Sembra piuttosto comico che un Motu Proprio inteso a limitare in qualche modo
una liturgia secolarmente praticata nella Chiesa ed espressione della tradizione
liturgica occidentale e specificatamente romana principi con le parole Traditionis
custodes, che sarebbero, nell'inteso del discorso, i vescovi. Il titolo che
abbiamo scelto di mettere all'articolo sembra molto più calzante e, seppur i
più fidi nostri lettori già ne conosceranno la spiegazione, ne renderemo
ragione solo alla fine del discorso. Prima riteniamo conveniente, consci di
arrivare tardi vista la gran mole di reazioni che già nelle ore immediatamente
successive alla promulgazione del documento, occorsa a mezzodì dello scorso
venerdì 16 luglio, hanno popolato la blogosfera “tradizionalista” e non solo,
spendere qualche parola di analisi di ciò che è contenuto nel suddetto.
I. Previsioni normative del
Motu Proprio.
Pur nascondendosi dietro l'aborrita firma di
Bergoglio, questi ha negli anni passati dimostrato di non curarsi
particolarmente di faccende liturgiche; laonde, pare decisamente più ragionevole
supporre che il Motu Proprio abbia ben altri padri, tra cui,
oltre al neo-presidente della Congregazione dei Riti card. Roche, non si può omettere
di menzionare il prof. Andrea Grillo, per il quale il precedente regime
instaurato da Summorum Pontificum era puro fumo negli occhi,
soprattutto per due ragioni espresse ad nauseam in una congerie di
articoli sul suo blog Come se non: 1) L'equiparazione del
"Messale del 1962" e del "Messale di Paolo VI" come
"due forme dello stesso rito" e "due espressioni della
medesima lex orandi"; 2) La sottrazione dell'autorità sulla
liturgia al vescovo diocesano, che era invece garantita dal precedente regime
"dell'indulto". Ora questi due paiono essere pure i cardini delle
disposizioni normative del documento.
All'articolo 1 si dichiara infatti perentoriamente
che "I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni
Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica
espressione della lex orandi del Rito Romano". Non della
medesima lex credendi, che è in molti modi espressa dai molti riti della
Cristianità, ma della medesima lex orandi, cioè lo stesso modo di pregare. E su
questo non possiamo che dare ragione al buon Grillo e al Motu Proprio: da
quando in qua si sono viste due forme contrapposte, l'una nata distruggendo a
tavolino l'altra, la quale è invece eredità più che millenaria della Chiesa,
espressione di una medesima cosa? La scienza liturgica conosce le famiglie dei
riti, i riti e gli usi, ignora le forme; ma come ha ben spiegato don Mauro
Tranquillo (qui) è scientificamente impossibile sostenere che il rito di
Paolo VI sia una variante, cioè un uso, del rito romano, ed è necessariamente
un altro rito, quindi una diversa lex orandi. Sulla bontà o meno di
questa lex orandi, che non ha in sé nulla di apostolico, le nostre idee
le abbiamo, ma il lettore giudichi da sé.
L'articolo 2 completa le aspettative grilline
dicendo che "Al vescovo diocesano, quale moderatore, promotore e custode
di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare a lui affidata, spetta
regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi". Questo punto è
leggermente più problematico, ma ci ritorneremo in chiusura. Vediamo ora come
fattivamente i vescovi dovranno controllare (oggi va di moda il controllo, no?)
l'uso del rito tradizionale; ci limiteremo a fornire qualche suggestione e
commento personale, non essendo mancata già in questi pochi giorni una colluvie
di analisi canonistiche prodotte da menti che si trovano ben più a loro agio
delle nostre tra cavilli e codicilli, analisi ora serie e approfondite al
limite della pedanteria, ora condite dai giuochi letteralisti di un sacerdote
canonista dallo pseudonimo giacobineggiante (qui) di cui, peraltro molto giustamente, i vescovi si faranno
un baffo. Sostanzialmente si ritorna al regime dell'indulto, quello vigente
prima di Summorum Pontificum, con delle esplicite limitazioni al
clero che non può più scegliere con quale messale celebrare ma necessita del
permesso del vescovo, o per i neomisti addirittura della Santa Sede (ma non era
il vescovo il sommo liturgo, si è detto poco fa?) e ai luoghi (non già le
chiese parrocchiali, cosa su cui il Motu Proprio di Ratzinger insisteva invece)
e ai tempi della celebrazione. Si segnala, soprattutto, che non potranno
costituirsi nuovi gruppi che chiedano la messa antica oltre a quelli
preesistenti, il che è indubbiamente la limitazione più forte; le preesistenti
parrocchie personali, tra cui quella ferrarese di recente fondazione, non
subiranno forse scompensi in tempi brevi, ma il documento apre a una loro
riconsiderazione – e forse soppressione – nei tempi a venire. Un altro articolo
prevede che gli Istituti ex-Ecclesia Dei passeranno sotto la
Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata, il che pare effettivamente
logico; la preoccupazione, reale, per i trascorsi a dir poco modernisti del
cardinale Braz de Aviz che presiede detta congregazione è un fatto del tutto
contingente e non certo di principio, pur con tutti gli effetti (negativi) che
sicuramente avrà. Più (negativamente) interessante da un punto di vista
liturgico e l'art. 3.3.2: "In queste celebrazioni le letture siano
proclamate in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per
l’uso liturgico, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali": la
norma del rito prevede che queste vengano cantate in latino, ed eventualmente
poi ne può essere letta una traduzione prima della predica, come pare si
facesse pure in epoca storica. Il fatto che gran parte dei
"tradizionalisti", specie francesi, già proclami le letture in
volgare e voltati verso il popolo indica che questa modifica, per loro,
significherà ben poco; da un punto di vista formale è ben più significativo,
perché s'inizia a intaccare e dunque a snaturare il rito. Chi vieterà in futuro
di apportare altre più pesanti modifiche alla struttura medesima dello stesso,
per favorirne la riconciliazione con quello moderno (vedi sotto)? È da dire che
ciò non è affatto una novità di Traditionis Custodes, dacché Summorum
Pontificum apriva parimenti a modifiche rituali, effettivamente poi
avvenute sia con la nuova preghiera per i Giudei del Venerdì Santo che con i
nuovi prefazi e santi inseriti con decreto del Sant’Uffizio lo scorso anno, che
abbiamo già avuto modo di commentare a loro tempo.
II. Ragione e funzione del
Motu Proprio.
Ben più interessante del Motu Proprio è però la
lettera accompagnatoria a detto documento, nella quale si spiegano le ragioni
dell'intervento e gli scopi del medesimo. Oltre a ripercorrere la storia della
"forma straordinaria del rito romano" e spiegare per quali ragioni
non risulta più convincente la tesi delle due forme sostenuta da Benedetto XVI,
in essa si menziona il famigerato "questionario" circolato nelle
varie diocesi del mondo l'anno scorso circa la pratica della messa antica nelle
medesime; non si menziona la contro-iniziativa della Federazione Internazionale
Una Voce di un simile questionario compilato dai fedeli e quindi inviato al
Sant’Uffizio, segno che tale iniziativa non ha avuto grande esito nei palazzi
vaticani. Quindi, la lettera passa alle vere e proprie ragioni che hanno
richiesto l'intervento: "Mi rattrista un uso strumentale del Missale
Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo
della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione
infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”".
Purtroppo, bisogna constatare che il fianco a codeste bordate lo hanno prestato
i "tradizionalisti" medesimi, soprattutto con l'atteggiamento
settario e neo-protestante (ben indagato da recenti articoli del prof. Andrea
Sandri su Vigiliae Alexandrinae) di cui taluni circoli, definiti “neo-tradizionalisti”,
acuiti da una certa propensione alla teoria del complotto nell'anno della
grande pandemia (c'è una bella differenza tra criticare la verità ufficiale e
mettere in luce i problemi morali della vaccinazione, come fa la gente seria, e
credere al super-complotto contro Trump come fa qualcun altro), hanno fatto
ampia mostra, atteggiamento che continua a essere dimostrato dall'inspiegabile
adesione delle folle al progetto di un personaggio folle e visibilmente
ridicolo quale don Alessandro Minutella, che non aspetta altro che muoia il suo
"legittimo" Benedetto XVI per autoproclamarsi Papa (si è già messo in
testa lo zucchetto e la croce pettorale al collo, notare). Il rifiuto del
Concilio è un problema che sta a parte, il Concilio è per i modernisti un super-dogma,
che dice tutto e niente; il rifiuto del Concilio, che nei modi in cui mons.
Lefebvre lo ha portato avanti per decenni ha decisamente un senso, generalmente
è stato portato in modo altrettanto strumentale tra i “tradizionalisti” per
voler rifiutare altro, dall'immigrazionismo all'ecologismo, che sono temi poco
dogmatici e molto politici (è la Santa Sede che erra in primis schierandosi
così smaccatamente su questioni squisitamente politiche e non religiose, ma chi
le va contro così fa lo stesso gioco, a volte). Il Concilio è, tanto per i “tradizionalisti”
che lo demonizzano come la fonte di ogni male, quanto per i progressisti che lo
venerano quale sorgente d’ogni novità, nulla più che una bandiera: la decadenza
liturgica, dottrinale e morale della Chiesa Romana, iniziata ben prima del 1962,
si sarebbe tranquillamente potuta compiere senza che qualche migliaio di
vescovi si sedesse a parlare del nulla per qualche anno. Molto spesso in questo
blog abbiamo stigmatizzato i "tradizionalisti" per cui la messa
antica è una bandierina dietro la quale ci sta altro, da certi orientamenti
politici o settaristici (vedasi la TFP), a romantiche nostalgie di tempi
passati e idealizzati; ora costoro, con il chiasso ben visibile prodotto dalle
loro trombe, hanno offerto il pretesto per danneggiare, sicuramente, anche
coloro che dalla liturgia tradizionale volevano solo il giusto, cioè il culto
proprio a Dio e la deificazione dell'anima.
Più diretto e preoccupante, però, è il fine: la
lettera dice esplicitamente che le previsioni normative del Motu Proprio
allegato presentano un unico scopo, ovverosia quello di “accompagnare coloro
che sono legati al rito antico a una piena accettazione dei libri liturgici riformati”.
In ciò, probabilmente, consiste la più grande differenza con i provvedimenti
precedenti: si tratta di un indulto a tempo determinato, che nel giro di alcuni
anni (quanti lo sa solo Iddio) si dovrà risolvere in una completa proibizione
dell’uso dei libri liturgici tradizionali. L’indulto di Giovanni Paolo II era “a
tempo” nella sua intenzione originaria nel senso che si sarebbe dovuto spegnere
con la morte naturale di coloro che erano stati cresciuti col rito
tradizionale; nei fatti, la sua natura temporanea è stata sin da subito
smentita dalla partecipazione, non certo impedita, di nuove persone alle
funzioni in rito antico. Il Motu Proprio di Benedetto XVI sanciva un principio,
l’impossibilità di abrogazione dei libri liturgici tradizionali, prevedendone
dunque un uso illimitato e infinito. Il nuovo Motu Proprio va, come detto, nella
direzione completamente opposta: una tolleranza del tradizionalismo che, prima
o poi, dovrà finire.
Frontespizio di un
Missale ad sacrosancte Romane ecclesie usumParisii, 1517 - München, Bayerische Staatsbibliothek - Res/2 Liturg. 249
Vale la pena, infine, di contestare fortemente il
riferimento a Pio V che Francesco fa nella sua lettera: in essa, egli afferma d’essere
confortato dall’azione di tale Papa che abrogò una serie di riti. Questa
affermazione, che vorrebbe confermare il potere dell’autorità papale sulla
liturgia, che invece abbiamo più volte contestato su base storica (vedasi ad
esempio qui; ma è interessante notare che i canonisti quattrocenteschi
discutevano se un Papa potesse costruire ex novo una liturgia, giungendo a
conclusione negativa e anzi ritenendo che tale Papa entrasse in scisma; che
questo sia esattamente quello che hanno fatto i Papi da Pio X in poi è altro
discorso), rientra nella “leggenda nera” che gravita attorno alla Quo primum,
bolla di cui molti parlano ma che nessuno pare aver letto. Dopo aver promulgato
il Messale Romano nel 1570, che altro non è che un’edizione filologicamente sistemata
del Missale secundum consuetudinem curiae romanae stampato a Venezia nel
1494 (che, per informazione a quanti dicono che Pio V abolì le sequenze, conteneva
esattamente quattro sequenze come il Messale Tridentino), con le uniche minime
aggiunte riguardanti la gestualità alla consacrazione, e in particolare le
genuflessioni, che erano entrate nella prassi in Germania ma non erano mai
state previste dalle rubriche, e il tempo delle elevazioni; la lettera
apostolica al capo IV dice chiaramente che con detto messale son tenute a
celebrare le chiese “in quibus Missa conventualis alta voce cum Choro, aut demissa,
celebrari juxta Romanae Ecclesiae ritum consuevit”. Cioè, solo in quelle in cui
già si celebrava usando il predetto Missale secundum consuetudinem curiae
romanae, diffuso in tutta Europa (pur con minime consuetudini cerimoniali e
soprattutto con il santorale proprio di ogni luogo) soprattutto dai
francescani, che al loro zelante ultramontanismo centralista ante-litteram univano
l’uso del rito dell’Urbe che contribuirono a portare nelle chiese più varie. Ma
il capo successivo dice chiaramente che le chiese ove vigono altre consuetudini
rituali da tempo osservate devono mantenere il rito proprio; e se proprio una
chiesa volesse passare al rito romano, può farlo, ma deve ottenere l’approvazione
del vescovo diocesano e di tutto il capitolo. Gli unici riti soppressi sono
quelli con meno di 200 anni d’uso continuativo (cioè nati dopo la metà del
1300! Sarebbero riti della tradizione della Chiesa questi?), i quali erano
soventi intrisi di protestantesimo o altre eresie tipicamente bassomedievali:
un intervento di tipo teologico e non certo liturgico, visto che quei riti –
peraltro – non hanno certo una venerabile antichità che li renda patrimonio
tradizionale e intoccabile della Chiesa. Il problema, se vogliamo, si verifica
esattamente quando queste indicazioni vennero disattese, quando cioè i vescovi
diocesani imposero illegittimamente l’uso del rito romano, non sempre con l’approvazione
del clero e del popolo che continuò molto oltre a usare gli antichi rituali (si
legga quel che dice il Diglich sull’uso dei funerali secondo il rito
patriarchino nella Venezia dell’Ottocento, nonostante già da due secoli quasi
il Patriarca avesse imposto i libri liturgici romani), oppure lo fecero
abusivamente i visitatori apostolici (il De Rubeis riporta la relazione di un
visitatore apostolico nel Patriarcato di Aquileia che rimproverò un prete per
aver detto il Nunc dimittis alla purificazione, come il rito aquileiese
prescriveva), oppure gli stessi stampatori rifiutandosi di editare nuovi
messali secondo i riti propri (emblematico il caso del capitolo di Como,
proprio da ciò e dalla rovina degli antichi libri patriarchini costretto a
passare ai romani), o finanche monarchi non propriamente cristiani (nella Ducale
Basilica di S. Marco e nelle quattro chiese da essa dipendenti il rito
patriarchino fu soppresso da Napoleone nel 1806). Se leggiamo il Le Brun, ci
accorgiamo che nella Francia di ancien régime il rito romano era qualcosa di pressoché
sconosciuto, vigendo gli usi locali antichi. La Rivoluzione, il crollo dei
capitoli e dei conventi, con la conseguente adesione di gran parte del clero
all’eresia ultramontana, determinarono la situazione oggi conosciuta di un rito
romano universale, che è veramente una situazione post-ottocentesca, laddove l’Europa
prerivoluzionaria era e restò un fiorire di riti e usi locali, seppur in netta
diminuzione per via dei succitati abusi.
Perciò, accertato che le intenzioni di Pio V erano
ben diverse, si dovrebbero evitare impropri e mistificatori paragoni, tanto più
quando i riti in questione non hanno più di una sessantina d’anni.
III. Reazioni ed esiti
probabili
Il mondo “tradizionalista” è stato
comprensibilmente scosso dal provvedimento, annunciato da talune indiscrezioni
nelle settimane precedenti, ma da cui non ci si aspettavano previsioni normative
e soprattutto toni così duri; tra drappi neri a lutto e reazioni stupite d’ogni
tipo, si sono distinte analisi canonistiche e teologiche di buon livello, e
interventi decisamente meno memorabili, tra cui un’analisi pseudo-liturgica
sinceramente divertente nella sua ridicolaggine secondo la quale il Padre
nostro recitato da tutti nella nuova messa è illegittimo perché il Padre nostro
fa parte del rito e solo il sacerdote compie il rito. Alcune reazioni non hanno
brillato per moderatezza, ed effettivamente se qualcuno ha pensato di
intitolare un articolo “Resistere in faccia al Pachamama Pope” si potrebbe pensare
che alcune delle motivazioni addotte da Bergoglio nella sua lettera non siano
così campate in aria. Per fortuna questi fenomeni paiono soprattutto mediatici,
frutto di un’autorappresentazione del mondo “tradizionalista” sulla blogosfera.
Qualcuno non ha perso occasione di far notare che, come già il precedente Motu Proprio,
pure questo menziona unicamente i libri liturgici già riformati e modernizzati
del 1962, e non quelli precedenti, rendendoli gli unici leciti: tale approccio
legalistico si conferma rovinoso, poiché gli alfieri di cavilli e codicilli non
potranno che mutamente sottomettersi alle nuove disposizioni dell’idolo-legislatore.
Del resto, se l’autorità già nel 1911 ha vietato l’Ufficio romano tradizionale
sostituendovi un prodotto artificiale, nel 1955 la Settimana Santa sostituendovi
qualcosa di inventato di sana pianta, nel 1962 il Messale sostituendovi un
pallido surrogato, a buon diritto poi 1970 ha creato qualcosa di completamente
opposto che sostituisse tutto il precedente; se all’autorità si è dato potere di
intervenire allora, contro la tradizione apostolica e patristica, perché glielo
si negherebbe ora?
D’altro canto, il mondo progressista ha gioito per
il provvedimento che, a detta del già citato prof. Grillo, ristabilisce non
solo la teologia corretta, ma pure la logica (ed effettivamente dell’illogicità
delle due forme si è detto sopra). Fattivamente, credo che per i primi tempi
non si verificheranno sostanziali modifiche dello status quo: sarà il
tempo a suggerire cosa accadrà, se effettivamente i vescovi eserciteranno una
qualche forza repressiva, se le comunità “tradizionaliste” saranno lasciate
vivere o accompagnate ad eutanasia. Molti fedeli scorati probabilmente si rivolgeranno
alla FSSPX, qualcuno finirà nelle grinfie di già citati personaggi che
costituiscono sicure strade d’inferno, pochi onestamente credo ritorneranno nei
ranghi novusordisti, e qualcuno forse giungerà a compiere delle riflessioni più
profonde, che presentiamo di seguito.
IV. Conclusioni.
Il Motu Proprio dice che i vescovi sono i custodi della
tradizione. Ciò è vero, e non è certo un’invenzione del Vaticano II, ma il Vaticano
II e il Motu Proprio commettono una grave omissione; se leggiamo le epistole di
S. Cipriano di Cartagine, scopriamo che per quel santo Padre della Chiesa i
custodi della tradizione sono “i vescovi, il clero e tutto il popolo”, insomma
il πλήρωμα della Chiesa. Nel XVI secolo, riporta il Righetti, la Cattedrale di
Saragozza decise di adottare il Breviario del Quiñonez, un ufficio inventato di
sana piana dall’omonimo cardinale spagnolo per sopperire alla pesantezza e
lunghezza dell’ufficio romano (nulla di diverso da quel che farà Pio X quattro
secoli dopo, in buona sostanza…), senonché alla sera del Mercoledì Santo,
iniziato l’Ufficio delle Tenebre il popolo convenuto per la sacra funzione,
udito che i salmi non erano quelli tradizionali, e pensando che fossero
divenuti ugonotti, presero a lapidare i canonici della cattedrale, che presto
ritornò ai libri liturgici tradizionali. Il popolo è al pari dei vescovi il
custode delle tradizioni, e anzi verrebbe dire più dei vescovi, che spesso si
sono dimostrati – come nel titolo – sovvertitori e distruttori delle
tradizioni, e gli esempi si sprecherebbero.
D’altra parte, la mancata resistenza alle gravissime
riforme liturgiche del secolo XX rende patente che questo spirito e questa
consapevolezza era venuta decisamente meno nella popolazione cattolica degli
ultimi secoli, assuefattasi a un antitradizionale e deleterio principio d’autorità,
per cui una singola persona detentrice di autorità, quasi assoluta, può
modificare a suo piacimento tutta la tradizione della Chiesa. Qui sta il
problema principale, in una natura verticistica in cui non è più Dio al
vertice, ma un uomo, sia esso il Papa o il vescovo: e, come ha ben scritto un
amico, ora che ha abolita la liturgia apostolica, al Papa non resta che abolire
Dio, e sostituirlo definitivamente con se stesso, completando un secolare percorso
di deriva. Se i movimenti “tradizionalisti” non si accorgeranno di questo
fondamentale problema, e continueranno a resistere ai singoli danni senza
indagare alla radice dei problemi, non riusciranno mai a risolvere la terribile
impasse in cui si ritrova oggi il cattolicesimo.
A tutti coloro che, giustamente, si sentono delusi
da questo imperioso e dittatoriale provvedimento contro la tradizione
apostolica, ricordo che c’è un luogo ove la liturgia millenaria della Chiesa e
la tradizione apostolica non potranno mai essere aboliti, poiché non vi è un
Sommo Pontefice che si arroghi il diritto di farlo; il luogo ove si fa e si
farà come si è sempre fatto, in ogni dove, sempre e da tutti.