lunedì 29 ottobre 2018

La simbologia della Creazione nell'ufficio vespertino

Tra settembre e ottobre, dopo l'ininterrotta serie di feste iniziata a giugno, cadono non pochi giorni in cui è possibile gustare l'ufficio feriale del rito romano, con il suo antichissimo patrimonio innodico, che (nonostante qualche, talora troppo invadente, adattamento metrico ad opera di Urbano VIII nel XVII secolo) rimonta agli uffici monastici così come si cantavano almeno dal VII secolo.

Osservando gl'inni dei Vesperi, è possibile notare l'esistenza di una forte simbologia legata alla Creazione: durante i sette giorni della settimana gl'inni assegnati ripercorrono i sette giorni della Creazione, quasi come se essa si rinnovasse in quel momento. Analizziamo brevemente tali inni, tenendo presente che la settimana inizia con il vespero del sabato, che danno inizio al primus dies che è la Domenica.

  • Sabato: Jam sol recedit igneus; è un inno di lode alla Trinità, alla Divinità che esiste da prima di tutti i secoli; prima che ogni cosa fosse creata, Essa esisteva, ed Essa creò ogni cosa, sicché non è possibile iniziare a ripercorrere la Creazione senza lodare il suo sommo principio.
  • Domenica: Lucis creator optime; la Creazione della luce, del giorno e della notte.
  • Lunedì: Immense coeli conditor; Creazione e separazione del cielo, della terra, delle acque sopra la terra.
  • Martedì: Telluris alme conditor; la separazione della acque dalla terra.
  • Mercoledì: Coeli Deus sanctissime; la creazione del sole, della luna e delle stelle.
  • Giovedì: Magnae Deus potentiae; la Creazione degli animali.
  • Venerdì: Hominis superne conditor; la Creazione dell'uomo.

Per comprendere quest'attenta scelta operata dalla nostra tradizione, è necessario considerare un elemento tanto imprescindibile quanto dimenticato della nostra liturgia, ossia il suo carattere cosmico. La liturgia cristiana, in quanto espressione di una Religione fortemente uranica, non può prescindere dal ciclo celeste. Se consideriamo questo carattere, unitamente al fatto che nella tradizione ebraica (ripresa poi da quella Cristiana) il giorno va da tramonto a tramonto, il Vespero è il primo momento di tutta la giornata liturgica, e dunque ben si adatta a rappresentare l'inizio di tutto, ossia la divina Creazione del cielo e della terra. Subito dopo il Vespero, però, vengono le tenebre: sono le tenebre del peccato originale, e un'atmosfera di contrizione domina tutto l'ufficio notturno, finché giunge il giorno, e sul finire del Mattutino (cioè il canto del Benedictus delle Lodi) sorge il Sole di Giustizia, che rischiara coloro che sono nelle tenebre e nell'ombra della morte; e si compie così la storia della Salvezza, con la celebrazione della Messa, cantata al mattino, quando la luce solare che filtra da Oriente rappresenta Cristo che viene, nella quale ha compimento l'attesa del Salvatore che si è proclamata durante tutte le ufficiature notturne, e nella quale infine si rinnova il Divin Sacrificio della nostra Redenzione.


Una simbologia pressoché identica esiste nell'ufficio vespertino bizantino, che inizia, subito dopo la benedizione e il Δεῦτε προσκυνήσωμεν, con un προοιμιακὸς ψάλμος fisso, ossia il salmo 103, non a caso conosciuto presso i Padri della Chiesa come "Il Poema della Creazione". La simbologia sottesa è ovviamente molto simile: riporto il commento che ne fa il padre Andrej Chizhenko, apparsa diversi mesi fa su Pravoslavie.ru

"E al salmo, dopo l'esclamazione "Anima mia, benedici il Signore", si apre dinnanzi a noi tutta la cronaca della Creazione. L'inizio dei Vespri è un simbolo dell'esistenza pre-eterna di Dio - della Santissima Trinità - e della Creazione dal nulla operata dall'Altissimo. Ogni versetto di questo salmo è traboccante di denso lirismo e di profondo significato. Ad esempio, il primo verso: Mio Signore, mio Dio, sei veramente grande: di onore e di maestà ti sei vestito, ci narra che Dio è inconoscibile e incomprensibile nella sua essenza, sia per gli angeli che per gli uomini, ed è più potente di qualsiasi creatura sulla Terra: il santo Re e profeta Davide ci offre un parallelo con la Genesi, il primo libro della Bibbia, narrandoci la Creazione. Dio è vestito di una luce inavvicinabile e veste i Cieli così come un uomo è rivestito della propria pelle.

Dopodiché, il salmo fa un parallelo con la Genesi anche sulla Creazione degli Eccelsi e della Terra: Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne.  Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno.

Il salmo 103 ci parla della creazione delle nuvole, dei venti, delle tempeste, e degli Angeli, servitori della Gloria di Dio, che lo servono in tutto l'Universo. E infine vi è un passaggio interessante del salmo: e [hai creato] il mare solcato dalle navi, ove alberga il Leviatano, affinché sia deriso. Il prof. Alexander P. Lopukhin ritiene che il leviatano sia un antico essere estinto (un dinosauro, per intendersi), descritto anche in Giobbe (cap. 40-41). Sicuramente non è un coccodrillo dei tempi moderni! Sant'Atanasio il Grande dava invece un'altra interpretazione, dicendo che il leviatano sarebbe il demonio: le ultime parole del versetto, "affinché sia deriso", sembrano avvalorare questa tesi. I versi finali del salmo parlano dell'autore della vita, di Dio stesso:  Se nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati,be rinnovi la faccia della terra. Se il Signore decide di togliere il suo Spirito, ogni cosa appassisce e si degrada, e se invece il Signore manda il suo Spirito, ogni cosa fiorisce e vive. Gli ultimi versi alludono alla caduta dei demoni e dei peccatori, e la glorificazione di Dio: Scompaiano i peccatori dalla terra e più non esistano gli empi. Benedici il Signore, anima mia. E così si conclude la storia sacra del primo mondo, e inizia l'Alleanza in attesa del Messia.

Per questo il Salmo 103 è chiamato "introduttivo" e viene cantato ai Vespri con grande enfasi, aprendo le porte regali e incensando tutta la chiesa (1): è segno di comunione diretta fra Dio e l'Uomo, il fatto che il sacerdote incensi il popolo in chiesa è simbolo del fatto che Dio camminava fra gli uomini, e la chiusura delle porte regali alla fine del salmo rappresenta la cacciata di Adamo dall'Eden. Ecco la storia di pentimento, di lotta contro il peccato, di contrizione. E inizia ora la storia dell'attesa del Salvatore, del Redentore, il nostro Signore Gesù Cristo (2).

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NOTE di Traditio Marciana

(1) Quello d'incensare la chiesa durante il salmo introduttivo è un costume unicamente praticato nella Chiesa Russa, laddove gli altri tipici, sul modello di quello costantinopolitano, prescrivono semplicemente che il sacerdote legga segretamente le preghiere della sera.
(2) Il modello è sicuramente l'ufficiatura monastica, particolarmente quella che ancor oggi si pratica sull'Athos, l'agripnìa, in cui una sola lunghissima celebrazione (circa 13 ore!) senza soluzione di continuità ha inizio con il Vespero alla sera e termina all'alba del giorno successivo con la Divina Liturgia. Il tipico della Chiesa Russa conserva ciò solo come simbolo, ovverosia prescrive di celebrare unitamente Vespero e Mattutino alla vigilia delle grandi feste, in modo che simbolicamente questa celebrazione duri "tutta la notte" (appunto in russo si definisce Всено́щное бде́ние, "veglia di tutta la notte"), ancorché nell'uso parrochiale non superi la durata di due ore.

Nelle immagini: scene dai mosaici della Creazione del duomo di Monreale, XII secolo (segnatamente, creazione del cielo; creazione degli animali; creazione della donna).

sabato 27 ottobre 2018

L'Epistola Cattolica di San Giuda Taddeo

Nella vigilia della festa dei Santi Simone e Giuda, presentiamo brevemente la lettera di «Giuda, servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo», dunque tradizionalmente attribuita all'Apostolo San Giuda Taddeo (cfr. Origene, Ad Romanos 5, I e Tertulliano, De cultu fem. I, 3).

La qualifica servo di Gesù Cristo può indicare semplicemente che chi scrive è un cristiano: qui però presenta uno che ha un servizio speciale, un ministero nella comunità dei fedeli. Circa l'autore, taluni hanno avuto perplessità nell'identificare il Taddeo come l'autore di tale epistola: nel testo della lettera l'autore non si identifica come un apostolo e farebbe riferimento agli apostoli come ad un gruppo di cui non fa parte (17-18). Tuttavia il versetto 1,17-18, secondo altri autori, non sarebbe sufficiente ad escludere Giuda dal circolo dei dodici apostoli.
Secondo diversi autori si potrebbe trattare anche del Giuda riportato come fratello di Gesù (Adelfòtheos) dalle fonti evangeliche, o ancora di altri personaggi con lo stesso nome.
Alcuni studiosi ritengono inoltre lo scritto pseudoepigrafico: l'autore sarebbe un anonimo ebreo cristiano a conoscenza della Lettera di Giacomo e di altre opere ebraiche, come l'Assunzione di Mosè e l'Apocalisse di Enoch, che avrebbe voluto dare maggiore credibilità allo scritto associandogli il nome di uno dei fratelli di Gesù.
In ogni caso, la Tradizione identifica il Taddeo come autore di tale epistola, e tanto basti almeno nell'attribuirle il suo valore religioso.

La data di composizione è incerta. Nella lettera la fine del mondo e il giudizio universale sono peraltro attesi come imminenti e gli insegnamenti degli apostoli sono tramandati come orali; questi elementi, insieme alla mancanza di riferimenti alla distruzione del Tempio, farebbero risalire la datazione al tempo del cristianesimo primitivo, con date proposte oscillanti tra il 50 e il 90, ancorché taluni abbiano cercato di postdatarla sino ai primi decenni del II secolo. Ai fini della datazione può essere utile considerare che da una parte l'autore forse conosceva la Lettera di Giacomo, dall'altra che la Seconda lettera di Pietro (3,3) cita Giuda 18.

Le comunità destinatarie dovevano essere composte in maggioranza di giudeo cristiani, dal momento che la lettera fa largo uso dell’A.T e di apocrifi giudaici, perciò bisogna orientarsi verso le aree della Palestina e della Siria, anche considerando che tali aree non erano le destinatarie della seconda lettera di Pietro.

Giuda voleva già scrivere una lettera alle comunità Palestinesi e dell’area Antiochena, ma l’impulso determinante lo ebbe di fronte all’infiltrarsi in esse di falsi cristiani. Questi perversi maestri prima erano ai confini delle comunità perché molto compatte, ma poi camuffandosi si erano infiltrati fino a partecipare alle agapi fraterne.
La loro identità, così come la presenta la lettera, è affine a quella dei Nicolaiti.  Questi falsi maestri pretendevano di dominare i demoni con gli insulti e non con la potenza di Cristo; e poiché scendevano nel terreno dell’odio, rimanevano vittime dei demoni. Questi perversi maestri negavano la divinità di Cristo e aprivano alla licenziosità della carne professando il dualismo manicheo, intendendo che i peccati della carne non contaminano lo spirito, poiché esso è dotato della conoscenza (gnosi).

L’autore è chiaramente di origine giudaica, ma conosce bene la lingua greca, nonostante la presenza di numerosi semitismi, desunti in gran parte dai LXX. La lettera è piena di vivacità, energia autorevole che gli proviene, considerandola posteriore alla seconda di Pietro, dall’autorevolezza di quella lettera, oltre che dal temperamento dell’autore che doveva essere impetuoso, e perciò molto diverso dal mite Giacomo il minore al quale si attribuisce la “Lettera di Giacomo”. La padronanza della lingua greca potrebbe far considerare che Giuda si sia servito di uno scriba che abbia migliorato il suo dettato. Il lessico è più ricco di quello usuale del Nuovo Testamento: contiene ben 14 hapax legomena nella Bibbia e un hapax legomenon nell'intera produzione letteraria in lingua greca a noi giunta. Il Mayor e altri autori hanno fatto notare anche una sapiente costruzione retorica, con vasto impiego di figure di posizione, particolarmente il cosiddetto triplet.

La lettera è stata inserita presto nel canone della Bibbia, anche se con diverse incertezze. È elencata nel canone muratoriano (II secolo: "epistola sane Judae... <inter> catholicas habetur") ed Eusebio di Cesarea la pone tra i libri disputati anche se accettati da molti (Hist. Eccl. III, 25) . L'elemento che più ha prodotto incertezze circa la canonicità, sicché San Girolamo attesta che tale lettera a plerisque reicitur, è l'uso di fonti apocrife.

L'autore fece infatti ampio uso di fonti considerate non canoniche, l'Assunzione di Mosè e il Libro di Enoch, e forse anche il Testamento di Naphtali e il Testamento di Asher. Il Libro di Enoch è un testo ebraico composto con una lunga storia compositiva, inclusa tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.; il versetto Enoch 1,9 è citato letteralmente in Giuda (14,15), il riferimento ad Enoch come il «settimo da Adamo» è ripreso da Enoch 40,8 e la descrizione degli angeli caduti contenuta in Giuda 6,13 si basa su Enoch. Interessante è notare che S. Agostino (cfr. De Civitate Dei 15) ipotizzi la "santità" del libro di Enoch proprio per il fatto ch'esso sia citato nell'epistola di Giuda, con un ragionamento dunque inverso rispetto a quello degli altri Padri. La citazione dell'Assunzione di Mosè è riconosciuta come tale da autori patristici come Origene di Alessandria, Clemente di Roma e Didimo il Cieco, e fanno riferimento a un'edizione dell'Assunzione di Mosè differente da quella più tarda conservatasi.

Sia Clemente di Roma (+ 96 d.C) che Clemente di Alessandria (+ 200 d.C) hanno fatto alcuni accenni all'autenticità della lettera di Giuda. Anche Tertulliano ne parla come se la sua canonicità sia accettata da tutti. La fede della Chiesa siriaca sembrerebbe attestata dalle citazioni di S. Efrem, nelle opere conservate in greco (Opera omnia graece et latine III), ma tali opere risultano spurie. Si trovano poi delle allusioni più o meno chiare nella Didachè (2, 7), presso S. Policarpo (Ad Philipp.), nel Martirio di S. Policarpo, presso Teofilo Antiocheno ed altri (così il Chaine, pp. 261-262). San Girolamo, come detto, seguendo la linea eusebiana, accetta la canonicità riferendoci però le numerose contestazioni: "Giuda lasciò una piccola epistola che è tra le sette cattoliche. Imperocché cita la testimonianza del libro di Enoch, che è apocrifo, da parecchi viene ripudiata; tuttavia meritò autorità a motivo della sua antichità e dell'uso che se ne fa nelle Chiese, e si elenca tra le Sacre Scritture" (De viris ill. 4; si noti che il summenzionato plerique, secondo alcuni critici, in Girolamo equivale a nonnulli, cioè "alcuni" anziché "parecchi"). Molti autori antichi e moderni hanno dissertato circa il valore da attribuire alle predette citazioni di libri di tradizione giudaica non ammessi nel canone scritturale; in generale, parrebbe conveniente stimare che, pur non essendo riconosciuti d'ispirazione divina, tali scritti contengano comunque espressioni "sante e devote" o comunque non tacciabili d'eresia (con le parole virgolettate la prefazione alla Volgata Sisto-Clementina descrive i libri ammessi nella Septuaginta o dalla Volgata geronimiana, ma non inseriti nel canone cattolico, che vennero messi pertanto in appendice a suddetta edizione, proprio a sottolinearne il carattere edificante ancorché non di divina ispirazione). L'unico Concilio Ecumenico a confermare la canonicità dell'epistola fu il Tridentino, conciossiaché pure le Chiese d'Oriente la tengan per divinamente ispirata e la annoverino nel canone.

Tra gli altri sostenitori della canonicità della lettera s'identificano S. Filastrio, S. Lucifero di Cagliari, S. Ambrogio e S. Agostino in Occidente; S. Atanasio e S. Cirillo d'Alessandria, S. Epifanio e S. Gregorio Nazianzeno in Oriente.

Di seguito è possibile scaricare il testo dell'Epistola Cattolica di S. Giuda nell'autorevole traduzione italiana (1a ed. 1778) del dotto mons. Antonio Martini (1720-1809), Arcivescovo di tutta Firenze, con testo latino a fronte, apparato critico e commento del medesimo mons. Martini e, in appendice, discordanze tra il testo della Volgata di S. Girolamo preso come riferimento e la versione greca.

EPISTOLA DI SAN GIUDA in pdf

giovedì 18 ottobre 2018

"O sacerdote che vuoi cantare la messa..."

L'antico Messale Aquilejese si apriva con un carmen in passionem Christi dedicato ad sacros religiososque sacerdotes. Si trattava di un piccolo componimento di dieci esametri latini che esortano il sacerdote che vuole cantare la messa a far memoria del Calvario e dei dolori patiti dal Divin Redentore, cosicché possa degnamente ed efficacemente ripresentarne il Sacrificio. Si tratta di uno dei molti componimenti poetici latini inseriti a mo' di didascalia nel messale del Patriarcato (molto noti, e riportati pure in messali di altri usi locali, sono i carmi che accompagnano i vari mesi del calendario liturgico). Probabilmente la lettura di questa semplice e breve composizione, non a caso tuttavia posizionata in un luogo così rilevante qual'è la prima pagina del messale, gioverebbe anche oggi ai sacerdoti, e specialmente potrebbe far riflettere la vaga cristianità dei nostri tempi sulla realtà del Sacrificio di Cristo e soprattutto sulla reale natura del Santo Sacrificio della Messa.


Carmina in passionem Christi.
Ad sacros religiososque sacerdotes.

Tu quicumque velis missam cantare sacerdos,
Funditus esto memor totaque mente revolve:
Qualia sit Christus per te certamina passus.
Velato capite tibi risum signat amictus:
Linea veste nota: quæ sit delusus in alba.
Vincla repraesentant sua cingula stola manipulus.
In casula noscas quod purpura significatur.
Calvarie memorare locum dum pergis ad aram
et recolas Christum: dum pergeret ad moriendum.
Hæc sic cuncta pie memorando: pectora tunde.


Versi sulla passione di Cristo.
Ai consacrati e devoti sacerdoti.

O sacerdote qualunque che vuoi cantare la messa,
ricordati bene e considera con tutta la mente:
qual genere di dolori Cristo abbia patito per te.
Con il capo velato, l'amitto taccia le tue risate,
con la veste di lino pensa che Egli fu schernito nella bianca veste.
La stola, il cingolo e il manipolo raffigurino le sue catene.
Nella casula sappi che fu rivestito di porpora.
Rammenta il luogo del Calvario, mentre ti dirigi all'altare,
e ricordati di Cristo: mentre si dirigeva alla morte.
Così, nel ricordar piamente tutte queste cose, percuotiti il petto.

lunedì 15 ottobre 2018

ULTIM'ORA: Mosca rompe completamente la comunione con Costantinopoli

E' arrivata poco fa la dichiarazione finale del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Russa, che, riunitosi ufficialmente a Minsk, ha elaborato un documento nel quale si contestano storicamente e canonicamente tutte le unilaterali prese di posizione del Santo Sinodo della Chiesa Costantinopolitana, e nel quale è contenuto anche il passo che segue:


Принятие в общение раскольников и анафематствованного в другой Поместной Церкви лица со всеми рукоположенными ими «епископами» и «клириками», посягательство на чужие канонические уделы, попытка отречься от собственных исторических решений и обязательств, — все это выводит Константинопольский Патриархат за пределы канонического поля и, к великой нашей скорби, делает невозможным для нас продолжение евхаристического общения с его иерархами, духовенством и мирянами. Отныне и впредь до отказа Константинопольского Патриархата от принятых им антиканонических решений для всех священнослужителей Русской Православной Церкви невозможно сослужение с клириками Константинопольской Церкви, а для мирян — участие в таинствах, совершаемых в ее храмах.

L'accettazione in comunione degli scismatici e degli anatemizzati in un'altra Chiesa Locale con tutti i "vescovi" e "chierici" ordinati da loro, un'invasione nella competenza canonica altrui, un tentativo di rinuncia alle proprie decisioni e ai propri obblighi storici, tutto ciò porta il Patriarcato di Costantinopoli fuori dalla liceità canonica e, con nostro grande folore, rende impossibile per noi continuare la comunione eucaristica con i suoi gerarchi, i suoi chierici e i suoi laici. D'ora in avanti, e fin quando il Patriarcato di Costantinopoli non si rifiuti di prendere decisioni anticanoniche, per tutti gli ecclesiastici della Chiesa Ortodossa Russa è vietata la concelebrazione con i chierici della Chiesa di Costantinopoli, e per i laici di partecipare ai Sacramenti celebrati nelle sue chiese.

(FONTE)

Attendiamo aggiornamenti sulla vicenda, e dichiarazioni del Patriarcato di Costantinopoli in merito.

venerdì 12 ottobre 2018

Costantinopoli entra in comunione con gli scismatici ucraini

Ieri il Santo Sinodo di Costantinopoli ha rilasciato una terribile dichiarazione che prosegue nella direzione di scisma già annunciata da oltre un mese: sostanzialmente, esso dichiara (con approvazione all'unanimità, com'è prassi nel "libero" sinodo fanariota) che proseguirà strenuamente nella concessione d'imperio dell'autocefalia (non richiesta) all'Ucraina, e che sono state tolte le scomuniche ai gerarchi delle "chiese indipendenti" ucraine, che sono stati reintegrati nella loro posizione canonica. Come volevasi dimostrare, l'autocefalia che si vuol concedere non è per gli Ortodossi ucraini, ma per gli scismatici filetisti (in buona parte eterodiretti da poteri occidentali antirussi). Di seguito riporto la dichiarazione del Fanar.
Il Santo Sinodo della Chiesa Russa si riunirà d'urgenza il 15 ottobre p.v. per deliberare in merito; alcuni vescovi moscoviti hanno già dichiarato che quest'atto è anticanonico, perché si reintegrano degli scismatici senza che costoro si siano pentiti del loro atto di separazione, e anzi dando loro ragione. Intanto, è pervenuta una lettera di sostegno al Patriarcato di Mosca da parte del Primate di Cechia e Slovacchia (QUI in inglese).
Infine, notizia di pochi minuti fa, la Chiesa Ortodossa canonica d'Ucraina (Metropolia di Kiev e di tutta l'Ucraina, rispondente al Patriarcato di Mosca) ha dichiarato che non parteciperà al sinodo per l'unificazione delle chiese non-canoniche, sentenziando un lapidario ma eloquente e indiscutibile: "Noi siamo già la locale chiesa canonica".


Comunicato del Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico
sulla questione ecclesiastica in Ucraina

Presieduto da Sua Santità il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, il Sacro Sinodo è convocato per la sua sessione regolare dal 9 all'11 ottobre 2018, al fine di esaminare e discutere gli articoli sulla sua agenda.
Il Sacro Sinodo ha discusso a lungo e in particolare sulla questione ecclesiastica dell’Ucraina, in presenza di S. Ecc. l’Arcivescovo Daniel di Pamphilion e di S. Ecc. il Vescovo Ilarion di Edmonton, Esarchi Patriarcali in Ucraina, e in seguito alle estese deliberazioni ha decretato:

1) Di rinnovare la decisione già presa, che il Patriarcato Ecumenico proceda alla concessione dell’autocefalia della Chiesa di Ucraina.

2) Di ristabilire, in questo momento, lo stavropigiale a Kiev del Patriarca Ecumenico [Monastero dipendente direttamente dal Patriarcato di Costantinopoli, ndt], uno dei suoi molti stavropigiali da sempre esistiti in Ucraina.

3) Di accettare ed esaminare le petizioni di ricorso di Filarete Denisenko, Makariy Maletych e dei loro seguaci, che si sono trovati in scisma per ragioni non-dogmatiche, in conformità con le prerogative canoniche del Patriarca di Costantinopoli, per ricevere tali petizioni da parte di gerarchi e di altri sacerdoti di tutte le chiese autocefale.
Di conseguenza, i summenzionati sono stati canonicamente ristabiliti nei loro ranghi gerarchici o presbiterali, e i loro fedeli sono stati ripristinati alla comunione con la Chiesa.

4) Di revocare il vincolo giuridico della Lettera Sinodale dell’anno 1686, rilasciata per le circostanze dell’epoca, che concesse, per motivi di ikonomìa, il diritto al Patriarca di Mosca di ordinare il Metropolita di Kiev, eletto dall’Assemblea clericale e laicale della sua diocesi, che avrebbe commemorato il Patriarca Ecumenico in ogni celebrazione della Divina Liturgia, proclamando e affermando la sua dipendenza canonica dalla Chiesa Madre di Costantinopoli.

5) Di appellarsi a tutte le parti coinvolte, perché evitino l’indebita appropriazione di chiese, monasteri e altre proprietà, nonché evitino qualsiasi altro atto di violenza o rappresaglia, affinché la pace e l’amore di Cristo possano prevalere.

Patriarcato Ecumenico, 11 ottobre 2018
Dalla Segreteria del Sacro Sinodo

 + Il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo,
diletto fratello in Cristo e fervente intercessore presso Dio

giovedì 11 ottobre 2018

Tὴν ὄντως Θεοτόκον, σὲ μεγαλύνομεν

Nella festa della Divina Maternità di Maria Santissima, ricordiamo il Sacrosanto Concilio di Efeso, terzo dei Concili Ecumenici, che fissò l'insegnamento dommatico in tale materia, definendo Maria τὴν ὄντως Θεοτόκον ("veramente la Deipara").


FORMULA DI UNIONE
del Sacrosanto Concilio di Efeso

Per quanto poi riguarda la Vergine madre di Dio, come noi la concepiamo e ne parliamo e il modo dell'incarnazione dell'unigenito Figlio di Dio, ne faremo necessariamente una breve esposizione, non con l'intenzione di fare un'aggiunta, ma per assicurarvi, così come fin dall'inizio l'abbiamo appresa dalle sacre scritture e dai santi padri, non aggiungendo assolutamente nulla alla fede esposta da essi a Nicea.
Come infatti abbiamo premesso, essa è sufficiente alla piena conoscenza della fede e a respingere ogni eresia. E parleremo non con la presunzione di comprendere ciò che è inaccessibile, ma riconoscendo la nostra insufficienza, ed opponendoci a coloro che ci assalgono quando consideriamo le verità che sono al di sopra dell'uomo.
Noi quindi confessiamo che il nostro signore Gesù figlio unigenito di Dio, è perfetto Dio e perfetto uomo, (composto) di anima razionale e di corpo; generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, nato, per noi e per la nostra salvezza, alla fine dei tempi dalla vergine Maria secondo l'umanità; che è consustanziale al Padre secondo la divinità, e consustanziale a noi secondo l'umanità, essendo avvenuta l'unione delle due nature. Perciò noi confessiamo un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore.
Conforme a questo concetto di unione in confusa, noi confessiamo che la vergine santa è madre di Dio, essendosi il Verbo di Dio incarnato e fatto uomo, ed avendo unito a sé fin dallo stesso concepimento, il tempio assunto da essa.
Quanto alle affermazioni evangeliche ed apostoliche che riguardano il Signore, sappiamo che i teologi alcune le hanno considerate comuni, e cioè relative alla stessa, unica persona, altre le hanno distinte come appartenenti alle due nature; e cioè: quelle degne di Dio le hanno riferite alla divinità del Cristo, quelle più umili, alla sua umanità.

***

Τὴν τιμιωτέραν τῶν Χερουβὶμ καὶ ἐνδοξοτέραν ἀσυγκρίτως τῶν Σεραφίμ, τὴν ἀδιαφθόρως Θεὸν Λόγον τεκοῦσαν, τὴν ὄντως Θεοτόκον Σὲ μεγαλύνομεν.

Tu che sei più onorevole dei Cherubini e incomparabilmente più gloriosa dei Serafini, tu che senza macchia generasti il Dio Verbo, o vera Deipara, noi Ti magnifichiamo

lunedì 8 ottobre 2018

Anniversarium Dedicationis Basilicae Cathedralis

8 octobris 1094 - 8 octobris 2018

CMXXIV anniversarium
Dedicationis Sanctae Patriarchalis Archiepiscopalis Primatialis ac Metropolitanae Basilicae Cathedralis

S. MARCI VENETIARVM


Terríbilis est locus iste: hic domus Dei est et porta coeli: et vocábitur aula Dei. Ps. 83, 2-3. Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! Concupíscit, et déficit ánima mea in átria Dómini. ℣. Glória Patri.

Questo luogo incute rispetto: questa è la casa di Dio e la porta del cielo: e sarà chiamata reggia di Dio. Quanto sono amabili le tue dimore, o Signore degli eserciti! La mia anima anela e si strugge negli atri tuoi. Gloria al Padre.


Deus, qui nobis per síngulos annos hujus sancti templi tui consecratiónis réparas diem, et sacris semper mystériis repæséntas incólumes: exáudi preces pópuli tui, et præsta; ut, quisquis hoc templum benefícia petitúrus ingréditur, cuncta se impetrásse lætétur. Per Dóminum.

O Dio, che ogni anno rinnovi per noi il giorno della consacrazione di questo tuo santo tempio, e ci fai sempre presenziare incolumi ai sacri misteri: ascolta le preghiere del tuo popolo, e concedi che chiunque entri in questo tempio per dimandar le tue grazie, si rallegri d'averle tutte ricevute. Per il Signor nostro.

sabato 6 ottobre 2018

La regola mariana di San Serafino di Sarov

In questo mese del Santo Rosario, sarà interessante riportare alcune informazioni su una simile pratica di preghiera nella Chiesa Orientale. Comunemente si dice che il Rosario mariano non faccia parte dell'ortoprassi orientale, e ciò in parte è vero, anche se vi sono forme consimili di preghiera iterata: le corde da preghiera, i cosiddetti κομποσκοίνια (komboskìnia), talora detti impropriamente "rosarii ortodossi", sono corde di 33, 50 o 100 grani sulle quali i fedeli orientali recitano la Preghiera del Cuore: Κύριε Ἰησοῦ Χριστέ, Υἱέ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τόν ἁμαρτωλόν! (Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore!). Questa preghiera, com'è ben noto, ha un ruolo fondamentale nella pratica dell'esicasmo, la "via unitiva" dell'ascesi e della mistica orientale, e non a caso in alcuni monasteri dell'Athos i monaci sono tenuti a recitare quattro o cinque di seguito di questi "rosari" da 100 grani ogni giorno.
Il Rosario mariano infatti, almeno storicamente, si sviluppa nel XIII secolo, per la predicazione dei domenicani e particolarmente di San Pietro da Verona, fondatore della prima Confraternita del Santo Rosario, e viene universalmente diffuso e raccomandato solo nel 1479 con la bolla di Sisto IV Ea quae ex fidelium. Dunque, è una prassi latina posteriore al Grande Scisma, e pertanto naturalmente non compare nella pratica orante della chiesa greca.


Tuttavia, fatto meno noto, nel XIX secolo, in Russia, si diffuse una regola di preghiera estremamente simile, pressoché identica, al Rosario mariano latino. Alcuni sostengono che ciò possa essere avvenuto per una contaminazione latina (del resto già altre devozioni tipiche del Medioevo occidentale, come quella ai Sette Dolori della Vergine, erano entrate nella pratica dell'Ortodossia Russa): pur mantenendo i caratteri tipici di una preghiera orientale, l'idea di fondo è infatti la medesima del Rosario mariano domenicano.

Suddetta regola fu scritta dal santo monaco Serafino di Sarov (1759-1833), come regola quotidiana per le monache del monastero di Divejevo, ma divenne presto popolare presso tutti i fedeli ortodossi slavi. Essa, proprio come il Rosario latino, si propone di essere un "salterio dei poveri", e cioè ai 150 salmi del salterio che i monaci e i sacerdoti recitano settimanalmente nell'Ufficio Divino, appone la ripetizione di 150 preghiere alla Vergine (Ave Maria), suddivise in 15 decine, ciascuna delle quali legata a un mistero della vita di Cristo e della Sua Santissima Madre.

La regola, in una traduzione italiana un po' libera, si può visualizzare QUI. L' "Ave Maria" in Oriente suona così, leggermente diversa dalla versione latina:

Θεοτόκε Παρθένε, χαῖρε Κεχαριτωμένη Μαρία
ὁ Κύριος μετά σοῦ.
Εὐλογημένη σύ ἐν γυναιξί
καί εὐλογημένος ὁ καρπός τῆς κοιλίας σου,
ὃτι σωτῆρα ἒτεκες τῶν ψυχῶν ἡμῶν.

Vergine Deipara, ave o Maria piena di grazia,
il Signore è teco.
Benedetta sei tu fra le donne
e benedetto è il frutto del tuo ventre,
poiché hai generato il Salvatore delle nostre anime.

La struttura della preghiera, come si vedrà, è sostanzialmente identica, fatta salva l'omissione della dossologia e del Pater a ogni decina, e l'inserimento invece di alcuni icastici brevi tropari. Ogni mistero, poi, viene "meditato" attraverso la recita del tropario della festa corrispondente.
Di seguito propongo una semplice comparazione tra i 15 misteri del Rosario latino e i 15 della regola di San Serafino; si tenga conto, tra le altre cose, che nella devozione occidentale medievale gli eventi che accompagnano la Passione di Cristo (flagellazione, coronazione, etc.) hanno un posto estremamente importante (c.d. dolorismo), con una conseguente ipertrofia del momento della Passione nella distribuzione dei misteri, rappresentando così la maggior differenza rispetto alla serie orientale, che per compenso aggiunge una serie di misteri dell'infanzia della Vergine. In rosso sono segnati i misteri differenti tra le due regole; il 15° mistero di ambo le regole, pur essendo leggermente diverso, ha sostanzialmente lo stesso impianto concettuale.

Rosario latino
Regola di S. Serafino
1.      Annunciazione della Beata Vergine
2.      Visitazione della Beata Vergine
3.      Natività di Nostro Signore
4.      Purificazione della Beata Vergine (Presentazione di Cristo al Tempio)
5.      Invenzione di Cristo nel Tempio
6.      Agonia nell’orto degli ulivi
7.      Flagellazione di Cristo
8.      Coronazione di spine
9.      Salita al Calvario
10.  Crocifissione e morte di Cristo
11.  Risurrezione di Cristo
12.  Ascensione di Cristo
13.  Effusione del Santo Spirito (Pentecoste)
14.  Assunzione della Beata Vergine
15.  Coronazione della Beata Vergine (Gloria della Vergine e i Santi nel Paradiso)
1.      La Santissima Deipara *
2.      Natività della Beata Vergine
3.      Presentazione della Vergine al Tempio
4.      Annunciazione della Beata Vergine
5.      Visitazione della Beata Vergine
6.      Natività di Nostro Signore
7.      Purificazione della Beata Vergine (Presentazione di Cristo al Tempio)
8.      Invenzione di Cristo nel Tempio
9.      Il miracolo in Cana di Galilea
10.  Crocifissione e morte di Cristo
11.  Risurrezione di Cristo
12.  Ascensione di Cristo
13.  Effusione del Santo Spirito (Pentecoste)
14.  Dormizione della Beata Vergine
15.  Protezione della Santa Vergine sui Cristiani

* Il primo tropario non si riferisce propriamente a un mistero o festa della Vergine, ma è il tropario della Madre di Dio che comunemente si canta nella liturgia quando non ricorrono festività con tropario proprio. Dunque si dice che commemori la Deipara in sé.

giovedì 4 ottobre 2018

L'orazione e la liturgia in San Francesco d'Assisi


Nella festa di S. Francesco d'Assisi, pubblichiamo un ampio stralcio dello studio "Francesco d’Assisi e la tradizione ascetica bizantina: alcune fondamentali convergenze", realizzato da Pietro Chiaranz nel 2015. Il brano è volto a sottolineare le vicinanze tra la prassi ascetica del francescanesimo originario e la tradizione monastica orientale, che vanno a esprimere in fondo la tradizione orante e liturgica della Chiesa indivisa. 


Tratto da: Pietro ChiaranzFrancesco d’Assisi e la tradizione ascetica bizantina: alcune fondamentali convergenze.
 
La fuga dal rumore e dai traffici mondani è finalizzata al ritiro della propria mente nel cuore, luogo dell’incontro con Dio, secondo i famosi passi evangelici per cui: “il Regno di Dio è dentro di voi” (1) (Lc 17, 21), e “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23). La scoperta della presenza di Dio non avviene, però, senza che non vi sia, da parte umana, una disposizione data dalla preghiera. La preghiera, secondo l’antica prassi patristica, non è un modo per attirarsi la benevolenza di Dio, né è necessaria a Dio dal momento che, come recita il salmo, “la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta” (Sl. 138, 4). La preghiera, piuttosto, favorisce l’orientamento dello spirito umano verso Dio e ne allontana l’oblio. Per questo è indispensabilmente unita alla fuga mundi. San Paolo, nei riguardi della preghiera, è perentorio: “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza” (Ef 6, 18).


Francesco d’Assisi ha presente questo tipo di tradizione fino a divenire un uomo fatto preghiera: “Spesso senza muovere le labbra, meditava a lungo dentro di sé e, concentrando all’interno le potenze [le forze] esteriori, si alzava con lo spirito al cielo. In tal modo dirigeva tutta la mente e l’affetto a quell’unica cosa che chiedeva a Dio: non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente” (2). E ancora: “Quando, invece, pregava nelle selve e in luoghi solitari, riempiva i boschi di gemiti, bagnava la terra di lacrime, si batteva con la mano il petto; e lì, quasi approfittando di un luogo più intimo e riservato, dialogava spesso ad alta voce col suo Signore: rendeva conto al Giudice, supplicava il Padre, parlava all’Amico, scherzava amabilmente con lo Sposo” (3). Lo stile di Francesco passò inevitabilmente ai suoi primi discepoli. Tommaso da Eccleston dichiara che i frati dei primi tempi erano così fervorosi nella preghiera che “alcuni si trovavano sempre nella cappella a pregare a qualsiasi ora anche della notte” (4). La preghiera del Poverello era notevole non solo quantitativamente ma pure qualitativamente. In essa doveva applicarsi la fuga mundi, come sopra ricordato, ossia doveva essere praticata senza distrazioni, nel senso che il pensiero non doveva disperdersi nella molteplicità della realtà esteriore ma servire solo l’Unico necessario. Perciò, egli “credeva di peccare gravemente, se mentre pregava era disturbato da vani fantasmi. Quando ciò capitava, ricorreva alla confessione per accusarsene subito. L’aveva resa così abituale questa premura, che molto raramente era tormentato da questo genere di ‘mosche’” (5). Tommaso da Celano racconta che una volta Francesco, mentre pregava, fu momentaneamente distratto dalla presenza di un vaso da lui stesso realizzato. Al termine della preghiera se ne dolse talmente che decise di distruggerlo (6). Quel vaso era stato la causa di una momentanea fuga della sua mente dal cuore in cui risiede la presenza divina, per dirla con linguaggio esicasta (7).

È utile anche accennare che la preghiera per Francesco non era un’attività senza rapporto con il corpo, dal momento che anche il corpo doveva accompagnare l’adorazione dello spirito. Comunemente alla prassi fino ad allora seguita anche nella Chiesa latina (8), è assai probabile che Francesco accompagnasse la sua preghiera con profonde prostrazioni, come si faceva e si fa ancora oggi nella Chiesa orientale. D’altronde, egli raccomandava: “Udendo il nome del Quale, adoratelo con reverente timore proni verso terra: Signore Gesù Cristo, Figlio dell’Altissimo è il suo nome, che è benedetto nei secoli” (9).


Quanto detto fino ad ora per l’orazione personale di Francesco, si può ritrovare anche nella tradizione ascetica bizantina. In particolare, per quanto riguarda la preghiera continua o ininterrotta san Gregorio Nazianzeno scrive: “Bisogna ricordarsi di Dio più spesso di quanto respiriamo, e, se è possibile dirlo, non bisogna fare altro che questo. Anche io sono tra quelli che approvano le parole che prescrivono di ‘esercitarsi giorno e notte’, di ‘raccontarlo a sera, al mattino e a mezzogiorno’ e di ‘benedire il Signore in ogni circostanza’; se bisogna anche ripetere le parole di Mosè, ‘quando riposiamo a letto, quando ci alziamo e quando siamo in viaggio’ mentre facciamo qualunque altra cosa, conformandosi alla purezza ricordandoci di Lui” (10). Successivamente al Nazianzeno, questa raccomandazione - che non fa altro che riprendere il passo paolino suaccennato e la prassi dei Padri del deserto -, è ripetuta da molti altri. San Giovanni il Climaco, ad esempio, dice: “L’anima che di giorno si occupa senza interruzione del pensiero di Dio, ne ha familiare il ricordo durante il sonno” (11). Il dottore esicasta, san Gregorio Palamas,  vissuto posteriormente a Francesco d’Assisi, riprende tutta la grande tradizione ascetica bizantina e la sistematizza. Riguardo alla preghiera continua egli così esorta i fedeli: “Affrettiamoci, fratelli, […] a ricambiare la divina adorazione con l’amore per Dio […], liberandoci da tutte le cose terrene, con una continua preghiera, la salmodia e con un impegno costantemente partecipe” (12).


Abbiamo visto che Francesco, mentre pregava, piangeva. Le lacrime di compunzione esistono anche nella tradizione ascetica bizantina, che segue, come già accennato, la linea stabilita dai Padri del deserto. Queste lacrime non devono essere intese in senso sentimentale, bensì nel modo specificato dagli antichi scritti ascetici: esse esprimono la gioia e la dolcezza della presenza del Signore così come l’angoscia per la distanza dell’uomo da Dio. La Scrittura, d’altronde, ricorda che “uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (13) mentre il salmista scrive d’inondare ogni notte di pianto il suo giaciglio (cfr. Sl. 6, 7). Facendo eco a ciò, i Padri ripetono l’esperienza biblica raccomandandola. In Occidente nella Regula Sancti Benedicti è scritto: “Sappiamo inoltre che non ci faranno esaudire le molte parole, ma la purezza del cuore e la compunzione del pianto”(14). Gregorio Nazianzeno parla delle lacrime come di un quinto battesimo, dopo quello allegorico, avvenuto nell’acqua del Mar Rosso, di Mosè (cfr. 1 Cor 10,2), quello solamente penitenziale di Giovanni Battista, quello di Cristo avvenuto nello Spirito Santo e quello dei martiri che avviene nel sangue: il battesimo delle lacrime “è un battesimo  più impegnativo, perché è quello che bagna ogni notte di lacrime il proprio letto e il proprio giaciglio” (15). Questa tradizione giunge fino ai nostri giorni. San Silvano l’Atonita (1866-1938) pregava per il mondo intero piangendo con lo spirito degli antichi asceti. Lo possiamo capire da queste righe che riflettono la sua esperienza: "[Il Signore] a volte fa il dono all’anima di amare il mondo. Allora, essa piange per il mondo intero e implora il Maestro buono e misericordioso di diffondere la Sua grazia su ogni anima avendo pietà di essa” (16). In una sua poesia si trova scritto: “La mia anima ha sete del Signore / e con lacrime io Lo cerco” (17).


Pure l’attenzione alla preghiera, che abbiamo visto caratterizzare Francesco d’Assisi, è fortemente raccomandata dai Padri (18). Questo è ancora ben presente nel mondo religioso bizantino odierno. Un esempio odierno ci è fornito dall’Anziano Paisios del Monte Athos (1924-1994) il quale era solito raccomandare di tenere la testa “nel frigorifero”, ossia in un modo da congelare tutti i pensieri che possono disturbare la vita religiosa e la preghiera. Egli raccomandava: “Non dobbiamo trascurare la preghiera [continua del nome] di Gesù. Quando abbiamo l’occasione, la dobbiamo recitare. La nostra mente non deve disperdersi inutilmente. Con questa preghiera l’intelletto si riposa e gioisce” (19).


Per quanto riguarda la preghiera comunitaria, Francesco dispose che i suoi seguissero la liturgia in uso nella Chiesa di Roma (20), sia per la Messa che per il Breviario, differenziandosi così dagli usi e dalle liturgie locali di allora. Qui è importante notare il modo in cui veniva eseguita questa liturgia nelle prime comunità francescane. Oltre a contraddistinguersi per pietà ed attenzione, essa aveva alcune modalità molto simili a quelle bizantine. La prassi liturgica dell’ordine in Inghilterra, durante le Veglie notturne nelle solennità, può benissimo essere paragonata ad una agripnia (veglia) bizantina odierna.


Tommaso da Eccleston descrive con gioia e meraviglia il fervore dei frati nella recita dell’Ufficio divino: “Nelle principali feste dell’anno cantavano l’ufficio con tanto fervore, che le veglie si prolungavano qualche volta per tutta la notte; e quando non erano che tre o quattro o al massimo sei, cantavano con solennità e con accompagnamento musicale” (21). Si tratta, dunque, di un ufficio notturno cantato. Chi ha pratica della vita liturgica tradizionale, laddove essa viene ancora eseguita, sa quanto sia difficile mantenere delle ufficiature cantante, dal momento che richiedono una certa applicazione e una particolare specializzazione musicale. Per questo oggi è piuttosto raro trovare delle comunità religiose in cui questa consuetudine sia praticata. E se è difficile trovare chi esegua in canto le ufficiature diurne, è quasi impossibile incontrare chi canti quelle notturne. Alla luce di ciò, la testimonianza di Tommaso da Eccleston è particolarmente significativa. Non solo egli ravvisa un notevole fervore, da parte dei frati, ma nota pure la capacità, addirittura nel caso in cui ci siano solo tre religiosi, di far rivivere l’antica tradizione di un’ufficiatura notturna cantata. Perciò, sotto tale aspetto, questi primi discepoli di Francesco possono essere benissimo paragonati con il mondo monastico bizantino.


Inoltre, Tommaso da Eccleston ci fa sapere che i frati recitavano l’ufficio sempre in piedi e ricorda un ministro provinciale che rimproverò aspramente un frate seduto durante la recita delle ore canoniche(22). Questa modalità di celebrare la liturgia delle ore, era una consuetudine praticata dallo stesso Francesco (23). Ciò riporta alla mente quanto dice, a  tal proposito, san Giovanni Climaco: “Chi intende stare sensibilmente alla presenza del Signore nell’intimo del cuore pregherà certo in posizione eretta ed immobile come una colonna, senza mai farsi illudere da qualcuno di tali demoni [dello sbadiglio e del riso durante la preghiera]” (24). Questo genere di raccomandazioni hanno trovato sempre degli esecutori nel mondo bizantino e ve ne sono anche ai giorni nostri. Ricordo chiaramente come, durante una veglia notturna di alcuni anni fa’ in un monastero del Monte Athos, mi fu indicato un monaco molto anziano giunto nel katholikon (25) per un panighiri (26). Quell’anziano aveva la caratteristica di rimanere in piedi per tutta la preghiera, incurante della sua veneranda età. Così, mentre io ad un certo punto mi coricai, lui era ancora là e là lo ritrovai alcune ore dopo, verso le sette, in occasione della Divina Liturgia. Egli era visibilmente stremato, ma tenacemente eretto. Dunque questa consuetudine, che si riscontra nelle testimonianze relative a Francesco d’Assisi e ai suoi primi discepoli, è propria pure al mondo religioso bizantino.


Nella storia iniziale del movimento francescano, si può trovare un ultimo particolare degno di nota: l’esistenza di un frate cantore (27), il cui compito doveva consistere nell’eseguire in modo appropriato l’Ufficio divino. È un poco quanto avviene nelle comunità monastiche bizantine in cui esiste il cosiddetto protopsaltis (28) che svolge il medesimo compito.

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NOTE dell’autore

1.   Il passo segue la traduzione del vangelo in uso nella Chiesa bizantina dove il termine ἐντὸς significa “dentro” (di voi), non “in mezzo” (a voi), com’è invece possibile trovare in molte traduzioni odierne (vedi, ad es., la traduzione CEI della Bibbia di Gerusalemme).
2.   Tommaso da CelanoVita seconda, 95, in FF, p. 630.
3.   Ibid.
4.   Tommaso da EcclestonL’approdo dei frati minori in Inghilterra, V, Edizioni O.R., Milano 1979, p. 37.
5.   Tommaso da CelanoVita seconda, 97, in FF, p. 630-631.
6.   Cfr. Ibid. p. 632. Tommaso da Celano aggiunge che il vaso fu fatto da Francesco nei “ritagli di tempo e per non perdere neanche un istante”. In questo fugace appunto si nota il senso del lavoro per il Poverello: obbligare la mente ad un impegno per non disperdersi inutilmente. Siamo ben lungi da quella mentalità che considera il lavoro quale valore per se stesso.
7.   L’Esichìa, o quiete, era ricercata da coloro che, fuggendo dal mondo, si ritiravano in eremi e monasteri. Nel mondo bizantino si creò un vero e proprio movimento esicasta il cui personaggio di spicco fu san Gregorio Palamas (1296-1359).
8.   Vedi, a tal proposito, Schmitt J.C., Il gesto nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 275-282.
9.   Francesco d’AssisiLettera al Capitolo generale e a tutti i frati, in FF, p. 162.
10. Gregorio NazianzenoOrazione 27, in Id., Tutte le Orazioni, a cura di Claudio Moreschini, Bompiani, Milano 2000, p. 647.
11. Giovanni ClimacoLa scala del Paradiso. Ventesimo discorso, p. 220.
12. Gregorio PalamasOmelia 47, in Id., Che cos’è l’Ortodossia. Capitoli, Scritti ascetici, Lettere, Omelie, Bompiani, Milano 2006, p. 1454.
13. Sl. 50, 19.
14. Regula sancti Benedicti 20, 8, in Gregorio MagnoVita di san Benedetto e La Regola, p. 187.
15. Cfr. Gregorio NazianzenoOrazione 39, p. 917. Si noti come Gregorio riprende alla lettera il salmo succitato.
16. Cfr. Larchet J.-C., Saint Silouane de l’Athos, Éditions du Cerf, Paris 2001, p. 167.
17. Sofronio, Archimandrita, Ascesi e contemplazione, Servitium-Interlogos, Sotto il Monte-Schio 1998, p. 61.
18. Si veda a titolo di puro esempio: Giovanni ClimacoLa scala del Paradiso, 118, Cittanuova, Roma 1995, p. 217; Regula sancti Benedicti 19, 7 in Gregorio MagnoVita di san Benedetto e La Regola, p. 187; Isacco di NiniveGrammatica di vita spirituale, Discorso 7, San Paolo, Roma 2009, pp. 162-169.
19. Tatsis D., Non cercate una santità a buon mercato, Edizioni Dehoniane, Roma 1995, p. 68.
20. La liturgia romana, in quel tempo, aveva molti elementi in comune con il mondo cristiano orientale. Ne accenniamo solamente due: il battesimo era ancora effettuato esclusivamente per immersione e il segno della croce avveniva non con la mano distesa, ma in modo simile a quello bizantino, per indicare la confessione dell’unità nella trinità divina. Vedi Righetti M., Storia Liturgica, 1, Marietti, Torino, pp. 369-370; Ibid., 4, p. 109.
21. Tommaso da EcclestonL’approdo dei frati minori in Inghilterra, V, pp. 37-38.                                                                      
22. Id.L’approdo dei frati minori in InghilterraIbid., XIV, p. 88.
23. Id.Vita seconda di san Francesco d’Assisi, 62, in FF., p. 631.
24. Giovanni ClimacoLa scala del Paradiso, Cittanuova, Roma 1995, p. 217.
25. La chiesa principale del monastero.
26. Solennità liturgica.
27. Cfr.  Esser K., Origini e inizi del movimento e dell’ordine francescano, p. 132.
28. Letteralmente: “primo cantore” o “cantore principale”.