Nel calendario proprio del Patriarcato delle Venezie, il giorno 31 gennaio viene commemorata, col grado di doppio maggiore, la festa della Traslazione in Venezia delle Reliquie del Santo Evangelista Marco, Patrono Principale della Città, del Patriarcato, nonché della Repubblica.
Il corpo del santo evangelista fu conservato e venerato a lungo ad Alessandria. Oltre la testimonianza di Palladio abbiamo quella degli Atti di san Pietro, vescovo di quella città nel quarto secolo, (la stesura però di questa “passio” è molto posteriore) che ci dicono come nella località del martirio di san Marco, a Bucoli, c’era una chiesa costruita nel 310, appena i cristiani poterono costruirne una all’aperto, e un cimitero che prendeva il nome del santo. Il corpo di San Marco era molto probabilmente ancora lì, custodito in una bella tomba di marmo, in una chiesa situata presso il porto all’entrata della città quando nel secolo ottavo essa cadde in mano degli Arabi.
Il monaco franco Bernardo però che verso la fine del secolo nono compie il suo pellegrinaggio in terra santa ci assicura (il manoscritto che abbiamo è abbastanza tardo ma sembra doversi ricondurre ad una fonte più antica) che il corpo dell’evangelista non si trovava più in Egitto ma era stato trasportato a Venezia. Queste le voci che il monaco raccoglie sul posto e che confermerebbero la tradizione.
Secondo questa infatti nel 828 dieci navi veneziane spinte dal vento contro la volontà dei loro marinai, “navigantes velut inviti” avrebbero approdato ad Alessandria d’Egitto contravvenendo ai decreti dell’imperatore bizantino Leone V l’Armeno (813-820), confermati dal duca veneziano Giustiniano Partecipazio, che proibivano il commercio con gli arabi; contravvenzione però avvenuta “Deo volente … divino nutu”, tiene a ripetere l’estensore del racconto. Tra gli occupanti di quelle navi, che tra l’altro da buoni mercanti avevano approfittato di quella sosta forzata per fare affari, si trovavano i tribuni Buono da Malamocco e Rustico da Torcello. Costoro oltre che buoni mercanti erano anche uomini pii e ogni giorno si recavano nella chiesa dove era sepolto il corpo di san Marco, vicino al porto, per venerarlo. Entrarono così in amicizia con i custodi del tempio e soprattutto col monaco Staurazio e il prete Teodoro, quest’ultimo secondo il costume orientale, sposato. Data l’usanza instaurata dal califfo abasside Mamum di spogliare le chiese cristiane per costruire delle moschee e la paura che regnava tra i cristiani di vedere distruggere i luoghi di culto e profanare le preziose reliquie, i due veneziani propongono ai due alessandrini di trafugare il corpo dell’evangelista. E’ vero, essi rispondono alle obiezioni di quest’ultimi, che il santo ha evangelizzato Alessandria e sarebbe giusto che vi restasse il suo corpo, ma prima ancora ha evangelizzato Aquileia e la regione veneta “unde nos sumus primogeniti filii eius” (e noi siamo i suoi figli primogeniti), per cui non si tratterebbe che di un ritorno “nos Dominus hic velut invitos adduxit ut nobis eundem nostrum sanctissimum patrem restituat” e poi ci sarà anche una buona ricompensa per voi da parte del duca veneziano.
Staurazio e Teodoro da principio non cedono ma poi, anche perché il pericolo di profanazione diventa sempre più prossimo ed uno degli altri custodi del tempio è già stato arrestato, acconsentono ai desideri di Buono e di Rustico. Il corpo dell’evangelista viene imbarcato sotto gli occhi degli arabi con uno stratagemma: la cesta che lo contiene viene riempita di foglie di cavoli e di altri ortaggi e di carne porcina alla cui vista essi si mettono a gridare “Kinzir, Kinzir” (maiale, maiale) e si allontanano sputando. Forse tale sistema viene adoperato per ingannare non solo i mussulmani ma anche i cristiani alessandrini, attaccati al loro santo patrono e una frase del racconto potrebbe farcelo sospettare. Incomincia così il viaggio di ritorno e la leggenda fiorisce a questo punto di miracoli. Al passaggio delle sacre spoglie si sparge attorno un insistente profumo; la nave di Buono e Rustico va a piantarsi velocemente sul fianco di un’altra i cui occupanti li deridevano dicendo che era stata data loro una mummia e non il corpo del santo e non si stacca finché questi ultimi non riconoscono la verità; il salvataggio nella tempesta; gli isolani che vanno incontro alla nave, prodigiosamente avvertiti del trasporto; il demonio che si impossessa del negatore più ostinato. Arrivano finalmente in Istria, ad Umago e si fermano incerti sul da farsi. Mandano allora a Giustiniano Partecipazio un’ambasceria per dargli il lieto annuncio e farsi perdonare la trasgressione dei suoi ordini. Il duca accoglie con gioia la notizia e si prepara con il vescovo Orso e il popolo a ricevere “talem thesaurum”. E la preziosa reliquia arriva a Rivo Alto. Le autorità religiose e civili gli si fanno processionalmente incontro e altri miracoli segnano il suo trasporto. Mentre ci si avvia per la scala che porta al palazzo ducale non c’è neppure il più tenue soffiar di vento, ma il manto che copre il corpo santo si agita come se fosse mosso da una impetuosa e misteriosa forza e i portatori, cui prima il corpo pesava moltissimo, non fanno più nessuna fatica. Lo si depone in una stanza vicina la palazzo in attesa di costruirvi la chiesa. Morto nel 829 Giustiniano, secondo quanto egli stesso dispone nel suo testamento viene eretto dal fratello Giovanni “infra territorio sancti Zachariae”, una basilica “elegantissimae formae, ad eam similitudinem, quam supra domuni tumulum Hierosolimis viderat” cioè a pianta centrale e vi si depone “honore dignissimo venerabillimum corpus”.
I valori religiosi e civili nel culto di san Marco si potenziano a vicenda e si fondono in una infrangibile unità, destinata a durare nei secoli. L’evangelista diventa il simbolo della patria, le monete e le bandiere si fregeranno del leone alato, la basilica marciana diventerà tempio e arengo. “Viva San Marco!”; con questo grido i veneziani saluteranno le loro vittorie e si rinfrancheranno dopo le loro sconfitte. (1)
Fino alla caduta della Repubblica, la festa era solennemente celebrata nella Basilica Ducale: il Primicerio cantava solennemente il Pontificale alla presenza di tutto il Capitolo, e il Doge vi assisteva insieme a tutta la Signoria. Ancora con una certa solennità il Patriarca, trasferitosi nella Basilica dopo l'imperiosa riorganizzazione napoleonica del territorio ecclesiastico veneziano occorsa nel 1806, celebrava la festa del 31 gennaio sino al 1965, quand'essa venne abolita nell'uso riformato.
Il Calendario proprio delle Venezie prevede per questa festa la Messa "Mihi autem nimis" dal Comune degli Evangelisti, con le orazioni proprie. Propria è anche la lettura evangelica, ch'è una pericope dal capitolo XVI del Vangelo secondo S. Marco; tale Vangelo, che tiene luogo del brano di S. Luca previsto nel Comune, si legge secondo la consuetudine veneziana anche nelle altre due feste del Santo Evangelista. Si commemora S. Giovanni Bosco, che ricorrerebbe in tal giorno nel Calendario Universale.
L'Ufficio è preso parimenti dal Comune degli Evangelisti, con orazione e antifone proprie al Magnificat di ambo i Vesperi e al Benedictus. Nel II notturno del Mattutino si leggono due letture agiografiche, più un brano dal 2° sermone su S. Marco di S. Pier Damiani; i responsori sono propri. Nel III notturno si legge il Vangelo della Messa e stralci dell'omelia 29 di S. Gregorio Magno, sicché vii e viii lettura sono identiche alle rispettive della festa del 25 aprile nel medesimo Proprio veneziano degli Uffici. I responsori del III notturno nella festa del 31 gennaio, tuttavia, sono quelli del Comune degli Evangelisti, perché quelli propri impiegati il 25 aprile hanno un carattere troppo marcatamente pasquale. Si commemora S. Giovanni Bosco al I Vespero, alle Laudi e al II Vespero, nonché se ne legge l'agiografia breve come ix lettura del Mattutino; inoltre naturalmente si commemora S. Martina al I Vespero e S. Ignazio al II Vespero.
(1) La storia della traslazione è tratta da:
A. NIERO, Culto dei Santi a Venezia, Venezia, Studium Cattolico Veneziano, 1965.
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mercoledì 30 gennaio 2019
giovedì 24 gennaio 2019
Note storico-liturgiche sulla festa della Conversione di San Paolo
Parmigianino, Conversione di S. Paolo, 1527 |
a) La traslazione del sacro Corpo dell'Apostolo dal nascondiglio ad catacumbas sull'Appia alla sua primitiva tomba sulla via Ostiense, dopo che Gallieno ebbe tolta la confisca dei cimiteri cristiani;
b) la riedificazione della sua basilica sepolcrale sulla via Ostiense, incominciata da Teodosio, proseguita da Valeutiniano ed Onorio, e inalmente condotta a termine da san Leone I;
c) una traslazione occasionale della sua statio natalizia per qualche impedimento occorso, alla stessa maniera che un anno i Romani, essendo assente Leone I, differirono di celebrare la festa di san Pietro e san Paolo sino al ritorno del papa;
d) finalmente, e ciò è più probabile, una qualche traslazione nelle Gallie dei veli applicati alla tomba di san Paolo e della limatura delle sue catene. Anche questi oggetti di devozione erano detti impropriamente Reliquie, e deposti negli altari sotto il titolo di translatio, la memoria di questa deposizione veniva inserita persino nei martirologi locali. In grazia d'una specie di fictio iuris queste Reliquie costituivano come un annesso, un' estensione dello stesso sepolcro dell'Apostolo in Roma. L'indicazione «Romae» sarebbe sdrucciolata nel Latercolo per ignoranza dell'amanuense che, leggendo una «translatio sancii Pauli» invece di riferirla ad una qualche chiesa di Autun, di Arles, ecc., ha pensato che questa non poteva convenire che a Roma.
Questa festa invernale di san Paolo, sia o no d'origine romana, nelle Gallie si trovò riavvicinata a quella della cattedra di san Pietro ; e ciò in un tempo quando Roma non le celebrava punto, se pure
la sede apostolica aveva mai celebrato la translatio di san Paolo. A poco a poco tuttavia l'orientazione storica si spostò, e al concetto d'una traslazione materiale delle Reliquie di san Paolo, sostituitosi quello d' una traslazione o mutamento psicologico e spirituale avvenuto nello stesso Apostolo sulla via di Damasco, dalla translatio fisica si passò cosi alla mistica Conversio del medesimo. La festa della Conversione di san Paolo è notata in questo giorno nel latercolo Bernese del Martirologio Geronimiano: Translatio et conversio sancti Pauli in Damasco. Nell'Ordo di Pietro Amelio del secolo XIV, a questa solennità è attribuita la precedenza persino sull'ufficio domenicale.
Nella basilica Patriarcale di san Paolo, in questo giorno si tiene stazione solennissima, ed in assenza del Sommo Pontefice, per antica tradizione gli abbati di quel sacratissimo cenobio che ha dato alla Chiesa san Gregorio VII, celebrano in rito pontificale il divin Sacrificio sullo stesso altare papale che ricopre anche oggi la cella funeraria dell'Apostolo.
***
L'introito è quello della stazione natalizia di san Paolo il 30 giugno, ed esprime la certezza dell'Apostolo che Iddio, giusto estimatore del merito, gli darà il premio delle sue fatiche. A spiegar
meglio a Timoteo questo concetto, san Paolo, ormai prossimo al martirio, si vale d'
una graziosa immagine. Le sue opere buone sono come un deposito che egli commette a Dio, perché glielo custodisca sino al giorno della parusia. L' Apostolo ha tutta la sua fiducia nel Signore, cui dice di ben conoscere. Chi affida i suoi tesori agli scrigni o li cela sotterra, si espone al pericolo di vederseli depredati dai ladri, o rosi dalla tignola. Dio invece è giusto ed immutabile, ed Egli nel gran giorno del giudizio, il giorno per eccellenza, giusta il dire di san Paolo, renderà il deposito insieme col meritato premio. La melodia gregoriana che riveste quest'introito, sembra sia stata creata dall' artista appositamente per la stazione natalizia nell 'ampia basilica di san Paolo. Essa è solenne e d'un efetto insuperabile. «So a chi ho affidato, e sono certo che egli, giusto giudice, ben saprà conservare per quel giorno il mio deposito » (II Timot. I, 12).
La prima preghiera è quasi identica a quella riportata più sopra il 18 gennaio. «Dio, che per mezzo della predicazione del beato apostolo Paolo ammaestrasti tutto l'universo, oggi che noi celebriamo la sua conversione, ci concedi, che imitando i di lui esempi, a te ne veniamo».
Si aggiunge la commemorazione di san Pietro, come il 18 gennaio [si era aggiunta quella di San Paolo alla messa della Cattedra di S. Pietro, ndr].
Segue la lezione degli Atti degli Apostoli, col racconto della conversione di Paolo. In essa il trionfo della grazia non poteva essere più splendido. Paolo in Gerusalemme era il più formidabile nemico della Chiesa nascente; tuttavia Gesù, non soltanto riduce al nulla i suoi piani, ma fa si che l'avversario di ieri divenga l'apostolo del dimani e il dottore della verità nel mondo universo. Senza detrarre in nulla al merito dei dodici Apostoli, Paolo tuttavia diverrà l'Apostolo, perché prima era stato l'avversario più formidabile. Egli quindi dovrà trarre il cocchio trionfale del Cristo più innanzi che
tutti gli altri, dall'Arabia sino alle colonne d'Ercole ; tanto che poi sotto l' ispirazione del Paraclito potrà scrivere ad edificazione delle chiese: plus omnibus laboravi. Quest'apostolato universale di Paolo era fatto rilevare in un distico, che gli antichi collettori d'epigrafi romane già trascrissero sul sepolcro del grande Apostolo:
HIC . POSITVS . CARLI . TRANSCENDIT . CVLMINA . PAVLVS
CVI . DEBET . TOTVS . QVOD CHRISTO . CREDIDIT . ORBIS
Vivo nel più alto ilei cieli Paolo qui sepolto,
A cui l'intero mondo è debitore d'aver creduto a Cristo.
La tarda composizione di questa messa si rivela subito dal graduale e dal tratto. Il redattore sembra che abbia perduto di vista l'originario carattere salmodico che avevano già nell'ufficio delle sinagoghe, ed ha infilato alla meglio alcuni versetti delle epistole di san Paolo, assai belli e scelti con abbastanza buon gusto, ma fuori di luogo. Vi supplisce fortunatamente la melodia, che è piena di passione e di classica eleganza.
Galat. II, 8: «Quegli che operò per mezzo di Pietro nell'aposto- lato dei circoncisi, operò in me tra i gentili; e riconobbero la grazia che Dio m'aveva dato. La grazia di Dio in me non fu sterile, ma
la sua grazia sempre mi assiste».
«Alleluja. Grande è Paolo santo, prescelto ricettacolo (della grazia), veramente degno d'essere glorificato, il quale anche meritò di possedere il duodecimo trono. Alleluja.»
Dopo la settuagesima. omesso il verso alleluiatico, si canta il tratto seguente : «V. Tu, o santo apostolo Paolo, sei un recettacolo eletto (della divina grazia), e veramente sei degno d' essere gloriicato, V. Predicatore della verità e Dottore dei gentili nella fede e nel vero. V. Per te tutti i popoli hanno conosciuto la divina grazia, V. Intercedi per noi presso Dio, che ti ha prescelto ». È questa la più bella grazia concessa dall'Apostolo, che cioè, non soltanto egli ha recato il nome di Gesù innanzi ai re e ai popoli delle più diverse nazioni durante la sua vita, ma anche dopo la morte continua il suo ministero evangelico per mezzo delle sue divine lettere, che la sacra liturgia non omette mai di recitare nel Santo Ufficio e nella Messa.
Il Vangelo è quello delle messe per gli abbati, come il giorno 5 dicembre, e si adatta assai bene all' Apostolo, il quale nella sua conversione, non solo rinunziò alle cose sue e alla famiglia, ma per guadagnare Gesù Cristo, abdicò anche ai vantaggi che la sua con dizione d'Israelita della tribù di Beniamino e di discepolo di Rabbi Gamaliel potevano procacciargli in seno alla comunità giudaica Tutte queste cose, dice l'Apostolo, quae mihi fuerunt lucra, haec arbitratus sum... ut stercora, ut Christum lucrifaciam (Philipp, III, 7-8)
L'antifona per l'offerta, è come il dì di sant'Andrea, il 30 novembre. Le preghiere prima dell'anafora eucaristica e dopo la Comunione, sono identiche a quelle riferite il 18 gennaio; il prefazio è quello consueto per gli apostoli. Il versicolo per la Comunione del popolo, è tratto dall' odierno Vangelo: «Io vi assicuro, che voi che avete lasciato tutto per seguirmi, riceverete cento volte tanto e la vita eterna». La povertà che, ad imitazione degli Apostoli, professano con voto i religiosi, è un atto perenne di lode al la divina Provvidenza, cui essi si affidano. La storia di circa venti secoli sta lì a dimostrare, che Dio da parte sua non è venuto mai meno alle loro speranze. E appunto quanto già assicurava il Salmista, facendo appello alla propria esperienza: Iunior fui etenim senui, et non vidi iustum derelictum, nec semen eius quaerens panem. (Psalm. XXXVI, 26.)
Questa festa della conversione di san Paolo altre volte nella liturgia medievale era assai solenne. Il Papa stesso si recava a celebrare la messa stazionale sulla tomba dell'Apostolo; consuetudine di cui è rimasta una traccia nella liturgia. Mentre nelle altre basiliche patriarcali di Roma il Papa ordinariamente non concede punto il permesso che i rispettivi cardinali arcipreti celebrino la messa sull'altare papale, si fa un'eccezione per san Paolo, e ciascun anno in questo giorno l'abbate di quel monastero gode del papal privilegio di celebrare la messa pontificale sull'altare che ricopre la tomba dell'Apostolo. Il motivo di tanta importanza attribuita dalla liturgia alla conversione di san Paolo sulla via di Damasco, va ricercato nell'efficacia apologetica che emerge da tale improvvisa mutazione; cosi che dopo il miracolo della risurrezione di Cristo, nessun altro prodigio della storia della Chiesa primitiva, tenuto conto di tutte le circostanze, dimostra meglio la divinità del Cristianesimo, quanto questo della conversione di Saulo.
Papa Damaso ha celebrato questo prodigio coi versi seguenti:
Jamdudum Saulus, procerum praecepta secutus,
Cum Domino patrias vellet praeponere leges,
Abnueret sanctos Christum laudasse prophetas,
Caedibus adsiduis cuperet discerpere plebem,
Cum lacerat sanctae matris pia foedera coecus,
Post tenebras verum meruit cognoscere lumen,
Temptatus sensit possit quid gloria Christi.
Auribus ut Domini vocem lucemque recepii,
Composuit mores Christi praecepta secutus.
Mutato placuit postquam de nomine Paulus,
Mira fides rerum; subito trans aethera vectus,
Nascere promeruit possent quid praemia vitae.
Conscendit raptus martyr penetralia Christi,
Tertia lux caeli tenuit paradisus euntem;
Conloquiis Domini fruitur, secreta reservat,
Gentibus ac populis iussus praedicere vera,
Profundum penetrare maris noctcemque diemque
Visere, cui magnum satis est vixisse latentem.
Verbera, vincla, famem, lapides, rabiemque ferarum,
Carceris inluviem, virgas, tormenta, catenas,
Naufragium, lachrymas, serpentis dira venena,
Stigmata non timuit portare in corpore Christi.
Credentes docuit possent quo vincere mortem.
Dignus amore Dei, vivit per saecla magister,
Versibus his breviter, fateor, sanctissime Doctor
Paule, tuos, Damasus, volui, monstrare triumphos.
Già da gran tempo Saulo andava appresso alle massime dei Seniori,
E alle divine leggi preponeva quello della sua nazione,
Rifiutandosi di riconoscere che i Profeti
avevano reso omaggio al Cristo.
Mentre egli con insaziabile crudeltà agognava a sbranare il gregge,
Ed attendeva ciecamente a dilaniare l'unità della Madre Chiesa,
Dopo le tenebre, meritò di conoscere la vera luce,
E seppe a prova quanto fosse più potente di lui la gloria del Cristo.
Non appena però egli ascoltò la voce del Signore e riacquistò la vista,
Docile ai precetti di Cristo, riformò la propria vita.
Cambiò quindi il proprio nome in quello di Paolo,
E, mirabile a dirsi, ratto tosto in estasi al più alto dei cieli,
Potè pregustare quanto fosse immenso il premio dell'eterna vita.
Il futuro Martire penetra nei penetrali di Cristo,
E nella sua ascensione al paradiso giunge sino al terzo cielo,
Entra in colloquio col Signore, ma ne serba il secreto.
Iddio gli ordina d'annunziare la verità ai Gentili ed alle nazioni,
Di penetrare il profondo del mare e di trascorrervi una notte ed un giorno,
Egli al quale già sarebbe bastato di aver vissuto in quella profonda solitudine.
Egli le percosse, le catene, la fame, le sassate, la rabbia delle fiere,
Lo squallore del carcere, le verghe, le torture, i ceppi,
Il naufragio, le lacrime, il tremendo veleno del serpe,
Le stigmate di Cristo non temè di portare impresse sulle sue membra.
Egli insegnò ai fedeli in che modo potessero vincere la morte.
Degno dell'amore di Dio, maestro insuperato, vive attraverso i secoli.
In questi brevi versi, tel dichiaro, o Dottore santissimo
Paolo, io Damaso ho voluto indicare i tuoi trionfi.
Card. A. I. SCHUSTER OSB, Liber Sacramentorum, volume VI, pagg. 187-189
giovedì 17 gennaio 2019
Cristianesimo e coerenza
San Silvano l'Atonita (1866-1938), un esempio mirabile e ideale del Cristiano veramente coerente. |
Ritengo pertanto assai utile pubblicare qui le riflessioni che ho fatto avere al mio lettore.
L'articolo in questione, come molti altri apparsi sui quotidiani nazionali più o meno schierati, fornisce uno spunto sicuramente interessante sotto alcuni punti. Direi che possiamo enucleare (e commentare) tre tematiche fondamentali dell'articolo, come del resto del discorso del Papa: se sia meglio essere atei piuttosto che ipocriti; se effettivamente i Cristiani manchino di coerenza; in cosa consista detta coerenza.
1. Se sia meglio essere atei piuttosto che ipocriti.
La risposta a questo quesito è molto semplice, ed è NO.
E non è certo necessario andare a scartabellare volumi di teologia per giungere a questa semplice conclusione: una volta liberatici dal pregiudizio inclusivista conciliare "siamo tutti figli di Dio" (il quale altro non è che la trasposizione "clericale" del principio social-rivoluzionario "siamo tutti uguali"), non possiamo non riconoscere con tutti i Padri che l'essere figli di Dio è una qualifica che viene data attraverso il Battesimo, e dunque solo i Cristiani sono figli di Dio. Infatti, l'unico figlio di Dio è Gesù Cristo; noi diventiamo figli di Dio per adozione in Gesù Cristo, tramite la grazia deificante, che riceviamo per la prima volta nel Battesimo. Senza grazia deificante, cioè senza quella grazia che ci permette di mirare a essere simili in tutto a Nostro Signore nonostante la condizione corrotta dal peccato originale, non si è figli, ma semplicemente creature di Dio, in modo non dissimile da un animale o da un sasso. I pagani, come dice San Paolo, inexcusabiles sunt (Rm 1,21), perché, per quante opere buone possano fare, non adempiono allo scopo principale per cui la Bontà del Creatore ci ha creati, ovverosia per glorificarlo e lodarlo. L' "ateo buono" (così come il musulmano o il protestante buono) non si salverà certo perché ateo; tutt'al più, in virtù delle buone opere compiute, la misericordia di Dio manderà un Angelo o un altro suo "emissario" che lo convertirà (e gli farà conseguire almeno un Battesimo di desiderio) prima della morte, dimodoché questi pur si salverà, ma non in modo immediato, sibbene mediato, ossia attraverso il Battesimo e la fede in Cristo, ch'è la condizione necessaria e inderogabile alla nostra salvezza (così S. Tommaso d'Aquino).
2. Se effettivamente i Cristiani manchino di coerenza.
La risposta è chiaramente SI', e questa è secondo me la parte più importante del discorso.
La quasi totalità dei Cristiani non vive in maniera coerente con il Vangelo e con la legge divina; laddove questa coerenza non implica unicamente l'osservanza dei precetti negativi (non uccidere, non rubare, non commettere atti impuri etc.), ma pure di quelli positivi (vide infra). La condizione decaduta dell'uomo comporta necessariamente una tendenza al peccato attuale, e -anche senza impiegare l'agostiniano "non è possibile non peccare"- è in un certo senso "comprensibile" che chiunque pecchi, e per tal motivo Iddio istituì il Sacramento della penitenza; tuttavia, a meno di non scadere nel calvinismo (che con la dottrina della grazia irresistibile sostiene che la possibilità per l'uomo di peccare o non peccare, e di conseguenza di salvarsi, sia da deputare unicamente alla grazia e alla prescienza di Dio, che l'uomo non può in alcun modo modificare), nel Cristianesimo autentico sappiamo che l'uomo è tenuto a cooperare, ad agire in sinergia con la grazia, cioè a favorire con le opere e con la propria vita l'azione della grazia, in modo da giungere veramente alla santificazione e ancor più alla deificazione, cioè a essere simile a Nostro Signore. Per mia personale esperienza, tuttavia, confermo che ben pochi Cristiani sono coerenti sotto questo aspetto, e non lo sono nemmeno molti tradizionalisti, che si beano di vivere una vita di battaglia, alimentata sovente dal sospetto, dall'odio e dalla maldicenza, nella difesa ideologica di un modello ecclesiastico che spesso non è nemmeno quello autentico del Cristianesimo antico, ma semplicemente quello post-tridentino o peggio del XX secolo, inconsapevoli o forse sprezzanti del fatto che vivere intrinsecamente il Cristianesimo è molto più di questo (denuo vide infra). Del resto, ho già avuto modo di notare e far notare che la coerenza non è virtù del tradizionalista, parlando di chi segue pedissequamente [o quasi] le rubriche del '62...
3. In cosa consista la sopraddetta coerenza
(cioè, quali sono i precetti positivi che il Cristiano deve osservare)
Il ragionamento modernista-laicista cade però completamente quando andiamo a toccare questo punto, ovverosia quali aspetti, quali precetti positivi il Cristiano sia tenuto a osservare per potersi coerentemente dir degno di questo nome. Il problema fondamentale è che questi non hanno capito cosa sia il Cristianesimo, che è prevalentemente una religione soprannaturale, e non una religione naturale!
Come tale, il Cristianesimo riguarda principalmente gli aspetti spirituali dell'uomo, la sua condizione interiore, e la sua eternità; solo secondariamente (e per discendenza dagli aspetti primari) riguarda la questione sociale.
Quando un laicista qualsiasi (mi è capitato più volte di sentirli pontificare nei talk-show televisivi) afferma che "chi vuole vivere in modo integrale la propria fede cristiana non può accordare a certi atteggiamenti [quelli di Salvini nei confronti degl'immigrati, ndr]", questi non ha capito nulla del Cristianesimo! Il Cristiano è tenuto a curare la santificazione della propria anima nella liturgia, è tenuto a praticare l'orazione sino a giungere alle vette della contemplazione e dell'orazione incessante; è Cristiano integrale quegli che si ritira negli eremi e nei monasteri per recitare senza sosta la Preghiera del Cuore. Solo infatti chi vive in accordo a questi precetti SPIRITUALI può veramente essere trasfigurato dalla grazia, e ritornare più prossimo possibile alla condizione di luce e immacolatezza dei protogenitori prima della caduta. Le azioni sociali eticamente cristiane (partiamo dall'evangelico "amare il proprio nemico", ma potrebbe essere anche l'accogliere o qualunque altra cosa) sono effetto dalle azioni spirituali: lo starets Amvrosij di Optina diceva che l'uomo spirituale non può odiare nessuno, ma solo amare, anche coloro che lo perseguitano o lo odiano, perché la sua anima nella grazia è completamente trasfigurata a immagine dell'amore infinito di Dio.
Se si tornasse a spiegare questi concetti, cioè ad affermare la superiorità e la centralità dello Spirito, non ci sarebbe più alcun appiglio per il modernismo e il "cristianesimo" liberal. Verbigrazia, san Francesco d'Assisi non potrebbe essere additato come modello ecologista, perché l'ecologismo stesso non avrebbe senso: il Serafico Padre, come san Paisios dell'Athos e molti altri santi vivevano in un così stretto contatto con la natura e le creature di Dio, tanto che le creature arrivavano ad obbedire loro (si vedano in proposito il miracolo degli uccelli e quello del lupo di Gubbio di S. Francesco, o il miracolo della lucertola di S. Paisios), perché la loro anima era a tal punto santificata nella grazia ch'essi rivivevano la condizione precedente alla caduta, in cui gli animali obbedivano all'uomo ed egli imponeva loro i nomi e viveva con loro in armonia (cfr. Genesi 2,20).
Purtroppo il modernismo può diffondersi laddove (anche nel cattolicesimo preconciliare) c'è un'impostazione religiosa troppo naturalistica e fondata su aspetti legalistici e sociali che va a oscurare l'importanza precipua dello Spirito. In tal senso, la "dottrina sociale della Chiesa" di Pio XI, che va ad amplificare il modello avuto nella Rerum Novarum di Leone XIII, è estremamente pericolosa per via della centralità che dà al ruolo sociale della Religione (il quale indubbiamente può esserci ma non è una sua qualità primaria e necessaria), imperocché vi è il rischio concreto ed effettivo (tangibilmente riscontrabile negli attuali sostenitori della dottrina sociale "tradizionalista") di mettere questi aspetti al primo posto, tralasciando o banalizzando lo spirituale.
sabato 12 gennaio 2019
L' "icona" eterodossa della Sacra Famiglia
Quest'oggi, per una singolare concorrenza di date, il calendario romano tradizionale prevede la celebrazione anticipata in sabato della domenica fra l'Ottava dell'Epifania, per lasciar posto l'indomani (13 gennaio) alla celebrazione dell'Ottava della Festa, con il suo importantissimo Vangelo in cui si fa memoria del Battesimo del Nostro Salvatore. Dal 1891 in molti calendari locali, e dal 1920 nel calendario universale, la domenica fra l'Ottava dell'Epifania viene occupata dalla festa della Sacra Famiglia di Nostro Signore Gesù Cristo, la Sua Madre Santissima la Vergine Maria e di San Giuseppe di lei castissimo sposo.
Questa ricorrenza ha origine nella devozione popolare occidentale del secolo XVII, non estranea a un certo qual sentimentalismo, diffondendosi poi nell'arte religiosa e arrivando infine a contaminare pure la liturgia. Dico contaminare perché il devozionismo è un fenomeno che rispecchia una sensibilità popolare, semplice, sovente mutevole rispetto ai tempi, influenzata da molti fattori anche non religiosi, spesso contagiata da sentimentalismo e psicologismo; un fenomeno di per sé non condannabile, ma che deve restare nettamente distinto dalla Liturgia, che è invece patrimonio intangibile e immutabile della Chiesa, il cui spirito rimonta direttamente agli Apostoli e ai Padri, in quanto custodia ed espressione mistica dell'ortodossia, icona terrena della divina liturgia celeste delle schiere angeliche. Purtroppo, quando questa distinzione non viene osservata, com'è stato nel caso della Sacra Famiglia (non escludendosi in detto caso nemmeno una motivazione politica, ossia quella di proporre un modello consacrato di famiglia tradizionale, come argine alle deviazioni libertine che già in quel fine di secolo XIX andavano diffendendosi; scelta a mio dire assai poco azzeccata, in quanto la Sacra Famiglia non è certo un modello normale di famiglia...), il risultato è un qualcosa che stride nettamente con l'armonia della liturgia dei Padri. Il Gromier lamentò apertamente che feste come la Sacra Famiglia o il Cristo Re risultano anomale e "fuori tono" nel contesto generale del Calendario Romano, non commemorando né un mistero di Nostro Signore o della Santa Vergine, né un santo particolare, ma esprimendo semplicemente un concetto devozionale.
Il prevalere infausto della devozione sulla liturgia diventa palese nel calendario riformato del 1962: quest'anno, difatti, coloro che seguono le rubriche di Giovanni XXIII si troveranno a celebrare la Sacra Famiglia domani, sopprimendo del tutto (senza nemmeno commemorazione dunque) il Battesimo di Nostro Signore (così è stato ribattezzato il giorno ottavo dell'Epifania, dopo la soppressione infelice dell'antichissima Ottava, per preservare almeno il Vangelo proprio e una commemorazione che ha circa quattordici secoli di storia, sicuramente più di quanti ne abbia la Sacra Famiglia!). Nel rito moderno, infine, pur spostata dal contesto della non più esistente Ottava dell'Epifania, la festa devozionista resta comunque in posizione prevalente, andando a sopprimere la domenica fra l'Ottava del Natale.
In tale occasione, vorrei approfittarne per fare (rectius, riportare) una breve riflessione sull'iconografia della Sacra Famiglia, approfittando per dare qualche nozione della profonda differenza esistente tra arte sacra (l'iconografia tradizionale bizantina, e in un certo senso la pittura occidentale almeno sino al XIV secolo) e arte religiosa (la produzione occidentale dal 1400 in poi, la pittura russa a soggetto religioso dall'Ottocento...). Circola infatti, soprattutto in ambienti cattolici romani, ma anche purtroppo tra gli ortodossi, un' "icona" della Sacra Famiglia (vedasi immagine sopra), la quale nondimeno è assolutamente tacciabile d'eresia se non di blasfemia.
Procedendo con ordine, per spiegare quest'affermazione indubbiamente forte, partiamo dalla predetta distinzione:
- L'arte sacra, detta anche iconografia, è principalmente un mezzo di preghiera: essa, poiché ha un significato mistico e soprattutto teologico (l'i. è infatti uno dei canali precipui attraverso i quali è esprimibile la dottrina ortodossa), deve seguire dei canoni ben precisi e stabiliti sin dall'età patristica, e in essa ogni minimo dettaglio, dai gesti ai colori, ha un profondo e inconfondibile significato allegorico. Nell'iconografia i volti sono inespressivi e gli sfondi aurei e irrealistici, perché non c'è spazio per l'emozione sensibile o la comprensione razionale in quella ch'è espressione visibile del sacro e dello spirituale; nell'iconografia l'autore e le sue idee non hanno importanza (tant'è che sarebbe vietato persino firmare le icone), in quanto non è la mano dell'uomo che deve rimanere, ma l'opera della grazia di Dio e la fede della Chiesa iconizzate.
- L'arte religiosa è invece un tipo di arte nobile (con arte nobile s'intendono anche i temi epici e storici, contrapposti per esempio alle scene di vita quotidiana che fino all'Ottocento erano considerate naturalmente meno dignitose), i cui soggetti sono ispirati alla Religione, alle vite dei santi o alla Sacra Scrittura, ma vengono rappresentati con una certa libertà nelle forme e nel contenuto, rispecchiando la volontà del committente piuttosto che il personale gusto dell'artista, con l'inserimento di elementi alloctoni, dettagli raffinati, paesaggi ricercati, espressioni evidenti, realismo nella figurazione, e insomma una serie di elementi di contorno che rendono il prodotto realistico, estetico, ma certo non teologico. La distinzione in fondo è che l'iconografia è un'opera di Religione, mentre l'arte religiosa è un'opera di gusto artistico. L'icona ha un fine teologico ed eucologico; il quadro religioso ha un fine puramente decorativo.
Purtroppo, in Occidente la svolta razionalistica e psicologistica del XV secolo non ha escluso l'arte sacra, ch'è di fatto sparita (vero è che aveva avuto uno sviluppo e una saldezza teologica molto minore, anche perché l'assenza di eresie iconoclaste come in Oriente impedì che si fissasse l'importanza mistica dell'icona), lasciando il posto al proliferare dell'arte religiosa, bellissima certo e talora profonda, ma ben diversa dall'iconografia sacra. Oggi, per uno stravagante gusto esotico più che per vero amore per il mondo orientale, moltissimi in Occidente s'infatuano dell'icona in stile bizantino e arrivano a comprarne qualcuna per decorare (già questo è un grave errore di concezione, perché l'icona serve per pregare, non per abbellire!) la propria casa, tanto che nei più comuni negozi di oggetti religiosi si trovano ormai simil-icone "bizantine" prodotte direttamente in Italia dal Vaticano o -più raramente- commissionate a qualche iconografo greco senza troppi scrupoli che per qualche euro non disdegna di realizzare obbrobri come le "icone" sincretiche di Padre Pio (che, ahimé, mi è toccato di vedere persino in una bottega ortodossa di Venezia...). Purtroppo, essendosi perso ormai da troppi secoli il concetto stesso di arte sacra (e nell'ultimo secolo anche quello di arte religiosa, visti gli orrori che vengono proposti dai moderni "artisti" nelle chiese), gli acquirenti sono sovente digiuni di qualsiasi nozione d'iconografia tradizionale, privi di ogni concezione mistico-teologica relativa all'icona, e di conseguenza, per quanto spesso in buona fede, non mancano di acquistare errori teologici madornali come la suddetta icona della Sacra Famiglia.
La raffigurazione pittorica della Sacra Famiglia, come dicevamo, è una devozione nata nel contesto dell'arte religiosa e non dell'iconografia, anche perché quest'ultima (come detto) era già scomparsa da tempo in Occidente quando comparve la devozione. Agli occhi di un inesperto, pare una semplice e commovente scena, con le tre persone riunite in unità familiare dall'abbraccio.
In Iconografia, tuttavia, mentre l'abbraccio fra due uomini o fra due donne significa fratellanza, essendo quindi un abbraccio di amore fraterno (cfr. icona dei santi Pietro e Paolo o di Cirillo e Metodio), nel caso di una coppia maschio-femmina, l'abbraccio significa MATRIMONIO CONSUMATO, come nell'icona di Santi Gioacchino e Anna genitori della Santissima Vergine.
Ora, cosa capisce un occhio allenato all'iconografia vedendo l'icona suddetta? Che La Santissima Madre di Dio e il santo Giuseppe suo castissimo sposo non sarebbero stati così casti, perché avrebbero consumato il rapporto, e se tra l'altro il Cristo Infante è posto nel mezzo della coppia, ciò significa ch'Egli sarebbe figlio del rapporto dei due sovracitati. E tutto questo è indubbiamente eresia e blasfemia. A un occidentale potrebbe parere che queste riflessioni siano esagerate, che non è certo intenzione di rappresentare ciò, ma si è detto che l'iconografia ha delle regole precise e un simbolismo allegorico codificato, e pertanto -al di là di ogni intenzione- questo è senza possibilità di dubbio il significato che viene teologicamente (o meglio, ereticalmente) veicolato. Per non parlare di altre rappresentazioni della Sacra Famiglia ancor più eretiche, riprendenti il tema della Trinità di Rubljëv, che paragonano addirittura San Giuseppe e la Madre di Dio alle Persone della Trinità Divina (mi raccontavano che già nel Settecento in ambito gesuita si usasse la Sacra Famiglia per rappresentare la Trinità...)
I quadri religiosi non sono icone, e dunque un quadro della Santa Famiglia, pur riportando lo stesso tema, non è eretico, proprio perché non è un'icona. Meglio dunque per gli Occidentali restare su quest'opere d'arte indubbiamente belle, senza cercare l'esotismo dell'icona quando non si hanno i contenuti necessari a comprendere la di essa reale natura spirituale, e rischiando quindi di cadere negli errori più spiacevoli a Dio
Raffaello Sanzio, Sacra Famiglia Canigiani, 1507
(P.S.: di per sé non sarebbe nemmeno impossibile realizzare un'icona veramente ortodossa della Sacra Famiglia: già ne esistono, come quelle della fuga in Egitto, ma sarebbe sufficiente rappresentare la Madre di Dio con il Bambino in braccio e San Giuseppe da lei ben staccato, eliminando il problematico abbraccio...)
lunedì 7 gennaio 2019
Messa in Cattedrale a Vicenza sabato 12 gennaio
S'informa che sabato 12 gennaio alle ore 17.30 sarà celebrata una messa tridentina nella cripta della Cattedrale di S. Maria Annunziata in Vicenza, ricorrendo l'anniversario della morte di mons. Ferdinando Rodolfi, vescovo di Vicenza dal 1911 al 1943, cui è intitolata l'associazione che cura la celebrazione settimanale della messa antica ad Ancignano di Sandrigo (VI).
sabato 5 gennaio 2019
Il canto dell'Omnes Patriarchae nella solennità dell'Epifania
di Luca Farina
Introduzione
Nel rito ambrosiano, la solennità dell’Epifania ha un’importanza quasi pari a quella del Natale. La liturgia ambrosiana, infatti, non calca l’accento tanto sul mistero di Dio che si fa uomo, quanto sulla divinità di Cristo, per contrastare efficacemente l’eresia ariana [1]. Essa è, pertanto, fortemente cristocentrica, e vengono messi in risalto gli episodi attestanti l’origine divina di Gesù. L’Epifania che si celebra il 6 gennaio, infatti, è solo il primo momento in cui il Signore viene presentato quale Salvatore del mondo, Dio incarnato, così come avverrà nel Battesimo presso il fiume Giordano o nelle nozze di Cana, tant’è che l’inno dei Vespri dell’Epifania (Illuminans, Altissimus) cita anche questi due eventi e per le rispettive ricorrenze verrà utilizzato. [A]
In particolare, i Secondi Vespri dell’Epifania presentano il canto di un’antifona, “Omnes Patriarchae”, di cui vengono qui illustrate le caratteristiche e il rito che l’accompagna.
La prassi nel rito ambrosiano antico
Nel rito ambrosiano antico, ovvero precedente alla riforma liturgica, i Secondi Vespri di alcune festività, dopo il Lucernario [2] e prima dell’Inno, presentano il canto di un’antifona, detta “antiphona in choro”, chiamata così poiché, originariamente, i cantori si mettevano in circolo presso lo stallo del celebrante (potremmo ipotizzare che lo facessero alla maniera dei canonici attorno al Vescovo nei pontificali ambrosiani e romani, e che le due cose siano collegate). I Secondi Vespri dell’Epifania (e non i Primi, che invece sono collegati alla Messa e presentano quattro Letture vigiliari veterotestamentarie [3]) presentano il canto dell’antifona “Omnes Patriarchae”. Il testo recita: Omnes Patriarchae * praeclamaverunt te, et omnes Prophetae annunciaverunt te: pastoribus Angeli ostenderunt te; caeli per stellam declaraverunt te: et omnes Justi cum gaudio susceperunt te. L’antifona viene ripetuta quattro volte, ad indicare i quattro punti cardinali, ovverosia l’annuncio della nascita di Cristo a tutti i popoli del mondo. Dopo la seconda esecuzione, viene intonata (secondo la modulazione ambrosiana) la prima parte del Gloria Patri, la cui seconda parte viene conclusa dopo la terza esecuzione dell’antifona, mentre a chiudere le quattro esecuzioni vi sono i tre Kyrie eleison, molto spesso presenti nel rito ambrosiano [4].
E’ in Duomo, tuttavia, che avveniva un rito peculiare, come illustrato da Monsignor Marco Navoni raccogliendo i diari e le testimonianze dei cerimonieri. L’Arcivescovo, presiedendo i Vespri coi paramenti della Messa (escluso il pallio e, probabilmente, il manipolo [5]) prendeva posto al trono, mentre il primicerio o l’arciprete [6] (sono attestate entrambe le situazioni), rivestito di abito corale e piviale bianco, e portando la ferula, sedeva di fronte all’arcivescovo. La prima esecuzione dell’antifona spettava ai cantori, la seconda ai pueri (che eseguiranno anche il responsorio), la terza all’arciprete o al primicerio, la quarta veniva eseguita da tutti i presenti. Al termine dell’antifona, mentre il Vespro proseguiva, il primicerio o l’arciprete si appressava al trono, dove baciava l’anello dell’Arcivescovo seduto e da egli riceveva l’abbraccio di pace. Tra i due vi era lo scambio di un dono simbolico. Tale rito, probabilmente, è da far risalire all’epoca del cosiddetto “esilio genovese” [7], in cui l’Arcivescovo di Milano si spostò a Genova e la città fu amministrata dai canonici, i quali accolsero con sdegno il ritorno a Milano dell’antistite: questo segno rappresentava la ritrovata pace tra il capitolo e l’Arcivescovo.
La prassi nel rito ambrosiano attuale
La Liturgia delle Ore Ambrosiana scaturita dalla riforma conciliare presenta anche la possibilità, purtroppo, di recitare una sola volta, l’antifona in italiano, con il seguente testo: Ti hanno acclamato tutti i patriarchi, i te i profeti tutti hanno parlato, *, gli angeli ti hanno annunziato ai pastori, ti ha rivelato una stella dal cielo, tutti i cuori dei giusti ti hanno accolto. Questa modalità di esecuzione, purtroppo applicata in molte parrocchie, priva i fedeli ambrosiani di cantare l’unica antifona in coro rimasta dopo la riforma. E’ tuttavia significativo notare come essa sia stata conservata, mentre quelle di altre solennità sono state eliminate per motivazioni mai dichiarate.
In Duomo il rito è ancora conservato col canto quadruplice dell’antifona in lingua latina e tutto ciò che è stato precedentemente esposto. L’Arcivescovo prende posto sulla cattedra, l’arciprete di fronte ad egli sullo scranno abitualmente utilizzato nelle celebrazioni non pontificali. Durante la quarta esecuzione l’Arcivescovo e tutto il capitolo si dispongono accanto alla statua del Bambino Gesù posta davanti all’altare rendendogli omaggio. Ad indicare ancora di più la sottomissione del capitolo all’Arcivescovo, è l’arciprete a prestarsi a servizi diaconali [8] quali il proseguire l’incensazione dell’altare e del celebrante durante il Magnificat.
__________________________________________
NOTE dell'autore
Testi di riferimento:
Mons. Marco NAVONI, Dizionario di liturgia ambrosiana, Milano, NED, 1996;
Liber Vesperalis juxta ritum Sanctae Ecclesiae Mediolanensis, Gregorio Maria Suñol, 1939;
Liturgia Ambrosiana delle Ore, 1988
1: l’eresia di Ario, infatti, era molto presente a Milano. Sant’Ambrogio stesso fu eletto vescovo per evitare l’elezione di un eretico.
2: responsorio chiamato così poiché, in origine, veniva cantato mentre si accendevano le luci. Nel rito antico ciò è solamente simbolico poiché tutte le luci sono già accese, mentre nel rito attuale tale rito è stato riportato alla sua originalità: la celebrazione inizia a luci spente, dopo il saluto del celebrante, mentre viene eseguito il Lucernario, vengono accesi i ceri dell’altare, quelli portati dai chierici e le luci della chiesa.
3: tanto nel rito antico quanto in quello odierno, le solennità di Natale, Epifania e Pentecoste hanno la Messa di Vigilia unita ai Vespri e presentano quattro letture vigiliari oltre alle letture della Messa.
4: si pensi, per esempio, ai tre Kyrie Eleison che chiudono il Gloria, che precedono la benedizione o che chiudono il Magnificat.
5: non vi sono testimonianze sufficienti per affermare la presenza o l’assenza del manipolo.
6: sono due delle cosiddette “dignità” del Capitolo Metropolitano (in ordine di importanza si trovano arciprete, primicerio, arcidiacono, penitenziere e teologo).
7: con l’arrivo dei longobardi a Milano, l’arcivescovo Onorato Castiglioni spostò, nel 568, la sua residenza a Genova. Solo nel 649 San Giovanni Bono riportò la sede arcivescovile a Milano.
8: nel rito ambrosiano, tanto alla Messa quanto ai Vespri, l’incensazione dell’altare è iniziata dal celebrante che turifica il Santissimo Sacramento eventualmente presente, la croce d’altare, e l’altare con tre movimenti a forma di croce. L’incensazione è proseguita e conclusa dal diacono.
Introduzione
Nel rito ambrosiano, la solennità dell’Epifania ha un’importanza quasi pari a quella del Natale. La liturgia ambrosiana, infatti, non calca l’accento tanto sul mistero di Dio che si fa uomo, quanto sulla divinità di Cristo, per contrastare efficacemente l’eresia ariana [1]. Essa è, pertanto, fortemente cristocentrica, e vengono messi in risalto gli episodi attestanti l’origine divina di Gesù. L’Epifania che si celebra il 6 gennaio, infatti, è solo il primo momento in cui il Signore viene presentato quale Salvatore del mondo, Dio incarnato, così come avverrà nel Battesimo presso il fiume Giordano o nelle nozze di Cana, tant’è che l’inno dei Vespri dell’Epifania (Illuminans, Altissimus) cita anche questi due eventi e per le rispettive ricorrenze verrà utilizzato. [A]
In particolare, i Secondi Vespri dell’Epifania presentano il canto di un’antifona, “Omnes Patriarchae”, di cui vengono qui illustrate le caratteristiche e il rito che l’accompagna.
La prassi nel rito ambrosiano antico
Nel rito ambrosiano antico, ovvero precedente alla riforma liturgica, i Secondi Vespri di alcune festività, dopo il Lucernario [2] e prima dell’Inno, presentano il canto di un’antifona, detta “antiphona in choro”, chiamata così poiché, originariamente, i cantori si mettevano in circolo presso lo stallo del celebrante (potremmo ipotizzare che lo facessero alla maniera dei canonici attorno al Vescovo nei pontificali ambrosiani e romani, e che le due cose siano collegate). I Secondi Vespri dell’Epifania (e non i Primi, che invece sono collegati alla Messa e presentano quattro Letture vigiliari veterotestamentarie [3]) presentano il canto dell’antifona “Omnes Patriarchae”. Il testo recita: Omnes Patriarchae * praeclamaverunt te, et omnes Prophetae annunciaverunt te: pastoribus Angeli ostenderunt te; caeli per stellam declaraverunt te: et omnes Justi cum gaudio susceperunt te. L’antifona viene ripetuta quattro volte, ad indicare i quattro punti cardinali, ovverosia l’annuncio della nascita di Cristo a tutti i popoli del mondo. Dopo la seconda esecuzione, viene intonata (secondo la modulazione ambrosiana) la prima parte del Gloria Patri, la cui seconda parte viene conclusa dopo la terza esecuzione dell’antifona, mentre a chiudere le quattro esecuzioni vi sono i tre Kyrie eleison, molto spesso presenti nel rito ambrosiano [4].
E’ in Duomo, tuttavia, che avveniva un rito peculiare, come illustrato da Monsignor Marco Navoni raccogliendo i diari e le testimonianze dei cerimonieri. L’Arcivescovo, presiedendo i Vespri coi paramenti della Messa (escluso il pallio e, probabilmente, il manipolo [5]) prendeva posto al trono, mentre il primicerio o l’arciprete [6] (sono attestate entrambe le situazioni), rivestito di abito corale e piviale bianco, e portando la ferula, sedeva di fronte all’arcivescovo. La prima esecuzione dell’antifona spettava ai cantori, la seconda ai pueri (che eseguiranno anche il responsorio), la terza all’arciprete o al primicerio, la quarta veniva eseguita da tutti i presenti. Al termine dell’antifona, mentre il Vespro proseguiva, il primicerio o l’arciprete si appressava al trono, dove baciava l’anello dell’Arcivescovo seduto e da egli riceveva l’abbraccio di pace. Tra i due vi era lo scambio di un dono simbolico. Tale rito, probabilmente, è da far risalire all’epoca del cosiddetto “esilio genovese” [7], in cui l’Arcivescovo di Milano si spostò a Genova e la città fu amministrata dai canonici, i quali accolsero con sdegno il ritorno a Milano dell’antistite: questo segno rappresentava la ritrovata pace tra il capitolo e l’Arcivescovo.
La prassi nel rito ambrosiano attuale
La Liturgia delle Ore Ambrosiana scaturita dalla riforma conciliare presenta anche la possibilità, purtroppo, di recitare una sola volta, l’antifona in italiano, con il seguente testo: Ti hanno acclamato tutti i patriarchi, i te i profeti tutti hanno parlato, *, gli angeli ti hanno annunziato ai pastori, ti ha rivelato una stella dal cielo, tutti i cuori dei giusti ti hanno accolto. Questa modalità di esecuzione, purtroppo applicata in molte parrocchie, priva i fedeli ambrosiani di cantare l’unica antifona in coro rimasta dopo la riforma. E’ tuttavia significativo notare come essa sia stata conservata, mentre quelle di altre solennità sono state eliminate per motivazioni mai dichiarate.
In Duomo il rito è ancora conservato col canto quadruplice dell’antifona in lingua latina e tutto ciò che è stato precedentemente esposto. L’Arcivescovo prende posto sulla cattedra, l’arciprete di fronte ad egli sullo scranno abitualmente utilizzato nelle celebrazioni non pontificali. Durante la quarta esecuzione l’Arcivescovo e tutto il capitolo si dispongono accanto alla statua del Bambino Gesù posta davanti all’altare rendendogli omaggio. Ad indicare ancora di più la sottomissione del capitolo all’Arcivescovo, è l’arciprete a prestarsi a servizi diaconali [8] quali il proseguire l’incensazione dell’altare e del celebrante durante il Magnificat.
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NOTE dell'autore
Testi di riferimento:
Mons. Marco NAVONI, Dizionario di liturgia ambrosiana, Milano, NED, 1996;
Liber Vesperalis juxta ritum Sanctae Ecclesiae Mediolanensis, Gregorio Maria Suñol, 1939;
Liturgia Ambrosiana delle Ore, 1988
1: l’eresia di Ario, infatti, era molto presente a Milano. Sant’Ambrogio stesso fu eletto vescovo per evitare l’elezione di un eretico.
2: responsorio chiamato così poiché, in origine, veniva cantato mentre si accendevano le luci. Nel rito antico ciò è solamente simbolico poiché tutte le luci sono già accese, mentre nel rito attuale tale rito è stato riportato alla sua originalità: la celebrazione inizia a luci spente, dopo il saluto del celebrante, mentre viene eseguito il Lucernario, vengono accesi i ceri dell’altare, quelli portati dai chierici e le luci della chiesa.
3: tanto nel rito antico quanto in quello odierno, le solennità di Natale, Epifania e Pentecoste hanno la Messa di Vigilia unita ai Vespri e presentano quattro letture vigiliari oltre alle letture della Messa.
4: si pensi, per esempio, ai tre Kyrie Eleison che chiudono il Gloria, che precedono la benedizione o che chiudono il Magnificat.
5: non vi sono testimonianze sufficienti per affermare la presenza o l’assenza del manipolo.
6: sono due delle cosiddette “dignità” del Capitolo Metropolitano (in ordine di importanza si trovano arciprete, primicerio, arcidiacono, penitenziere e teologo).
7: con l’arrivo dei longobardi a Milano, l’arcivescovo Onorato Castiglioni spostò, nel 568, la sua residenza a Genova. Solo nel 649 San Giovanni Bono riportò la sede arcivescovile a Milano.
8: nel rito ambrosiano, tanto alla Messa quanto ai Vespri, l’incensazione dell’altare è iniziata dal celebrante che turifica il Santissimo Sacramento eventualmente presente, la croce d’altare, e l’altare con tre movimenti a forma di croce. L’incensazione è proseguita e conclusa dal diacono.
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NOTA di Traditio Marciana
A: Del fatto che l'Epifania celebri tre misteri distinti e delle sue ragioni teologiche, che presso i Latini sia maggiormente evidenziata l'Adorazione dei Magi e presso i Greci invece il Battesimo, e di come i tre misteri siano rappresentati nelle varie forme liturgiche d'Oriente e Occidente, ne abbiamo ampiamente parlato QUI.
venerdì 4 gennaio 2019
La Benedizione delle Acque nella tradizione occidentale
La benedizione delle acque in Russia |
Benché infatti l’Epifania sia ricordata principalmente come la ricorrenza dell’Adorazione dei Magi, in realtà sono tre i misteri commemorati in questa festa, tre misteri che corrispondono alle tre manifestazioni iniziali della Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo (tale è infatti il significato della parola Ἐπιφάνεια, e ancor meglio di Θεοφάνεια, come i Greci chiamano questa festa):
- L'adorazione dei Magi
- Il Battesimo di Nostro Signore Gesù Cristo nel Giordano
- Il miracolo compiuto alle Nozze di Cana
L'adorazione del Cristo infante come il Re dei Re della terra, l'inizio della sua vita pubblica e la vocazione dal cielo "Tu se' il figliuolo mio diletto, in te ho posto il mio compiacimento", il primo miracolo pubblico, sono tutte manifestazioni eloquenti della Divinità di Cristo, così come la festa della Circoncisione, il 1 gennaio, era una manifestazione eloquente della sua Umanità, risultando così spiegata attraverso questo ciclo di feste natalizie anche l'unione ipostatica delle due nature nell'unica persona del Figlio. Queste tre manifestazioni divine, pur avvenuta in anni diversi, in giorni diversi, sono festeggiate insieme, a cagion della strettissima relazione intrinseca, il 6 di gennaio, 12 giorni esatti (numero altamente simbolico) dopo il Natale di Gesù; questa triplicità del mistero dell'Epifania è condivisa da tutte le tradizioni cristiane, essendo la festa delle Sante Teofanie (ecco spiegato perché i Greci più correttamente usano il nome al plurale) una delle più antiche e venerate di tutta la Chiesa. Cionondimeno, ciascuna tradizione sviluppò indipendentemente il ricordo di questi tre misteri, spesso slegandoli l'uno dall'altro e spostando la memoria di alcuni in altri giorni dell'anno liturgico.
La triplicità dell’Epifania è nondimeno ben presente nell’Ufficio divino tradizionale, le cui antifone, pur riferendosi in massima parte all’Adorazione dei Magi, non trascurano il Battesimo (che comunque sarà più diffusamente commemorato il 13 gennaio, ottava dell’Epifania) né le nozze di Cana (il cui vangelo si leggerà comunque alla prima domenica dopo l’Ottava dell’Epifania). Un’antifona particolarmente li esprime tutti e tre molto bene: quella del Benedictus delle Laudi.
Hódie cælésti sponso juncta est Ecclésia, quóniam in Jordáne lavit Christus ejus crímina: currunt cum munéribus Magi ad regáles núptias, et ex aqua facto vino lætantur convívæ, allelúja.
Oggi allo Sposo Celeste è unita la Chiesa, poiché nel Giordano Cristo ha lavato i suoi peccati: accorrono i Magi coi doni alle nozze regali, e dell'acqua mutatasi in vino si allietano i convitati, alleluja.
Con questa stessa antifona si apre anche il già menzionato ufficio della benedizione dell’acqua. E’ certo nota l’importanza che ha in Oriente (dove la festa del 6 gennaio [19 secondo il vecchio calendario] è dedicata specialmente proprio al Battesimo) detta benedizione (di cui abbiamo ampiamente parlato QUI): a chiunque sarà capitato di vedere le immagini dei fedeli che, nel freddo di una notte di pieno inverno, si gettano nei fiumi gelati della Russia, appena solennemente benedetti; facendo qualche breve ricerca, non sarà difficile trovare che pratiche simili sono presenti anche in Grecia e financo in Africa, dimostrando non solo la grande partecipazione di popolo a questi riti, ma pure la quasi universale diffusione che hanno nell’Oriente cristiano.
Meno noto è però, dacché quasi dappertutto è caduta in disuso da svariati decenni, che pure in Occidente tale benedizione avesse larghissima diffusione: dalla Chiesa di Moravia, che ne attribuiva la paternità ai suoi apostoli Cirillo e Metodio (ancorché la maggior parte degli autori, seguendo quanto riportato nell’Euchologion sive rituale graecorum di Giacomo Goar, fissino la sua origine nel rito costantinopolitano dell’epoca del Crisostomo, che pure ne fa attestazione nella sua omelia de Baptismo Christi), alle Chiese gallicane e mozarabiche, senza scordare ovviamente la Chiesa delle Venezie, dove forte era questa consuetudine, praticata in quasi tutte le parrocchie fino agli anni ’50, e in modo massimamente solenne nella Basilica Ducale di S. Marco, dove il Primicerio (e dal 1806 il Patriarca) la officiava pontificalmente alla presenza di tutto il capitolo.
Salvo qualche piccola variante, il rito si presentava abbastanza simile in tutto l’Occidente: celebrato in tertio, con sacerdote in piviale bianco e diacono e suddiacono parati, prevedeva una ricca salmodia, antifone cantate in toni ornati, le Litanie dei Santi (interrotte a un certo punto dall’officiante, che canta delle litanie di benedizione dell’acqua proprio come, nel conferimento degli Ordini Sacri, il Pontefice interrompe le Litanie dei Santi per cantare delle litanie d’intercessione per gli ordinandi), il Magnificat (o il Benedictus in altri luoghi, a seconda dell’ora in cui si usasse celebrarla), Epistola, Vangelo e Prefazio (secondo lo schema tipicamente medievale della missa sicca, mantenuta per esempio nella benedizione dei rami la Domenica delle Palme), una solenne immersione di una Croce preziosa nell’alveo dell’acqua da benedirsi (costume ripreso dall’uso greco, che prevede appunto di gettare una croce in fiumi o laghi per benedirli; il costume popolare di gettarsi in acqua è in realtà una sorta di palio folkloristico-religioso volto al ricupero della Croce), il Te Deum e l’aspersione.
Pur non riportata originalmente nel Rituale Romano del Concilio di Trento, molte Chiese locali la incorporarono, facendo leva sul fatto che nei loro territori si praticassero queste benedizioni per antichissima consuetudine. Non erano mancati tuttavia anche gli abusi, come l’inserimento di preghiere esorcistiche non tradizionali e la cui conformità agli usi della Chiesa era in dubbio: con un rescritto, dipoi pubblicato in tutti i Rituali, dell’11 gennaio 1725, la Congregazione dell’Indice proibì tutte le aggiunte “moderne” alle cerimonie del rituale romano. Chiarezza circa la benedizione fu fatta comunque da Benedetto XIV il quale, pur riconoscendo che sia un’aggiunta all’originale rito romano, non lo disapprova, ammettendosi di poter seguire dei riti importati dall’Oriente e diffusisi in Occidente, condannando però tre costumi non originari ma ampiamente seguiti:
- Il far portare la Croce [da immergere nell’acqua, ndr] in processione da un fanciullo, il che “si oppone alla gravità de’ sacri riti, ed è da aborrirsi” (Benedetto XIV, De Canonizatione sanctorum, tom. IV, p. II, cap. 20). Notare che il costume della Basilica di S. Marco prevedeva che a portare la Croce fosse l’arcidiacono del Capitolo, parato di dalmatica e stola. Si può desumere che l’uso sano e originario fosse dunque quello di far portare la Croce dal diacono.
- Alcune aggiunte “temerarie” nell’esorcismo del sale, in cui, a detta del Pontefice, taluni solevano inserire parole tratte dalla Scrittura che si riferivano misticamente al sale, ma non avevano analogia con alcun altro esorcismo.
- Le aggiunte non approvate di nomi alle Litanie dei Santi
«Quae tamen – scrive Benedetto XIV – non animo reprobandi Sacrum antiquum Ritum Benedictionis aquae in Vigilia Epiphaniae, sed tantum additamenta rejiciendi in eum inserta absque Sedis Apostolicae auctoritate». Ancora, lo stesso Pontefice, nella sua costituzione Allatae sunt, ammonisce i Vescovi «in quorum Dioeceses longo ab hinc tempore nonnulli Ritus ab Ecclesia Graeca manantes irrepserunt, ut illos de medio tollere non contendant, ne turbae excitentur, et non videantur improbare rationem agendi Sedis Apostolicae, quae Ritus illos irrepsisse cum optime noverit, eosdem tamen servari et frequentari permisit».
Nel 1890, la Sacra Congregazione dei Riti inserì nel Rituale Romano una benedizione solenne dell’acqua in forma pontificale per la vigilia dell’Epifania, sanzionando dunque definitivamente il rito ed estendendolo anche a quei luoghi ove prima non fosse stato praticato. Si trattava però di una benedizione molto scarna, elaborata sul modello di una qualsiasi ora canonica (p.e. il Vespero, con salmi e Magnificat) e inserendovi una brevissima benedizione dell’acqua, tralasciando dunque esorcismi, parti della missa sicca e soprattutto il suggestivo rito della Croce. Dal momento che questa benedizione ridotta non trovò però il consenso del clero e del popolo di quei luoghi ove la benedizione era da tempo praticata more antiquo, la stessa Sacra Congregazione hanc praxim (l’uso precedente, ndr) permisit continuari, purché curando di non seguire quei costumi che Benedetto XIV riteneva illegittimi (e che, stando ai racconti di qualche anziano cantore dell'Istria, nei quali ho appreso che ancora nella prima metà del Novecento si soleva far portare la Croce da un bimbo vestito da angioletto, che poi avrebbe accompagnato il prete pure nella benedizione delle case, continuarono a lungo a essere seguiti).
Al link in calce è possibile scaricare il testo della benedizione, tratto da un rituale di fine Ottocento. La notazione musicale segue purtroppo lo stile dell'editio medicaea, con tutte le problematiche e le corruttele conseguenti.
Le rubriche contenute nel testo del Rituale sono assai scarne, e danno giusto qualche indicazione di massima per lo svolgimento della cerimonia (quello che è da cantarsi e da recitarsi sottovoce; quello che è da cantarsi dal diacono o dal suddiacono); tutto il resto dev'essere desunto per similitudine (assai vaga) con altre benedizioni: le parti da svolgersi avanti all'alveo andranno eseguite come alla benedizione dell'acqua nella veglia pasquale, le litanie come alla cerimonia d'ordinazione, l'Epistola e il Vangelo come i corrispettivi della Domenica delle Palme, etc. Tra le anomalie e i punti dubbi del cerimoniale, è da segnalare che la benedizione presenta due Vangeli, ambedue cantati dal diacono: la prima volta è specificato accepta benedictione, la seconda volta no; si dovrebbe forse supporre che la benedizione ricevuta la prima volta valga anche per la seconda. Dipoi, ritengo ragionevole che il sacerdote "doppiasse" segretamente la lettura di Epistola, tratto, Vangelo etc.
Inoltre, dalle testimonianze popolari veneziane in mio possesso, pare che, proprio come avviene comunemente in Oriente, talora la benedizione si effettuasse non su di un alveo d'acqua all'interno della chiesa, bensì all'esterno, per esempio a un pozzo vicino. In tal caso, la ricostruzione delle rubriche seguite sarebbe ancora più difficile, particolarmente nell'individuare gli spazi liturgici ricavati (dove il diacono e il suddiacono cantassero le rispettive letture; dove s'inginocchiassero i ministri, etc.)
SCARICA IL TESTO DELLA BENEDIZIONE
Fonti storiografiche e del testo:
Don Giovanni DIGLICH, Dizionario Sacro Liturgico che comprende le rubriche del Messale, del Breviario e del Rituale Romano, Foligno, dal tipografo Tomassini, 1831, vol. I, pp. 8 e ss.
Biblioteca per li parrochi e li cappellani di campagna, Venezia, Giuseppe Antonelli Tipografo edit., 1835, vol. I, pp. 622 e ss.
Rituale Romanum Pauli V Pont. Max. Jussu editum cum Conjurationibus ad fugandas tempestates & Benedictione Aquae, quae fit in vigilia Epiphaniae, & aliis. Nunc addita formula absolvendi et benedicendi populos & agros a Sacra Rituum Congregatione approbata, Venetiis, apud Franciscum Baba, 1656
Benedictio aquae juxta consuetudinem Ducalis Ecclesiae S. Marci Venetiarum, pag. 24
martedì 1 gennaio 2019
Dell'efficacia dell'invocazione del Santo Nome del Signore
Il Santissimo Nome di Nostro Signore, di cui oggi ricorre la festa liturgica, è tra gli elementi più bistrattati tra i fedeli: quante volte infatti si usa pregare rivolgendosi a Cristo col Suo Nome proprio, come ci si stesse rivolgendo a un amico qualsiasi, quando invece si sta parlando al nostro Creatore, Signore e Redentore. Qualche anno fa, al mattino presto spesso mi recavo a pregare nella Chiesa dei Carmelitani Scalzi in Venezia, e capitava che entrasse qualche pur pia vecchietta, la quale rivolgendosi all'immagine del Crocifisso posta dinnanzi all'ingresso si metteva a conversare col Signore, trattandolo nondimeno quasi da pari a pari, chiamandolo spesso con il Suo Nome, ma svuotando quel nome (che significa "Salvatore") di tutta la sua mistica efficacia, proprio perché banalizzato e impiegato in questa maniera sciatta, avvegnaché certo senza intento denigratorio da parte degl'ignari e semplici fedeli. Potrei però anche raccontare di qualche peculiare "tradizionalista" ch'ebbi modo di conoscere, che soleva infilare in ogni discorso (anche nel più profano, e non di rado nell'insulto) il nostro Redentore, chiamandolo sempre e immancabilmente col Suo Santo Nome, credendo così di mostrarsi pio quand'invece lo denigrava e lo sviliva.
Nella mistica orientale, e particolarmente nella pratica dell'esicasmo, centrale è la Preghiera del Santo Nome del Signore, conosciuta anche come Preghiera del Cuore, recitando la quale nella piena concentrazione e interiorizzandola nel cuore si potrà giungere ad adempiere al mandato di Cristo, che ha comandato di "pregare senza intermissione", e cioè a vivere costantemente nella preghiera, nella lode e nel ringraziamento a Dio, non smettendo mai, nemmeno nel sonno, di recitare la santa invocazione che in sé racchiude l'interità della nostra fede: Κύριε Ἰησοῦ Χριστὲ, Ὑιὲ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἀμαρτωλὸν! (Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbiate pietà di me peccatore). Tale pratica è stata sviluppata particolarmente dai Padri e dai mistici d'Oriente, come San Giovanni Cassiano, San Gregorio Palamas, San Marco l'Asceta, San Massimo il Confessore, San Giovanni di Karpathos, San Simeone il Nuovo Teologo, San Simeone Metafraste, San Pietro Damasceno, San Gregorio Sinaita e molti altri; si noti che pure alcuni mistici occidentali, per esempio San Giovanni della Croce, parlarono sovente di una pratica molto affine, detta pratica della presenza di Dio.
Per comprendere l'efficacia dell'invocazione del Santo Nome, propongo dunque alcuni brani scelti dai Racconti di un pellegrino russo, testo devozionale di mistica di autore anonimo del XIX secolo incentrato sulla pratica esicasta e la Preghiera del Nome.
"Dio ti ha dato il desiderio di pregare e la possibilità di farlo senza fatica. È un effetto naturale, prodotto dall’esercizio e dall’applicazione costante, come una ruota che si fa girare intorno a un perno; dopo una spinta essa continua a girare su se stessa, ma per far sì che il movimento duri bisogna ungere il meccanismo e dare nuove spinte. Tu vedi ora di quali facoltà meravigliose il Dio amico degli uomini ha dotato la nostra natura sensibile, e hai conosciuto le sensazioni straordinarie che possono nascere anche nell’anima peccatrice, nella natura impura che non è illuminata ancora dalla grazia. Ma quale grado di perfezione, di gioia e di rapimento non raggiunge l’uomo, quando il Signore vuole rivelargli la preghiera spirituale spontanea e purificare l’anima sua dalle passioni! È il
dono che ricevono coloro che cercano il Signore nella semplicità di un cuore che trabocca d’amore!
Ormai ti permetto di recitare tante preghiere quante tu vorrai; cerca di consacrare alla preghiera tutto il tuo tempo, e invoca il Nome di Gesù senza più contare, rimettendoti umilmente alla volontà di Dio e sperando nel suo aiuto; egli non ti abbandonerà e guiderà il tuo cammino".
Obbedendo a questa regola, passai tutta l’estate a recitare senza posa la preghiera di Gesù e fui veramente sereno. Durante il sonno, sognavo a volte di star recitando la preghiera. E durante la giornata, quando mi capitava di incontrare delle persone, esse mi parevano così care come se fossero stati membri della mia famiglia. Le distrazioni si erano placate e io non vivevo che con la preghiera; cominciavo a indurre il mio spirito ad ascoltarla e a volte il mio cuore ne riceveva un senso di calore e di gioia immensi. Quando mi succedeva di entrare in chiesa, il lungo servizio della solitudine mi pareva breve e non mi stancava più come un tempo. La mia solitaria capannuccia mi pareva un palazzo meraviglioso, e non sapevo come ringraziare Dio di aver mandato a me, povero peccatore, uno starets dagli ammaestramenti così preziosi.
[...]
"E che cosa vale di più, la preghiera di Gesù o il Vangelo?" Chiese il capitano.
"È una cosa sola, risposi. Il Vangelo è come la preghiera di Gesù, perché
il Nome Divino di Gesù Cristo racchiude in sé tutte le verità evangeliche. I
Padri dicono che la preghiera di Gesù è la sintesi di tutto il Vangelo".
[...]
Per un mese me ne andai tranquillo e lieto, sentendo quanto siano utili ed efficaci gli esempi vivi. Leggevo spesso la Filocalia e vi verificavo tutto quello che avevo detto al cieco. Il suo esempio infiammava di zelo, la mia dedizione e l’amore per il Signore. La preghiera del cuore mi rendeva così felice quanto non avrei creduto lo si potesse essere sulla terra, e mi chiedevo come le delizie del regno dei cieli avrebbero potuto essere più grandi di queste. La felicità non soltanto illuminava l’intimo dell’anima mia: anche il mondo esterno mi appariva sotto un aspetto stupendo, tutto mi chiamava ad amare e a lodare Dio; gli uomini, gli alberi, le piante, le bestie, ogni cosa mi era familiare, e dovunque io trovavo impresso il miracolo del Nome di Gesù Cristo. A volte mi sentivo così leggero che credevo di non avere più un corpo e di fluttuare dolcemente nell’aria; a volte rientravo completamente in me stesso. Vedevo in modo chiaro il mio intimo e ammiravo il magnifico edificio del corpo umano; a volte sentivo una gioia grande come se fossi diventato re, e in mezzo a tutte queste consolazioni mi auguravo che Dio mi concedesse di morire al più presto e di far
traboccare la mia riconoscenza ai suoi piedi nel mondo degli spiriti. Certo io presi troppo piacere in queste sensazioni, oppure forse Dio decise così, ma dopo un po’ di tempo sentii nel mio cuore una specie di timore e un tremito continuo.