modo: Vorresti tu, praticante cattolico, che la domenica fosse abolita, rimpiazzata da un altro giorno della settimana, o semplicemente levata dal calendario? Questa sarebbe una deviazione inconcepibile dalla pratica Cristiana. Vorresti che tutti i salmi fossero rimossi dalla messa e dall'Ufficio Divino? Potremmo rimpiazzare il battesimo con una cerimonia civile, o smettere di onorare la nostra Santa Madre perché ciò potrebbe farci sentire quali bimbi immaturi od offendere le femministe anti-materne? O avere preti che celebrano in jeans e maglietta, perché questi sono gli abiti comuni dei nostri giorni, come vesti e mantelli erano gli abiti comuni dell'età antica? Impossibile! Non può accadere che ciò che si è fatto per millenni venga all'improvviso cancellato.
Ma è esattamente quel che si è fatto con il culto rivolto ad orientem. Per circa duemila anni, il clero e i fedeli insieme si rivolgevano nella stessa direzione, in attesa di Cristo e in Sua adorazione, di Colui che già si è fatto presente nel mistero della Sacratissima Eucaristia, Colui che ha da venire alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti e il mondo nel fuoco.
Rivolgersi ad orientem preserva l'orientamento escatologico della liturgia. Quando i primi Cristiani si riunivano la domenica per rendere culto al Signore, essi si trovavano ad anticipare la seconda venuta di Cristo; questa sembra essere la più antica caratteristica del nostro culto pubblico. Come nota dom Gregory Dix, la "forma primordiale" della celebrazione domenicale non era tanto una celebrazione che guardava alla risurrezione di Cristo della prima Pasqua, o a qualche particolare mistero o momento della Sua vita terrena, ma che piuttosto guardava avanti con lungimiranza al ritorno del Signore nella gloria, supplicandolo di liberarci dalle malie del peccato, della morte, e dell'inferno. La messa domenicale riguardava la vita nel secolo venturo, che i primi Cristiani, che si trovavano a soffrire amare e terribili tribolazioni, dovevano tenere in gran considerazione, dacché pregavano e speravano di restare nella fede: "non c'indurre in tentazione ma liberaci dal male". Per questa ragione, il guardare a oriente nella preghiera era un simbolo intenso: dopo le tenebre e la notte oscura, il sole sarebbe sorto gloriosamente all'orizzonte, da est, emanando luce e calore.
Per non menzionare tutti i passi scritturali, ripetutamente commentati dai Padri della Chiesa, che chiamano Cristo "l'Oriente", o dicono che Egli ascende a Oriente, o che Egli viene da Oriente (cfr., inter alia, Ps. 67,34; Atti 1,10-11; Mt. 24,27; Zacc. 6,11-12).
Nel voltare il prete verso la gente, ci si è decisamente allontanati da quello che era il più antico, il più significante, il più distintivo costume del nostro culto come Cristiani. Quando ci rivolgiamo ad orientem, ritorniamo con decisione ai fondamentali della fede Cristiana e alla sua prassi originaria. Ironicamente, nell'adottare la novità del versus populum - un supposto "ritorno alla pristina prassi" secondo gli studiosi della metà del XX secolo, le cui conclusioni sono state smentite dal lavoro degli studiosi successivi - si è fatto sì ch'andasse perduto il più antico elemento di tutti.
Non è difficile vedere perché questo costume avrebbe dovuto quasi potersi considerare l'essenza stessa del culto Cristiano. Molto semplicemente, il culto riguarda Dio, e non riguarda noi stessi. O, meglio, riguarda noi solo nella misura in cui noi siamo da Dio, in Dio e per Dio, il nostro Creatore, Salvatore, Santificatore e Giudice. Laonde, anche nella misura in cui, come dice San Tommaso Aquinate, la liturgia è fatta per ke nostre necessità, imperocché Dio, che è infinitamente buono, non vuol guadagnre nulla per Se stesso, essa è comunque fatta per l'amore e la lode e il ringraziamento di Dio, che è l'origine e il compimento di tutte le nostre necessità. Le nostre necessità , in breve, sono PER DIO; la nostra necessità più profonda e di andare oltre noi stessi in Lui. Il maggior proposito del culto è di portarci fuori da noi stessi e stabilirci in Dio. In questo senso, ogni aspetto del culto liturgico che non ha chiaramente il suo fine in Dio, Padre e Figliuolo e Santo Spirito, o ogni aspetto che sembra avere il suo fine in noi, non è liturgia, qualunque altra cosa sia (e.g., autostima, costume sociale, terapia, superstizione).
Quindi, la posizione ad orientem semplicemente esprime l'atto di adorazione in se stesso, mentre quella versus populum esattamente lo contraddice. Questo è il motivo per cui non è solo poco adatto, ma financo antitetico alla religione. Il teologo Max Thurien, scrivendo (la qual cosa ha del sorprendente) nel giornale ufficiale vaticano Notitiae osservava, in un'affermazione che ne anticipava una di Ratzinger simile e assai più famosa ripresa in Lo Spirito della Liturgia:
"L'intera celebrazione [della Messa] è spesso condotta come se fosse una conversazione e un dialogo in cui non v'è più spazio per l'adorazione, la contemplazione e il silenzio. Il fatto che il celerante e i fedeli si guardino costantemente in faccia gli uni gli altri chiude la liturgia in se stessa".
Sulla stessa linea, il cerimoniere papale Guido Marini notò durante una conferenza a Roma:
"Ai nostri tempi, l'espressione "celebrare rivolti al popolo" è entrata nel vocabolario comune... Una siffatta espressione sarebbe categoricamente inaccettabile quando venisse a esprimere una proposizione teologica. Teologicamente parlando, la santa Messa, infatti, è sempre indirizzata a Dio per mezzo di Cristo nostro Signore, e sarebbe un grave errore immaginare che l'orientamento principale dell'atto sacrificale sia la comunità. Un siffatto orientamento, perciò, il voltarsi verso il Signore, deve animare la partecipazione interiore di ciascuno durante la liturgia. Parimenti, è ugualmente importante che questo orientamento sia ben visibile anche nel segno liturgico".
Marini ci aiuta a vedere non solo che l'oggetto della liturgia dovrebbe sempre essere Dio, o l'uomo-Dio, Gesù Cristo, e mai meramente l'uomo, ma anche che quest'orientamento oggettivo (non passiamo evitare l'Oriente nemmeno nel nostro modo ordinario di parlare!) dovrebbe essere visibile, evidente al senso, facilmente comprensibile dall'intelletto, e facilmente traducibile nel movimento del desiderio che noi chiamiamo "amore", che è ordinato verso il bene - verso un bene esterno a noi, nel caso del nostro fine ultimo.
Rappresenterò il contrasto tra le due contradditorie posizioni in relazione ai loro significati di soggetto e oggetto.
Nella posizione ad orintem, la relazione soggetto/oggetto appare come uomo/Dio. Il prete guarda e agisce come immagine di Cristo, come mediatore tra Dio e l'uomo. Paradossalmente, la centralità del prete nel vecchio rito serve a enfatizzare che Dio è il solo e unico oggetto di culto, dacché il prete è in tal modo ovviamente assimilato al suo ufficio di alter Christus.
Nella posizione versus populum, la relazione soggetto/oggetto appare come popolo/prete. Il prete, pur colle migliori intenzioni, guarda e agisce come il presentatore autorizzato di un evento comunale; il posizionarsi vis-à-vis gli conferisce una sorta di autocratica prominenza come l'unico al quale l'assemblea è subordinata e legata. Questa potrebbe essere la ragione psicologica per cui alcuni preti compensano ciò con informalità, scherzi, beffe, sorrisi, gesti, applausi - lo stesso "eccessivo contrapporsi" del prete nel versus populum sembra esigere un ridimensionamento di tale eccesso - e lo fa attraverso l'enfatizzazione del fatto che egli è "uno di noi", dopo tutto! Quanto triste è che l'unica vera e ovvia via per mostrare che il prete sia "uno di noi" - e cioè, che egli guardi nella stessa direzione verso la quale ciascuno guarda e che offra il sacrificio per loro conto, lo stesso sacrificio che essi offrono nei loro cuori - è stato rigettato come un simbolo opaco e scaduto, da rimpiazzarsi con un modello che trasforma la messa in qualcosa fatto nei riguardi del popolo e, in un certo senso, a lui imposto. In realtà, la messa è qualcosa che Gesù Cristo, secondo la Sua natura umana, compie nei riguardi della Santisima Trinità, come la grandiosa preghiera Suscipe Sancta Trinitas perfettamente esprime, e noi possiamo unirci ad essa.
Ironicamente, per un rito che è stato pensato come meno clericale e più popolare, il prete nel nuovo rito diventa assai più centrale, al centro dell'attenzione per via della sua personalità, del suo "stile popolare" o del suo "modo di esser prete". Il versus populum non fa altro che sottolineare la disgraziata amplificazione della presidenza umana, a costo di assimilarla alla kenosis e all'unica mediazione di Cristo.
Kathleen Pluth rappresenta brillantemente il problema e la soluzione. Avendo detto di sé ch'ella odia esser causa di distrazione per gli altri cantando di fronte alla chiesa, ed ella preferirebbe assai trovar rifugio in un coro (i cantori dovrebbero essere ascoltati, non veduti!), ella poi passa a considerare il celebrante della messa:
"Il ruolo del prete è esponenzialmente più complesso. Egli non può nascondersi. Il suo ruolo è intrinsecamente, e in un certo senso primariamente, visibile, dacché guida l'assemblea attraverso il velo, nel Sancta Sanctorum. Noi lo seguiamo [...]. Per secoli il simbolismo del nostro "seguire" il prete era chiaro. Nondimeno, nel periodo postconciliare, e senza un diretto riferimento negli stessi documenti del Concilio, il carattere della relazione tra il prete e il popolo è stato notevolmente distorto con la postura versus populum.
Quando le persone si guardano le une gli altri, mirano a esser gradite. Hanno contatto visivo; sorridono per incoraggiarsi. C'è una parola che descrive detta gestualità: flattery [suona più o meno come "adulazione", ma qui il senso è più complesso e appena definito, ndt]. La gente "adula" i propri preti e i loro preti li adulano, con un rapporto medio, direi, di 500 a 1. Nulla di tutto ciò è incoraggiato nei documenti del Concilio. La postura versus populum, è particolarmente mondana. Essa pone il prete non come un modello da seguire, ma come l'ospite di un talk show da compiacere nella misura in cui egli ci compiace. Non ci sono ragioni per questo.
Gli sguardi verso Dio dovrebbero essere resi chiaramente nella Liturgia (si guardi la Hierarchia Ecclesiastica dello Pseudo Dionigi per una meravigliosa esposizione di come questo dovrebbe funzionare), ma di contro il nostro cammino verso Dio è oscurato da una serie di contatti visivi e risposte che distraggono. La liturgia della domenica è fondamentale per tutti, e per molti è l'unico contatto con la Chiesa. Pertanto, i suoi simboli dovrebbero esprimere la Verità, inclusa la verità circa le relazioni ecclesiastiche, che non dovrebbero essere in funzione del compiacimento ma del servizio. Il salmista canta: "Rivesti di santità i tuoi sacerdoti / i fedeli canteranno di gioia". La postura ad orientem permette ai preti di essere preti e pure al popolo di essere se stesso, mentre tutti insieme si rivolgono a Dio.
Di conseguenza, era un gran vantaggio del demonio volgere i preti verso la gente, creando un cerchio magico di affermazioni di vicinanza che fanno decadere l'esperienza della messa a livello di uno scambio orizzontale, un avanti e indietro nella quotidianità. Non v'è nulla di trascendente in questo; al contrario, Dio è addomesticato, domato, manipolabile - non è Colui che riceve il sacrificio, ma un argomento di conversazione".
Nel contesto occidentale [e non solo, ndt], inoltre, laddove l'uso di una lingua sacra è stata la prassi pressoché universale e priva d'eccezione per la maggior parte della storia della Chiesa, l'introduzione del vernacolare - e fino a poco tempo fa, di un banale e noioso vernacolare - ha pure contribuito a questo livellamento serpentino. Ad orientem, l'uso del latino, il canto piano, inginocchiarsi per la comunione, sono mezzi semplici ma potenti per ricusare l'orizzontalismo democratico che ha afflitto la liturgia degli ultimi cinquant'anni. Lo smantellamento di tutto ciò - la rimozione delle balaustre, la pratica della comunione in piedi (rispetto a come si è sviluppata la prassi occidentale nel secondo millennio), la ricezione della comunione in mano, l'abolizione del chierico colla patena e via così - tutti questi sono coerenti con una prospettiva più ampia della deformazione dell'atto di culto in un atto di precipitosa autostima, che ricorda ossessivamente quanto avvenuto nel Giardino dell'Eden.
[FONTE. Traduzione a cura di Traditio Marciana]
Nelle foto è possibile vedere un confronto tra la prassi "versus populum e la pratica di liturgia tradizionale in Oriente e Occidente.
venerdì 2 novembre 2018
L'assoluzione al tumulo nella tradizione aquilejese e marciana
di Nicolò Ghigi
Il 2 novembre ricorre la commemorazione di tutti i fedeli defunti, giorno interamente dedicato alle preghiere di suffragio per le anime del Purgatorio, originatasi nella pratica monastica e fissata dall'abate sant'Odilone di Cluny nel 998, e successivamente passata almeno dal XIII secolo alla Chiesa Universale. La data del 2 novembre fu scelta ovviamente per mettere in relazione questo giorno, dedicato alle anime purganti, con l'immediatamente precedente festa d'Ognissanti, dedicata alle anime trionfanti, a preferenza di altri giorni cui sono invece deputate le preghiere per i defunti in altre tradizioni cristiane (il calendario bizantino prevede due sabati delle anime con il medesimo carattere d'intercessione per i morti, situati però uno subito prima della Quaresima e uno subito dopo la Pentecoste).
Tra le cerimonie caratteristiche di questo giorno, nei riti latini, vi è, accanto al suggestivo e compunto ufficio dei morti, e alla liturgia della messa di requie, con le toccanti parole della sequenza Dies irae (poema di Tommaso da Celano, XIII secolo), vi è il rito d'assoluzione super tumulum in suffragio di tutti i fedeli defunti. Molto si è già detto di tale cerimonia, che a onta del nome non è una vera e propria "assoluzione" in quanto la Chiesa non ha potere assolutorio sulle anime dei morti, ma ha piuttosto una funzione di suffragio, compiuta davanti a un castrum doloris (altresì detto catafalco) ornato che simboleggiava il feretro dei morti, e si è descritta la sua forma tipica nel rito romano, con il poeticissimo responsorio Libera me Domine, ispirato alla drammatica narrazione del giorno del Giudizio contenuta negli scritti del profeta Sofonia, le preci di suffragio, l'aspersione e l'incensazione del tumulo. (1)
Anche negli altri riti della famiglia latino-germanica esistono cerimonie simili, con differenze più o meno notevoli nella forma dovute agli usi locali, ma d'identica sostanza. Particolarmente ora accenneremo ai riti delle esequie (perché si noti che la cerimonia funebre, le exequiae, è propriamente il rito di assoluzione, fatto al feretro praesente cadavere o al tumulo absente cadavere, e non la messa di suffragio che pur vi s'accompagna) nella tradizione del Patriarcato di Aquileja e del Patriarcato delle Venezie.
Ad Aquileja
L'Agenda Dioecesis Sanctae Ecclesiae Aquilegiensis (2), il "rituale" proprio dell'antico Patriarcato, contiene l'Ordo exequiarum minorum da compiersi con il feretro, dunque praesente cadavere, preceduto dalla cerimonia del trasporto del feretro in chiesa e seguito dall'Ordo sepeliendi funus (laddove funus è figuratamente impiegato per indicare il cadavere). Dipoi l'Agenda, dopo aver parlato del funerale dei bambini, alla voce Ordo exequiarum in commemoratione: septimo vel trigesimo vel anniversario defuncti riporta semplicemente le variazioni da apportarsi nelle orazioni. Ragionevolmente si può supporre che in date ricorrenze dunque si replicasse la cerimonia delle esequie praesente cadavere, proprio come nel rito romano difatti l'assoluzione al tumulo non è che l'assoluzione al feretro con un'orazione in meno (e ovviamente senza il trasporto del feretro in chiesa e poi al cimitero).
L'intero ordine aquilejese delle cerimonie funebri, a differenza di quello romano, non contiene l'indicazione di celebrare la messa di requie, anche se assai probabilmente lo facevano. E' comunque provato che nell'antichità, prima dell'VIII secolo almeno, non si usasse la messa bensì l'ufficio dei morti come forma privilegiata di suffragio per i defunti.
Il rituale di per sé, essendo come tutti i testi liturgici antichi privo della quasi totalità delle indicazioni cerimoniali, che ragionevolmente si reputavano tenute a memoria dai sacerdoti, menziona solo l'aspersione del feretro all'arrivo in chiesa e l'aspersione e l'incensazione del sepolcro in cimitero, e durante le esequie non accenna né ad aspersioni né a turificazioni, ma di nuovo non è da escludere, anzi a mio avviso è da supporre, che le facessero.
Le esequie iniziano con il sacerdote che recita summissa voce un'orazione:
Omnnipotens Dei misericordiam deprecemur: cujus judicio nascimur et finimur: ut spiritum chari nostri (vel charae nostrae): quem Domini pietas de incolatu hujus mundi transire praecepit: requies aeterna suscipiat: et in beata resurrectione repraesentet: et in sinibus Abrahae, Isaac et Jacob collocare dignetur. Per Christum Dominum nostrum.
Supplichiamo la misericordia di Dio Onnipotente, secondo la cui discrezione nasciamo e moriamo: affinché il riposo eterno accolga lo spirito del nostro caro (o della nostra cara) cui la benignità del Signore ha ordinato di partirsi da questo mondo, e lo ripresenti alla beata risurrezione, e si degni di trovargli un posto nei seni di Abramo, Isacco e Giacobbe. Per Cristo Signore nostro.
L'orazione è sicuramente dal sapore molto antico, oltre che per la forma del latino, anche per la struttura sintattica, ma soprattutto per il riferimento al "seno di Abramo", antica concezione dei loci purgatorii (antecedente all'immagine del Purgatorio come "terzo luogo fisico" che in fondo si attesta solo dal XIII secolo), direttamente ricavata dall'episodio evangelico di Lazzaro e il ricco epulone. (3)
Segue il primo dei tre ornati responsori che accompagnano il rito. Il testo di tale responsorio è tolto da Geremia 7,6, mentre il verso è dal Salmo 101,12.
Indu[c]ta est caro mea putredine, et foedibus pulveris, cutis mea aruit, et contracta est. Memento mei Domine, quia ventus est vita mea. V. Dies mei sicut umbra declinaverunt, et ego sicut foenum arui. Memento...
La mia carne è rivestita di marciume, e delle sordidezze della polvere, la mia cute è seccata e intirizzita. Ricordati di me o Signore, perché la mia vita è un soffio. V. I miei giorni passarono come un'ombra, e io seccai come il fieno. Ricordati...
Quindi, il sacerdote dice il triplice Kyrie eleison, il Pater noster e alcuni versicoli, come nell'uso romano, e conclude con un'orazione che recita: Deus qui universorum es conditor et redemptor: [qui] cum sis tuorum beatitudo sanctorum, praesta nobis petentibus: ut spiritum chari nostri (vel charae nostrae) a corporis nexibus absolutum: in sanctorum tuorum resurrectione facias praesentari. Qui cum Deo Patre et Spiritu Sancto vivis, ac regnas Deus in saecula saeculorum. Amen.
O Dio, che sei il creatore e il redentore di ognuno; dacché sei la beatitudine dei tuoi santi, concedi a noi che ti preghiamo di far presentare lo spirito del nostro caro (o della nostra cara), disciolto dai lacci corporali, nella resurrezione dei tuoi santi. Tu con Dio Padre e lo Spirito Santo vivi e regni, Iddio, nei secoli dei secoli. Amen.
L'orazione presenta una notevole anomalia nella conclusione, che, rispetto a quella comunemente impiegata nelle orazioni rivolte al Figlio, contiene alcune variazioni (anticipazione del complemento d'unione rispetto ai verbi; ac anziché et; in anziché per; omissione di omnia avanti a saecula). Probabilmente queste ultime due peculiarità sono frutto di una contaminazione con la conclusione breve Qui vivis et regnas in saecula saeculorum.
Subito dopo, si canta un secondo responsorio, tolto da Geremia 10,20.
Paucitas dierum meorum finietur brevi. Dimitte me, Domine, sine plangam paululum dolorem meum. Antequam vadam ad terram tenebrosam, et opertam mortis caligine. V. Ecce in pulvere sedeo, et in pulvere dormio, et si mane me quaesieris, non subsistam. Antequam...
La pochezza dei miei giorni presto finirà. Congedami, o Signore, permettimi di piangere un po' il mio dolore. Prima che vada verso una terra tenebrosa, e coperta dalla nebbia della morte. V. Ecco, siedo nella polvere, e dormo nella polvere, e se al mattino mi cercassi, non sarò vivo. Prima che...
Tanto questo responsorio quanto il precedente sono tratti da Geremia, come la quasi totalità dei responsori dell'ufficio dei morti nei riti occidentali; peraltro, in altri testi liturgici di area germanica si riscontra la presenza tanto del Paucitas dierum quanto dell'Induta est (che seppure in forma mutila è presente pure al mattutino dell'ufficio dei morti romano). (4)
Seguono nuovamente il Kyrie, il Pater e i versicoli (leggermente diversi rispetto a quelli detti in precedenza) e un'orazione: Fac quaesumus, Domine, hanc cum animam famuli tui (vel famulae tuae) misericordiam: ut malorum suorum in poenis non recipiat vicem, qui in votis tuam tenuit voluntatem. Ut, sicut eam hic vera fides junxit fidelium turmis: ita eam illic tua miseratio societ angelicis choris. Per Christum Dominum nostrum. Amen.
Fai, te ne preghiamo, o Signore, quest'atto di misericordia nei confronti dell'anima del tuo servo (o della tua serva): che non riceva nelle pene la retribuzione delle sue azioni malvagie colui che nei suoi voti ha serbato la tua volontà; affinché, come la vera fede la congiunse alle torme dei fedeli, così nell'aldilà la tua misericordia la unisca ai cori angelici. Per Cristo Signore nostro. Amen.
Infine, il terzo responsorio è il Libera me, già reso noto ai più dal suo impiego nelle esequie di rito romano. Il testo del Patriarcato, di composizione ecclesiastica con richiami a Sofonia 1,15, presenta nondimeno alcune differenze rispetto a quello impiegato nell'Urbe, riportato subito sotto.
Libera me, Domine, de morte aeterna in die illa tremenda. Quando coeli movendi sunt et terra. V. Dies illa, dies irae, dies calamitatis et miseriae, dies magna et amara valde. Quando coeli. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis. Dum venerit judicare saeculum per ignem.
Liberami, o Signore, dalla morte eterna, in quel giorno tremendo. Quando dovranno essere scossi i cieli e la terra. V. Quel giorno, giorno d'ira, giorno di calamità e miseria, giorno grande e assai amaro. Quando i cieli... Dona loro, o Signore, l'eterno riposo, e splenda ad essi la luce perpetua. Quando verrai a giudicare il mondo nel fuoco.
Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda. Quando coeli movendi sunt et terra. Dum veneris iudicare saeculum per ignem. Tremens factus sum ego, et timeo, dum discussio venerit, atque ventura ira. Quando coeli movendi sunt et terra. Dies illa, dies irae, calamitatis et miseriæ, dies magna et amara valde. Dum veneris iudicare saeculum per ignem. Requiem æternam dona eis, Domine: et lux perpetua luceat eis. (5).
Come si può vedere, il verso Dum veneris nell'aquilejese si dice una sola volta e alla fine, mentre nell'uso romano si ripete due volte e in diverse posizioni; il Quando coeli la seconda volta è detto dopo il Dies illa, mentre il testo romano prevede di dirlo prima; è nell'aquilejese completamente omesso il verso Tremens factus sum ego, et timeo, dum discussio venerit, atque ventura ira, che compare invece nel romano; nell'aquilejese è rafforzata l'anafora di dies al verso Dies illa, che viene ripetuto quattro volte, mentre nel romano è omesso davanti a calamitatis.
Ovviamente anche la melodia è notevolmente diversa tra i due testi, in quanto il messale romano riporta un tono gregoriano del X secolo rimaneggiato nell'Ottocento (6), mentre l'aquilejese segue i suoi suggestivi toni propri detti "patriarchini".
Ancora una volta il triplice Kyrie, il Pater e i versicoli, seguiti dall'orazione conclusiva. L'Agenda offre tre diverse orazioni a seconda dell'occasione, pro viro, pro muliere e pro pluribus indifferenter, al cui novero si devono aggiungere la colletta in septimo riportata più avanti (e che, con una sola ovvia variazione testuale, vale pure per il trigesimo e per l'anniversario), e le altre collette pro fratribus et sororibus, pro benefactoribus et in oratione commistis, pro sepultis in cimiterio e una colletta generalis, che sono riportate dopo quella del settimo.
Il rito delle esequie si conclude qui, perché segue immediatamente il seppellimento del cadavere; nella commemorazione, secondo quanto riportato al capo apposito, si conclude con Requiescant in pace. Amen. Fidelium animae per misericordiam Dei requiescant in pace. Amen.
A Venezia
Il rito patriarchino aquilejese era un tempo esteso a tutto il territorio del Patriarcato, non esclusa la Venezia marittima; è però noto che in quest'ultima il rito subì evoluzioni e contaminazioni, anche con riti orientali come l'alessandrino e il bizantino (soprattutto nel calendario, come si può vedere dalle numerose commemorazioni di santi orientali o dell'Antico Testamento, ch'è prassi non occidentale (7)), producendo due forme rituali leggermente differenti, quella patriarchino-veneziana in uso alla Diocesi di Castello (poi Patriarcato di Venezia) e quella marciana in uso alla Basilica di San Marco.
Il Diglich (8) c'informa che, nonostante l'adozione generale del Messale Romano nel Patriarcato di Venezia, che soppiantò il messale patriarchino, il clero di Venezia continuò a osservare alcune peculiarità rituali dell'antico rito locale, che sopravvissero e vennero sempre conservate e impiegate. Una di queste erano le preci impiegate nel rito delle esequie dopo la messa da morto, in cui non cantasi il Libera me, bensì il Redemptor meus vivit (peraltro diverso da quello che si cantava al funerale secondo lo stesso uso veneziano, ch'era il Quomodo confitebor.
Di seguito il testo, come riportato dal Diglich e dal Cappelletti (9):
Redemptor meus vivit, et in novissimo die resurgam et renovabuntur denuo ossa mea: et in carne mea videbo Dominum meum. Lauda anima mea Dominum: laudabo Dominum in vita mea. Redemptor meus.
Il mio Redentore vive, e risorgerò nell'ultimo giorno, e si riformeranno di nuovo le mie ossa: e nella mia carne vedrò il mio Signore. Loda il Signore, anima mia: loderò il Signore nella mia vita. Il mio redentore...
Tale responsorio, pieno di speranza, potrebbe esser giunto nelle Venezie su influsso ambrosiano (il rito mediolanense lo prevede infatti nelle cerimonie d'assoluzione al tumulo) (10); uno stralcio è presente pure al mattutino dell'ufficio dei morti romano.
Secondo il Diglich, seguivano il triplice Kyrie eleison e cinque orazioni, di cui riporta solo le parole iniziali, di cui le ultime quattro erano precedute ciascuna da una delle seguenti antifone:
1. Haec requies mea in saeculum seculi, hic habitabo, quoniam elegi eam.
Questo è il mio riposo in eterno, qui abiterò, imperocché l'ho scelto.
2. Animam precamur, quam creasti, Domine, ut suscipi jubeas in regnum tuum, et in sinu Abrahae collocari facias, ut cum beato Lazaro portionem accipiat.
Ti preghiamo, o Signore, di ordinare che l'anima che hai creato sia accolta nel tuo regno, e che tu la faccia porre nel seno di Abramo, acciocché riceva la sua parte insieme al beato Lazzaro.
3. Spiritus tuus bonus deducet me in terram rectam: propter nomen tuum, Domine, vivificabis me in aequitate tua et educes de tribulatione animam meam.
Il tuo spirito buono mi conduce per terra sicura: a motivo del tuo nome, o Signore, mi darai vita nella tua giustizia e scamperai la mia anima dalla tribolazione.
4. Credo, Domine Deus, carnis resurrectionem et vitam aeternam: sed tantum deprecor tuam clementiam, ut non inter haedos, sed inter oves consortium merear.
Credo, o Signore Iddio, la risurrezione della carne e la vita eterna: ma solo supplico la tua clemenza, perché io meriti un posto non tra i capri, ma tra le pecore.
Infine, si diceva il salmo 129 De profundis, il versetto A porta inferi, l'orazione Absolve quaesumus e il Requiem aeternam, come del resto nel rituale romano.
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NOTE
(1) Vedasi per esempio QUI. Il testo di riferimento per le cerimonie descritte qui, come nell'articolo linkato, è Missale Romanum ex decreto Sacrosancti Concilii Tridentini restitutum S. Pii V Pontificis Maximi jussu editum aliorumque Pontificum cura recognitum a Papa Pio X reformatum et Benedicti XV auctoritate vulgatum, ed. VI juxta typicam Vaticanam, Turonibus, sumptibus et typis Mame, 1952
(2) Agenda Dioecesis Sanctae Ecclesiae Aquilegiensis, Venetiis, ex Bibliotheca Joannis Baptistae Somaschi, 1575, fol. 45-56
(3) cfr. Jacques Le Goff, La naissance du Purgatoire, Paris, Gallimard, 1981
(4) cfr. Breviarium Romanum ex decreto Sacrosancti Concilii Tridentini restitutum S. Pii V Pontificis Maximi jussu editum aliorumque pontificum cura recognitum Pii Papae X auctoritate vulgatum, ed. XXIV juxta typicam, Turonibus, sumptibus et typis Mame, 1939
(5) Missale Romanum, op. cit.
(6) A tale tono "ufficiale" si affiancava una gran copia di toni simpliciores o breviores, dalle melodie notevolmente semplificate per l'uso parrocchiale.
(7) L'ultimo calendario proprio del Patriarcato di Venezia, promulgato dal Patriarca La Fontaine, contiene memorie di santi orientali le cui reliquie sono nelle chiese della città (e.g. S. Giovanni l'Elemosinario, S. Cosma eremita, S. Ermolao ieromartire etc.), del secondo patriarca d'Alessandria S. Aniano, di S. Zaccaria padre di S. Giovanni Battista e altri. cfr. Proprium Missarum pro Venetiarum Patriarchatu, Venetiis, typis Aemilianis, 1916
I calendari precedenti prevedevano molte più memorie di santi di tal schiatta, compresi molti Patriarchi e i Profeti dell'Antico Testamento, S. Simeone il giusto e S. Lazzaro risuscitato, essendovi in città molte chiese dedicate (ma non solo per quello, come nel caso di S. Elia), cosa prettamente orientale e ignota all'Occidente. cfr. Giambattista Galliccioli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, Venezia, appresso Domenico Fracasso, 1795, tomo IV
Il calendario proprio della Basilica Marciana, come detto, ne annoverava altri ancora. cfr. Kalendarium ad usum cleri Sanctae Marcianae Basilicae Venetiarum servatis ordine coeremonialis atque immemorabili ejus consuetudine, Venetiis, Nardini, 1805, in 8.
(8) Giovanni Diglich, Rito veneto antico detto patriarchino, Venezia, nella tipografia di Vincenzo Rizzi, 1823.
(9) Giuseppe Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia dalla sua fondazione sino ai nostri giorni, Venezia, coi tipi del monastero armeno di S. Lazzaro, 1853
(10) Missale Ambrosianum juxta ritum Sanctae Ecclesiae Mediolanensis, Mediolani, Daverio, 1954
Il 2 novembre ricorre la commemorazione di tutti i fedeli defunti, giorno interamente dedicato alle preghiere di suffragio per le anime del Purgatorio, originatasi nella pratica monastica e fissata dall'abate sant'Odilone di Cluny nel 998, e successivamente passata almeno dal XIII secolo alla Chiesa Universale. La data del 2 novembre fu scelta ovviamente per mettere in relazione questo giorno, dedicato alle anime purganti, con l'immediatamente precedente festa d'Ognissanti, dedicata alle anime trionfanti, a preferenza di altri giorni cui sono invece deputate le preghiere per i defunti in altre tradizioni cristiane (il calendario bizantino prevede due sabati delle anime con il medesimo carattere d'intercessione per i morti, situati però uno subito prima della Quaresima e uno subito dopo la Pentecoste).
Tra le cerimonie caratteristiche di questo giorno, nei riti latini, vi è, accanto al suggestivo e compunto ufficio dei morti, e alla liturgia della messa di requie, con le toccanti parole della sequenza Dies irae (poema di Tommaso da Celano, XIII secolo), vi è il rito d'assoluzione super tumulum in suffragio di tutti i fedeli defunti. Molto si è già detto di tale cerimonia, che a onta del nome non è una vera e propria "assoluzione" in quanto la Chiesa non ha potere assolutorio sulle anime dei morti, ma ha piuttosto una funzione di suffragio, compiuta davanti a un castrum doloris (altresì detto catafalco) ornato che simboleggiava il feretro dei morti, e si è descritta la sua forma tipica nel rito romano, con il poeticissimo responsorio Libera me Domine, ispirato alla drammatica narrazione del giorno del Giudizio contenuta negli scritti del profeta Sofonia, le preci di suffragio, l'aspersione e l'incensazione del tumulo. (1)
Anche negli altri riti della famiglia latino-germanica esistono cerimonie simili, con differenze più o meno notevoli nella forma dovute agli usi locali, ma d'identica sostanza. Particolarmente ora accenneremo ai riti delle esequie (perché si noti che la cerimonia funebre, le exequiae, è propriamente il rito di assoluzione, fatto al feretro praesente cadavere o al tumulo absente cadavere, e non la messa di suffragio che pur vi s'accompagna) nella tradizione del Patriarcato di Aquileja e del Patriarcato delle Venezie.
Ad Aquileja
L'Agenda Dioecesis Sanctae Ecclesiae Aquilegiensis (2), il "rituale" proprio dell'antico Patriarcato, contiene l'Ordo exequiarum minorum da compiersi con il feretro, dunque praesente cadavere, preceduto dalla cerimonia del trasporto del feretro in chiesa e seguito dall'Ordo sepeliendi funus (laddove funus è figuratamente impiegato per indicare il cadavere). Dipoi l'Agenda, dopo aver parlato del funerale dei bambini, alla voce Ordo exequiarum in commemoratione: septimo vel trigesimo vel anniversario defuncti riporta semplicemente le variazioni da apportarsi nelle orazioni. Ragionevolmente si può supporre che in date ricorrenze dunque si replicasse la cerimonia delle esequie praesente cadavere, proprio come nel rito romano difatti l'assoluzione al tumulo non è che l'assoluzione al feretro con un'orazione in meno (e ovviamente senza il trasporto del feretro in chiesa e poi al cimitero).
L'intero ordine aquilejese delle cerimonie funebri, a differenza di quello romano, non contiene l'indicazione di celebrare la messa di requie, anche se assai probabilmente lo facevano. E' comunque provato che nell'antichità, prima dell'VIII secolo almeno, non si usasse la messa bensì l'ufficio dei morti come forma privilegiata di suffragio per i defunti.
Il rituale di per sé, essendo come tutti i testi liturgici antichi privo della quasi totalità delle indicazioni cerimoniali, che ragionevolmente si reputavano tenute a memoria dai sacerdoti, menziona solo l'aspersione del feretro all'arrivo in chiesa e l'aspersione e l'incensazione del sepolcro in cimitero, e durante le esequie non accenna né ad aspersioni né a turificazioni, ma di nuovo non è da escludere, anzi a mio avviso è da supporre, che le facessero.
Le esequie iniziano con il sacerdote che recita summissa voce un'orazione:
Omnnipotens Dei misericordiam deprecemur: cujus judicio nascimur et finimur: ut spiritum chari nostri (vel charae nostrae): quem Domini pietas de incolatu hujus mundi transire praecepit: requies aeterna suscipiat: et in beata resurrectione repraesentet: et in sinibus Abrahae, Isaac et Jacob collocare dignetur. Per Christum Dominum nostrum.
Supplichiamo la misericordia di Dio Onnipotente, secondo la cui discrezione nasciamo e moriamo: affinché il riposo eterno accolga lo spirito del nostro caro (o della nostra cara) cui la benignità del Signore ha ordinato di partirsi da questo mondo, e lo ripresenti alla beata risurrezione, e si degni di trovargli un posto nei seni di Abramo, Isacco e Giacobbe. Per Cristo Signore nostro.
L'orazione è sicuramente dal sapore molto antico, oltre che per la forma del latino, anche per la struttura sintattica, ma soprattutto per il riferimento al "seno di Abramo", antica concezione dei loci purgatorii (antecedente all'immagine del Purgatorio come "terzo luogo fisico" che in fondo si attesta solo dal XIII secolo), direttamente ricavata dall'episodio evangelico di Lazzaro e il ricco epulone. (3)
Segue il primo dei tre ornati responsori che accompagnano il rito. Il testo di tale responsorio è tolto da Geremia 7,6, mentre il verso è dal Salmo 101,12.
Indu[c]ta est caro mea putredine, et foedibus pulveris, cutis mea aruit, et contracta est. Memento mei Domine, quia ventus est vita mea. V. Dies mei sicut umbra declinaverunt, et ego sicut foenum arui. Memento...
La mia carne è rivestita di marciume, e delle sordidezze della polvere, la mia cute è seccata e intirizzita. Ricordati di me o Signore, perché la mia vita è un soffio. V. I miei giorni passarono come un'ombra, e io seccai come il fieno. Ricordati...
Quindi, il sacerdote dice il triplice Kyrie eleison, il Pater noster e alcuni versicoli, come nell'uso romano, e conclude con un'orazione che recita: Deus qui universorum es conditor et redemptor: [qui] cum sis tuorum beatitudo sanctorum, praesta nobis petentibus: ut spiritum chari nostri (vel charae nostrae) a corporis nexibus absolutum: in sanctorum tuorum resurrectione facias praesentari. Qui cum Deo Patre et Spiritu Sancto vivis, ac regnas Deus in saecula saeculorum. Amen.
O Dio, che sei il creatore e il redentore di ognuno; dacché sei la beatitudine dei tuoi santi, concedi a noi che ti preghiamo di far presentare lo spirito del nostro caro (o della nostra cara), disciolto dai lacci corporali, nella resurrezione dei tuoi santi. Tu con Dio Padre e lo Spirito Santo vivi e regni, Iddio, nei secoli dei secoli. Amen.
L'orazione presenta una notevole anomalia nella conclusione, che, rispetto a quella comunemente impiegata nelle orazioni rivolte al Figlio, contiene alcune variazioni (anticipazione del complemento d'unione rispetto ai verbi; ac anziché et; in anziché per; omissione di omnia avanti a saecula). Probabilmente queste ultime due peculiarità sono frutto di una contaminazione con la conclusione breve Qui vivis et regnas in saecula saeculorum.
Subito dopo, si canta un secondo responsorio, tolto da Geremia 10,20.
Paucitas dierum meorum finietur brevi. Dimitte me, Domine, sine plangam paululum dolorem meum. Antequam vadam ad terram tenebrosam, et opertam mortis caligine. V. Ecce in pulvere sedeo, et in pulvere dormio, et si mane me quaesieris, non subsistam. Antequam...
La pochezza dei miei giorni presto finirà. Congedami, o Signore, permettimi di piangere un po' il mio dolore. Prima che vada verso una terra tenebrosa, e coperta dalla nebbia della morte. V. Ecco, siedo nella polvere, e dormo nella polvere, e se al mattino mi cercassi, non sarò vivo. Prima che...
Tanto questo responsorio quanto il precedente sono tratti da Geremia, come la quasi totalità dei responsori dell'ufficio dei morti nei riti occidentali; peraltro, in altri testi liturgici di area germanica si riscontra la presenza tanto del Paucitas dierum quanto dell'Induta est (che seppure in forma mutila è presente pure al mattutino dell'ufficio dei morti romano). (4)
Seguono nuovamente il Kyrie, il Pater e i versicoli (leggermente diversi rispetto a quelli detti in precedenza) e un'orazione: Fac quaesumus, Domine, hanc cum animam famuli tui (vel famulae tuae) misericordiam: ut malorum suorum in poenis non recipiat vicem, qui in votis tuam tenuit voluntatem. Ut, sicut eam hic vera fides junxit fidelium turmis: ita eam illic tua miseratio societ angelicis choris. Per Christum Dominum nostrum. Amen.
Fai, te ne preghiamo, o Signore, quest'atto di misericordia nei confronti dell'anima del tuo servo (o della tua serva): che non riceva nelle pene la retribuzione delle sue azioni malvagie colui che nei suoi voti ha serbato la tua volontà; affinché, come la vera fede la congiunse alle torme dei fedeli, così nell'aldilà la tua misericordia la unisca ai cori angelici. Per Cristo Signore nostro. Amen.
Infine, il terzo responsorio è il Libera me, già reso noto ai più dal suo impiego nelle esequie di rito romano. Il testo del Patriarcato, di composizione ecclesiastica con richiami a Sofonia 1,15, presenta nondimeno alcune differenze rispetto a quello impiegato nell'Urbe, riportato subito sotto.
Libera me, Domine, de morte aeterna in die illa tremenda. Quando coeli movendi sunt et terra. V. Dies illa, dies irae, dies calamitatis et miseriae, dies magna et amara valde. Quando coeli. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis. Dum venerit judicare saeculum per ignem.
Liberami, o Signore, dalla morte eterna, in quel giorno tremendo. Quando dovranno essere scossi i cieli e la terra. V. Quel giorno, giorno d'ira, giorno di calamità e miseria, giorno grande e assai amaro. Quando i cieli... Dona loro, o Signore, l'eterno riposo, e splenda ad essi la luce perpetua. Quando verrai a giudicare il mondo nel fuoco.
Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda. Quando coeli movendi sunt et terra. Dum veneris iudicare saeculum per ignem. Tremens factus sum ego, et timeo, dum discussio venerit, atque ventura ira. Quando coeli movendi sunt et terra. Dies illa, dies irae, calamitatis et miseriæ, dies magna et amara valde. Dum veneris iudicare saeculum per ignem. Requiem æternam dona eis, Domine: et lux perpetua luceat eis. (5).
Come si può vedere, il verso Dum veneris nell'aquilejese si dice una sola volta e alla fine, mentre nell'uso romano si ripete due volte e in diverse posizioni; il Quando coeli la seconda volta è detto dopo il Dies illa, mentre il testo romano prevede di dirlo prima; è nell'aquilejese completamente omesso il verso Tremens factus sum ego, et timeo, dum discussio venerit, atque ventura ira, che compare invece nel romano; nell'aquilejese è rafforzata l'anafora di dies al verso Dies illa, che viene ripetuto quattro volte, mentre nel romano è omesso davanti a calamitatis.
Ovviamente anche la melodia è notevolmente diversa tra i due testi, in quanto il messale romano riporta un tono gregoriano del X secolo rimaneggiato nell'Ottocento (6), mentre l'aquilejese segue i suoi suggestivi toni propri detti "patriarchini".
Ancora una volta il triplice Kyrie, il Pater e i versicoli, seguiti dall'orazione conclusiva. L'Agenda offre tre diverse orazioni a seconda dell'occasione, pro viro, pro muliere e pro pluribus indifferenter, al cui novero si devono aggiungere la colletta in septimo riportata più avanti (e che, con una sola ovvia variazione testuale, vale pure per il trigesimo e per l'anniversario), e le altre collette pro fratribus et sororibus, pro benefactoribus et in oratione commistis, pro sepultis in cimiterio e una colletta generalis, che sono riportate dopo quella del settimo.
Il rito delle esequie si conclude qui, perché segue immediatamente il seppellimento del cadavere; nella commemorazione, secondo quanto riportato al capo apposito, si conclude con Requiescant in pace. Amen. Fidelium animae per misericordiam Dei requiescant in pace. Amen.
A Venezia
Il rito patriarchino aquilejese era un tempo esteso a tutto il territorio del Patriarcato, non esclusa la Venezia marittima; è però noto che in quest'ultima il rito subì evoluzioni e contaminazioni, anche con riti orientali come l'alessandrino e il bizantino (soprattutto nel calendario, come si può vedere dalle numerose commemorazioni di santi orientali o dell'Antico Testamento, ch'è prassi non occidentale (7)), producendo due forme rituali leggermente differenti, quella patriarchino-veneziana in uso alla Diocesi di Castello (poi Patriarcato di Venezia) e quella marciana in uso alla Basilica di San Marco.
Il Diglich (8) c'informa che, nonostante l'adozione generale del Messale Romano nel Patriarcato di Venezia, che soppiantò il messale patriarchino, il clero di Venezia continuò a osservare alcune peculiarità rituali dell'antico rito locale, che sopravvissero e vennero sempre conservate e impiegate. Una di queste erano le preci impiegate nel rito delle esequie dopo la messa da morto, in cui non cantasi il Libera me, bensì il Redemptor meus vivit (peraltro diverso da quello che si cantava al funerale secondo lo stesso uso veneziano, ch'era il Quomodo confitebor.
Di seguito il testo, come riportato dal Diglich e dal Cappelletti (9):
Redemptor meus vivit, et in novissimo die resurgam et renovabuntur denuo ossa mea: et in carne mea videbo Dominum meum. Lauda anima mea Dominum: laudabo Dominum in vita mea. Redemptor meus.
Il mio Redentore vive, e risorgerò nell'ultimo giorno, e si riformeranno di nuovo le mie ossa: e nella mia carne vedrò il mio Signore. Loda il Signore, anima mia: loderò il Signore nella mia vita. Il mio redentore...
Tale responsorio, pieno di speranza, potrebbe esser giunto nelle Venezie su influsso ambrosiano (il rito mediolanense lo prevede infatti nelle cerimonie d'assoluzione al tumulo) (10); uno stralcio è presente pure al mattutino dell'ufficio dei morti romano.
Secondo il Diglich, seguivano il triplice Kyrie eleison e cinque orazioni, di cui riporta solo le parole iniziali, di cui le ultime quattro erano precedute ciascuna da una delle seguenti antifone:
1. Haec requies mea in saeculum seculi, hic habitabo, quoniam elegi eam.
Questo è il mio riposo in eterno, qui abiterò, imperocché l'ho scelto.
2. Animam precamur, quam creasti, Domine, ut suscipi jubeas in regnum tuum, et in sinu Abrahae collocari facias, ut cum beato Lazaro portionem accipiat.
Ti preghiamo, o Signore, di ordinare che l'anima che hai creato sia accolta nel tuo regno, e che tu la faccia porre nel seno di Abramo, acciocché riceva la sua parte insieme al beato Lazzaro.
3. Spiritus tuus bonus deducet me in terram rectam: propter nomen tuum, Domine, vivificabis me in aequitate tua et educes de tribulatione animam meam.
Il tuo spirito buono mi conduce per terra sicura: a motivo del tuo nome, o Signore, mi darai vita nella tua giustizia e scamperai la mia anima dalla tribolazione.
4. Credo, Domine Deus, carnis resurrectionem et vitam aeternam: sed tantum deprecor tuam clementiam, ut non inter haedos, sed inter oves consortium merear.
Credo, o Signore Iddio, la risurrezione della carne e la vita eterna: ma solo supplico la tua clemenza, perché io meriti un posto non tra i capri, ma tra le pecore.
Infine, si diceva il salmo 129 De profundis, il versetto A porta inferi, l'orazione Absolve quaesumus e il Requiem aeternam, come del resto nel rituale romano.
__________________________________________
NOTE
(1) Vedasi per esempio QUI. Il testo di riferimento per le cerimonie descritte qui, come nell'articolo linkato, è Missale Romanum ex decreto Sacrosancti Concilii Tridentini restitutum S. Pii V Pontificis Maximi jussu editum aliorumque Pontificum cura recognitum a Papa Pio X reformatum et Benedicti XV auctoritate vulgatum, ed. VI juxta typicam Vaticanam, Turonibus, sumptibus et typis Mame, 1952
(2) Agenda Dioecesis Sanctae Ecclesiae Aquilegiensis, Venetiis, ex Bibliotheca Joannis Baptistae Somaschi, 1575, fol. 45-56
(3) cfr. Jacques Le Goff, La naissance du Purgatoire, Paris, Gallimard, 1981
(4) cfr. Breviarium Romanum ex decreto Sacrosancti Concilii Tridentini restitutum S. Pii V Pontificis Maximi jussu editum aliorumque pontificum cura recognitum Pii Papae X auctoritate vulgatum, ed. XXIV juxta typicam, Turonibus, sumptibus et typis Mame, 1939
(5) Missale Romanum, op. cit.
(6) A tale tono "ufficiale" si affiancava una gran copia di toni simpliciores o breviores, dalle melodie notevolmente semplificate per l'uso parrocchiale.
(7) L'ultimo calendario proprio del Patriarcato di Venezia, promulgato dal Patriarca La Fontaine, contiene memorie di santi orientali le cui reliquie sono nelle chiese della città (e.g. S. Giovanni l'Elemosinario, S. Cosma eremita, S. Ermolao ieromartire etc.), del secondo patriarca d'Alessandria S. Aniano, di S. Zaccaria padre di S. Giovanni Battista e altri. cfr. Proprium Missarum pro Venetiarum Patriarchatu, Venetiis, typis Aemilianis, 1916
I calendari precedenti prevedevano molte più memorie di santi di tal schiatta, compresi molti Patriarchi e i Profeti dell'Antico Testamento, S. Simeone il giusto e S. Lazzaro risuscitato, essendovi in città molte chiese dedicate (ma non solo per quello, come nel caso di S. Elia), cosa prettamente orientale e ignota all'Occidente. cfr. Giambattista Galliccioli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, Venezia, appresso Domenico Fracasso, 1795, tomo IV
Il calendario proprio della Basilica Marciana, come detto, ne annoverava altri ancora. cfr. Kalendarium ad usum cleri Sanctae Marcianae Basilicae Venetiarum servatis ordine coeremonialis atque immemorabili ejus consuetudine, Venetiis, Nardini, 1805, in 8.
(8) Giovanni Diglich, Rito veneto antico detto patriarchino, Venezia, nella tipografia di Vincenzo Rizzi, 1823.
(9) Giuseppe Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia dalla sua fondazione sino ai nostri giorni, Venezia, coi tipi del monastero armeno di S. Lazzaro, 1853
(10) Missale Ambrosianum juxta ritum Sanctae Ecclesiae Mediolanensis, Mediolani, Daverio, 1954
giovedì 1 novembre 2018
Una parrocchia ortodossa in Italia passa da Costantinopoli alla ROCOR
Tra i molti articoli che da un paio di mesi quotidianamente appaiono sui siti greci e soprattutto russi circa l'annoso scisma tra Costantinopoli e Mosca, suscitato dall'interventismo autoritario e anticanonico del Fanar sulla questione dell'autocefalia alla metropolia moscovita dell'Ucraina, decretato formalmente dal Santo Sinodo di Russia lo scorso 15 ottobre, stamane sul sito inglese del Patriarcato di Mosca orthochristian.com è comparso un articolo che descrive il primo effetto in Italia di tale storico e tragico evento (se si esclude qualche imbarazzo tra preti costantinopolitani e moscoviti in più o meno casuali incontri nei primi giorni dopo lo scisma).
Traduzione di Traditio Marciana.
La Chiesa Ortodossa della Natività di Cristo e di S. Nicola il Taumaturgo in Firenze, Italia, ha deciso di passare dalla giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli a quella della Chiesa Ortodossa Russa fuori dalla Russia (ROCOR), riporta l'Unione dei Giornalisti Ortodossi citando il sito francese Parlons d'Orthodoxie.
La chiesa iniziò a esser costruita nel 1899 per iniziativa dell'Arciprete Vladimir Levitskij e di immigrati di origini russe. E' stata sotto la giurisdizione dell'Arcidiocesi delle Chiese Ortodosse Russe in Europa Occidentale, sotto il Patriarcato Ecumenico, sin dal 1927.
Il trasferimento alla ROCOR è stato ufficializzato il 28 ottobre.
La decisione è stata presa dalla comunità in seguito alle azioni del Patriarcato di Costantinopoli circa la questione canonica in Ucraina.
"Dopo l'anticanonica decisione presa dal Patriarca Bartolomeo l'11 ottobre, abbiamo cessato di commemorarlo. Con questa decisione, il Patriarca Bartolomeo ha sottoposto a persecuzione la Chiesa Ortodossa (canonica, ndr) d'Ucraina, retta dal Metropolita Onofrio" dice il rettore della parrocchia, l'Arciprete George Blatinskij.
Secondo i parrocchiani, oltre 100 membri della comunità hanno tenuto una riunione generale, tenendo anche una votazione in cui hanno all'unanimità espresso il loro sostegno alla decisione di passare alla ROCOR. Sua Eminenza il Metropolita Ilarion dell'America Orientale e di Nuova York, il Protogerarca della ROCOR, è ora commemorato durante le funzioni alla Chiesa della Natività di Cristo e di S. Nicola.
Pure padre Mark Tyson, in precedenza della Diocesi Ortodossa Russo-Carpata del Nord America, che è sotto la giurisdizione di Costantinopoli, si è recentemente incardinato nella ROCOR a causa delle azioni del Patriarcato Ecumenico in Ucraina.
_________________________
Sabato 17 novembre, in occasione dell'onomastico di S.E. Gennadios, Metropolita Ortodosso d'Italia e di Malta (Patriarcato di Costantinopoli) il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I sarà in visita a Venezia, e celebrerà la Divina Liturgia. Qualche voce maligna sostiene che il generale stia passando in rassegna le truppe per assicurarsene la fedeltà... comunque questa prassi mi ricorda (tristemente) i "viaggi apostolici" (rectius, le passerelle papolatriche) diventati tanto di moda presso i Papi dal Concilio Vaticano II in poi...
Traduzione di Traditio Marciana.
La Chiesa Ortodossa della Natività di Cristo e di S. Nicola il Taumaturgo in Firenze, Italia, ha deciso di passare dalla giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli a quella della Chiesa Ortodossa Russa fuori dalla Russia (ROCOR), riporta l'Unione dei Giornalisti Ortodossi citando il sito francese Parlons d'Orthodoxie.
La chiesa iniziò a esser costruita nel 1899 per iniziativa dell'Arciprete Vladimir Levitskij e di immigrati di origini russe. E' stata sotto la giurisdizione dell'Arcidiocesi delle Chiese Ortodosse Russe in Europa Occidentale, sotto il Patriarcato Ecumenico, sin dal 1927.
Il trasferimento alla ROCOR è stato ufficializzato il 28 ottobre.
La decisione è stata presa dalla comunità in seguito alle azioni del Patriarcato di Costantinopoli circa la questione canonica in Ucraina.
"Dopo l'anticanonica decisione presa dal Patriarca Bartolomeo l'11 ottobre, abbiamo cessato di commemorarlo. Con questa decisione, il Patriarca Bartolomeo ha sottoposto a persecuzione la Chiesa Ortodossa (canonica, ndr) d'Ucraina, retta dal Metropolita Onofrio" dice il rettore della parrocchia, l'Arciprete George Blatinskij.
Secondo i parrocchiani, oltre 100 membri della comunità hanno tenuto una riunione generale, tenendo anche una votazione in cui hanno all'unanimità espresso il loro sostegno alla decisione di passare alla ROCOR. Sua Eminenza il Metropolita Ilarion dell'America Orientale e di Nuova York, il Protogerarca della ROCOR, è ora commemorato durante le funzioni alla Chiesa della Natività di Cristo e di S. Nicola.
Pure padre Mark Tyson, in precedenza della Diocesi Ortodossa Russo-Carpata del Nord America, che è sotto la giurisdizione di Costantinopoli, si è recentemente incardinato nella ROCOR a causa delle azioni del Patriarcato Ecumenico in Ucraina.
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Sabato 17 novembre, in occasione dell'onomastico di S.E. Gennadios, Metropolita Ortodosso d'Italia e di Malta (Patriarcato di Costantinopoli) il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I sarà in visita a Venezia, e celebrerà la Divina Liturgia. Qualche voce maligna sostiene che il generale stia passando in rassegna le truppe per assicurarsene la fedeltà... comunque questa prassi mi ricorda (tristemente) i "viaggi apostolici" (rectius, le passerelle papolatriche) diventati tanto di moda presso i Papi dal Concilio Vaticano II in poi...