Sembra piuttosto comico che un Motu Proprio inteso a limitare in qualche modo una liturgia secolarmente praticata nella Chiesa ed espressione della tradizione liturgica occidentale e specificatamente romana principi con le parole Traditionis custodes, che sarebbero, nell'inteso del discorso, i vescovi. Il titolo che abbiamo scelto di mettere all'articolo sembra molto più calzante e, seppur i più fidi nostri lettori già ne conosceranno la spiegazione, ne renderemo ragione solo alla fine del discorso. Prima riteniamo conveniente, consci di arrivare tardi vista la gran mole di reazioni che già nelle ore immediatamente successive alla promulgazione del documento, occorsa a mezzodì dello scorso venerdì 16 luglio, hanno popolato la blogosfera “tradizionalista” e non solo, spendere qualche parola di analisi di ciò che è contenuto nel suddetto.
I. Previsioni normative del
Motu Proprio.
Pur nascondendosi dietro l'aborrita firma di
Bergoglio, questi ha negli anni passati dimostrato di non curarsi
particolarmente di faccende liturgiche; laonde, pare decisamente più ragionevole
supporre che il Motu Proprio abbia ben altri padri, tra cui,
oltre al neo-presidente della Congregazione dei Riti card. Roche, non si può omettere
di menzionare il prof. Andrea Grillo, per il quale il precedente regime
instaurato da Summorum Pontificum era puro fumo negli occhi,
soprattutto per due ragioni espresse ad nauseam in una congerie di
articoli sul suo blog Come se non: 1) L'equiparazione del
"Messale del 1962" e del "Messale di Paolo VI" come
"due forme dello stesso rito" e "due espressioni della
medesima lex orandi"; 2) La sottrazione dell'autorità sulla
liturgia al vescovo diocesano, che era invece garantita dal precedente regime
"dell'indulto". Ora questi due paiono essere pure i cardini delle
disposizioni normative del documento.
All'articolo 1 si dichiara infatti perentoriamente
che "I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni
Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica
espressione della lex orandi del Rito Romano". Non della
medesima lex credendi, che è in molti modi espressa dai molti riti della
Cristianità, ma della medesima lex orandi, cioè lo stesso modo di pregare. E su
questo non possiamo che dare ragione al buon Grillo e al Motu Proprio: da
quando in qua si sono viste due forme contrapposte, l'una nata distruggendo a
tavolino l'altra, la quale è invece eredità più che millenaria della Chiesa,
espressione di una medesima cosa? La scienza liturgica conosce le famiglie dei
riti, i riti e gli usi, ignora le forme; ma come ha ben spiegato don Mauro
Tranquillo (qui) è scientificamente impossibile sostenere che il rito di
Paolo VI sia una variante, cioè un uso, del rito romano, ed è necessariamente
un altro rito, quindi una diversa lex orandi. Sulla bontà o meno di
questa lex orandi, che non ha in sé nulla di apostolico, le nostre idee
le abbiamo, ma il lettore giudichi da sé.
L'articolo 2 completa le aspettative grilline
dicendo che "Al vescovo diocesano, quale moderatore, promotore e custode
di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare a lui affidata, spetta
regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi". Questo punto è
leggermente più problematico, ma ci ritorneremo in chiusura. Vediamo ora come
fattivamente i vescovi dovranno controllare (oggi va di moda il controllo, no?)
l'uso del rito tradizionale; ci limiteremo a fornire qualche suggestione e
commento personale, non essendo mancata già in questi pochi giorni una colluvie
di analisi canonistiche prodotte da menti che si trovano ben più a loro agio
delle nostre tra cavilli e codicilli, analisi ora serie e approfondite al
limite della pedanteria, ora condite dai giuochi letteralisti di un sacerdote
canonista dallo pseudonimo giacobineggiante (qui) di cui, peraltro molto giustamente, i vescovi si faranno
un baffo. Sostanzialmente si ritorna al regime dell'indulto, quello vigente
prima di Summorum Pontificum, con delle esplicite limitazioni al
clero che non può più scegliere con quale messale celebrare ma necessita del
permesso del vescovo, o per i neomisti addirittura della Santa Sede (ma non era
il vescovo il sommo liturgo, si è detto poco fa?) e ai luoghi (non già le
chiese parrocchiali, cosa su cui il Motu Proprio di Ratzinger insisteva invece)
e ai tempi della celebrazione. Si segnala, soprattutto, che non potranno
costituirsi nuovi gruppi che chiedano la messa antica oltre a quelli
preesistenti, il che è indubbiamente la limitazione più forte; le preesistenti
parrocchie personali, tra cui quella ferrarese di recente fondazione, non
subiranno forse scompensi in tempi brevi, ma il documento apre a una loro
riconsiderazione – e forse soppressione – nei tempi a venire. Un altro articolo
prevede che gli Istituti ex-Ecclesia Dei passeranno sotto la
Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata, il che pare effettivamente
logico; la preoccupazione, reale, per i trascorsi a dir poco modernisti del
cardinale Braz de Aviz che presiede detta congregazione è un fatto del tutto
contingente e non certo di principio, pur con tutti gli effetti (negativi) che
sicuramente avrà. Più (negativamente) interessante da un punto di vista
liturgico e l'art. 3.3.2: "In queste celebrazioni le letture siano
proclamate in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per
l’uso liturgico, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali": la
norma del rito prevede che queste vengano cantate in latino, ed eventualmente
poi ne può essere letta una traduzione prima della predica, come pare si
facesse pure in epoca storica. Il fatto che gran parte dei
"tradizionalisti", specie francesi, già proclami le letture in
volgare e voltati verso il popolo indica che questa modifica, per loro,
significherà ben poco; da un punto di vista formale è ben più significativo,
perché s'inizia a intaccare e dunque a snaturare il rito. Chi vieterà in futuro
di apportare altre più pesanti modifiche alla struttura medesima dello stesso,
per favorirne la riconciliazione con quello moderno (vedi sotto)? È da dire che
ciò non è affatto una novità di Traditionis Custodes, dacché Summorum
Pontificum apriva parimenti a modifiche rituali, effettivamente poi
avvenute sia con la nuova preghiera per i Giudei del Venerdì Santo che con i
nuovi prefazi e santi inseriti con decreto del Sant’Uffizio lo scorso anno, che
abbiamo già avuto modo di commentare a loro tempo.
II. Ragione e funzione del
Motu Proprio.
Ben più interessante del Motu Proprio è però la
lettera accompagnatoria a detto documento, nella quale si spiegano le ragioni
dell'intervento e gli scopi del medesimo. Oltre a ripercorrere la storia della
"forma straordinaria del rito romano" e spiegare per quali ragioni
non risulta più convincente la tesi delle due forme sostenuta da Benedetto XVI,
in essa si menziona il famigerato "questionario" circolato nelle
varie diocesi del mondo l'anno scorso circa la pratica della messa antica nelle
medesime; non si menziona la contro-iniziativa della Federazione Internazionale
Una Voce di un simile questionario compilato dai fedeli e quindi inviato al
Sant’Uffizio, segno che tale iniziativa non ha avuto grande esito nei palazzi
vaticani. Quindi, la lettera passa alle vere e proprie ragioni che hanno
richiesto l'intervento: "Mi rattrista un uso strumentale del Missale
Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo
della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione
infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”".
Purtroppo, bisogna constatare che il fianco a codeste bordate lo hanno prestato
i "tradizionalisti" medesimi, soprattutto con l'atteggiamento
settario e neo-protestante (ben indagato da recenti articoli del prof. Andrea
Sandri su Vigiliae Alexandrinae) di cui taluni circoli, definiti “neo-tradizionalisti”,
acuiti da una certa propensione alla teoria del complotto nell'anno della
grande pandemia (c'è una bella differenza tra criticare la verità ufficiale e
mettere in luce i problemi morali della vaccinazione, come fa la gente seria, e
credere al super-complotto contro Trump come fa qualcun altro), hanno fatto
ampia mostra, atteggiamento che continua a essere dimostrato dall'inspiegabile
adesione delle folle al progetto di un personaggio folle e visibilmente
ridicolo quale don Alessandro Minutella, che non aspetta altro che muoia il suo
"legittimo" Benedetto XVI per autoproclamarsi Papa (si è già messo in
testa lo zucchetto e la croce pettorale al collo, notare). Il rifiuto del
Concilio è un problema che sta a parte, il Concilio è per i modernisti un super-dogma,
che dice tutto e niente; il rifiuto del Concilio, che nei modi in cui mons.
Lefebvre lo ha portato avanti per decenni ha decisamente un senso, generalmente
è stato portato in modo altrettanto strumentale tra i “tradizionalisti” per
voler rifiutare altro, dall'immigrazionismo all'ecologismo, che sono temi poco
dogmatici e molto politici (è la Santa Sede che erra in primis schierandosi
così smaccatamente su questioni squisitamente politiche e non religiose, ma chi
le va contro così fa lo stesso gioco, a volte). Il Concilio è, tanto per i “tradizionalisti”
che lo demonizzano come la fonte di ogni male, quanto per i progressisti che lo
venerano quale sorgente d’ogni novità, nulla più che una bandiera: la decadenza
liturgica, dottrinale e morale della Chiesa Romana, iniziata ben prima del 1962,
si sarebbe tranquillamente potuta compiere senza che qualche migliaio di
vescovi si sedesse a parlare del nulla per qualche anno. Molto spesso in questo
blog abbiamo stigmatizzato i "tradizionalisti" per cui la messa
antica è una bandierina dietro la quale ci sta altro, da certi orientamenti
politici o settaristici (vedasi la TFP), a romantiche nostalgie di tempi
passati e idealizzati; ora costoro, con il chiasso ben visibile prodotto dalle
loro trombe, hanno offerto il pretesto per danneggiare, sicuramente, anche
coloro che dalla liturgia tradizionale volevano solo il giusto, cioè il culto
proprio a Dio e la deificazione dell'anima.
Più diretto e preoccupante, però, è il fine: la
lettera dice esplicitamente che le previsioni normative del Motu Proprio
allegato presentano un unico scopo, ovverosia quello di “accompagnare coloro
che sono legati al rito antico a una piena accettazione dei libri liturgici riformati”.
In ciò, probabilmente, consiste la più grande differenza con i provvedimenti
precedenti: si tratta di un indulto a tempo determinato, che nel giro di alcuni
anni (quanti lo sa solo Iddio) si dovrà risolvere in una completa proibizione
dell’uso dei libri liturgici tradizionali. L’indulto di Giovanni Paolo II era “a
tempo” nella sua intenzione originaria nel senso che si sarebbe dovuto spegnere
con la morte naturale di coloro che erano stati cresciuti col rito
tradizionale; nei fatti, la sua natura temporanea è stata sin da subito
smentita dalla partecipazione, non certo impedita, di nuove persone alle
funzioni in rito antico. Il Motu Proprio di Benedetto XVI sanciva un principio,
l’impossibilità di abrogazione dei libri liturgici tradizionali, prevedendone
dunque un uso illimitato e infinito. Il nuovo Motu Proprio va, come detto, nella
direzione completamente opposta: una tolleranza del tradizionalismo che, prima
o poi, dovrà finire.
Frontespizio di un Missale ad sacrosancte Romane ecclesie usum
Parisii, 1517 - München, Bayerische Staatsbibliothek - Res/2 Liturg. 249
Vale la pena, infine, di contestare fortemente il
riferimento a Pio V che Francesco fa nella sua lettera: in essa, egli afferma d’essere
confortato dall’azione di tale Papa che abrogò una serie di riti. Questa
affermazione, che vorrebbe confermare il potere dell’autorità papale sulla
liturgia, che invece abbiamo più volte contestato su base storica (vedasi ad
esempio qui; ma è interessante notare che i canonisti quattrocenteschi
discutevano se un Papa potesse costruire ex novo una liturgia, giungendo a
conclusione negativa e anzi ritenendo che tale Papa entrasse in scisma; che
questo sia esattamente quello che hanno fatto i Papi da Pio X in poi è altro
discorso), rientra nella “leggenda nera” che gravita attorno alla Quo primum,
bolla di cui molti parlano ma che nessuno pare aver letto. Dopo aver promulgato
il Messale Romano nel 1570, che altro non è che un’edizione filologicamente sistemata
del Missale secundum consuetudinem curiae romanae stampato a Venezia nel
1494 (che, per informazione a quanti dicono che Pio V abolì le sequenze, conteneva
esattamente quattro sequenze come il Messale Tridentino), con le uniche minime
aggiunte riguardanti la gestualità alla consacrazione, e in particolare le
genuflessioni, che erano entrate nella prassi in Germania ma non erano mai
state previste dalle rubriche, e il tempo delle elevazioni; la lettera
apostolica al capo IV dice chiaramente che con detto messale son tenute a
celebrare le chiese “in quibus Missa conventualis alta voce cum Choro, aut demissa,
celebrari juxta Romanae Ecclesiae ritum consuevit”. Cioè, solo in quelle in cui
già si celebrava usando il predetto Missale secundum consuetudinem curiae
romanae, diffuso in tutta Europa (pur con minime consuetudini cerimoniali e
soprattutto con il santorale proprio di ogni luogo) soprattutto dai
francescani, che al loro zelante ultramontanismo centralista ante-litteram univano
l’uso del rito dell’Urbe che contribuirono a portare nelle chiese più varie. Ma
il capo successivo dice chiaramente che le chiese ove vigono altre consuetudini
rituali da tempo osservate devono mantenere il rito proprio; e se proprio una
chiesa volesse passare al rito romano, può farlo, ma deve ottenere l’approvazione
del vescovo diocesano e di tutto il capitolo. Gli unici riti soppressi sono
quelli con meno di 200 anni d’uso continuativo (cioè nati dopo la metà del
1300! Sarebbero riti della tradizione della Chiesa questi?), i quali erano
soventi intrisi di protestantesimo o altre eresie tipicamente bassomedievali:
un intervento di tipo teologico e non certo liturgico, visto che quei riti –
peraltro – non hanno certo una venerabile antichità che li renda patrimonio
tradizionale e intoccabile della Chiesa. Il problema, se vogliamo, si verifica
esattamente quando queste indicazioni vennero disattese, quando cioè i vescovi
diocesani imposero illegittimamente l’uso del rito romano, non sempre con l’approvazione
del clero e del popolo che continuò molto oltre a usare gli antichi rituali (si
legga quel che dice il Diglich sull’uso dei funerali secondo il rito
patriarchino nella Venezia dell’Ottocento, nonostante già da due secoli quasi
il Patriarca avesse imposto i libri liturgici romani), oppure lo fecero
abusivamente i visitatori apostolici (il De Rubeis riporta la relazione di un
visitatore apostolico nel Patriarcato di Aquileia che rimproverò un prete per
aver detto il Nunc dimittis alla purificazione, come il rito aquileiese
prescriveva), oppure gli stessi stampatori rifiutandosi di editare nuovi
messali secondo i riti propri (emblematico il caso del capitolo di Como,
proprio da ciò e dalla rovina degli antichi libri patriarchini costretto a
passare ai romani), o finanche monarchi non propriamente cristiani (nella Ducale
Basilica di S. Marco e nelle quattro chiese da essa dipendenti il rito
patriarchino fu soppresso da Napoleone nel 1806). Se leggiamo il Le Brun, ci
accorgiamo che nella Francia di ancien régime il rito romano era qualcosa di pressoché
sconosciuto, vigendo gli usi locali antichi. La Rivoluzione, il crollo dei
capitoli e dei conventi, con la conseguente adesione di gran parte del clero
all’eresia ultramontana, determinarono la situazione oggi conosciuta di un rito
romano universale, che è veramente una situazione post-ottocentesca, laddove l’Europa
prerivoluzionaria era e restò un fiorire di riti e usi locali, seppur in netta
diminuzione per via dei succitati abusi.
Perciò, accertato che le intenzioni di Pio V erano
ben diverse, si dovrebbero evitare impropri e mistificatori paragoni, tanto più
quando i riti in questione non hanno più di una sessantina d’anni.
III. Reazioni ed esiti
probabili
Il mondo “tradizionalista” è stato
comprensibilmente scosso dal provvedimento, annunciato da talune indiscrezioni
nelle settimane precedenti, ma da cui non ci si aspettavano previsioni normative
e soprattutto toni così duri; tra drappi neri a lutto e reazioni stupite d’ogni
tipo, si sono distinte analisi canonistiche e teologiche di buon livello, e
interventi decisamente meno memorabili, tra cui un’analisi pseudo-liturgica
sinceramente divertente nella sua ridicolaggine secondo la quale il Padre
nostro recitato da tutti nella nuova messa è illegittimo perché il Padre nostro
fa parte del rito e solo il sacerdote compie il rito. Alcune reazioni non hanno
brillato per moderatezza, ed effettivamente se qualcuno ha pensato di
intitolare un articolo “Resistere in faccia al Pachamama Pope” si potrebbe pensare
che alcune delle motivazioni addotte da Bergoglio nella sua lettera non siano
così campate in aria. Per fortuna questi fenomeni paiono soprattutto mediatici,
frutto di un’autorappresentazione del mondo “tradizionalista” sulla blogosfera.
Qualcuno non ha perso occasione di far notare che, come già il precedente Motu Proprio,
pure questo menziona unicamente i libri liturgici già riformati e modernizzati
del 1962, e non quelli precedenti, rendendoli gli unici leciti: tale approccio
legalistico si conferma rovinoso, poiché gli alfieri di cavilli e codicilli non
potranno che mutamente sottomettersi alle nuove disposizioni dell’idolo-legislatore.
Del resto, se l’autorità già nel 1911 ha vietato l’Ufficio romano tradizionale
sostituendovi un prodotto artificiale, nel 1955 la Settimana Santa sostituendovi
qualcosa di inventato di sana pianta, nel 1962 il Messale sostituendovi un
pallido surrogato, a buon diritto poi 1970 ha creato qualcosa di completamente
opposto che sostituisse tutto il precedente; se all’autorità si è dato potere di
intervenire allora, contro la tradizione apostolica e patristica, perché glielo
si negherebbe ora?
D’altro canto, il mondo progressista ha gioito per
il provvedimento che, a detta del già citato prof. Grillo, ristabilisce non
solo la teologia corretta, ma pure la logica (ed effettivamente dell’illogicità
delle due forme si è detto sopra). Fattivamente, credo che per i primi tempi
non si verificheranno sostanziali modifiche dello status quo: sarà il
tempo a suggerire cosa accadrà, se effettivamente i vescovi eserciteranno una
qualche forza repressiva, se le comunità “tradizionaliste” saranno lasciate
vivere o accompagnate ad eutanasia. Molti fedeli scorati probabilmente si rivolgeranno
alla FSSPX, qualcuno finirà nelle grinfie di già citati personaggi che
costituiscono sicure strade d’inferno, pochi onestamente credo ritorneranno nei
ranghi novusordisti, e qualcuno forse giungerà a compiere delle riflessioni più
profonde, che presentiamo di seguito.
IV. Conclusioni.
Il Motu Proprio dice che i vescovi sono i custodi della
tradizione. Ciò è vero, e non è certo un’invenzione del Vaticano II, ma il Vaticano
II e il Motu Proprio commettono una grave omissione; se leggiamo le epistole di
S. Cipriano di Cartagine, scopriamo che per quel santo Padre della Chiesa i
custodi della tradizione sono “i vescovi, il clero e tutto il popolo”, insomma
il πλήρωμα della Chiesa. Nel XVI secolo, riporta il Righetti, la Cattedrale di
Saragozza decise di adottare il Breviario del Quiñonez, un ufficio inventato di
sana piana dall’omonimo cardinale spagnolo per sopperire alla pesantezza e
lunghezza dell’ufficio romano (nulla di diverso da quel che farà Pio X quattro
secoli dopo, in buona sostanza…), senonché alla sera del Mercoledì Santo,
iniziato l’Ufficio delle Tenebre il popolo convenuto per la sacra funzione,
udito che i salmi non erano quelli tradizionali, e pensando che fossero
divenuti ugonotti, presero a lapidare i canonici della cattedrale, che presto
ritornò ai libri liturgici tradizionali. Il popolo è al pari dei vescovi il
custode delle tradizioni, e anzi verrebbe dire più dei vescovi, che spesso si
sono dimostrati – come nel titolo – sovvertitori e distruttori delle
tradizioni, e gli esempi si sprecherebbero.
D’altra parte, la mancata resistenza alle gravissime
riforme liturgiche del secolo XX rende patente che questo spirito e questa
consapevolezza era venuta decisamente meno nella popolazione cattolica degli
ultimi secoli, assuefattasi a un antitradizionale e deleterio principio d’autorità,
per cui una singola persona detentrice di autorità, quasi assoluta, può
modificare a suo piacimento tutta la tradizione della Chiesa. Qui sta il
problema principale, in una natura verticistica in cui non è più Dio al
vertice, ma un uomo, sia esso il Papa o il vescovo: e, come ha ben scritto un
amico, ora che ha abolita la liturgia apostolica, al Papa non resta che abolire
Dio, e sostituirlo definitivamente con se stesso, completando un secolare percorso
di deriva. Se i movimenti “tradizionalisti” non si accorgeranno di questo
fondamentale problema, e continueranno a resistere ai singoli danni senza
indagare alla radice dei problemi, non riusciranno mai a risolvere la terribile
impasse in cui si ritrova oggi il cattolicesimo.
A tutti coloro che, giustamente, si sentono delusi
da questo imperioso e dittatoriale provvedimento contro la tradizione
apostolica, ricordo che c’è un luogo ove la liturgia millenaria della Chiesa e
la tradizione apostolica non potranno mai essere aboliti, poiché non vi è un
Sommo Pontefice che si arroghi il diritto di farlo; il luogo ove si fa e si
farà come si è sempre fatto, in ogni dove, sempre e da tutti.
Buona sera. Ho letto con molto interesse il suo scritto che trovo molto ragionevole. Mi sembra di capire che il summorum pontificum, pur con i suoi limiti in fondo aprisse le porte a una restaurazione della mentalità tradizionale e delle sue forme nella chiesa. Certamente era un primo passo, magari insufficiente ma un "romperere il ghiaccio" e forse per questo è stato così osteggiato. Poi non dubito che ci siano stati problemi pastorali originati da certe esagerazioni di chi ha usato il vetus ordo.
RispondiEliminaMa sembra che le nuove disposizioni vadano in senso opposto come dice lei: estinguere il vecchio rito dal cuore della gente come si fece in Inghilterra ai tempi di Cranmer, solo che qui certe esagerazioni di alcuni beneficiati dal Summorum Pontificum hanno dato man forte.
Ma allora dobbiamo rassegnarci a perdere quel tesoro che molti di noi hanno conosciuto, proprio grazie a Benedetto xvi?
E si torna ancora a riflettere sui limiti del potere papale che sembra essere davvero il vero dogma che mette d'accordo modernisti e tradizionalisti.
Circa il luogo dove la mentalità e le forme liturgiche tradizionali saranno sempre presenti dove lo si trova? Se si va avanti così sembra di capire non nella chiesa romana. E allora questo luogo siamo noi stessi? La nostra anima?
Gentilissimo, che il Summorum Pontificum, nonostante tutti i suoi limiti, abbia avuto un effetto benefico nell'avvicinare molte anime alla Tradizione è indubbio. La messa del '62 è stata, anche per il sottoscritto, l'inizio di un percorso che ha portato a guardare più indietro e alla vera tradizione; i problemi vi sono quando la gente si fossilizza sul '62 e, rifiutandosi di ragionare e metterlo in dubbio come aveva fatto col Novus Ordo, non ne riconosce i problemi e non va più a fondo.
EliminaCirca quel luogo, ove il potere assoluto del Papa - che come ben dice mette d'accordo "tradizionalisti" e modernisti - non esiste, è la Chiesa di Cristo, che non verrà mai meno sino alla fine dei tempi. Bisogna solo capire qual è.
Ma come fecero nella Russia quelli che non accettarono le riforme (anche li di natura liturgica e rituale) del Patriarca Nikon a sopravvivere e avere liturgia e sacramenti nel loro "vetus ordo"? E noi, non potremmo sperare in una riforma della riforma (per usare un concetto di Papa Benedetto forse non m9lto gradito) che possa alla fine restaurare quella mentalità e quelle forme tradizionali magari in piccole cellule di cristiani un po' come fecero i monasteri nell' alto medioevo? Altrimenti non resterebbe che concludere che tutto è perduto.
RispondiEliminaMa ci saranno ancora preti vescovi e laici che osservano la autentica tradizione e che rendono visibile anche tra noi latini la chiesa di Cristo?
In Russia resistettero, anche subendo le cannoneggiate (al monastero delle Solovki) o gli esili. E comunque si trattava di riforme ben diverse nella sostanza, seppur sicuramente inopportune e incanalate in modo autoritario: sostanzialmente l'adozione in blocco dell'uso bizantino-greco (modificato in una forma che definiamo bizantino-slavo) a scapito del bizantino-russo; non la creazione ex novo di una liturgia. I vecchi credenti comunque, che in buona sostanza avevano ragione, almeno quelli che non precipitarono in eresie millenaristiche o simili, erano soprattutto avversati dal potere imperiale, oggi - seppur la comunione formale non sia completa se non negli edinovieri - starovieri e novovieri sono tra loro armonizzati.
Elimina"eversores" ma anche "occisores" è certamente più appropriato per indicare quelli che in teoria dovrebbero esser custodes, ma che di fatto non lo sono. Per quanto riguarda le sequenze bisogna tener presente un semplicissimo dato: Pio V non dice che il "suo" messale è quello pubblicato a Milano nel 1474 (nell'edizione del 1494 stampata a Venezia). Questo lo dici tu. Pio V parla di "emendazione", dice di "aver diligentemente collazionato tutti i codici raccomandabili per la loro castigatezza ed integrità", afferma di aver "inoltre consultato gli scritti di antichi e provati autori, che ci hanno lasciato memorie sul sacro ordinamento dei medesimi riti". Insomma da nessuna parte si può trovare nelle parole di Pio V l'affermazione che il messale che promulgava fosse la fotocopia di quello del 1474/1494. Anzi, dal tenore dei suoi discorsi, si evince chiaramente che la fonte dalla quale attinge è molteplice, non unica. In questo senso dunque è possibile affermare che egli ha espunto le sequenze, che certamente è pure quello che già faceva il messale milanese-veneziano mentovato. Bisogna stare attenti a non proiettare nel passato le nostre valutazioni moderne. Il messale del 1494 e quello del 1570 sono dunque pressoché identici non perché uno sia la fotocopia dell'altro, ma perché entrambi i redattori han compiuto un lavoro che portò al medesimo risultato E' dunque errato affermare che il messale del 1570 sia la riproposizione di quello del 1494. Esprimersi in tali termini significa dare del bugiardo a Pio V. d. Filiberto M.
RispondiEliminaCertamente non s'intende dare del bugiardo a Pio V, ma come ben sai la collazione avviene a partire da un codice che si prende come base, nel metodo pre-lachmaniano, sul quale si emenda secondo gli altri codici. Tale codice per Pio V fu Venezia 1494; dopodichè la collazione con altri esemplari sicuramente avvenne, ma evidentemente egli trovò che quel codice fosse tanto ottimo (per usare un bedierismo) da apportarvi pochissime modifiche. Circa le sequenze, nessun messale "secundum consuetudinem curiae romanae" stampato tra il 1474 e il 1570 le contiene; le contengono semmai messali "romano-...", cioè versioni con il santorale e altri dettagli adattatomi al luogo.
EliminaIo non sono però certo che la collazione sia stata fatta come la descrivi tu. Credo, anzi, che fu fatta diversamente. Ovviamente posso sbagliarmi. d.f.
EliminaChe gli errori e l'apostasia siano molteplici e ubiqui non ci piove. Ma pur criticando (e delegittimando) fortemente l'istituzione bisogna stare attenti, una volta capita qual è quella vera, a non eliminarla del tutto, rischiando il millenarismo e il protestantesimo.
RispondiEliminaIl canone VI è solo per i chierici come ben dice. Circa il canone XX, è da osservare che il suo uso intiero è decaduto pressochè ovunque; trattandosi di un canone disciplinare, potrebbe essere modificato da un nuovo Concilio, che però non pare prossimo. Le rubriche pre-62 alla messa domenicale prescrivono di inginocchiarsi solo alle preci iniziali e alle parole dell'istituzione (da Hanc igitur a Unde et memores), checchè faccia la maggior parte delle persone (o peggio dei servienti) stando molto più in ginocchio. Credo che questa sia una sufficiente armonizzazione. In Russia molti s'inginocchiano anche alla domenica da "Prendete e mangiate" fino alla fine dell'epiclesi, per non parlare di quel che fanno in Romania.
Cioè fatemi capire: nelle antiche rubriche non si prescrive di stare in ginocchio per tutto il canone? Da Hanc Igitur a Unde et memores sign8fica solo per la consacrazione. Dunque stare in ginocchio per tutto il canone e poi per l' Agnus Dei non sarebbe accettabile e paradossalmente il novus ordo farebbe fare la cosa giusta: in ginocchio dallo stendere le mani sulle oblate al "mistero della fede".
RispondiEliminaPotrebbe chiarire perché non era considerato conveniente inginocchiarsi durante la messa anche da parte del celebrante, specie se parato?
'interventi decisamente meno memorabili, tra cui un’analisi pseudo-liturgica sinceramente divertente nella sua ridicolaggine secondo la quale il Padre nostro recitato da tutti nella nuova messa è illegittimo perché il Padre nostro fa parte del rito e solo il sacerdote compie il rito. '
RispondiEliminadeve essere un commento su CePC, che nella sua versione completa è anche peggio
sostenere poi che solo il sacerdote 'compie il rito' dimentica diacono, ordini minori, coro, popolo, i quali, evidentemente, fanno cose, ma non il rito
la mentalità del 'facciamo le cose solo perchè ci sono scritte nel libro' che il commento apologizzava è una cosa che mi fa venire l'orticaria, e purtroppo è ampiamente diffusa, amche tra i preti parrocchiali normali
@ Giordano
RispondiEliminaLe rubriche tradizionali sono molto chiare. Nelle messe festive e domenicali, il clero assistente sta in ginocchio alle preci ai piedi dell'altare e dall'Hanc igitur all'Unde et memores esclusive; chi si comunica, in più, sta in ginocchio dalla comunione del celebrante a "Ecce agnus Dei", mentre chi non si comunica sta in piedi. Nelle messe penitenziali, invece, si sta in ginocchio alle collette, dall'Hanc igitur alla comunione al Calice del celebrante esclusive, e poi nuovamente ai postcommunio.
Stare in ginocchio dal Sanctus all'Agnus Dei nelle messe domenicali e festive non è corretto. Se lo fa il popolo per eccesso di zelo non è un gran problema; se lo fanno il clero o i servienti diventa una forma di pietismo, ed è grave se - richiamati - non si correggono; se - come mi capitò di vedere e di esperire - il clero costringe i servienti (che pur vorrebbero fare le cose per bene) a stare in ginocchio laddove le rubriche prescrivono di stare in piedi, allora questi preti andrebbero severamente redarguiti e mandati a studiare, e soprattutto dovrebbero imparare a tacere perché il loro sacerdozio non dà loro la minima ragione né diritto d'imposizione di fronte al fatto delle rubriche e dello studio, checché ne pensino i clericalisti.
Circa la sconvenienza dell'inginocchiarsi del celebrante parato, in tutto il rito della messa non lo fa quasi mai; fanno eccezione unicamente alcuni riti della settimana santa in cui però c'è il Santissimo di mezzo, e alcune genuflessioni al graduale che hanno però forti significati (mercoledì e venerdì di Quaresima; Pentecoste...). Sono eccezioni con forti motivazioni; farlo diventare la regola, e per una motivazione flebile come una preghiera devozionale (la postura normale della preghiera è stare in piedi, la posa di adorazione e penitenza dell'inginocchiamento non dev'essere abusata) è gravemente dannoso per lo spirito liturgico.
Grazie. Essemdo ignorante non avrei mai detto che inginocchiarsi di piu' fosse gravemente dannoso per lo spirito liturgico. Avrei pensato il contrario, ma mi solleva che nel popolo questo possa essere tollerato.
RispondiEliminaCosa significa che l' inginocchiarsi dei ministri oltre il prescritto è una forma di pietismo?
In questo specifico contesto, voler essere più pii delle rubriche. Si racconta di un prete che, per devozione, diceva tutto il Canone in ginocchio; un giorno venne a trovarlo nella sua parrocchia un monaco, e vedendo ciò lo disapprovò alquanto, dicendogli: "I santi padri hanno stabilito che il Canone si dica in piedi. Credi forse di essere più devoto dei padri?"
RispondiEliminaCertamente, capisco. Molte grazie.
RispondiEliminaIn quale parte del Messale 1570 si trova la rubrica che dice di stare genuflessi dell'hanc igitur all'unde et memores?
RispondiEliminaNella rubrica "De ordine sedendi, standi, & genuflectendi, in missa solemni", che nella numerazione di Clmenete VIII è in Rubr. Gen. XVII, 4 (il Messale di Pio V ha le rubriche consecutive e non numerate). Tale rubrica rimane immutata fino al 1962, quando sarà mutata in più punti.
RispondiEliminaOvviamente m'ero scordato di dire che s'ha da inginocchiare pure alla benedizione finale.
La rubrica dice questo:
RispondiEliminaRUBRICÆ GENERALES MISSALIS XVII, 4
Ministri semper genuflectunt cum Celebrante, præterquam Subdiaconus tenens librum ad Evangelium, et Acolythi tenentes candelabra, qui tunc non genuflectunt. Et cum Diaconus cantat illa verba ad quæ est genuflectendum, ipse versus librum, Celebrans et omnes alii versus Altare genuflectunt.
Quindi i ministri e gli altri fanno le genuflessioni puntuali così come le fa il sacerdote?
Quindi non restano genuflessi per un tempo continuato?
Questa parte della rubrica si riferisce al Vangelo. Per il canone non dicono nulla sui ministri, ma parlano del clero che assiste in coro: le cui norme, in assenza di indicazioni diverse, si applicano pure ai ministri e (in teoria) ai fedeli.
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