Nella festa di S. Francesco d'Assisi, pubblichiamo un ampio stralcio dello studio "Francesco d’Assisi e la tradizione ascetica bizantina: alcune fondamentali convergenze", realizzato da Pietro Chiaranz nel 2015. Il brano è volto a sottolineare le vicinanze tra la prassi ascetica del francescanesimo originario e la tradizione monastica orientale, che vanno a esprimere in fondo la tradizione orante e liturgica della Chiesa indivisa.
Tratto da: Pietro Chiaranz, Francesco d’Assisi e la tradizione ascetica
bizantina: alcune fondamentali convergenze.
La fuga dal rumore e dai
traffici mondani è finalizzata al ritiro della propria mente nel cuore, luogo
dell’incontro con Dio, secondo i famosi passi evangelici per cui: “il Regno di
Dio è dentro di voi” (1) (Lc 17, 21), e “Se uno mi ama,
osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23). La scoperta della presenza di Dio
non avviene, però, senza che non vi sia, da parte umana, una disposizione data
dalla preghiera. La preghiera, secondo l’antica prassi patristica, non è un
modo per attirarsi la benevolenza di Dio, né è necessaria a Dio dal momento
che, come recita il salmo, “la mia parola non è ancora sulla lingua e tu,
Signore, già la conosci tutta” (Sl. 138, 4). La preghiera, piuttosto, favorisce
l’orientamento dello spirito umano verso Dio e ne allontana l’oblio. Per questo
è indispensabilmente unita alla fuga mundi. San Paolo, nei riguardi
della preghiera, è perentorio: “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta
di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni
perseveranza” (Ef 6, 18).
Francesco
d’Assisi ha presente questo tipo di tradizione fino a divenire un uomo fatto
preghiera: “Spesso senza muovere le labbra, meditava a lungo dentro di sé e,
concentrando all’interno le potenze [le forze] esteriori, si alzava con lo
spirito al cielo. In tal modo dirigeva tutta la mente e l’affetto a quell’unica
cosa che chiedeva a Dio: non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli
stesso tutto trasformato in preghiera vivente” (2). E ancora: “Quando,
invece, pregava nelle selve e in luoghi solitari, riempiva i boschi di gemiti,
bagnava la terra di lacrime, si batteva con la mano il petto; e lì, quasi
approfittando di un luogo più intimo e riservato, dialogava spesso ad alta voce
col suo Signore: rendeva conto al Giudice, supplicava il Padre, parlava
all’Amico, scherzava amabilmente con lo Sposo” (3). Lo stile di Francesco
passò inevitabilmente ai suoi primi discepoli. Tommaso da
Eccleston dichiara che i frati dei primi tempi erano così fervorosi nella
preghiera che “alcuni si trovavano sempre nella cappella a pregare a qualsiasi
ora anche della notte” (4). La preghiera del Poverello era notevole
non solo quantitativamente ma pure qualitativamente. In essa doveva applicarsi
la fuga mundi, come sopra ricordato, ossia doveva essere
praticata senza distrazioni, nel senso che il pensiero non doveva disperdersi
nella molteplicità della realtà esteriore ma servire solo l’Unico necessario.
Perciò, egli “credeva di peccare gravemente, se mentre pregava era disturbato
da vani fantasmi. Quando ciò capitava, ricorreva alla confessione per
accusarsene subito. L’aveva resa così abituale questa premura, che molto
raramente era tormentato da questo genere di ‘mosche’” (5). Tommaso da Celano
racconta che una volta Francesco, mentre pregava, fu momentaneamente distratto
dalla presenza di un vaso da lui stesso realizzato. Al termine della preghiera
se ne dolse talmente che decise di distruggerlo (6). Quel vaso era stato la
causa di una momentanea fuga della sua mente dal cuore in cui risiede la
presenza divina, per dirla con linguaggio esicasta (7).
È
utile anche accennare che la preghiera per Francesco non era un’attività senza
rapporto con il corpo, dal momento che anche il corpo doveva accompagnare
l’adorazione dello spirito. Comunemente alla prassi fino ad allora seguita
anche nella Chiesa latina (8), è assai probabile che Francesco
accompagnasse la sua preghiera con profonde prostrazioni, come si faceva e si
fa ancora oggi nella Chiesa orientale. D’altronde, egli raccomandava: “Udendo
il nome del Quale, adoratelo con reverente timore proni verso terra: Signore
Gesù Cristo, Figlio dell’Altissimo è il suo nome, che è benedetto nei secoli” (9).
Quanto
detto fino ad ora per l’orazione personale di Francesco, si può ritrovare anche
nella tradizione ascetica bizantina. In particolare, per quanto riguarda la
preghiera continua o ininterrotta san Gregorio Nazianzeno scrive: “Bisogna
ricordarsi di Dio più spesso di quanto respiriamo, e, se è possibile dirlo, non
bisogna fare altro che questo. Anche io sono tra quelli che approvano le parole
che prescrivono di ‘esercitarsi giorno e notte’, di ‘raccontarlo a sera, al
mattino e a mezzogiorno’ e di ‘benedire il Signore in ogni circostanza’; se
bisogna anche ripetere le parole di Mosè, ‘quando riposiamo a letto, quando ci
alziamo e quando siamo in viaggio’ mentre facciamo qualunque altra cosa,
conformandosi alla purezza ricordandoci di Lui” (10). Successivamente al
Nazianzeno, questa raccomandazione - che non fa altro che riprendere il passo
paolino suaccennato e la prassi dei Padri del deserto -, è ripetuta da molti
altri. San Giovanni il Climaco, ad esempio, dice: “L’anima che di giorno si
occupa senza interruzione del pensiero di Dio, ne ha familiare il ricordo
durante il sonno” (11). Il dottore esicasta, san Gregorio
Palamas, vissuto posteriormente a Francesco d’Assisi, riprende tutta
la grande tradizione ascetica bizantina e la sistematizza. Riguardo alla
preghiera continua egli così esorta i fedeli: “Affrettiamoci, fratelli, […] a
ricambiare la divina adorazione con l’amore per Dio […], liberandoci da tutte le
cose terrene, con una continua preghiera, la salmodia e con un impegno
costantemente partecipe” (12).
Abbiamo visto che
Francesco, mentre pregava, piangeva. Le lacrime di compunzione esistono anche
nella tradizione ascetica bizantina, che segue, come già accennato, la linea
stabilita dai Padri del deserto. Queste lacrime non devono essere intese in
senso sentimentale, bensì nel modo specificato dagli antichi scritti ascetici:
esse esprimono la gioia e la dolcezza della presenza del Signore così come l’angoscia
per la distanza dell’uomo da Dio. La Scrittura, d’altronde, ricorda che “uno
spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non
disprezzi” (13) mentre il salmista scrive d’inondare
ogni notte di pianto il suo giaciglio (cfr. Sl. 6, 7). Facendo eco a ciò, i
Padri ripetono l’esperienza biblica raccomandandola. In Occidente nella Regula
Sancti Benedicti è scritto: “Sappiamo inoltre che non ci faranno
esaudire le molte parole, ma la purezza del cuore e la compunzione del pianto”(14). Gregorio Nazianzeno
parla delle lacrime come di un quinto battesimo, dopo quello allegorico,
avvenuto nell’acqua del Mar Rosso, di Mosè (cfr. 1 Cor 10,2), quello solamente
penitenziale di Giovanni Battista, quello di Cristo avvenuto nello Spirito
Santo e quello dei martiri che avviene nel sangue: il battesimo delle lacrime
“è un battesimo più impegnativo, perché è quello che bagna ogni
notte di lacrime il proprio letto e il proprio giaciglio” (15). Questa tradizione
giunge fino ai nostri giorni. San Silvano l’Atonita (1866-1938) pregava per il
mondo intero piangendo con lo spirito degli antichi asceti. Lo possiamo capire
da queste righe che riflettono la sua esperienza: "[Il Signore] a volte fa
il dono all’anima di amare il mondo. Allora, essa piange per il mondo intero e
implora il Maestro buono e misericordioso di diffondere la Sua grazia su ogni
anima avendo pietà di essa” (16). In una sua poesia si trova scritto: “La
mia anima ha sete del Signore / e con lacrime io Lo cerco” (17).
Pure
l’attenzione alla preghiera, che abbiamo visto caratterizzare Francesco
d’Assisi, è fortemente raccomandata dai Padri (18). Questo è ancora ben
presente nel mondo religioso bizantino odierno. Un esempio odierno ci è fornito
dall’Anziano Paisios del Monte Athos (1924-1994) il quale era solito
raccomandare di tenere la testa “nel frigorifero”, ossia in un modo da
congelare tutti i pensieri che possono disturbare la vita religiosa e la
preghiera. Egli raccomandava: “Non dobbiamo trascurare la preghiera [continua del
nome] di Gesù. Quando abbiamo l’occasione, la dobbiamo recitare. La nostra
mente non deve disperdersi inutilmente. Con questa preghiera l’intelletto si
riposa e gioisce” (19).
Per
quanto riguarda la preghiera comunitaria, Francesco dispose che i suoi seguissero
la liturgia in uso nella Chiesa di Roma (20), sia per la Messa che
per il Breviario, differenziandosi così dagli usi e dalle liturgie locali di
allora. Qui è importante notare il modo in cui veniva eseguita
questa liturgia nelle prime comunità francescane. Oltre a contraddistinguersi
per pietà ed attenzione, essa aveva alcune modalità molto simili a quelle
bizantine. La prassi liturgica dell’ordine in Inghilterra, durante le Veglie
notturne nelle solennità, può benissimo essere paragonata ad una agripnia (veglia)
bizantina odierna.
Tommaso
da Eccleston descrive con gioia e meraviglia il fervore dei frati nella recita
dell’Ufficio divino: “Nelle principali feste dell’anno cantavano l’ufficio con
tanto fervore, che le veglie si prolungavano qualche volta per tutta la notte;
e quando non erano che tre o quattro o al massimo sei, cantavano con solennità
e con accompagnamento musicale” (21). Si tratta, dunque, di un ufficio
notturno cantato. Chi ha pratica della vita liturgica tradizionale, laddove essa
viene ancora eseguita, sa quanto sia difficile mantenere delle ufficiature
cantante, dal momento che richiedono una certa applicazione e una particolare
specializzazione musicale. Per questo oggi è piuttosto raro trovare delle
comunità religiose in cui questa consuetudine sia praticata. E se è difficile
trovare chi esegua in canto le ufficiature diurne, è quasi impossibile
incontrare chi canti quelle notturne. Alla luce di ciò, la testimonianza di
Tommaso da Eccleston è particolarmente significativa. Non solo egli ravvisa un
notevole fervore, da parte dei frati, ma nota pure la capacità, addirittura nel
caso in cui ci siano solo tre religiosi, di far rivivere l’antica tradizione di
un’ufficiatura notturna cantata. Perciò, sotto tale aspetto, questi primi discepoli
di Francesco possono essere benissimo paragonati con il mondo monastico
bizantino.
Inoltre,
Tommaso da Eccleston ci fa sapere che i frati recitavano l’ufficio sempre in
piedi e ricorda un ministro provinciale che rimproverò aspramente un frate
seduto durante la recita delle ore canoniche(22). Questa modalità di
celebrare la liturgia delle ore, era una consuetudine praticata dallo stesso
Francesco (23). Ciò riporta alla mente quanto dice,
a tal proposito, san Giovanni Climaco: “Chi intende stare
sensibilmente alla presenza del Signore nell’intimo del cuore pregherà certo in
posizione eretta ed immobile come una colonna, senza mai farsi illudere da
qualcuno di tali demoni [dello sbadiglio e del riso durante la preghiera]” (24). Questo genere di
raccomandazioni hanno trovato sempre degli esecutori nel mondo bizantino e ve
ne sono anche ai giorni nostri. Ricordo chiaramente come, durante una veglia
notturna di alcuni anni fa’ in un monastero del Monte Athos, mi fu indicato un
monaco molto anziano giunto nel katholikon (25) per un panighiri (26). Quell’anziano aveva la
caratteristica di rimanere in piedi per tutta la preghiera, incurante della sua
veneranda età. Così, mentre io ad un certo punto mi coricai, lui era ancora là
e là lo ritrovai alcune ore dopo, verso le sette, in occasione della Divina
Liturgia. Egli era visibilmente stremato, ma tenacemente eretto. Dunque questa
consuetudine, che si riscontra nelle testimonianze relative a Francesco
d’Assisi e ai suoi primi discepoli, è propria pure al mondo religioso
bizantino.
Nella storia iniziale
del movimento francescano, si può trovare un ultimo particolare degno di nota:
l’esistenza di un frate cantore (27), il cui compito doveva consistere
nell’eseguire in modo appropriato l’Ufficio divino. È un poco quanto avviene
nelle comunità monastiche bizantine in cui esiste il cosiddetto protopsaltis (28) che svolge il
medesimo compito.
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NOTE dell’autore
1. Il
passo segue la traduzione del vangelo in uso nella Chiesa bizantina dove il
termine ἐντὸς significa “dentro” (di voi), non “in mezzo” (a voi), com’è invece
possibile trovare in molte traduzioni odierne (vedi, ad es., la traduzione CEI
della Bibbia di Gerusalemme).
2. Tommaso da Celano, Vita
seconda, 95, in FF, p. 630.
3. Ibid.
4. Tommaso da Eccleston, L’approdo
dei frati minori in Inghilterra, V, Edizioni O.R., Milano 1979, p. 37.
5. Tommaso da Celano, Vita
seconda, 97, in FF, p. 630-631.
6. Cfr. Ibid. p.
632. Tommaso da Celano aggiunge che il vaso fu fatto da Francesco nei “ritagli
di tempo e per non perdere neanche un istante”. In questo fugace appunto si
nota il senso del lavoro per il Poverello: obbligare la mente ad un impegno per
non disperdersi inutilmente. Siamo ben lungi da quella mentalità che considera
il lavoro quale valore per se stesso.
7. L’Esichìa,
o quiete, era ricercata da coloro che, fuggendo dal mondo, si ritiravano in
eremi e monasteri. Nel mondo bizantino si creò un vero e proprio movimento
esicasta il cui personaggio di spicco fu san Gregorio Palamas (1296-1359).
8. Vedi,
a tal proposito, Schmitt J.C., Il
gesto nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 275-282.
9. Francesco d’Assisi, Lettera al
Capitolo generale e a tutti i frati, in FF, p. 162.
10. Gregorio Nazianzeno, Orazione 27,
in Id., Tutte le Orazioni, a
cura di Claudio Moreschini, Bompiani, Milano 2000, p. 647.
11. Giovanni Climaco, La scala del
Paradiso. Ventesimo discorso, p. 220.
12. Gregorio Palamas, Omelia 47,
in Id., Che cos’è l’Ortodossia. Capitoli, Scritti ascetici, Lettere,
Omelie, Bompiani, Milano 2006, p. 1454.
13. Sl.
50, 19.
14. Regula
sancti Benedicti 20, 8, in Gregorio
Magno, Vita di san Benedetto e La Regola, p. 187.
15. Cfr. Gregorio Nazianzeno, Orazione 39,
p. 917. Si noti come Gregorio riprende alla lettera il salmo succitato.
16. Cfr. Larchet
J.-C., Saint Silouane de l’Athos, Éditions du Cerf,
Paris 2001, p. 167.
17. Sofronio, Archimandrita, Ascesi
e contemplazione, Servitium-Interlogos, Sotto il Monte-Schio 1998, p. 61.
18. Si
veda a titolo di puro esempio: Giovanni
Climaco, La scala del Paradiso, 118, Cittanuova, Roma
1995, p. 217; Regula sancti Benedicti 19, 7 in Gregorio Magno, Vita di san
Benedetto e La Regola, p. 187; Isacco
di Ninive, Grammatica di vita spirituale, Discorso 7, San
Paolo, Roma 2009, pp. 162-169.
19. Tatsis D., Non cercate una
santità a buon mercato, Edizioni Dehoniane, Roma 1995, p. 68.
20. La
liturgia romana, in quel tempo, aveva molti elementi in comune con il mondo
cristiano orientale. Ne accenniamo solamente due: il battesimo era ancora
effettuato esclusivamente per immersione e il segno della croce avveniva non
con la mano distesa, ma in modo simile a quello bizantino, per indicare la
confessione dell’unità nella trinità divina. Vedi Righetti M., Storia Liturgica, 1, Marietti,
Torino, pp. 369-370; Ibid., 4, p. 109.
21. Tommaso da
Eccleston, L’approdo
dei frati minori in Inghilterra, V, pp. 37-38.
22. Id., L’approdo dei frati minori
in Inghilterra, Ibid., XIV, p. 88.
23. Id., Vita seconda di san
Francesco d’Assisi, 62, in FF., p. 631.
24. Giovanni Climaco, La scala del Paradiso, Cittanuova,
Roma 1995, p. 217.
25. La chiesa
principale del monastero.
26. Solennità
liturgica.
27. Cfr. Esser K., Origini e inizi del
movimento e dell’ordine francescano, p. 132.
28. Letteralmente:
“primo cantore” o “cantore principale”.