giovedì 29 luglio 2021

17 luglio - In commemoratione Sancti Alexii

di Luca Farina

Oggi, 17 (30) luglio, commemoriamo Sant’Alessio confessore, noto come l’elemosiniere e come человѣ́къ Бо́жїй (uomo di Dio) nella tradizione slava. Nativo di Roma, nacque nel IV secolo e morì il 17 luglio 412. Il Santo, sebbene oggi in Occidente sia festeggiato in modo poco sentito e quasi ignorato, godeva di una particolare celebrità.

Secondo la versione greca e romana della storia (ve n’è anche una siriaca leggermente diversa), Alessio, giovane nobile romano, si sposa per assecondare la volontà dei genitori; la prima notte di nozze decide di non consumare il matrimonio con la propria sposa ma fugge, ritirandosi in vita ascetica e povera per 17 anni, fino a raggiungere Edessa (in Mesopotamia, attuale Turchia). Tornato a Roma, i genitori e la moglie, non riconoscendolo, lo ospitano per altri 17 anni in un sottoscala, dove Alessio vive solo di elemosine. Poco prima di morire scrive una lettera, che sarà letta dopo la sua dipartita. Il padre, la madre e l’amata si struggono per non averlo riconosciuto, e il suo corpo è subito custodito come reliquia dal popolo dell’Urbe.

Icona russa del XIX secolo di Sant'Alessio, con dodici scene della sua vita.
Dall'angolo in alto a sinistra in senso orario: Nascita e battesimo di S. Alessio; Educazione di S. Alessio; S. Alessio dà l'anello alla sua sposa; S. Alessio prende l'oro della sua casa e noleggia una nave; S. Alessio a Edessa chiede la carità alle porte della chiesa; S. Alessio parte da Edessa su una nave; S. Alessio giunge alla casa paterna; S. Alessio nutrito dai servi del padre; S. Alessio scrive la sua vita e il padre Eufemiano cerca di strappare il manoscritto dalle sue mani; Dormizione di S. Alessio; Traslazione delle reliquie di S. Alessio; Miracoli delle reliquie di S. Alessio (fonte).

Il culto a Sant’Alessio non è attestato prima della fine del X secolo. Nel 977 Papa Benedetto VII affidò ai monaci basiliani la chiesa di San Bonifacio sull’Aventino; essa sorge, secondo tradizione, sul luogo che ospitò la casa di Sant’Alessio e così, nel 986, fu aggiunto alla chiesa il titolo dell' uomo di Dio. Nel Messale di Pio V la sua festa è iscritta con il grado Semplice.

Le sue reliquie sono distribuite per diverse chiese: il suo capo è oggi custodito nel monastero di Aghia Lavranei pressi di Kalavryta, in Acaia: secondo lo Ktitorikon e l’iscrizione sul reliquiario, esso fu donato al monastero dall’imperatore Manuele II Paleologo nel 1398. Altri frammenti si trovano nella suddetta basilica romana, nel monastero athonita di Esphigmenou e nella lavra di S. Aleksandr Nevskij a San Pietroburgo.

La fama di Sant’Alessio ha portato alla stesura di numerose agiografie; quelle di epoca medievale costituiscono interessanti testimonianze degli albori della letteratura in volgare. Un esempio di esse è proprio la Vie de saint Alexis in antico francese (con forte patina normanna). Il testo consta di 625 versi distribuiti su 125 strofe, composti circa alla metà del secolo XI. L’opera è anonima, ma alcuni studiosi l’hanno attribuita a Tetbald di Vernon, un chierico normanno canonico della cattedrale di Rouen. Di costui sappiamo ben poco: tradusse dal latino diverse agiografie e le arricchì con la propria retorica; elementi giudicati sufficienti dal medievista Gaston Paris, che ne curò l’edizione critica del 1872 e la attribuì al canonico; non sufficientemente convincenti per altri studiosi, come il prof. Paolo Gresti, che nell’edizione a cui facciamo riferimento riporta il testo anonimo in via prudenziale. Il testo in questione ci è tramandato da otto testimoni (contando sia quelli interi che quelli frammentarii) e attinge ad una Vita latina.

Riportiamo quattro ottave del testo (seguito da traduzione), che rappresentano il dolore dei genitori e della moglie di Alessio e la preparazione del corpo per le esequie.

Metro: strofe di cinque decasyllabes [1] monoassonanzati. Cesura, spesso epica [2], dopo l’accento di quarta.

78Quant ot li pedre ço que dit ad la cartre
ad ambes mains derumpt sa blance barbe:
“E! filz”, dist il “cum dolerus message!”
Vis atendi quet a mei repairasses,
par Deu merci, que tu’m reconfortasses”.

[…]

85De la dolur que demenat li pedra
grant fut la noise, si l’antendit la medre.
La vint curante cume femme forsenede,
batant ses palmes, criant, eschevelede:
vit mort sum filz, a terre chet pasmede.

[…]

99 “Or par sui vedve, sire”, dist la pulcela;
“jamais ledece n’avrai, quar ne pot estra,
ne charnel hume n’avrai an tute terre.
Deu servirei, le rei ki tot guvernet:
il ne’m faldrat, s’il veit qye jo lui serve”.

100 Tant i plurerent e le pedra e la medra
e la pulcela que tuit s’en alasserent.
En tant dementres le saint cors apresterent,
tuit cil seinur, mult bel le conreerent:
com felix cels ki par feit l’enorerent!


Traduzione: Quando il padre ebbe ascoltato ciò che la carta diceva con entrambe le mani si strappa la barba bianca:” Ah! Figlio,” disse “che messaggio carico di dolore! Ho atteso, vivo, che tu ritornassi a me, per la grazia di Dio, che mi riconfortassi”. […] Fu grande lo strepito del dolore che manifestava il padre, la madre lo sentì. Giunse sul posto come una donna fuori di sé, battendo le mani, gridando, scarmigliata: vide il figlio morto, cadde a terra priva di sensi. […] “Ora sono vedova signore”, dice la fanciulla; “Non avrò più gioia, perché non può essere, né conoscerò carnalmente alcun uomo sulla terra. Servirò Dio, il re che tutto governa: egli non mi verrà meno, se vede che lo servo”. Tanto piangono il padre, la madre e la fanciulla, ne sono tutti sfiniti. Nel frattempo prepararono il santo corpo tutti quei signori [di Roma], lo vestirono molto riccamente: beati coloro che lo onorarono con fede!

(Testo e traduzione sono tratti da: P. Gresti, Antologia delle letterature romanze del Medioevo, Bologna, Pàtron, 2011)

Locandina di uno spettacolo teatrale sulla vita di S. Alessio presentato a Kiev nel 1674.
Come si legge nella pagina di destra, lo spettacolo è dedicato "Al piissimo sovrano l'Imperatore e Gran Principe ALESSIO figlio di Michele, di tutta la Grande, la Piccola e la Bianca Russia AUTOCRATORE, e di molte terre e signorie, d'Oriente e d'Occidente e di Settentrione, padre e nonno ed erede, e sovrano e signore: alla sua imperiale e luminosissima maestà il SOVRANO ORTODOSSO [...]". Il culto di S. Alessio si diffuse particolarmente nella Rus' proprio sotto l'impero di codesto Zar che portava il suo nome (1645-1676).

La vita del Santo, a ulteriore prova della sua celebrità, è narrata in tanti altri testi. Una rapida carrellata nella letteratura medievale ci farà incontrare anche l’anonimo Ritmo marchigiano dell’inizio del XIII secolo, la Vita beati Alexii in antico lombardo di Bonvesin de la Riva, l’Alexius in antico tedesco di Corrado di Wuerzburg (1275). Nel Rinascimento troviamo la Vida de Sant Alexo in antico spagnolo di Juan Varela de Salamanca (1520 circa); nel XVII secolo Auto de Santo Aleixo, filho de Eufemiano, senador de Roma, dramma in portoghese di Baltasar Dias (1613) e La vita di Sant'Alessio descritta ed arricchita con divoti episodi dello scrittore genovese Anton Giulio Brignole Sale (1648). La vita del Santo fu persino messa in musica: ricordiamo il Sant’Alessio di Stefano Landi (1632) e l’omonimo oratorio di Camilla de Rossi (1710).

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NOTE

[1] Secondo la metrica francese e provenzale, il décasyllabe corrisponde all’endecasillabo italiano (ultimo accento sulla decima sillaba).

[2] Si chiama così perché è usata spesso nei testi epici (e anche in quelli agiografici, come qui). La quarta sillaba è accentata e quella immediatamente successiva non viene computata, risolvendo così l’apparente ipermetria del verso.

martedì 27 luglio 2021

Un caso di sovrapposizione: un altro San Foca

Celebrando oggi 14 (27) luglio la festa di San Foca di Sinope, vescovo e martire, analizziamo un curioso caso di sovrapposizione del culto. Tale situazione si verifica infatti per alcuni Santi dei primi secoli e di cui vi sono poche notizie agiografiche (ma, non per questo, leggendarie e da espungere come fecero i riformatori [1]); celebri i casi di S. Dionigi di Parigi con l’omonimo Aeropagita (ricordati peraltro lo stesso giorno dalla liturgia orientale [2]), o della triade Maria Maddalena-Maria di Betania-peccatrice pentita (non a caso il Dies Irae recita “Qui Mariam absolvisti”).

Il nome Foca ci rimanda infatti a quello di più Santi. Wandelberto, monaco e poeta belga del IX secolo, scrive infatti:”Ternas martyr habet meritorum nomine Phocas” [3]. Vi è quindi un S. Foca vescovo, un secondo agricoltore e un altro soldato. Tuttavia, il cardinale Cesare Baronio, ripreso poi dal teologo calabrese (e non è un caso, come vedremo) Onofrio Simonetti, scrisse:”Duos fuisse Phocas, ambosque martyres illustres”. Quest'altra tradizione quindi distingue il santo vescovo e unifica l’agricoltore col soldato, entrambi degni della palma.

Martirio di San Foca di Sinope, dal Menologio di Basilio II (Costantinopoli, X sec.)

La festa odierna ci porta dunque a considerare anche il S. Foca agricoltore e martire, protettore contro i morsi dei serpenti. Secondo lo storico Michele Amari tale culto fu portato o rinforzato dal generale bizantino Niceforo Foca il Vecchio (830 ca. - 896 ca.), che liberò la Puglia e la Calabria dai saraceni. Non è quindi un caso che in provincia di Lecce troviamo San Foca, frazione di Melendugno, località in cui si parla il griko [4]; è ancor più sentito nella località calabrese di Francavilla Angitola, in provincia di Vibo Valentia.

In detto paese, molti uomini vengono ancora battezzati con questo nome e la devozione popolare ha prodotto un poemetto in dialetto noto come A raziuoni, di cui riportiamo qualche verso e la traduzione.

Santu Foca quandu era l’infidili
ed era de la curti bon sardatu,
venia nu juornu e pensau a la fidi
e de nuostru Signuri fu toccatu.
Pua dassau l’armi e cuminciau a patira
a chiju puntu votta vattijatu;
de pua se vozzafara nu giardinu
e tutti l’alimenti avia chiantatu,
avia chiantatu fuogghi e petrusinu
paria lu Paradisu rigistratu.

[…]

De pua spediru triccientu persuni
pe chiji vosca mu ajjhunu anumali
e hannu trovatu vipari e scurpiuni
serpenti ed ogni sorta d’animali.
De pua pigghiaru morteja e picuni
na scura foassa vozzaru scavara.
Pua pigghiaru a nostru Protetturi
nta chija scura fossa lu calaru.
Tutti chiji animali s’appartaru
e d’unu chi ndavia lu cchjù maggiuri.
E d’un chi ndavia lu cchju maggiuri
si lu tenia impugnatu nta li mani.
Cu la testuzza si venia nchinara
cu la lingua nci liccava li suduri.
All’uottu juorni li sordati jiru
mu vidanu s’è muortu o s’era vivo.
Quandu chija scura fossa l’apriru
vittaru splendori e jiornu chiaru.

[…]

O Francavija felice e biata
mo chi l’aviti stu Santu abbucatu
potiti caminara vosca e strati
pegura de nimali non teniti.
De pesta e terramota liberati
particulari li vuostri divuoti.
Calici d’uoru e calici d’argientu
o Santu Foca mio vi l’appresientu.
Si non vi dassu quantu v’ammeritati
o Santu Foca mio mi perdunati.
Mi perdonati cuomo peccaturi
Cuomo perduna a vui nuostri Signori.
Si fina la raziuoni e non va cchiù
o Santu Foca mio vi la dissamu a vui.

Traduzione: San Foca, quando era infedele ed era della corte un buon soldato, giunse un giorno al pensiero della fede e da Nostro Signore fu toccato. Lasciò le armi e iniziò a patire e a quel punto fu battezzato. Di sua volontà fece un giardino, e tutti gli ortaggi ci ha piantato: aveva piantato funghi e prezzemolo e sembrava il paradiso ordinato. […]. Di là [la corte in cui viene processato] spedirono trecento persone perché trovino alcuni animali e hanno trovato vipere, scorpioni, serpenti ed ogni sorta di animali. Poi hanno preso martello, piccone e una scure e scavarono una fossa; poi presero il nostro Protettore e lo hanno fatto scendere in quella fossa. Tutti quegli animali si misero da parte e il più grande era tenuto tra le mani [di Foca]. Con la testa gli si inchinava e con la lingua leccava il suo sudore. Dopo otto giorni i soldati andarono pensando di trovarlo morto ma invece era vivo. Quando quella scura fossa fu aperta videro lo splendore del giorno chiaro. […] O Francavilla felice e beata, ora che avete questo Santo avvocato potete camminare nella vasca e starci e non dovete temere gli animali. Dalla peste e dai terremoti liberateci, specialmente noi, vostri devoti. Calici d’oro e d’argento, San Foca mio, vi presento; se non vi do quanto meritate o San Foca mio, perdonatemi. Mi perdonate in quanto peccatore come perdonò a voi Nostro Signore. Se è finita l’orazione e non continua più, o San Foca mio lo lasciamo voi.

Secondo il testo, quindi, Foca abbandona la milizia dell’imperatore Traiano e si dedica alla coltivazione di un bellissimo giardino; la sua diserzione è punita con la damnatio ad bestias, da cui esce illeso in maniera miracolosa (sul modello di Daniele nella fossa dei leoni). Eletto a patrono della città di Francavilla, i suoi devoti gli offrono calici preziosi, a prova della loro devozione contro una certa vulgata pauperistica con cui è rappresentato il popolo.

Inoltre, secondo la tradizione (non integralmente riportata in questo poemetto), egli è nativo di Antiochia e costruì il giardino nei pressi del fiume Oronte. Durante il processo si rifiutò di adorare gli idoli e di riconoscere la natura divina dell’imperatore. Essendo stato vano il primo tentativo di ucciderlo, fu decapitato; il suo corpo fu poi mandato a Roma, dove venne accolto da Papa Sisto I.

I testi sono tratti da San Foca Martire Patrono di Francavilla Angitola, a cura di Foca Accetta e Franco Torchia, Vibo Valentia, 1985. Si ringrazia la sig.na Giorgia Niesi per aver fornito testo e traduzione.

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NOTE:

[1] A seguito della riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano II furono rimosse (o ridotte al grado di memoria facoltativa o inseriti solamente nei propri locali) dal calendario romano generale feste ivi presenti ab immemorabili come i Ss. Faustino e Giovita, S. Dorotea o S. Valentino.

[2] Del resto, secondo una prassi frequente nell’uso russo, i Santi con lo stesso nome sono ricordati nel medesimo giorno: per esempio S. Procopio grande martire di Cesarea di Palestina è festeggiato lo stesso giorno dell’omonimo jurodivyj di Ustjug.

[3] Nelle "Notizie storiche" del volume di F. Accetta e F. Torchia sopraccitato, il verso è riportato in questo modo: "Ternos habet martyr meritorium nomine Phocas", ametrico (cretico al quarto piede) e difettoso quanto a senso. Gli autori affermano di citare da O. Simonetti, Cenno biografico sovra l'Antiocheno Martire S. Foca, Monteleone, Raho, 1892, il quale erudito ecclesiastico, se non ha errato di suo, ha probabilmente trascritto da un codice alquanto corrotto del Martirologio metrico del Wandelberto. Confrontando con il testo del Martyrologium contenuto nel cod. Lat. 5251 della BNF, pur esso presentante a mio avviso una corruzione, propongo gli emendamenti che risultano nella forma citata in corpo di testo, in grafia normalizzata. E' da notarsi che il Wandelberto pone la festa al 5 marzo, che risulta una delle fin troppo numerose diverse date in cui il santo pare aver avuto culto nei diversi luoghi. (N. Ghigi)

[4] è il dialetto greco tipico della provincia di Lecce, costituente la Grecìa salentina.

domenica 25 luglio 2021

12 luglio - In commemoratione Sanctorum Naboris et Felicis Martyrum

 


Oggi, 12 luglio, commemoriamo i Santi Nàbore e Felice, martiri “milanesi”. I due fanno ormai parte della tradizione ambrosiana, pur essendo nati a migliaia di chilometri di distanza. Le informazioni sulla loro vita, come spesso accade per i Santi più antichi, sono purtroppo piuttosto scarne ma egualmente significative.

I due erano di origine berbera (probabilmente dall’attuale Algeria), cittadini romani. Giunsero infatti a Milano [1] come soldati dell’imperatore Massimiano [2]. Qui si convertirono al cristianesimo insieme a un loro collega (e forse superiore, [3]), Vittore. Nel 303 l’imperatore decise di sottoporre i militi cristiani a processo: secondo quanto si tramanda, i soldati affermarono la loro lealtà e fedeltà al sovrano in ambito bellico ma si rifiutarono di sacrificare agli idoli e di riconoscere la natura divina di Massimiano. Furono condannati a morte a Milano, ma si decise di eseguire la pena a Laus Pompeia, oggi Lodi Vecchio. L’obiettivo era quello di usare la decapitazione come deterrente per la numerosa comunità cristiana del luogo.

Nei giorni della carcerazione, ricevettero la visita della nobile Savina [4], che li confortò. Dopo l’esecuzione, raccolse le spoglie dei due Santi per portarli a Milano. Rinchiuse le spoglie dentro delle botti molto grandi. Fermata da una pattuglia, dichiarò di trasportare miele e vino e, con sua stessa grande sorpresa, i corpi si trasformano, in maniera miracolosa, per evitarle l’arresto.

Giunta a Milano, affidò i corpi, tornati in carne ed ossa, al vescovo Materno. Egli li depose nella basilica che fu intitolata proprio ai Santi Nabore e Felice Quel terreno non fu scelto in maniera casuale: ci si trovava accanto all’antico hortus Philippi, poi divenuto il grande cimitero in cui Sant’Ambrogio si recava ogni giorno a pregare e dove furono ritrovati i Santi Protaso e Gervaso.

La posizione dell'hortus e della Basilica: nelle vicinanze è possibile scorgere gli altri edifici della Milano imperiale e cristiana


Passarono gli anni, e la chiesa andò in decadenza: nel 1249 venne affidata ai “neonati” frati minori, appena giunti a Milano. Essi costruirono una chiesa intitolata al loro Serafico Padre, che nel 1256 inglobò la fatiscente basilica: nacque la chiesa di San Francesco Grande, la più grande della città dopo il Duomo. I religiosi erano ben coscienti di trovarsi in luogo in cui si era “stratificata” la santità: ce ne da testimonianza l’epigrafe metrica presso le porte del convento, oggi nella cappella di Santa Savina della basilica ambrosiana [5]. Ne proponiamo l’immagine e la trascrizione di qualche verso, in cui si fa riferimento ai Santi:

Hic Nabor hic Felix hic Fortunatus habetur

Et cum Materno Gayus dictusq(u)e Philippus

Nec non Savine sancte venerabile corpus

Secondo l'uso tipico dell'epoca, molte parole sono abbreviate. Compare un qualche accenno di punteggiatura, abbandonando la scriptio continua delle epigrafi classiche


Il loro culto fu considerato così importante tanto che nel 1396 l’arcivescovo Antonio da Saluzzo decretò il 12 luglio festa di precetto per la città: rimase tale fino al 1537, quando fu rimosso da parte di Ippolito II d’Este, su pressione di Carlo V [6].

Dopo una serie di restauri, nel 1472, i due crani (già staccati dal martirio) furono posti in reliquiario a parte; nel 1799, con le soppressioni napoleoniche, la chiesa fu chiusa, i corpi trasferiti in cattedrale e i crani vennero trafugati. San Francesco riaprì in seguito, ma non per molto: nel 1806 fu demolita per far posto alla Caserma dei Veliti Reali, oggi caserma Garibaldi della Polizia di Stato (in piazza Sant’Ambrogio).

Nel 1959 a Namur (Vallonia, Belgio) furono ritrovati i due capi in preziosi reliquiari d’argento presso il negozio di un antiquario. Su richiesta dell’arcivescovo Montini furono riportati a Milano in modo solenne.

I busti con i cranii al loro interno (Parrocchia dei Santi Nabore e Felice in Milano)


Oggi, i corpi acefali di Nabore e Felice si trovano nella navata destra della basilica ambrosiana, in un sarcofago marmoreo; i due capi si trovano nella novecentesca chiesa a loro intitolata.

Il sarcofago con i Santi Nabore e Felice e le reliquie dei Santi Materno, Valeria e Barnaba (Basilica di Sant'Ambrogio, abside destro)


Note:

1: Milano fu capitale dell’Impero romano d’Occidente tra il 286 ed il 402, a seguito della divisione dei territori ordinata da Diocleziano (tetrarchia).

2: Marco Aurelio Valerio Massimiano Erculeo (250 circa-310) ebbe formalmente il titolo di Augusto d’occidente con Diocleziano come corrispettivo orientale.

3: questo potrebbe spiegare per quale motivo egli sia citato per primo da Sant’Ambrogio nell’inno Victor, Nabor, Felix, pii, sia stato martirizzato in luogo differente dai due e non sia sepolto con gli altri due.

4: Santa Savina nacque circa nel 260, a Milano od a Lodi, da una nobile famiglia. Rimasta presto vedova, si dedicò alla carità per le comunità cristiane costrette alla clandestinità. Morì nel 311, le sue spoglie riposano nella Basilica di Sant’Ambrogio.

5: è la stessa cappella in cui è sepolta la Santa di cui sopra.

6: Carlo V d’Asburgo (1500-1558) governò col titolo di Re d’Italia a seguito delle guerre d’Italia, assorbendo nei suoi dominii il Ducato di Milano, che sarà formalmente restaurato con l’erede, Filippo. Milano rimarrà spagnola fino al Settecento.

venerdì 23 luglio 2021

Traditionis eversores - Commenti al nuovo Motu Proprio sulla liturgia tradizionale

 Sembra piuttosto comico che un Motu Proprio inteso a limitare in qualche modo una liturgia secolarmente praticata nella Chiesa ed espressione della tradizione liturgica occidentale e specificatamente romana principi con le parole Traditionis custodes, che sarebbero, nell'inteso del discorso, i vescovi. Il titolo che abbiamo scelto di mettere all'articolo sembra molto più calzante e, seppur i più fidi nostri lettori già ne conosceranno la spiegazione, ne renderemo ragione solo alla fine del discorso. Prima riteniamo conveniente, consci di arrivare tardi vista la gran mole di reazioni che già nelle ore immediatamente successive alla promulgazione del documento, occorsa a mezzodì dello scorso venerdì 16 luglio, hanno popolato la blogosfera “tradizionalista” e non solo, spendere qualche parola di analisi di ciò che è contenuto nel suddetto.

I. Previsioni normative del Motu Proprio.

Pur nascondendosi dietro l'aborrita firma di Bergoglio, questi ha negli anni passati dimostrato di non curarsi particolarmente di faccende liturgiche; laonde, pare decisamente più ragionevole supporre che il Motu Proprio abbia ben altri padri, tra cui, oltre al neo-presidente della Congregazione dei Riti card. Roche, non si può omettere di menzionare il prof. Andrea Grillo, per il quale il precedente regime instaurato da Summorum Pontificum era puro fumo negli occhi, soprattutto per due ragioni espresse ad nauseam in una congerie di articoli sul suo blog Come se non: 1) L'equiparazione del "Messale del 1962" e del "Messale di Paolo VI" come "due forme dello stesso rito" e "due espressioni della medesima lex orandi"; 2) La sottrazione dell'autorità sulla liturgia al vescovo diocesano, che era invece garantita dal precedente regime "dell'indulto". Ora questi due paiono essere pure i cardini delle disposizioni normative del documento.

All'articolo 1 si dichiara infatti perentoriamente che "I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano". Non della medesima lex credendi, che è in molti modi espressa dai molti riti della Cristianità, ma della medesima lex orandi, cioè lo stesso modo di pregare. E su questo non possiamo che dare ragione al buon Grillo e al Motu Proprio: da quando in qua si sono viste due forme contrapposte, l'una nata distruggendo a tavolino l'altra, la quale è invece eredità più che millenaria della Chiesa, espressione di una medesima cosa? La scienza liturgica conosce le famiglie dei riti, i riti e gli usi, ignora le forme; ma come ha ben spiegato don Mauro Tranquillo (qui) è scientificamente impossibile sostenere che il rito di Paolo VI sia una variante, cioè un uso, del rito romano, ed è necessariamente un altro rito, quindi una diversa lex orandi. Sulla bontà o meno di questa lex orandi, che non ha in sé nulla di apostolico, le nostre idee le abbiamo, ma il lettore giudichi da sé.

L'articolo 2 completa le aspettative grilline dicendo che "Al vescovo diocesano, quale moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare a lui affidata, spetta regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi". Questo punto è leggermente più problematico, ma ci ritorneremo in chiusura. Vediamo ora come fattivamente i vescovi dovranno controllare (oggi va di moda il controllo, no?) l'uso del rito tradizionale; ci limiteremo a fornire qualche suggestione e commento personale, non essendo mancata già in questi pochi giorni una colluvie di analisi canonistiche prodotte da menti che si trovano ben più a loro agio delle nostre tra cavilli e codicilli, analisi ora serie e approfondite al limite della pedanteria, ora condite dai giuochi letteralisti di un sacerdote canonista dallo pseudonimo giacobineggiante (qui) di cui, peraltro molto giustamente, i vescovi si faranno un baffo. Sostanzialmente si ritorna al regime dell'indulto, quello vigente prima di Summorum Pontificum, con delle esplicite limitazioni al clero che non può più scegliere con quale messale celebrare ma necessita del permesso del vescovo, o per i neomisti addirittura della Santa Sede (ma non era il vescovo il sommo liturgo, si è detto poco fa?) e ai luoghi (non già le chiese parrocchiali, cosa su cui il Motu Proprio di Ratzinger insisteva invece) e ai tempi della celebrazione. Si segnala, soprattutto, che non potranno costituirsi nuovi gruppi che chiedano la messa antica oltre a quelli preesistenti, il che è indubbiamente la limitazione più forte; le preesistenti parrocchie personali, tra cui quella ferrarese di recente fondazione, non subiranno forse scompensi in tempi brevi, ma il documento apre a una loro riconsiderazione – e forse soppressione – nei tempi a venire. Un altro articolo prevede che gli Istituti ex-Ecclesia Dei passeranno sotto la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata, il che pare effettivamente logico; la preoccupazione, reale, per i trascorsi a dir poco modernisti del cardinale Braz de Aviz che presiede detta congregazione è un fatto del tutto contingente e non certo di principio, pur con tutti gli effetti (negativi) che sicuramente avrà. Più (negativamente) interessante da un punto di vista liturgico e l'art. 3.3.2: "In queste celebrazioni le letture siano proclamate in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per l’uso liturgico, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali": la norma del rito prevede che queste vengano cantate in latino, ed eventualmente poi ne può essere letta una traduzione prima della predica, come pare si facesse pure in epoca storica. Il fatto che gran parte dei "tradizionalisti", specie francesi, già proclami le letture in volgare e voltati verso il popolo indica che questa modifica, per loro, significherà ben poco; da un punto di vista formale è ben più significativo, perché s'inizia a intaccare e dunque a snaturare il rito. Chi vieterà in futuro di apportare altre più pesanti modifiche alla struttura medesima dello stesso, per favorirne la riconciliazione con quello moderno (vedi sotto)? È da dire che ciò non è affatto una novità di Traditionis Custodes, dacché Summorum Pontificum apriva parimenti a modifiche rituali, effettivamente poi avvenute sia con la nuova preghiera per i Giudei del Venerdì Santo che con i nuovi prefazi e santi inseriti con decreto del Sant’Uffizio lo scorso anno, che abbiamo già avuto modo di commentare a loro tempo.

II. Ragione e funzione del Motu Proprio.

Ben più interessante del Motu Proprio è però la lettera accompagnatoria a detto documento, nella quale si spiegano le ragioni dell'intervento e gli scopi del medesimo. Oltre a ripercorrere la storia della "forma straordinaria del rito romano" e spiegare per quali ragioni non risulta più convincente la tesi delle due forme sostenuta da Benedetto XVI, in essa si menziona il famigerato "questionario" circolato nelle varie diocesi del mondo l'anno scorso circa la pratica della messa antica nelle medesime; non si menziona la contro-iniziativa della Federazione Internazionale Una Voce di un simile questionario compilato dai fedeli e quindi inviato al Sant’Uffizio, segno che tale iniziativa non ha avuto grande esito nei palazzi vaticani. Quindi, la lettera passa alle vere e proprie ragioni che hanno richiesto l'intervento: "Mi rattrista un uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”". Purtroppo, bisogna constatare che il fianco a codeste bordate lo hanno prestato i "tradizionalisti" medesimi, soprattutto con l'atteggiamento settario e neo-protestante (ben indagato da recenti articoli del prof. Andrea Sandri su Vigiliae Alexandrinae) di cui taluni circoli, definiti “neo-tradizionalisti”, acuiti da una certa propensione alla teoria del complotto nell'anno della grande pandemia (c'è una bella differenza tra criticare la verità ufficiale e mettere in luce i problemi morali della vaccinazione, come fa la gente seria, e credere al super-complotto contro Trump come fa qualcun altro), hanno fatto ampia mostra, atteggiamento che continua a essere dimostrato dall'inspiegabile adesione delle folle al progetto di un personaggio folle e visibilmente ridicolo quale don Alessandro Minutella, che non aspetta altro che muoia il suo "legittimo" Benedetto XVI per autoproclamarsi Papa (si è già messo in testa lo zucchetto e la croce pettorale al collo, notare). Il rifiuto del Concilio è un problema che sta a parte, il Concilio è per i modernisti un super-dogma, che dice tutto e niente; il rifiuto del Concilio, che nei modi in cui mons. Lefebvre lo ha portato avanti per decenni ha decisamente un senso, generalmente è stato portato in modo altrettanto strumentale tra i “tradizionalisti” per voler rifiutare altro, dall'immigrazionismo all'ecologismo, che sono temi poco dogmatici e molto politici (è la Santa Sede che erra in primis schierandosi così smaccatamente su questioni squisitamente politiche e non religiose, ma chi le va contro così fa lo stesso gioco, a volte). Il Concilio è, tanto per i “tradizionalisti” che lo demonizzano come la fonte di ogni male, quanto per i progressisti che lo venerano quale sorgente d’ogni novità, nulla più che una bandiera: la decadenza liturgica, dottrinale e morale della Chiesa Romana, iniziata ben prima del 1962, si sarebbe tranquillamente potuta compiere senza che qualche migliaio di vescovi si sedesse a parlare del nulla per qualche anno. Molto spesso in questo blog abbiamo stigmatizzato i "tradizionalisti" per cui la messa antica è una bandierina dietro la quale ci sta altro, da certi orientamenti politici o settaristici (vedasi la TFP), a romantiche nostalgie di tempi passati e idealizzati; ora costoro, con il chiasso ben visibile prodotto dalle loro trombe, hanno offerto il pretesto per danneggiare, sicuramente, anche coloro che dalla liturgia tradizionale volevano solo il giusto, cioè il culto proprio a Dio e la deificazione dell'anima.

Più diretto e preoccupante, però, è il fine: la lettera dice esplicitamente che le previsioni normative del Motu Proprio allegato presentano un unico scopo, ovverosia quello di “accompagnare coloro che sono legati al rito antico a una piena accettazione dei libri liturgici riformati”. In ciò, probabilmente, consiste la più grande differenza con i provvedimenti precedenti: si tratta di un indulto a tempo determinato, che nel giro di alcuni anni (quanti lo sa solo Iddio) si dovrà risolvere in una completa proibizione dell’uso dei libri liturgici tradizionali. L’indulto di Giovanni Paolo II era “a tempo” nella sua intenzione originaria nel senso che si sarebbe dovuto spegnere con la morte naturale di coloro che erano stati cresciuti col rito tradizionale; nei fatti, la sua natura temporanea è stata sin da subito smentita dalla partecipazione, non certo impedita, di nuove persone alle funzioni in rito antico. Il Motu Proprio di Benedetto XVI sanciva un principio, l’impossibilità di abrogazione dei libri liturgici tradizionali, prevedendone dunque un uso illimitato e infinito. Il nuovo Motu Proprio va, come detto, nella direzione completamente opposta: una tolleranza del tradizionalismo che, prima o poi, dovrà finire.


Frontespizio di un Missale ad sacrosancte Romane ecclesie usum
Parisii, 1517 - München, Bayerische Staatsbibliothek - Res/2 Liturg. 249

Vale la pena, infine, di contestare fortemente il riferimento a Pio V che Francesco fa nella sua lettera: in essa, egli afferma d’essere confortato dall’azione di tale Papa che abrogò una serie di riti. Questa affermazione, che vorrebbe confermare il potere dell’autorità papale sulla liturgia, che invece abbiamo più volte contestato su base storica (vedasi ad esempio qui; ma è interessante notare che i canonisti quattrocenteschi discutevano se un Papa potesse costruire ex novo una liturgia, giungendo a conclusione negativa e anzi ritenendo che tale Papa entrasse in scisma; che questo sia esattamente quello che hanno fatto i Papi da Pio X in poi è altro discorso), rientra nella “leggenda nera” che gravita attorno alla Quo primum, bolla di cui molti parlano ma che nessuno pare aver letto. Dopo aver promulgato il Messale Romano nel 1570, che altro non è che un’edizione filologicamente sistemata del Missale secundum consuetudinem curiae romanae stampato a Venezia nel 1494 (che, per informazione a quanti dicono che Pio V abolì le sequenze, conteneva esattamente quattro sequenze come il Messale Tridentino), con le uniche minime aggiunte riguardanti la gestualità alla consacrazione, e in particolare le genuflessioni, che erano entrate nella prassi in Germania ma non erano mai state previste dalle rubriche, e il tempo delle elevazioni; la lettera apostolica al capo IV dice chiaramente che con detto messale son tenute a celebrare le chiese “in quibus Missa conventualis alta voce cum Choro, aut demissa, celebrari juxta Romanae Ecclesiae ritum consuevit”. Cioè, solo in quelle in cui già si celebrava usando il predetto Missale secundum consuetudinem curiae romanae, diffuso in tutta Europa (pur con minime consuetudini cerimoniali e soprattutto con il santorale proprio di ogni luogo) soprattutto dai francescani, che al loro zelante ultramontanismo centralista ante-litteram univano l’uso del rito dell’Urbe che contribuirono a portare nelle chiese più varie. Ma il capo successivo dice chiaramente che le chiese ove vigono altre consuetudini rituali da tempo osservate devono mantenere il rito proprio; e se proprio una chiesa volesse passare al rito romano, può farlo, ma deve ottenere l’approvazione del vescovo diocesano e di tutto il capitolo. Gli unici riti soppressi sono quelli con meno di 200 anni d’uso continuativo (cioè nati dopo la metà del 1300! Sarebbero riti della tradizione della Chiesa questi?), i quali erano soventi intrisi di protestantesimo o altre eresie tipicamente bassomedievali: un intervento di tipo teologico e non certo liturgico, visto che quei riti – peraltro – non hanno certo una venerabile antichità che li renda patrimonio tradizionale e intoccabile della Chiesa. Il problema, se vogliamo, si verifica esattamente quando queste indicazioni vennero disattese, quando cioè i vescovi diocesani imposero illegittimamente l’uso del rito romano, non sempre con l’approvazione del clero e del popolo che continuò molto oltre a usare gli antichi rituali (si legga quel che dice il Diglich sull’uso dei funerali secondo il rito patriarchino nella Venezia dell’Ottocento, nonostante già da due secoli quasi il Patriarca avesse imposto i libri liturgici romani), oppure lo fecero abusivamente i visitatori apostolici (il De Rubeis riporta la relazione di un visitatore apostolico nel Patriarcato di Aquileia che rimproverò un prete per aver detto il Nunc dimittis alla purificazione, come il rito aquileiese prescriveva), oppure gli stessi stampatori rifiutandosi di editare nuovi messali secondo i riti propri (emblematico il caso del capitolo di Como, proprio da ciò e dalla rovina degli antichi libri patriarchini costretto a passare ai romani), o finanche monarchi non propriamente cristiani (nella Ducale Basilica di S. Marco e nelle quattro chiese da essa dipendenti il rito patriarchino fu soppresso da Napoleone nel 1806). Se leggiamo il Le Brun, ci accorgiamo che nella Francia di ancien régime il rito romano era qualcosa di pressoché sconosciuto, vigendo gli usi locali antichi. La Rivoluzione, il crollo dei capitoli e dei conventi, con la conseguente adesione di gran parte del clero all’eresia ultramontana, determinarono la situazione oggi conosciuta di un rito romano universale, che è veramente una situazione post-ottocentesca, laddove l’Europa prerivoluzionaria era e restò un fiorire di riti e usi locali, seppur in netta diminuzione per via dei succitati abusi.

Perciò, accertato che le intenzioni di Pio V erano ben diverse, si dovrebbero evitare impropri e mistificatori paragoni, tanto più quando i riti in questione non hanno più di una sessantina d’anni.

III. Reazioni ed esiti probabili

Il mondo “tradizionalista” è stato comprensibilmente scosso dal provvedimento, annunciato da talune indiscrezioni nelle settimane precedenti, ma da cui non ci si aspettavano previsioni normative e soprattutto toni così duri; tra drappi neri a lutto e reazioni stupite d’ogni tipo, si sono distinte analisi canonistiche e teologiche di buon livello, e interventi decisamente meno memorabili, tra cui un’analisi pseudo-liturgica sinceramente divertente nella sua ridicolaggine secondo la quale il Padre nostro recitato da tutti nella nuova messa è illegittimo perché il Padre nostro fa parte del rito e solo il sacerdote compie il rito. Alcune reazioni non hanno brillato per moderatezza, ed effettivamente se qualcuno ha pensato di intitolare un articolo “Resistere in faccia al Pachamama Pope” si potrebbe pensare che alcune delle motivazioni addotte da Bergoglio nella sua lettera non siano così campate in aria. Per fortuna questi fenomeni paiono soprattutto mediatici, frutto di un’autorappresentazione del mondo “tradizionalista” sulla blogosfera. Qualcuno non ha perso occasione di far notare che, come già il precedente Motu Proprio, pure questo menziona unicamente i libri liturgici già riformati e modernizzati del 1962, e non quelli precedenti, rendendoli gli unici leciti: tale approccio legalistico si conferma rovinoso, poiché gli alfieri di cavilli e codicilli non potranno che mutamente sottomettersi alle nuove disposizioni dell’idolo-legislatore. Del resto, se l’autorità già nel 1911 ha vietato l’Ufficio romano tradizionale sostituendovi un prodotto artificiale, nel 1955 la Settimana Santa sostituendovi qualcosa di inventato di sana pianta, nel 1962 il Messale sostituendovi un pallido surrogato, a buon diritto poi 1970 ha creato qualcosa di completamente opposto che sostituisse tutto il precedente; se all’autorità si è dato potere di intervenire allora, contro la tradizione apostolica e patristica, perché glielo si negherebbe ora?

D’altro canto, il mondo progressista ha gioito per il provvedimento che, a detta del già citato prof. Grillo, ristabilisce non solo la teologia corretta, ma pure la logica (ed effettivamente dell’illogicità delle due forme si è detto sopra). Fattivamente, credo che per i primi tempi non si verificheranno sostanziali modifiche dello status quo: sarà il tempo a suggerire cosa accadrà, se effettivamente i vescovi eserciteranno una qualche forza repressiva, se le comunità “tradizionaliste” saranno lasciate vivere o accompagnate ad eutanasia. Molti fedeli scorati probabilmente si rivolgeranno alla FSSPX, qualcuno finirà nelle grinfie di già citati personaggi che costituiscono sicure strade d’inferno, pochi onestamente credo ritorneranno nei ranghi novusordisti, e qualcuno forse giungerà a compiere delle riflessioni più profonde, che presentiamo di seguito.

IV. Conclusioni.

Il Motu Proprio dice che i vescovi sono i custodi della tradizione. Ciò è vero, e non è certo un’invenzione del Vaticano II, ma il Vaticano II e il Motu Proprio commettono una grave omissione; se leggiamo le epistole di S. Cipriano di Cartagine, scopriamo che per quel santo Padre della Chiesa i custodi della tradizione sono “i vescovi, il clero e tutto il popolo”, insomma il πλήρωμα della Chiesa. Nel XVI secolo, riporta il Righetti, la Cattedrale di Saragozza decise di adottare il Breviario del Quiñonez, un ufficio inventato di sana piana dall’omonimo cardinale spagnolo per sopperire alla pesantezza e lunghezza dell’ufficio romano (nulla di diverso da quel che farà Pio X quattro secoli dopo, in buona sostanza…), senonché alla sera del Mercoledì Santo, iniziato l’Ufficio delle Tenebre il popolo convenuto per la sacra funzione, udito che i salmi non erano quelli tradizionali, e pensando che fossero divenuti ugonotti, presero a lapidare i canonici della cattedrale, che presto ritornò ai libri liturgici tradizionali. Il popolo è al pari dei vescovi il custode delle tradizioni, e anzi verrebbe dire più dei vescovi, che spesso si sono dimostrati – come nel titolo – sovvertitori e distruttori delle tradizioni, e gli esempi si sprecherebbero.

D’altra parte, la mancata resistenza alle gravissime riforme liturgiche del secolo XX rende patente che questo spirito e questa consapevolezza era venuta decisamente meno nella popolazione cattolica degli ultimi secoli, assuefattasi a un antitradizionale e deleterio principio d’autorità, per cui una singola persona detentrice di autorità, quasi assoluta, può modificare a suo piacimento tutta la tradizione della Chiesa. Qui sta il problema principale, in una natura verticistica in cui non è più Dio al vertice, ma un uomo, sia esso il Papa o il vescovo: e, come ha ben scritto un amico, ora che ha abolita la liturgia apostolica, al Papa non resta che abolire Dio, e sostituirlo definitivamente con se stesso, completando un secolare percorso di deriva. Se i movimenti “tradizionalisti” non si accorgeranno di questo fondamentale problema, e continueranno a resistere ai singoli danni senza indagare alla radice dei problemi, non riusciranno mai a risolvere la terribile impasse in cui si ritrova oggi il cattolicesimo.

A tutti coloro che, giustamente, si sentono delusi da questo imperioso e dittatoriale provvedimento contro la tradizione apostolica, ricordo che c’è un luogo ove la liturgia millenaria della Chiesa e la tradizione apostolica non potranno mai essere aboliti, poiché non vi è un Sommo Pontefice che si arroghi il diritto di farlo; il luogo ove si fa e si farà come si è sempre fatto, in ogni dove, sempre e da tutti.

mercoledì 14 luglio 2021

San Giovanni Boemo, protoeremita della Cechia

 di Natale Vadori

SAN GIOVANNI BOEMO, UN SANTO EREMITA VENERATO SIA DAI CATTOLICI CHE DAGLI ORTODOSSI MA CHE PER ALCUNI NON SAREBBE MAI ESISTITO

Lo scorso 6luglio si è svolto un pellegrinaggio, promosso dalla FSSP ceca, a San Giovanni sotto la Roccia, in onore di san Giovanni Boemo. La santa messa è stata celebrata dal rev. p. Josef Peňáznella chiesa ipogea dedicata alla Nascita della Beata Vergine Maria (Skalní kostel Narození Panny Marie), in slavo ecclesiastico, ovvero secondo il messale tradizionale romano ma utilizzando invece del latino lo slavo ecclesiastico, la lingua liturgica composta dai SS. Cirillo e Metodio, gli apostoli degli Slavi, la cui ricorrenza in Cechia e Slovacchia è celebrata proprio il cinque luglio (ed è anche festa civile in entrambi i Paesi), il sette luglio secondo il calendario latino tradizionale, ed il 14 febbraio invece secondo quello promulgato nel 1969; l'11 maggio nel calendario bizantino.

La messa era quella della Comune dei confessori non vescovi, Os justi e l’ordinarium Orbis Factor.  Il canto finale è stato l’inno a S. Venceslao (Hymnus ke sv. Václavovi) [1]. 

San Giovanni sotto la Roccia (Svatý Jan pod Skalou) [2] è un borgo idilliaco, immerso nei boschi, ad una trentina di km a sud-ovest di Praga, presso la cittadina di Beroun [3]. È il più antico centro di pellegrinaggio boemo, legato alla figura di san Giovanni Boemo [4], il primo eremita ceco, vissuto nella prima metà del IX sec., che qui aveva stabilito il suo eremo, in una grotta con una sorgente di acqua curativa, tutt’ora attiva, sotto una roccia erta ed imponente.

L’autenticità storica di questo santo è dibattuta. Al giorno d’oggi il suo culto è permesso dalla Chiesa cattolica solo in questa località e non è più annoverato tra i protettori cechi [5].  A titolo esemplificativo della problematica, riporto qui in una mia traduzione, la scheda “La questione di san Ivan”, redatta da F. V. Mareš [6].

LA QUESTIONE DI SAN IVAN

Tra i protettori cechi era annoverato anche san Ivan; godeva di grande popolarità sopratutto nel periodo barocco. Era il primo eremita, figlio del duca polabo [7] Gestimulus (Gostomysl); nel suo eremo a San Giovanni sotto la Roccia (presso Beroun) lo scoprì il duca Borzivogio Premislide (Bořivoj Přemyslovec, seconda metà del IX sec, primo dinasta boemo e padre del duca san Venceslao). Nella chiesa di S. Giovanni sotto la Roccia sono conservate le sue reliquie; la loro autenticità è tuttavia dubbia e molto dibattuta, come più in generale la stessa esistenza del santo. Per questa ragione il suo culto è permesso dalla Chiesa solo in questo luogo (cioè a S. Giovanni sotto la Roccia, ricorrenza il 25 giugno [8]). Tra le più antiche ragioni dell’antichità del culto si riporta la leggenda veteroslava di san Giovanni, nota grazie ad alcune copie russe. Questa leggenda costituirebbe la principale prova dell’esistenza del santo. Mostra tuttavia che è piuttosto recente: giunse in ambienti russi in primis attraverso l’inaffidabile Cronaca Boema di Václav Hájkz Libočan (pubblicata nel 1541) e tramite la Cronaca del Mondo, redatta nella seconda metà del XVI sec. dal cronista polacco Martin Bielski. Sarebbe interessante ed importante condurre moderne ricerche antropologiche sui resti [9]. 

Così scrive il Mareš sul santo. Rimane in ogni caso il fatto che Borzivogio nella suddetta località vi fondò la cappella di S. Giovanni Battista e vi nominò due sacerdoti. Nel 1033 Bretislao I (Břetislav I) di Boemia  consegnò la cappella al monastero benedettino di San Giovanni Battista in Insula (Klášter Stětí sv. Jana Křtitele na Ostrově) di Davle, una ventina di km a sudovest di Praga. I monaci vi stabilirono una canonica e dopo la distruzione del monastero di Insula nel 1517 anche l’abbazia. Il nobile Oldřich Zajíc di Hazmburk fece costruire qui una nuova chiesa, dedicata alla Nascita di s. Giovanni Battista (kostel Narození sv. Jana Křtitele). A cavallo tra il XVII e il XVIII secolo vi fu costruito dai noti architetti Carlo Lurago (1615-1684) e Kilian Ignaz Dienzenhofer (1689-1751) un nuovo complesso monastico barocco, tutt’ora esistente, anche se destinato  da tempo ad altri usi.

Nel 1732 l’arcivescovo praghese Ferdinand conte Khünburg (1651-1731), originario di Mossa di Gorizia, costituì la Congregazione degli Ivaniti (Congregatio fratrum eremitarum divi Ivani); congregazione che univa laici ma anche religiosi eremiti e cenobiti che vivevano secondo il modello di san Ivan, specialmente nei dintorni di Praga (oltre a S. Giovanni sotto la Roccia, anche nella Valle di Procopio [Prokopské Údolí] e a Vyšehrad [10]) ma pure in altre località boeme, come Křemešník, importante centro di pellegrinaggi presso Pelhřimov, sulle Alture Cecomorave [11]. Spesso gli ivaniti svolgevano le funzioni di sagrestano, campanaro, necroforo. Già nel 1782 l’imperatrice Maria Teresa ne proibì però nuove affiliazioni. Suo figlio e successore, l’anticattolico Giuseppe II, li soppresse, come tutti gli ordini contemplativi. Nel 1785 il convento divenne una residenza privata, nel 1925 una scuola, durante il comunismo prima una prigione e poi una scuola per la polizia politica. Ora è una scuola superiore pedagogica. 

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È certamente verosimile ed anzi plausibile che nei secoli si siano inseriti elementi leggendari, mi pare difficile però ritenere che tutto sia frutto di fantasia, vista l’antichità e la continuità del culto, tuttora e continuativamente praticato dalla Chiesa Ortodossa delle Terre Ceche, nonostante le numerose avversità storiche. La grotta e poi il monastero già nel Medioevo erano divenuti un importante centro di pellegrinaggio, anzi, il primo in Boemia. Passato il burrascoso periodo hussita del XV-XVI sec., con la sua feroce distruzione di ogni presenza cattolica, i pellegrinaggi ripresero nel XVII sec. con la ricattolicizzazione della Boemia e conobbero con la Controriforma il loro periodo aureo. Di nuovo scomparsi per gli effetti della politica anticattolica giuseppina, ripresero nella seconda metà del XIX sec. anche come manifestazione patriottica ceca. Ovviamente proibiti nel periodo comunista, negli ultimi anni sono ripresi per iniziativa della FSSP che qui, come altrove, riscopre e rivitalizza antiche devozioni religiose. 


L’umile Ivan, che rifiutò gli onori del mondo per ritirarsi a vita contemplativa nei boschi, affascinò da subito i contemporanei, ed ancora oggi costituisce un modello da conoscere e su cui riflettere per molti fedeli. Ivan ha anche dato il nome ceco (Kavyl Ivanův) alla Stipa Pennata, una specie di pianta spermatofita monocotiledone della famiglia delle Poaceæ; conosciuta in italiano anche come Lino delle fate piumoso.

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NOTE

[1] Inno del XII sec., in cui s’invoca san Venceslao, padre della Patria, e tutti i protettori cechi. È tutt’ora molto popolare.

[2] Ecco un breve video illustrativo della zona: https://youtu.be/q1tJrElXtdw. Si segnalano inoltre due pubblicazioni locali: Jeskyně sv. Ivana ve Svatém Janě pod Skalou, 2008, Svatojánská společnost; Svatý Jan pod Skalou, 2010, Svatojánská společnost.

[3] Posta alla confluenza del Berounka e del Litavka, a 30 km a SW di Praga, nel Medioevo era il più importante guado sulla strada tra Praga e Pilsen, nel Sud. I primi coloni erano Tedeschi ma curiosamente il toponimo “Beroun” è una corruzione tedesca di “Verona”.

[4] Ivan Český in ceco, quando il corrispondente ceco di “Giovanni” sarebbe invece Jan; indizio questo dell’origine non ceca ma polaba di Ivan.

[5] Ecco il link a tutti i protettori cechi: http://www.abcsvatych.com/rozdeleni/cestisvati.htm

[6] F. V. Mareš, Otázka svatoivanská v “Bohemia Sancta-Životopisy Českých Světců a Přátel Božích”, Praha, 1989.

[7] Si intende come Polabia un insieme di territori tra il basso Oder e la bassa Elba, nel Medioevo abitati da Slavi Polabi, definitivamente germanizzati nel XVIII sec. Il polabo, lingua slava occidentale, è quindi da tempo estinto.

[8] Secondo il calendario giuliano; 8 luglio secondo quello gregoriano. Il pellegrinaggio il 6 luglio si spiega perché in Cechia è festa civile.

[9] Le analisi sulle ossa vennero poi effettuate nel 2005, ed i risultati le attribuirono proprio al IX-X sec.: https://www.katyd.cz/prilohy/svaty-ivan---prvni-cesky-zalesak.html

[10] Rocca praghese a strapiombo sulla riva destra della Moldava, antica residenza reale; dal 1070 vi è eretta la Collegiata Reale del Capitolo dei SS. Pietro e Paolo di Vyšehrad, dal 2003 Basilica Minor.

[11] Alture che separano la Boemia dalla Moravia. Per una panoramica geografica del territorio ceco: https://bohemiaromana.altervista.org/geografia-boemia-moravia/

giovedì 8 luglio 2021

25 giugno - In festo apparitionis Sancti Marci

Gaudete, et exultate Venetiarum Cives; quia hodie occultus aperietur vobis Thesaurus Sanctissimus

(I antifona ai Vespri)

 

Il 25 giugno si celebra la festa dell’apparizione di San Marco (doppio), cioè il ritrovamento delle sante spoglie del Beatissimo Apostolo patrono di Venezia e della Serenissima.

L’ufficio è proprio della festa, con i paramenti rossi. Il Mattutino è di tre notturni, con la IX lezione di San Guglielmo abate.

Alla Messa (Mihi autem) si commemora il giorno ottavo della festa del Corpus Domini, San Guglielmo abate e l’ottava della Natività del Battista. Si cantano Gloria e Credo, il prefazio è quello degli Apostoli.

 

Hodie Festum pie celebremus

Atque devote Deum collaudemus:

Nunc diem quoque digne honoremus

        Ritu solemni

 

Quo Sanctum Marcum Chorus Angelorum

Vehens ad summa gaudia coelorum

Associavit caetibus Sanctorum

        Sede perenni

 

Quem predixerunt scripta Prophetarum

Et plebs, ut praefertur Israelitarum

Edidit, atque Tribus Levitarum

        Ortu beato.

 

Sacerdotali preaditum honore,

Typicum legis veteris ex more,

Et sacrae fultum paginae decore

        Coelitus dato

 

Hunc Sancti Petri Filium dilectum

Post sacri fontis lavacrum susceptum

Ad tantum Dei gratia provectum

        Duxit perfecte

 

Ut a devotis fratribus exactus

Evangelista quoque Christi factus

Verba ipsius, pariter et actus

        Scriberet recte

 

Sit Deo decus nostro Creatori,

Sit quoque Christo, nostro Redemptori,

Spirituique sit Consolatori,

        Gloria semper. Amen.

(inno ai Primi Vespri)

Nota liturgica: nella Ducale Basilica questa festa è doppia di I classe; si celebrano i Primi Vespri e si canta il suddetto inno. In tutti gli altri luoghi si sono celebrati i Secondi Vespri della Natività del Battista, ma l'inno non "scompare", infatti si dice pure a Mattutino.

 

giovedì 1 luglio 2021

L'uso distorto del tabernacolo nell'Occidente moderno

In questa festa del Corpus Domini (giuliano), approfondiamo un elemento di decadenza - o comunque allontanamento dalla prassi originaria - della pratica occidentale negli ultimi secoli, cioè l'uso distorto del tabernacolo e della riserva eucaristica.

Il detto uso improprio si sviluppa soprattutto nei secoli XIX e XX, per influsso del pietismo prima e della comunione frequente poi, installandosi su un uso solo parzialmente distorto che si era formato nei secoli antecedenti, sempre animato da movimenti ai margini della Chiesa e fautori di una spiritualità distorta, a partire dalle beghine di Liegi del XIII secolo le cui visioni avrebbero dato origine alle pressioni per la festa del Corpus Domini, poi confermata in corrispondenza del miracolo eucaristico di Bolsena. I documenti post-tridentini sono molto chiari sul tabernacolo e sul suo uso, e il fatto che ben poche comunioni venissero amministrate durante l'anno faceva sì che il ruolo del tabernacolo non fosse poi così lontano da quello originario; viceversa, con la moltiplicazione delle comunioni e con lo svilupparsi di un devozionismo eucaristico che non corrisponde alla retta e dovuta adorazione che si conviene avere per Nostro Signore sostanzialmente presente, la mentalità nei confronti del tabernacolo si è notevolmente corrotta. Il ritorno alla pristina purezza in questo campo sarebbe stato uno dei punti auspicabili di una seria riforma (nel senso letterale, cioè di un ripristino delle forme originarie), ma nondimeno non si è mai realizzato, permanendo tutt'oggi, in modo sorprendente eguali tra conservatori, "tradizionalisti" e riformisti, una mens che non corrisponde a quella patristica.

Un altare bizantino, con l'artophorion al centro

Uso della riserva eucaristica

Nella Vita di San Basilio il Grande leggiamo che il santo gerarca durante la Divina Liturgia, consacrava tre pani, uno per sé, uno per i monaci, e uno da custodire nella colomba, ovvero nel tabernacolo. Tale riserva aveva e ha uno scopo fondamentale: ovverosia quello di garantire il viatico per i malati e i morenti. Il tabernacolo non è dunque un luogo dove riversare quantità indiscriminate di ostie, né il luogo dove bisogna fissare gli occhi in languida adorazione (ché il culto non è mai languido, essendo questo proprio del sentimento). E' per esempio molto poco conveniente, come ahimè è invece prassi inveterata nelle chiese cattoliche, non consacrare le particole per i comunicandi durante la stessa Messa, bensì servirsi di particole presantificate; l'uso storico dei presantificati, con la loro propria liturgia, ha un significato molto particolare, perché si lega all'impossibilità di celebrare il Sacrificio in determinati giorni, e perciò estenderlo a prassi consolidata snatura l'atto sacramentale. Le particole custodite nel tabernacolo dovrebbero essere poche, e usarsi appunto solo in caso di emergenze, per i malati o altre eventuali Comunioni che si dovessero dare fuor dalla messa.

Sull'uso devozionistico della riserva eucaristica, corredato da inquietanti espressioni quale quella che parla di Cristo come il "divin prigioniero" (Montfort), non spendiamo nemmeno parole, essendo abbastanza palese la natura deviata di tali meditazioni affettive. Basti ricordare che il tabernacolo non ha nessun ruolo liturgico, essendo che tutte le rubriche del Messale non ne prevedono la presenza, e i "tradizionalisti" che affermano che nella messa tridentina il sacerdote è rivolto al tabernacolo commettono un errore tanto grosso da far seriamente dubitare della loro formazione. Ci limiteremo, in un paragrafo successivo, a spendere qualche parola sull'esposizione e l'adorazione eucaristica. 

Forma e posizione del tabernacolo

Il tabernacolo della
Ducale Basilica di S. Marco
L'antica forma del tabernacolo si è detto essere quella di una colomba appesa sopra l'altare, anche se col tempo assunse altre numerose forme: particolarmente adornato era il tabernacolo torreggiante che il santo imperatore Costantino donò alla Basilica Vaticana di San Pietro, d'oro e argento adornato di 250 perle, pur esso appeso al ciborio. Il luogo ove la riserva si custodiva, in Occidente, era sovente una parete laterale della chiesa, spesso fronteggiante un altro tabernacolo, ovvero quello in cui si custodivano gli Olii Sacri, i quali -seppur in un'altra forma rispetto all'Eucaristia- rappresentano una "presenza reale" dello Spirito Santo che li vivifica. Questo modello è ancora visibile in alcune chiese, per esempio nella Ducale Basilica di S. Marco, ancorché ivi non siano più utilizzati questi antichi tabernacoli. Nel corso del Medioevo, soprattutto in area germanica, queste custodie laterali vennero particolarmente decorate e arricchite, fino a diventare delle torri monumentali: la più famosa probabilmente è la Sakramentshaus della Cattedrale di S. Lorenzo a Norimberga, alta più di 18 metri.
La "torre eucaristica"
della cattedrale di Norimberga

A pensarci, la posizione in cui si trovano queste custodie è la stessa richiesta dalle rubriche del messale al Giovedì Santo per la custodia dell'Eucaristia, il cosiddetto "sepolcro" (che quando viene riposta l'Eucaristia non è ancora un sepolcro, ma nei riti pre-tridentini lo diventerà per le cerimonie del venerdì santo pomeriggio); le stesse rubriche menzionano un locus aptus e nemmeno un altare. Queste indicazioni non sono altro che la collocazione della custodia eucaristica permanente: infatti, anticamente proprio al Giovedì Santo venivano consacrate le specie per i malati che poi si sarebbero conservate tutto l'anno.

Solo a partire dal XVI secolo, e pare a partire dalla diocesi di Verona per ordine del vescovo locale Gianmatteo Giberti, ai luoghi della custodia venne accompagnato un altare laterale; si trattava però di un altare molto particolare, sul quale ordinariamente non si celebrava alcuna sacra funzione, che assumeva queste forme solo per questioni di decoro, essendo la missione del vescovo Giberti restituire decoro alle trascurate chiese della diocesi scaligera dell'epoca. Questa costumanza si sparse ben presto in tutta Italia: nel 1560 il Borromeo spostò a un altare laterale la custodia del Sacramento nella Cattedrale Ambrosiana, prima mantenuta in sagrestia; nel 1614 un decreto di Papa Paolo V obbligò allo stesso tutte le chiese della diocesi romana.

Questi altari erano tuttavia sempre altari laterali, poiché la tradizione occidentale non ha mai conosciuto i tabernacoli all'altar maggiore. Come detto, le rubriche del Messale di Pio V, al capo relativo alla preparazione dell'altare per la celebrazione, danno per scontato che sul medesimo non vi sia il tabernacolo; anzi, nel Caeremoniale Episcoporum del 1600, ma pure nelle edizioni successive, leggiamo:
Aliud locum, ubi est Sanctissimum Sacramentum [...] diversum esse solet ab altari majori, et ab eo, in quo Episcopus, vel alius, est Missam solemnem celebraturus. Nam, licet sacrosancto Domini nostri Jesu Christi Corpori, omnium Sacramentorum fonti, praecellentissimus ac nobilissimus omnium locus in Ecclesia conveniat, neque humanis viribus tantum illud venerari et colere umquam valeamus, quanto decet tenemurque; tamen valde opportunum est ut illud non collocetur in majori, vel in alio altari, in quo Episcopus, vel alius, solemniter est Missam seu Vesperas celebraturus; sed in alio sacello, vel loco ornatissimo, cum omni decentia et reverentia ponatur. [...] Et ideo, non congruum, sed maxime decens est, ut in altari ubi Sanctissimum Sacramentum situm est, Missae non celebrarentur, quod antiquitus observatum fuisse videmus. (I, xii, 8-9)
L'altro luogo, dove si trova il Santissimo Sacramento [...] suol essere diverso dall'altare maggiore, e da quello in cui il Vescovo o un altro dovrà celebrare la messa solenne. Infatti, sebbene al sacrosanto Corpo del Signor nostro Gesù Cristo, fonte d'ogni Sacramento, convenga il luogo più eccelso e nobile di tutti nella chiesa, giammai possiamo venerarlo e adorarlo soltanto con le umane forze quando invece dovremmo e gli spetterebbe; tuttavia, assai opportuno è che quello non sia collocato nel maggiore, o in un altro altare in cui il Vescovo o un altro dovrà celebrare la Messa o il Vespro; ma sia posto in un altro sacello, o in un luogo ornatissimo, con ogni decenza e riverenza. [...] E perciò è non solo conveniente, ma massimamente opportuno, che nell'altare dove è sito il Santissimo Sacramento non si celebrino le Messe, la qual cosa vediamo esser stata osservata sin dall'antichità.

I padri del Concilio di Trento, evidentemente, avevano ben chiara non solo la prassi antica, ma pure la ragione teologica (oltreché pratica) per cui non conviene che le Sacre Funzioni vengano celebrate all'altare della riserva eucaristica. Se ne deduce che contrarie a tali prescrizioni del Cerimoniale, tuttora in vigore nella Chiesa Cattolica, sono non solo le celebrazioni agli altari del Santissimo Sacramento, ma massimamente le funzioni coram Sanctissimo, che confondono il senso medesimo della Divina Liturgia Eucaristica; funzioni molto praticate da chi confonde la storia della liturgia con la prassi decadente degli ultimi secoli. I tabernacoli iniziarono a comparire agli altari maggiori per opposizione alla riforma protestante, volendo sottolineare la Presenza Reale; particolarmente ciò era importante nei territori di convivenza tra riformati e cattolici, ove vedere il tabernacolo era segno inequivocabile che la chiesa in cui si era entrati era votata alla fede cattolica. La prassi andò estendendosi lentamente in molte parrocchie, scampandosi solo le cattedrali e collegiate, ove la complessità delle cerimonie del coro ecclesiastico permise di mantenere nettamente separata la custodia; in molte chiese romane gli altari maggiori, sinora privi di tabernacolo, ne furono dotate nell'Ottocento, e possiamo dedurre che in questo secolo la violazione della norma divenne generalizzata, all'intensificarsi del pietismo eucaristico di cui sopra.

Paradossalmente, nello spostare i tabernacoli dall'altare maggiore, il Vaticano II ha eseguito un atto realmente tradizionale (uno dei pochi), purtuttavia prontamente criticato dai "tradizionalisti" poco avvezzi alla storia liturgica; che poi i luoghi dove son stati spostati siano sovente indegni, maltenuti ed esteticamente discutibili, questo è indubbio, ma del resto la sciatteria, la mancanza di rispetto e finanche l'eresia eucaristica sono stati certamente presenti nella prassi post-Vaticano II.

L'esposizione eucaristica: alcune suggestioni

Ostensorio del tesoro della
Cattedrale di Bolzano (1490)
Nella festa del Corpus Domini e nella sua ottava in Occidente vi è la consuetudine di praticare l'esposizione delle specie eucaristiche in degli speciali ostensori, offrir loro gesti di adorazione e portarli processionalmente per le vie in trionfo. Sebbene questa prassi non sia molto antica, e viene generalmente vista con sospetto dall'Ortodossia perché legata alla concezione scolastica dell'Eucaristia e alla comunione dei laici al solo Corpo, in sé non presenta sostanziali problemi o disgiunzioni eccessive dall'uso antico. Il Corpus Domini, infatti, non è che una ri-celebrazione in forma gloriosa del mistero dell'Ultima Cena, che l'atmosfera del Giovedì Santo non permetteva di festeggiare con tale pompa; la processione eucaristica del Corpus Domini è quindi legata a quella che si compie al Giovedì Santo portando le Specie al sepolcro per i Presantificati dell'indomani. La celebrazione della Processione è strettamente liturgica, con prassi ben determinate, e nella consuetudine imperiale tedesca, diffusasi un po' in tutta Europa, la lettura degli incipit dei Quattro Vangeli ai quattro punti cardinali durante il percorso della processione. Gli antichi ostensori poi (tuttora sopravvissuti nell'Arcidiocesi di Milano, detti "a tempietto") avevano la forma di reliquiari, non l'attuale forma a raggiera che insiste materialisticamente per mostrare, come se non si potesse conoscere spiritualmente Iddio senza vederlo. Purtuttavia, nella prassi cattolica più recente il devozionismo eucaristico ha portato a una corruzione notevole della prassi, con un aumento smisurato della frequenza dell'esposizione e adorazione eucaristica, e una conseguente materializzazione del Sacramento separato dal Mistero.

Il tipico del Monastero di Port-Royal-des-Champs, abbazia femminile cistercense fiorita nel corso del XVII secolo nella Francia meridionale accusata un po' pretenziosamente di giansenismo per l'osservanza rigorosa della regola e dei canoni antichi, ci offre delle indicazioni piuttosto precise ed equilibrate su come effettuare le funzioni del Corpus Domini. L'esposizione eucaristica è permessa solo durante l'Ottava del Corpus Domini, e si espone soltanto un'ostia consacrata nella Messa al termine della medesima, in modo che il Sacramento non sia slegato dalla ierurgia; a ciò segue subito la Processione, al termine della quale, compiuta la Benedizione, l'ostia è subito riposta. Tali informazioni, insieme al resto delle consuetudini del monastero, sono attentamente riportate da J.B. Le Brun, Voyages Liturgiques de France: ou Recherches faites en diverses villes du Royaume, Paris, Delaulne, 1718, pp. 234ss.

La processione del Corpus Domini al monastero di Port-Royal
Illustrazione di Louise-Madeleine Cochin-Horthemels (1713),
Collection du Chateau de Versailles (copyright)

Non si ammette dunque interminabile e languida adorazione, né generalmente si ammette l'esposizione eucaristica al di fuori di quei giorni particolari, né al di fuori della celebrazione della Divina Liturgia. Decisamente il contrario della prassi purtroppo invalsa nelle chiese cattoliche a partire dall'Ottocento, con adorazioni frequentissime, separate dalla Liturgia e accompagnate da devozioni (tra cui la recita del Rosario, la lettura spirituale, la meditazione, con un totale disinteresse del Signore presente, utilizzato solo come un sentimentale stimolo della propria fantasia) spesso senza la pompa e la solennità necessaria all'evento, rischiando in questo modo di disonorare sommamente il Cristo incarnato, materializzando il Divino Sacramento e rendendolo uno strumento del proprio pietismo.

C'è da augurarsi che queste pratiche corrotte e deviate possano un giorno essere riportate alla pristina austerità e purezza, in modo da scrollare il velo offuscato del pietismo sentimentale, e di offrire degnamente a Cristo Dio l'onore spettante a Lui che è invisibilmente scortato dalle schiere angeliche.