Ritrasmetto volentieri questa segnalazione libraria fattami pervenire da un affezionato lettore. Il titolo italiano (l'originale inglese è "Dies Irae - The Passion of the Church") e la copertina, che potrebbero far pensare a qualche pubblicazione romanzesca e scandalistica alla Dan Brown, non devono trarre in inganno: il racconto è stato scritto da persona dotta, molto ben informata dei fatti e animata da una profonda coscienza cristiana, che ho avuto il privilegio di conoscere personalmente, e ha come scopo precipuo il far riflettere i lettori su alcuni avvenimenti inquietanti avvenuti nei "sotterranei" della gerarchia romana negli anni '60 del secolo scorso.
Il romanzo può essere acquistato in italiano su Amazon. Si veda QUI la bella presentazione fatta da Alessandro Gnocchi, che ha collaborato alla pubblicazione dello stesso.
P. EVANS, Satana in Vaticano, Boston, 2020, stampato in proprio, 292 pp.
Abstract (IV di copertina)
Londra, l’editore Juan Diego Vargas sta esaminando un corposo fascicolo dell’FBI che riguarda un complotto in Vaticano. L’uomo incarica Michael Wilson, giornalista indipendente, di indagare. Partito per l’Italia, il giovane reporter inizia un’indagine che metterà in luce eventi delicati e segretissimi. Chi ha impedito l’elezione di Gregorio XVII? E perché? Chi si trovava nei sotterranei di una sinagoga di Strasburgo nell’inverno del 1962? Quali enormi stravolgimenti vennero operati dalle alte gerarchie cattoliche? Ma, soprattutto, cosa accadde realmente nella notte tra il 28 e il 29 giugno del 1963 nella Cappella Paolina e contemporaneamente in una cittadina del sud Carolina? Nella primavera del 1999, durante una cena privata in un prestigioso ristorante di Manhattan, il gesuita Malachi Martin, esorcista, teologo e professore al Pontificio Istituto Biblico di Roma, raccontò alcuni dettagli sconvolgenti su ciò che accadde quella notte.
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domenica 29 marzo 2020
giovedì 26 marzo 2020
Note e impressioni circa i decreti del Sant'Uffizio sulla riforma del Messale tradizionale
Quella che presto potrebbe essere una pagina del Messale del 1962 |
In ogni caso, sostanzialmente questi saranno i punti che voglio rilevare:
1. Facoltatività della legge liturgica.
2. Celebrare o no i "nuovi santi"? E come?
3. La lista dei santi intoccabili: impressioni.
4. Nuovi prefazi: arricchimento liturgico?
Si tratta di considerazioni in flusso di coscienza, dunque ben volentieri possono essere oggetto di discussione e di revisione.
Si tratta di considerazioni in flusso di coscienza, dunque ben volentieri possono essere oggetto di discussione e di revisione.
Prima di cominciare occorre fare un'ulteriore premessa: io mi dichiaro, e mi sono sempre dichiarato, assolutamente favorevole, anzi, sostenitore della necessità di una riforma del rito antico, nel senso letterale della parola, per ricondurre cioè il rito alle sue forme più pure, snellendolo dagli interventi non del tutto felici degli ultimi secoli, e ripristinando la varietà rituale tradizionale omologatasi spesso per eccessivo zelo non desiderato certo da Pio V nei decenni immediatamente a lui successivi. Ho sempre parimenti sostenuto che, tuttavia, fare adesso una riforma sarebbe un suicidio: l'evoluzione della mentalità, e l'allontanamento di quest'ultima dallo spirito rituale tradizionale, ha portato alle già citate e deprecate riforme, sino all'introduzione del messale di Paolo VI. La mentalità oggi dominante, non solo nelle dottrinalmente corrotte congregazioni romane, ma anche tra la maggior parte dei "tradizionalisti", è però esattamente la stessa degli anni '50, la stessa cioè su cui Bugnini ha costruito le sue riforme. Semplicemente, se i "modernisti" sono allo stadio avanzato di questa riforma, i "tradizionalisti" sono ancora a quello precedente. Ma non dimentichiamo che il libro scritto dal succitato monsignore-novatore s'intitola La riforma liturgica (1948-1975). Una sola e unica riforma liturgica, seppur in varie fasi, nello stesso spirito modernista, razionalista e distruttore, iniziata prima degli anni '50 e condotta fino alla cena di Paolo VI. I decreti con cui ci confrontiamo oggi, seppur non così negativi, sicuramente non ci fanno troppo ben sperare.
1. Facoltatività della legge liturgica
Questo è sicuramente un principio strano con cui confrontarsi. Sembra che, per timore delle reazioni, si sia voluto procedere in modo vellutato, facendo delle riforme del tutto facoltative. Se questo è sicuramente positivo da un punto di vista pratico, perché permetterà a chiunque nutra dubbi legittimi sulla bontà di queste riforme di astenersene dall'applicazione senza scrupoli di coscienza, da un punto di vista teorico è problematico. Di che legge liturgica si può parlare se non ha valore di legge, ma semplicemente crea delle possibilità? Soprattutto, un conto è la facoltatività quando si parla di santi (la nota accompagnatrice del decreto Cum sanctissima giustamente cita l'antica presenza delle feste ad libitum nel Messale Romano, cui accenneremo al punto successivo), ma diventa molto più imbarazzante quando si parla di prefazi. E diventerà ancora più imbarazzante se e quando si estenderà ad altri punti. Uno dei molti e grandi difetti dei libri liturgici moderni è l'esistenza prevista di molteplici possibilità: l'unità, intesa come coerenza strutturale e univoca del rito, viene pian piano a cadere. C'è un'unica, validissima ragione per "differenziarsi" dalle leggi liturgiche, ovvero sfruttare una possibilità concessa: quella di richiamarsi a una consuetudine locale antica. Il Caeremoniale Episcoporum fa continuo riferimento alle usanze dei luoghi, permettendole e anche incoraggiandole, in osservanza al buon principio sancito dalla Sacra Congregazione dei Riti col decreto n. 46 del 15 ottobre 1593: Consuetudo quae sacris canonibus non repugnare videtur, probatur. Ma una facoltatività modernamente imposta su quali basi poggia? Già sarebbe difficile parlare di facoltatività nel reintrodurre elementi antichi oramai caduti universalmente in disuso (prendiamo il caso di un decreto che dicesse che facoltativamente si può inserire la deprecatio gelasiana prima delle letture: è sicuramente un uso antico, ma sulla base di cosa la si inserisce o meno? In nessun luogo v'è un'usanza continuativa che la giustifichi, e dunque si lascerebbe al puro arbitrio del celebrante?), figurarsi quando parliamo di elementi completamente nuovi.
E' vero, tuttavia e purtroppo, che come tutte le introduzioni facoltative non giustificate da nessun precedente storico o di consuetudine (la Comunione sulla mano, i Misteri luminosi del Rosario...), tutto ciò è destinato in breve tempo a diventare deleteria legge.
2. Celebrare o no i "nuovi santi"? E come?
Il decreto Cum sanctissima permette la celebrazione di messe in onore dei "nuovi santi" canonizzati dopo il 1960. Se il decreto riguardasse unicamente la possibilità di celebrare messe votive in onore di questi nuovi santi, a livello liturgico nulla si potrebbe obiettare: molto si potrebbe discutere della santità di alcuni "nuovi santi", ma nulla eccepirebbe la norma liturgica. Il problema è che il decreto promuove ed estende una rubrica poco conosciuta del 1960: la n. 302, che esplicita la categoria delle missae festivae latiore sensu. Ossia, si permette di celebrare la messa in onore di un qualsiasi santo iscritto nel martirologio nel suo giorno proprio, non come messa votiva, ma con tutti i privilegi della messa festiva (vale a dire, il Gloria etc.); oppure, di commemorare detto santo all'interno di un'altra messa. La rubrica giovannea permette di far ciò solo nei giorni liturgici di IV classe, cioè in buona sostanza nelle ferie; la modifica apportata dal decreto consente però di farlo anche nella maggior parte dei giorni liturgici di III classe [2]. Fortunatamente, la facoltatività consente di evitare l'inondazione dei nuovi santi nel calendario; e tuttavia apre uno spiraglio all'ulteriore aumento a dismisura del numero delle feste. Anticamente, l'esistenza di feste ad libitum era dovuta al fatto che molti ordini religiosi insistevano (e pagavano) per avere iscritti i propri santi nel Calendario generale. Per evitare di appesantirlo, tuttavia, inizialmente si prese a concedere queste feste ad libitum; la clausola iniziò pian piano a declinare, e in breve tempo si giunse alla moltiplicazione e alla duplicazione selvaggia delle feste, ingolfando il calendario con quelli che un mio conoscente americano chiama "gli sconosciuti confessori italiani" [3], e in tal modo spesso andando ad obliare le feste degli antichi martiri, il cui culto rimonta alle origini della Chiesa.
Come nota en passant, al numero 8 il decreto di fatto crea la possibilità di dire nelle ferie di Quaresima la messa della festa eventualmente occorrente con commemorazione della feria. Nel 1962 era possibile solo la messa della feria con commemorazione della festa, mentre nelle edizioni più antiche la via ordinaria (seguita dall'Ufficio) era la priorità della festa semidoppia o doppia, con concessione di dire la messa privata della feria con commemorazione della festa. Secondo la mia personale opinione, la questione delle feste in Quaresima dovrebbe essere oggetto di attentissime riflessioni circa la precedenza: soprattutto nell'ufficio, un gran numero di feste rischia di far perdere gran parte dei caratteri strettamente penitenziali delle ferie di questo periodo. Tuttavia, guardando solo alla messa, la possibilità di scegliere tra quella del santo e quella della feria resta la cosa migliore, per evitare che feste di santi molto importanti (i Quaranta Martiri, S. Patrizio, S. Giovanni Damasceno, l'Aquinate...) siano perennemente obliate; altre (come S. Giovanni di Dio, S. Francesca Romana, etc.) si potrebbero tranquillamente ridurre a semplici o espungere, con gran vantaggio della ricchezza liturgica quaresimale.
3. La lista dei santi intoccabili: impressioni
La lista dei circa settanta santi intoccabili, cioè in cui non è possibile celebrare la messa festiva latiore sensu, ha dei punti interessanti e dei punti decisamente meno. Anzitutto, la sua stessa esistenza è dovuta alla povertà (non semplicità) classificatoria delle rubriche del 1962: la confluenza di semidoppio, doppio e (qualche) doppio maggiore nell'unica III classe, se era preannunciata dall'abolizione dell'antichissimo costume di non duplicare le antifone se non nelle feste maggiori, crea dei problemi nell'interclassificazione delle feste (problemi già ampiamente creati dalla summenzionata duplicazione selvaggia). Giocando con la fantasia, si potrebbe prendere ispirazione dalla nuova lista per stilare l'elenco delle feste "nuove doppie", a fronte di una riduzione a semidoppie delle altre; peccato che 70 sia un numero fin troppo alto di doppie. Senza contare i criteri di scelta: nella nota accompagnatoria ne vengono elencati alcuni molto fumosi. Di essi, taluni sono meritori (l'importanza nell'economia salvifica, il culto antico a Roma, e.g.), altri pericolosi (la devozione [4], e.g.). Scorrendo l'elenco, questi sono i nomi che mi lasciano più perplesso: S. Francesco di Sales, S. Giovanni Bosco, S. Francesca Romana, S. Gregorio VII, S. Luigi Gonzaga, S. Bonaventura, S. Vincenzo di Paola, Alfonso de Liguori, Giovanni Maria Vianney, S. Teresa di Lisieux, S. Teresa d'Avila, S. Josaphat, S. Giovanni della Croce, S. Francesco Saverio. Soprattutto di alcuni di loro, cosa giustifica l'inamovibilità del calendario? Non ho mai conosciuto nessun devoto di Gregorio VII o di S. Josaphat; degli altri non sempre la devozione popolare si accompagna a un'effettiva rilevanza. Resto dubbioso su altri nomi come S. Caterina e S. Chiara, che potrebbero essere validi solo per l'Italia. S. Pio X è un contentino al tradizionalista, il cui problema non mi sono mai posto, dacché non compare in nessun libro liturgico in mio possesso (quis habet aures audiendi, audiat).
4. Nuovi prefazi: arricchimento liturgico?
Partiamo dal fatto che in teoria lo scrivente è favorevole agli arricchimenti testuali, che la varietà di prefazi è una caratteristica dei riti occidentali (si pensi all'ambrosiano, in cui il prefazio fa parte del proprio del giorno, e viceversa al prefazio fisso delle anafore orientali), e che in Roma anticamente esistevano molti più prefazi. A tal proposito, scrive lo Jungmann: "La Liturgia romana antica, prima di Gregorio Magno, aveva moltissimi prefazi...anzi l'abitudine di assegnare ad ogni messa il suo prefazio si stabilì in quel tempo; ma questo principio comportava il pericolo di vedere un tema periferico, per esempio le sofferenze di un martire, prevalere su quello centrale, oppure l'azione di grazie sostituita con una supplica, come nel prefazio degli Apostoli, o con una professione di fede, come nel prefazio della SS. Trinità. Questo eccessi provocarono una forte reazione: verso il VI secolo si abolì la maggior parte dei prefazi marginali per conservarne solo nove o dieci; e la nostra Praefatio Communis, che nei tempi antichi non fu mai considerata come un prefazio autonomo, ma piuttosto come una inquadratura dei diversi prefazi particolari, è diventata la forma comune della preghiera di ringraziamento [5], e fu meglio così, senza dubbio; molto meglio della moltitudine di prefazi del VI secolo".... "In antico vi era un gran numero di prefazi domenicali, e osiamo sperare che alcuni di essi ritornino presto nella nostra liturgia. Anche nella Praefatio Communis avvertiamo la povertà della nostra preghiera di ringraziamento; ma pure nella sua forma così concisa essa ha qualcosa di grandioso, di nobile. Vi si suppone, per così dire, che il cristiano sappia già di che cosa deve ringraziare, ch'egli abbia la coscienza dei benefici di Dio, dei benefici di ordine naturale, ma più ancora di quelli dell'ordine soprannaturale. Perciò vi si dice che dobbiamo rendere grazie sempre e dovunque...e possiamo farlo per Cristo nostro Signore. In questa sola espressione è detta la cosa più sublime". (J. JUNGMANN, La grande Preghiera Eucaristica, Brescia, Morcelliana, 1959, pp. 17-18). Non sempre dunque la molteplicità di testi è un arricchimento, anzi potrebbe addirittura essere un appesantimento. E' vero che anticamente gli ordini religiosi chiedevano e ottenevano prefazi propri per i loro santi patroni o fondatori, e già questa prassi sarebbe discutibile, quantunque la limitazione ai testi propri dell'ordine permetta che non ottengano eccessiva diffusione. Vogliamo trovarci come accade alla messa nuova, con quattro prefazi a scelta diversi per ogni domenica, per poi indulgere alla pigrizia del celebrante e dire sempre lo stesso comune?
Dei sette nuovi prefazi, inoltre, si può discutere la scelta. Tre sono tratti dai messali neo-gallicani, provenienti dall'uso parigino: quello della Dedicazione della Chiesa, dei Santi Patroni, e del Santissimo Sacramento. Di fatto questa è l'estensione di un costume ampiamente praticato dai tradizionalisti, visto il francesismo imperante negli istituti, poi trasmesso a molti anche fuor d'essi: nelle ristampe del messale curate dalla FSSP, per esempio, questi prefazi sono inclusi nel novero. I prefazi neo-gallicani, presenti anticamente nelle edizioni francesi come propria pro aliquibus, sono in realtà quattro: è tralasciato qui quello d'Avvento, forse quello meglio composto e linguisticamente e musicalmente, nonostante una barocca prolissità tipicamente francese. Quest'ultimo avrebbe supplito al costume non molto congeniale di usare il prefazio della Trinità nelle domeniche di Avvento (cfr. nota 5), alle quali meglio si addiceva il comune. Il prefazio del Santissimo Sacramento fungerà da toppa, per nascondere l'orrida soppressione del prefazio della Natività che la Tradizione voleva si dicesse in quella festa che fa memoria in modo particolare dell'Incarnazione del Signore.
Gli altri quattro, di cui non è ancora fornito il testo, saranno tratti dal messale di Paolo VI. Questo è molto grave a livello teorico, perché apre all'influenza dei testi liturgici moderni su quelli antichi; inoltre, visto che a Roma in antichità vi era gran copia di prefazi, riportati dagli Ordines, perché non riesumarne qualcuno di antico, piuttosto che usare quelli del nuovo messale, ampiamente modificati e con scelte linguistiche talora affatto discutibili? Veniamo poi alla scelta dei quattro. Il Prefazio degli Angeli è abbastanza inutile, dacché tutti i Prefazi fanno memoria, in modo più o meno ampio, alla schiera celeste; il Prefazio del Battista è interessante come scelta, e ricordo di aver visto un Messale settecentesco che ne possedeva uno nel Proprio del luogo, ma non riesco a rammentare di quale luogo; il prefazio dei Martiri potrebbe in sé non essere così pessimo (anche se certamente non se ne sentiva il bisogno) [6]; quello per la messa nuziale è francamente discutibile nei suoi stessi intenti, ma del resto s'inserisce in una corrente che tende progressivamente ad esaltare la messa nuziale, atto complementare ma nient'affatto necessario al Sacramento (ricordiamo che nelle rubriche antiche la messa degli sposi è una votiva privata, seppur privilegiata quanto ai giorni in cui si possa dire, e dunque non ha né Gloria, né Credo, e vuole il tono feriale; nel '62 tutto le è concesso, a parte il Credo, e in essa vengono neutralizzate gran parte delle commemorazioni).
In definitiva, che giudizio possiamo emettere su questi decreti? Sicuramente, non rispondono in nessun modo alla vera necessità di riforma, cioè al ritorno in modo integrale (con degli aggiustamenti nel grado delle feste, e al massimo nella loro precedenza) ai libri liturgici anteriori le riforme del XX secolo.
E' vero, tuttavia e purtroppo, che come tutte le introduzioni facoltative non giustificate da nessun precedente storico o di consuetudine (la Comunione sulla mano, i Misteri luminosi del Rosario...), tutto ciò è destinato in breve tempo a diventare deleteria legge.
2. Celebrare o no i "nuovi santi"? E come?
Il decreto Cum sanctissima permette la celebrazione di messe in onore dei "nuovi santi" canonizzati dopo il 1960. Se il decreto riguardasse unicamente la possibilità di celebrare messe votive in onore di questi nuovi santi, a livello liturgico nulla si potrebbe obiettare: molto si potrebbe discutere della santità di alcuni "nuovi santi", ma nulla eccepirebbe la norma liturgica. Il problema è che il decreto promuove ed estende una rubrica poco conosciuta del 1960: la n. 302, che esplicita la categoria delle missae festivae latiore sensu. Ossia, si permette di celebrare la messa in onore di un qualsiasi santo iscritto nel martirologio nel suo giorno proprio, non come messa votiva, ma con tutti i privilegi della messa festiva (vale a dire, il Gloria etc.); oppure, di commemorare detto santo all'interno di un'altra messa. La rubrica giovannea permette di far ciò solo nei giorni liturgici di IV classe, cioè in buona sostanza nelle ferie; la modifica apportata dal decreto consente però di farlo anche nella maggior parte dei giorni liturgici di III classe [2]. Fortunatamente, la facoltatività consente di evitare l'inondazione dei nuovi santi nel calendario; e tuttavia apre uno spiraglio all'ulteriore aumento a dismisura del numero delle feste. Anticamente, l'esistenza di feste ad libitum era dovuta al fatto che molti ordini religiosi insistevano (e pagavano) per avere iscritti i propri santi nel Calendario generale. Per evitare di appesantirlo, tuttavia, inizialmente si prese a concedere queste feste ad libitum; la clausola iniziò pian piano a declinare, e in breve tempo si giunse alla moltiplicazione e alla duplicazione selvaggia delle feste, ingolfando il calendario con quelli che un mio conoscente americano chiama "gli sconosciuti confessori italiani" [3], e in tal modo spesso andando ad obliare le feste degli antichi martiri, il cui culto rimonta alle origini della Chiesa.
Come nota en passant, al numero 8 il decreto di fatto crea la possibilità di dire nelle ferie di Quaresima la messa della festa eventualmente occorrente con commemorazione della feria. Nel 1962 era possibile solo la messa della feria con commemorazione della festa, mentre nelle edizioni più antiche la via ordinaria (seguita dall'Ufficio) era la priorità della festa semidoppia o doppia, con concessione di dire la messa privata della feria con commemorazione della festa. Secondo la mia personale opinione, la questione delle feste in Quaresima dovrebbe essere oggetto di attentissime riflessioni circa la precedenza: soprattutto nell'ufficio, un gran numero di feste rischia di far perdere gran parte dei caratteri strettamente penitenziali delle ferie di questo periodo. Tuttavia, guardando solo alla messa, la possibilità di scegliere tra quella del santo e quella della feria resta la cosa migliore, per evitare che feste di santi molto importanti (i Quaranta Martiri, S. Patrizio, S. Giovanni Damasceno, l'Aquinate...) siano perennemente obliate; altre (come S. Giovanni di Dio, S. Francesca Romana, etc.) si potrebbero tranquillamente ridurre a semplici o espungere, con gran vantaggio della ricchezza liturgica quaresimale.
3. La lista dei santi intoccabili: impressioni
La lista dei circa settanta santi intoccabili, cioè in cui non è possibile celebrare la messa festiva latiore sensu, ha dei punti interessanti e dei punti decisamente meno. Anzitutto, la sua stessa esistenza è dovuta alla povertà (non semplicità) classificatoria delle rubriche del 1962: la confluenza di semidoppio, doppio e (qualche) doppio maggiore nell'unica III classe, se era preannunciata dall'abolizione dell'antichissimo costume di non duplicare le antifone se non nelle feste maggiori, crea dei problemi nell'interclassificazione delle feste (problemi già ampiamente creati dalla summenzionata duplicazione selvaggia). Giocando con la fantasia, si potrebbe prendere ispirazione dalla nuova lista per stilare l'elenco delle feste "nuove doppie", a fronte di una riduzione a semidoppie delle altre; peccato che 70 sia un numero fin troppo alto di doppie. Senza contare i criteri di scelta: nella nota accompagnatoria ne vengono elencati alcuni molto fumosi. Di essi, taluni sono meritori (l'importanza nell'economia salvifica, il culto antico a Roma, e.g.), altri pericolosi (la devozione [4], e.g.). Scorrendo l'elenco, questi sono i nomi che mi lasciano più perplesso: S. Francesco di Sales, S. Giovanni Bosco, S. Francesca Romana, S. Gregorio VII, S. Luigi Gonzaga, S. Bonaventura, S. Vincenzo di Paola, Alfonso de Liguori, Giovanni Maria Vianney, S. Teresa di Lisieux, S. Teresa d'Avila, S. Josaphat, S. Giovanni della Croce, S. Francesco Saverio. Soprattutto di alcuni di loro, cosa giustifica l'inamovibilità del calendario? Non ho mai conosciuto nessun devoto di Gregorio VII o di S. Josaphat; degli altri non sempre la devozione popolare si accompagna a un'effettiva rilevanza. Resto dubbioso su altri nomi come S. Caterina e S. Chiara, che potrebbero essere validi solo per l'Italia. S. Pio X è un contentino al tradizionalista, il cui problema non mi sono mai posto, dacché non compare in nessun libro liturgico in mio possesso (quis habet aures audiendi, audiat).
4. Nuovi prefazi: arricchimento liturgico?
Partiamo dal fatto che in teoria lo scrivente è favorevole agli arricchimenti testuali, che la varietà di prefazi è una caratteristica dei riti occidentali (si pensi all'ambrosiano, in cui il prefazio fa parte del proprio del giorno, e viceversa al prefazio fisso delle anafore orientali), e che in Roma anticamente esistevano molti più prefazi. A tal proposito, scrive lo Jungmann: "La Liturgia romana antica, prima di Gregorio Magno, aveva moltissimi prefazi...anzi l'abitudine di assegnare ad ogni messa il suo prefazio si stabilì in quel tempo; ma questo principio comportava il pericolo di vedere un tema periferico, per esempio le sofferenze di un martire, prevalere su quello centrale, oppure l'azione di grazie sostituita con una supplica, come nel prefazio degli Apostoli, o con una professione di fede, come nel prefazio della SS. Trinità. Questo eccessi provocarono una forte reazione: verso il VI secolo si abolì la maggior parte dei prefazi marginali per conservarne solo nove o dieci; e la nostra Praefatio Communis, che nei tempi antichi non fu mai considerata come un prefazio autonomo, ma piuttosto come una inquadratura dei diversi prefazi particolari, è diventata la forma comune della preghiera di ringraziamento [5], e fu meglio così, senza dubbio; molto meglio della moltitudine di prefazi del VI secolo".... "In antico vi era un gran numero di prefazi domenicali, e osiamo sperare che alcuni di essi ritornino presto nella nostra liturgia. Anche nella Praefatio Communis avvertiamo la povertà della nostra preghiera di ringraziamento; ma pure nella sua forma così concisa essa ha qualcosa di grandioso, di nobile. Vi si suppone, per così dire, che il cristiano sappia già di che cosa deve ringraziare, ch'egli abbia la coscienza dei benefici di Dio, dei benefici di ordine naturale, ma più ancora di quelli dell'ordine soprannaturale. Perciò vi si dice che dobbiamo rendere grazie sempre e dovunque...e possiamo farlo per Cristo nostro Signore. In questa sola espressione è detta la cosa più sublime". (J. JUNGMANN, La grande Preghiera Eucaristica, Brescia, Morcelliana, 1959, pp. 17-18). Non sempre dunque la molteplicità di testi è un arricchimento, anzi potrebbe addirittura essere un appesantimento. E' vero che anticamente gli ordini religiosi chiedevano e ottenevano prefazi propri per i loro santi patroni o fondatori, e già questa prassi sarebbe discutibile, quantunque la limitazione ai testi propri dell'ordine permetta che non ottengano eccessiva diffusione. Vogliamo trovarci come accade alla messa nuova, con quattro prefazi a scelta diversi per ogni domenica, per poi indulgere alla pigrizia del celebrante e dire sempre lo stesso comune?
Dei sette nuovi prefazi, inoltre, si può discutere la scelta. Tre sono tratti dai messali neo-gallicani, provenienti dall'uso parigino: quello della Dedicazione della Chiesa, dei Santi Patroni, e del Santissimo Sacramento. Di fatto questa è l'estensione di un costume ampiamente praticato dai tradizionalisti, visto il francesismo imperante negli istituti, poi trasmesso a molti anche fuor d'essi: nelle ristampe del messale curate dalla FSSP, per esempio, questi prefazi sono inclusi nel novero. I prefazi neo-gallicani, presenti anticamente nelle edizioni francesi come propria pro aliquibus, sono in realtà quattro: è tralasciato qui quello d'Avvento, forse quello meglio composto e linguisticamente e musicalmente, nonostante una barocca prolissità tipicamente francese. Quest'ultimo avrebbe supplito al costume non molto congeniale di usare il prefazio della Trinità nelle domeniche di Avvento (cfr. nota 5), alle quali meglio si addiceva il comune. Il prefazio del Santissimo Sacramento fungerà da toppa, per nascondere l'orrida soppressione del prefazio della Natività che la Tradizione voleva si dicesse in quella festa che fa memoria in modo particolare dell'Incarnazione del Signore.
Gli altri quattro, di cui non è ancora fornito il testo, saranno tratti dal messale di Paolo VI. Questo è molto grave a livello teorico, perché apre all'influenza dei testi liturgici moderni su quelli antichi; inoltre, visto che a Roma in antichità vi era gran copia di prefazi, riportati dagli Ordines, perché non riesumarne qualcuno di antico, piuttosto che usare quelli del nuovo messale, ampiamente modificati e con scelte linguistiche talora affatto discutibili? Veniamo poi alla scelta dei quattro. Il Prefazio degli Angeli è abbastanza inutile, dacché tutti i Prefazi fanno memoria, in modo più o meno ampio, alla schiera celeste; il Prefazio del Battista è interessante come scelta, e ricordo di aver visto un Messale settecentesco che ne possedeva uno nel Proprio del luogo, ma non riesco a rammentare di quale luogo; il prefazio dei Martiri potrebbe in sé non essere così pessimo (anche se certamente non se ne sentiva il bisogno) [6]; quello per la messa nuziale è francamente discutibile nei suoi stessi intenti, ma del resto s'inserisce in una corrente che tende progressivamente ad esaltare la messa nuziale, atto complementare ma nient'affatto necessario al Sacramento (ricordiamo che nelle rubriche antiche la messa degli sposi è una votiva privata, seppur privilegiata quanto ai giorni in cui si possa dire, e dunque non ha né Gloria, né Credo, e vuole il tono feriale; nel '62 tutto le è concesso, a parte il Credo, e in essa vengono neutralizzate gran parte delle commemorazioni).
In definitiva, che giudizio possiamo emettere su questi decreti? Sicuramente, non rispondono in nessun modo alla vera necessità di riforma, cioè al ritorno in modo integrale (con degli aggiustamenti nel grado delle feste, e al massimo nella loro precedenza) ai libri liturgici anteriori le riforme del XX secolo.
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NOTE
[1] Vale a dire, con tutto il rispetto e l'ammirazione per l'opera di mons. Lefebvre, ma non certo con stima degli esiti liturgici della Fraternità per molte altre cose benemerita, il Messale del '62 come base con elementi precedenti ed elementi del '65 inseriti passim.
[2] Ovviamente, per chi non segue il rito del '62 ma quello romano autentico, occorrerebbe iniziare una serie di distinzioni sul grado che otterrebbero queste feste latiore sensu. A logica non si potrebbe assegnare loro più di un simplex ad libitum; verosimilmente, se assegnassimo questo compito a qualche liturgista del'Ottocento o del Novecento, le renderebbe doppie. Oppure si potrebbero più banalmente continuare a considerare messe votive, permesse dunque anche nei semidoppi, ma senza Gloria e con Benedicamus Domino in fine.
[3] Altra locuzione che sovente questo mio conoscente impiega è "the Iste Confessor season", lamentando la presenza massiccia, quasi nauseante, dell'inno dei confessori nel Breviario. Un inno peraltro composto per S. Martino (con riferimenti piuttosto espliciti alla vita del vescovo di Tours), la cui estensione a tutti i confessori vescovi e non vescovi Huysmans lamenta molto bene ne L'Oblato.
[4] Senza contare che, essendoci facoltatività di scelta, a fronte della festa di un santo oggetto di gran devozione popolare, ben pochi si sognerebbero di obliarlo.
[5] Ricordiamo che, prima di Benedetto XIII, anche nelle domeniche infra l'anno e di avvento era detto il prefazio comune, e non quello della Trinità, riservato alla sua festa (ndr).
[6] Sono già fioccati gl'interrogativi se si possa dirlo o meno nella festa di S. Stefano, e la risposta è ovviamente no, dovendosi dire quello dell'Ottava di Natale per legarlo al Communicantes proprio, come è evidente dal paragone con la festa di S. Giovanni Evangelista. Questo en passant.
[2] Ovviamente, per chi non segue il rito del '62 ma quello romano autentico, occorrerebbe iniziare una serie di distinzioni sul grado che otterrebbero queste feste latiore sensu. A logica non si potrebbe assegnare loro più di un simplex ad libitum; verosimilmente, se assegnassimo questo compito a qualche liturgista del'Ottocento o del Novecento, le renderebbe doppie. Oppure si potrebbero più banalmente continuare a considerare messe votive, permesse dunque anche nei semidoppi, ma senza Gloria e con Benedicamus Domino in fine.
[3] Altra locuzione che sovente questo mio conoscente impiega è "the Iste Confessor season", lamentando la presenza massiccia, quasi nauseante, dell'inno dei confessori nel Breviario. Un inno peraltro composto per S. Martino (con riferimenti piuttosto espliciti alla vita del vescovo di Tours), la cui estensione a tutti i confessori vescovi e non vescovi Huysmans lamenta molto bene ne L'Oblato.
[4] Senza contare che, essendoci facoltatività di scelta, a fronte della festa di un santo oggetto di gran devozione popolare, ben pochi si sognerebbero di obliarlo.
[5] Ricordiamo che, prima di Benedetto XIII, anche nelle domeniche infra l'anno e di avvento era detto il prefazio comune, e non quello della Trinità, riservato alla sua festa (ndr).
[6] Sono già fioccati gl'interrogativi se si possa dirlo o meno nella festa di S. Stefano, e la risposta è ovviamente no, dovendosi dire quello dell'Ottava di Natale per legarlo al Communicantes proprio, come è evidente dal paragone con la festa di S. Giovanni Evangelista. Questo en passant.
lunedì 23 marzo 2020
L'Ufficio Divino Bizantino - La Grande Compieta
La Grande Quaresima, nel rito bizantino, è un tempo liturgicamente molto ricco e coinvolgente, per la gran quantità di uffici peculiari, spiritualmente probanti. Uno di questi e senza dubbio quello della Grande Compieta (Ἀπόδειπνον τὸ μέγα), un lungo ufficio solenne che sostituisce la Piccola Compieta che si canta durante il resto dell'anno (di cui abbiamo parlato qui).
Quando si celebra
I Tipici antichi prescrivevano il canto di questo ufficio in tutti i giorni in cui si era digiunato, quindi non solo in Quaresima e i primi due giorni della Settimana Santa, ma anche nelle vigilie delle grandi feste, in Avvento e durante i digiuni degli Apostoli e della Dormizione. Nei tipici moderni è invece un servizio prettamente quaresimale, senonché viene cantato anche la vigilia di Natale e dell'Epifania. In Romania e in Russia è però ancora costume cantare la Grande Compieta almeno il primo giorno degli altri digiuni, nonché il martedì e il giovedì della settimana dei Latticini (Sessagesima). I Russi celebrano la Grande Compieta durante tutti i giorni infrasettimanali di Quaresima, eccettuati quindi sabati e domeniche che non sono di digiuno; i Greci invece il venerdì sera la tralasciano, per il canto solenne dell'ufficio dell'Inno Akathistos (vedasi qui).
Origini storiche e prassi liturgica
Negl'insegnamenti monastici, la Grande Compieta è presentata come "più antica" della Piccola. In realtà questo pare implausibile, benché non vi siano in effetti fonti certe sulla nascita di questo ufficio. Se la Piccola Compieta è tradizionalmente attribuita a S. Basilio (IV secolo), con l'aggiunta posteriore delle due preghiere finali a Cristo e alla Vergine, di provenienza mediorientale, e sicuramente posteriori al VII secolo (in quanto la seconda è attribuita ad Antioco Sabaita, morto nel 630), la forma attuale della Grande Compieta è sicuramente più tarda, perché include al suo interno la totalità delle preci della Piccola Compieta, comprese queste ultime preghiere citate.
Ragionevolmente, poiché, come si vedrà, la Grande Compieta altro non è che la collazione istantanea di tre diversi uffici, l'ultimo dei quali coincide esattamente con la Piccola Compieta, si pensa che essa possa essere frutto dell'unione medievale delle quattro veglie notturne di cui parla già S. Benedetto nella sua regola (e da cui origina poi il Mattutino latino). Una delle quattro veglie era costituita dal Mesonittico, che non viene qui unito perché già abitualmente celebrato come ufficio a sé, generalmente legato all'ufficio dell'alba, l'Orthros (Mattutino), mentre la terza, cioè la Compieta, è qui accostata alle prime due, dando origine a questo lunghissimo ufficio penitenziale. L'ipotesi che questo ufficio origini dalla fusione di veglie notturne è data anche dal fatto che la struttura su cui è costruito rassomigli talora a quella di un Mattutino (come si vedrà): e in effetti le veglie benedettine si è detto essere confluite nel Mattutino.
La presenza contemporanea di un "Mattutino" (chiamato Compieta) composto di veglie notturne e un Mattutino albare cantato al mattino è probabilmente frutto della confluenza del tipico cattedrale e di quello monastico, con un netto predominio di quest'ultimo in molti punti [1], avvenuta dopo la sconfitta degl'iconomachi (IX sec.) con l'affermarsi del partito monastico come custode della purezza rituale e dottrinale ortodossa. Per la sua stessa composizione la Grande Compieta è difatti un ufficio prettamente monastico, che dev'essere inevitabilmente adattato per celebrarsi in cattedrali e parrocchie.
Ancorché officiato senza incensazioni e con la sola stola da parte del celebrante, l'ufficio ha evidenti tratti di solennità rispetto alla Piccola Compieta: in primis, prevede delle parti cantate con melodia ornata, e dunque presuppone un coro, e non semplicemente un lettore per salmodiare come la Piccola; nei monasteri, inoltre, è celebrata nel tempio principale del Katholikòn, come le Liturgie e i Vespri, e non nel nartece come gli altri piccoli uffici, tra cui la Compieta del resto dell'anno.
Dal lunedì al giovedì della prima settimana di Quaresima, durante la Compieta si inseriscono alcuni tropari del lungo canone penitenziale di S. Andrea (vedi qui), diviso appunto in quattro parti, e che sarà poi cantato integralmente (fuori dalla Compieta) tra il mercoledì e il giovedì della quinta settimana.
Struttura del rito
Dopo la benedizione del celebrante e le preghiere iniziali, il lettore dice i tre Δεῦτε προσκυνήσωμεν (Venite adoriamo), ai quali tutti fanno una grande prostrazione con la faccia a terra. Quindi, legge i salmi 4, 6 e 12; quindi, detto un Gloria, un triplice Alleluja (contrariamente all'uso latino, l'Alleluja dai Greci non è omesso in Quaresima, ma anzi è moltiplicato: per la tradizione bizantina non è infatti un canto di gioia, ma di adorazione) accompagnato da prostrazioni, e un triplice Kyrie eleison, i salmi 24, 30 e 90 [2], al termine dei quali ripete le predette preghiere. Si noti che questa è la struttura tipica dell'Esapsalmo, cioè dei sei salmi che aprono l'ufficio del Mattutino, uno dei più complessi e solenni della tradizione bizantina: ciò fa capire la particolare importanza data alla celebrazione della Grande Compieta, visto che ne imita nelle forme gli uffici maggiori.
Terminati i salmi, i due cori cantano alternatim in tono secondo plagale il poema tratto dall'ottavo capitolo di Isaia, Μεθ'ἡμῶν ὁ Θεὸς (Dio è con noi), ripetendo queste parole come ritornello tra i vari versetti. Il poema annuncia la venuta del Salvatore del Dio forte principe di pace, e la sconfitta dei nemici di Dio. Questa è la parte centrale della Grande Compieta della vigilia di Natale, per ovvi motivi.
Seguono tre tropari intervallati dal Gloria, che rappresentano un gioco linguistico affatto interessante: si tratta in sostanza della stessa invocazione (prendiamo ad esempio la prima: Passato il giorno, ti ringrazio o Signore: chiedo che la sera, insieme alla notte, sia priva di peccato: esaudiscimi, Salvatore e salvami), ripetuta ogni volta cambiando poche parole, spesso sinonime [3]. I cori quindi cantano insieme, sempre in tono plagale secondo, un altro poema, di composizione ecclesiastica, di lode alla Santissima Trinità portata da tutta la Creazione, Ἡ ἀσώματος φύσις (La natura incorporea). Segue il Credo, che dev'essere detto "χθαμαλῇ τῇ φωνῇ", secondo le rubriche, cioè a voce bassa. Quindi nuovamente i cori, stavolta alternatim, cantano delle richieste di intercessione a varie categorie di santi, chiedendo di intercedere (πρέσβευε[τε]) per noi peccatori. L'invocazione alla Madre di Dio è ripetuta tre volte, mentre due volte sono ripetute le altre (alle potenze celesti, al Battista, agli Apostoli e ai profeti e ai martiri, ai confessori e ai teofori e ai pastori); quindi due volte è ripetuta una richiesta alla "invincibile, invitta e divina potenza della venerabile e vivificante Croce", di non abbandonare (μὴ ἐγκαταλείπῃς) noi peccatori, e infine tre volte è chiesto a Dio d'essere propizio (ἱλάσθητι) a noi peccatori, e infine una volta di avere misericordia (ἐλέησον). Secondo una tradizione popolare, ancorché non riportata dai tipici, a ciascuna di queste invocazioni si effettua una prostrazione, per un totale di 16.
Si ripetono a questo punto le preghiere iniziali, e dopo il Padre nostro si cantano dei tropari per intervallare gli stichi del Gloria: il lunedì e il mercoledì sera sono tre brevi, mentre il martedì e il giovedì sera sono quattro molto lunghi, che richiamano la liberazione dai nemici spirituali, il giudizio finale, il pentimento con l'immagine della Maddalena, e la fiducia nella protezione della Madre di Dio. Questa distinzione è dovuta al fatto che il martedì e il giovedì sera, liturgicamente, sono il mercoledì e il venerdì, cioè i due giorni più marcatamente penitenziali.
Il lettore dice dunque 40 volte Kyrie eleison, un Gloria, il tropario della Deipara Τὴν τιμιωτέραν (Tu più onorevole), quindi chiede la benedizione al celebrante, che la dà con la formula Δι'εὐχῶν τῶν ἁγίων πατέρων ἡμῶν (Per le preghiere dei santi nostri padri). Questa è una formula con cui tipicamente si danno le benedizioni solo alla fine degli uffici: ciò avvalora la tesi già esposta della collazione di diverse veglie. Alla benedizione finale segue, come a tutte le ore bizantine, una preghiera conclusiva detta da un lettore, e attribuita a San Basilio.
Subito, con altri tre Δεῦτε προσκυνήσωμεν e altrettante prostrazioni fino a terra, il lettore introduce la seconda parte dell'ufficio, e subito prosegue con i salmi 50 e 101. Questi salmi, come già il 6, sono qui letti a motivo del loro carattere penitenziali, già facendo parte del canone dei sette salmi penitenziali raccolto da Cassiodoro nel VI secolo. Quindi, immediatamente legge la Preghiera di Manasse Re di Giuda (di cui abbiamo già parlato qui). Si noti che non è rubricata come preghiera (εὐχή), che come tale sarebbe uso - come detto - leggerla dopo la benedizione, bensì come orazione (προσευχή), ed in quanto facente parte del Libro delle Odi biblico [4] trova all'interno dell'ufficio e non alla fine il suo posto naturale. Seguono nuovamente le preghiere iniziali, e dopo il Padre nostro i tropari di pentimento, che nelle vigilie sono sostituiti dal kontakion della festa, 40 Kyrie eleison, un Gloria, il tropario Τὴν τιμιωτέραν e nuovamente la benedizione come sopra. La preghiera conclusiva è una breve supplica trinitaria attribuita al martire cappadoco (o armeno secondo altre fonti) S. Mardario (III secolo).
Nuovamente si dicono tre Δεῦτε προσκυνήσωμεν con grandi prostrazioni, e inizia così la terza sezione che de facto è la Compieta vera e propria (piccola): il lettore salmeggia i salmi 69 e 142, e la Dossologia (Gloria in excelsis) secondo il formulario feriale. Rispetto alla piccola Compieta si omettono il salmo 50 e il Credo, poiché già detti in precedenza.
A questo punto, laddove usualmente s'inseriscono le Salutazioni alla Madre d Dio, nei primi quattro giorni di Quaresima, secondo la prassi greca si canta la porzione assegnata del Canone di Sant'Andrea, come detto sopra; negli altri giorni si dice il canone del giorno o della Madre di Dio, questi ultimi solitamente omessi fuori dai monasteri. Nell'uso russo, invece, il Canone di Sant'Andrea è recitato all'inizio dell'ufficio: dopo le preghiere iniziali, il lettore dice il salmo 69 e subito dopo si canta il Canone; quindi tutto il resto della Grande Compieta, omettendo il salmo 69 in quest'ultima sezione.
Alla fine del Canone, si dice il Trisagio e il Padre nostro, quindi è inserita un'altra parte direttamente tratta dal Mattutino, per le ragioni già menzionate: il salmo laudativo 150 antifonato con il tropario Κύριε τῶν δυνάμεων (Signore delle potenze). Ancorché nelle rubriche sia indicato come "tropario con i suoi stichi" (τροπάριον μετὰ τῶν στίχων αὐτοῦ), di fatto è una versione accorciata (solo l'ultimo salmo della triade 148-149-150) delle Laudi con cui si conclude il Mattutino [5]. Segue un Gloria intervallato da tropari d'intercessione e l'affidamento alla Madre di Dio cantato dai due cori con un tropario a testa; quindi, esattamente come alla Piccola Compieta, il lettore canta 40 volte Kyrie eleison, dice la preghiera Ὁ ἐν παντὶ καιρῷ (Tu che in ogni tempo) con la quale si conclude ogni ora liturgica minore, altri tre Kyrie eleison, il tropario Τὴν τιμιωτέραν, e chiede la benedizione. Il celebrante dà la benedizione "intermedia" Ὁ Θεὸς οἰκτειρήσαι ἡμᾶς (Iddio abbia pietà di noi), e a questo punto si recita la preghiera quaresimale di S. Efrem il Siro (di cui abbiamo parlato qui) con le sue prostrazioni. Seguono nuovamente le preghiere iniziali, le preghiere a Cristo e alla Vergine di S. Paolo e S. Antioco monaci, normalmente poste in questo punto alla Piccola Compieta, con i loro tropari susseguenti.
Detto un Gloria e un triplice Kyrie eleison, prima della litania, il celebrante benedice (Εἰρήνη πᾶσι: pace a tutti) e invita i fedeli a inchinare i capi; durante l'inclinazione, legge un'orazione sul popolo, che di fatto è un ampliamento eucologico del consueto congedo di tutti gli uffici Χριστὸς ὁ αληθινὸς Θεὸς ἡμῶν (Cristo vero Dio nostro), che infatti alla Grande Compieta sarà omesso, proprio perché già pregato, seppure in forma leggermente diversa, in questo punto. Segue la litania consueta Εὐξώμεθα ὑπὲρ εἰρήνης τοῦ κόσμου (Preghiamo per la pace del mondo) con i Kyrie eleison. Al termine, il secondo coro canta un tropario alla Beata Vergine (il lunedì e il mercoledì), oppure a Cristo Crocifisso (il martedì e il giovedì). Tutto è concluso con un Δι'εὐχῶν τῶν ἁγίων πατέρων ἡμῶν.
Nel tipico, subito dopo è riportata una Εὐχὴ λεγομένη ἐν τοῖς κελλίοις, cioè appunto una preghiera che i monaci dicono tornando alle loro celle, nella quale invocano il perdono su quanti li odiano, la ricompensa dei benefattori, la salvezza dei fratelli, la cura dei malati, la guida dei naviganti e dei pellegrini, l'ausilio ai re e la misericordia su quanti si sono affidati alle loro preghiere, supplicando dipoi Iddio per i fratelli e i padri defunti, per la liberazione dei fratelli prigionieri, per la ricompensa e la salvezza eterna di chi compie servizio nelle chiese, e infine per la guida dell'anima e della mente del monaco stesso attraverso le tribolazioni, con l'aiuto della Madre di Dio. Amin.
_________________________________
NOTE
[1] Questa confluenza porterà alla scomparsa di moltissimi elementi del rito cattedrale (il rito della Grande Chiesa, di Santa Sofia) e alla redazione di un tipico quasi completamente monastico, ricco di ripetizioni e lunghe preghiere (per esempio i canoni del Mattutino); è interessante notare come col tempo la prassi parrocchiale (talora registrata addirittura nelle moderne edizioni del tipico) comporti la riduzione o eliminazione di alcune parti, risultandone una sorta di rito cattedrale "ricostruito".
[2] Si noti che tre di questi sei salmi sono presenti nell'ufficio latino della Compieta (4, 30 e 90): il quarto salmo della Compieta latina, il 133, secondo l'uso orientale è detto invece al Mesonittico, ma del resto nella scansione della giornata liturgica non vi intercorre troppo tempo. Degli altri salmi, curiosamente, ben due (6 e 12), che secondo la tradizione romana si cantano a Mattutino, sono stati portati a Compieta dopo la riforma del Breviario di Pio X. E' probabile che tuttavia il salmo 6 fosse qui presente in quanto salmo penitenziale, e non in quanto notturnale (vide infra).
[3] "Passato" è reso ora con διελθών, ora παρελθών e ora διαβάς; "ringrazio" (εὐχαριστῶ) diventa ora "glorifico" (δοξολογῶ) e ora "lodo" [lett. inneggio] (ὑμνολογῶ); "senza peccato", con leggere sfumature di significato, è reso ἀναμάρτητον, ἀσκανδάλιστον e ἀνεπίβουλον.
[4] Libro incluso nel canone biblico della Chiesa Ortodossa e posto in appendice alla Vulgata sisto-clementina latina: contiene undici cantici tratti da vari libri dell'Antico Testamento, molti dei quali cantati ai mattutini e latini e bizantini; appunto la preghiera di Manasse (non riportata nell'Antico Testamento, ma solo menzionata nel II Libro dei Paralipomeni), il cantico di Simeone (Lc 2) e il Gloria in excelsis.
[5] Peraltro, nelle parrocchie più piccole, anche durante le Laudi del Mattutino è cantato normalmente solo quest'ultimo salmo, o comunque solo quest'ultimo è antifonato con gli apostichi del giorno, mentre gli altri sono detti in salmodia diretta.
Quando si celebra
I Tipici antichi prescrivevano il canto di questo ufficio in tutti i giorni in cui si era digiunato, quindi non solo in Quaresima e i primi due giorni della Settimana Santa, ma anche nelle vigilie delle grandi feste, in Avvento e durante i digiuni degli Apostoli e della Dormizione. Nei tipici moderni è invece un servizio prettamente quaresimale, senonché viene cantato anche la vigilia di Natale e dell'Epifania. In Romania e in Russia è però ancora costume cantare la Grande Compieta almeno il primo giorno degli altri digiuni, nonché il martedì e il giovedì della settimana dei Latticini (Sessagesima). I Russi celebrano la Grande Compieta durante tutti i giorni infrasettimanali di Quaresima, eccettuati quindi sabati e domeniche che non sono di digiuno; i Greci invece il venerdì sera la tralasciano, per il canto solenne dell'ufficio dell'Inno Akathistos (vedasi qui).
Origini storiche e prassi liturgica
Negl'insegnamenti monastici, la Grande Compieta è presentata come "più antica" della Piccola. In realtà questo pare implausibile, benché non vi siano in effetti fonti certe sulla nascita di questo ufficio. Se la Piccola Compieta è tradizionalmente attribuita a S. Basilio (IV secolo), con l'aggiunta posteriore delle due preghiere finali a Cristo e alla Vergine, di provenienza mediorientale, e sicuramente posteriori al VII secolo (in quanto la seconda è attribuita ad Antioco Sabaita, morto nel 630), la forma attuale della Grande Compieta è sicuramente più tarda, perché include al suo interno la totalità delle preci della Piccola Compieta, comprese queste ultime preghiere citate.
Ragionevolmente, poiché, come si vedrà, la Grande Compieta altro non è che la collazione istantanea di tre diversi uffici, l'ultimo dei quali coincide esattamente con la Piccola Compieta, si pensa che essa possa essere frutto dell'unione medievale delle quattro veglie notturne di cui parla già S. Benedetto nella sua regola (e da cui origina poi il Mattutino latino). Una delle quattro veglie era costituita dal Mesonittico, che non viene qui unito perché già abitualmente celebrato come ufficio a sé, generalmente legato all'ufficio dell'alba, l'Orthros (Mattutino), mentre la terza, cioè la Compieta, è qui accostata alle prime due, dando origine a questo lunghissimo ufficio penitenziale. L'ipotesi che questo ufficio origini dalla fusione di veglie notturne è data anche dal fatto che la struttura su cui è costruito rassomigli talora a quella di un Mattutino (come si vedrà): e in effetti le veglie benedettine si è detto essere confluite nel Mattutino.
La presenza contemporanea di un "Mattutino" (chiamato Compieta) composto di veglie notturne e un Mattutino albare cantato al mattino è probabilmente frutto della confluenza del tipico cattedrale e di quello monastico, con un netto predominio di quest'ultimo in molti punti [1], avvenuta dopo la sconfitta degl'iconomachi (IX sec.) con l'affermarsi del partito monastico come custode della purezza rituale e dottrinale ortodossa. Per la sua stessa composizione la Grande Compieta è difatti un ufficio prettamente monastico, che dev'essere inevitabilmente adattato per celebrarsi in cattedrali e parrocchie.
Ancorché officiato senza incensazioni e con la sola stola da parte del celebrante, l'ufficio ha evidenti tratti di solennità rispetto alla Piccola Compieta: in primis, prevede delle parti cantate con melodia ornata, e dunque presuppone un coro, e non semplicemente un lettore per salmodiare come la Piccola; nei monasteri, inoltre, è celebrata nel tempio principale del Katholikòn, come le Liturgie e i Vespri, e non nel nartece come gli altri piccoli uffici, tra cui la Compieta del resto dell'anno.
Dal lunedì al giovedì della prima settimana di Quaresima, durante la Compieta si inseriscono alcuni tropari del lungo canone penitenziale di S. Andrea (vedi qui), diviso appunto in quattro parti, e che sarà poi cantato integralmente (fuori dalla Compieta) tra il mercoledì e il giovedì della quinta settimana.
Struttura del rito
Dopo la benedizione del celebrante e le preghiere iniziali, il lettore dice i tre Δεῦτε προσκυνήσωμεν (Venite adoriamo), ai quali tutti fanno una grande prostrazione con la faccia a terra. Quindi, legge i salmi 4, 6 e 12; quindi, detto un Gloria, un triplice Alleluja (contrariamente all'uso latino, l'Alleluja dai Greci non è omesso in Quaresima, ma anzi è moltiplicato: per la tradizione bizantina non è infatti un canto di gioia, ma di adorazione) accompagnato da prostrazioni, e un triplice Kyrie eleison, i salmi 24, 30 e 90 [2], al termine dei quali ripete le predette preghiere. Si noti che questa è la struttura tipica dell'Esapsalmo, cioè dei sei salmi che aprono l'ufficio del Mattutino, uno dei più complessi e solenni della tradizione bizantina: ciò fa capire la particolare importanza data alla celebrazione della Grande Compieta, visto che ne imita nelle forme gli uffici maggiori.
Terminati i salmi, i due cori cantano alternatim in tono secondo plagale il poema tratto dall'ottavo capitolo di Isaia, Μεθ'ἡμῶν ὁ Θεὸς (Dio è con noi), ripetendo queste parole come ritornello tra i vari versetti. Il poema annuncia la venuta del Salvatore del Dio forte principe di pace, e la sconfitta dei nemici di Dio. Questa è la parte centrale della Grande Compieta della vigilia di Natale, per ovvi motivi.
Seguono tre tropari intervallati dal Gloria, che rappresentano un gioco linguistico affatto interessante: si tratta in sostanza della stessa invocazione (prendiamo ad esempio la prima: Passato il giorno, ti ringrazio o Signore: chiedo che la sera, insieme alla notte, sia priva di peccato: esaudiscimi, Salvatore e salvami), ripetuta ogni volta cambiando poche parole, spesso sinonime [3]. I cori quindi cantano insieme, sempre in tono plagale secondo, un altro poema, di composizione ecclesiastica, di lode alla Santissima Trinità portata da tutta la Creazione, Ἡ ἀσώματος φύσις (La natura incorporea). Segue il Credo, che dev'essere detto "χθαμαλῇ τῇ φωνῇ", secondo le rubriche, cioè a voce bassa. Quindi nuovamente i cori, stavolta alternatim, cantano delle richieste di intercessione a varie categorie di santi, chiedendo di intercedere (πρέσβευε[τε]) per noi peccatori. L'invocazione alla Madre di Dio è ripetuta tre volte, mentre due volte sono ripetute le altre (alle potenze celesti, al Battista, agli Apostoli e ai profeti e ai martiri, ai confessori e ai teofori e ai pastori); quindi due volte è ripetuta una richiesta alla "invincibile, invitta e divina potenza della venerabile e vivificante Croce", di non abbandonare (μὴ ἐγκαταλείπῃς) noi peccatori, e infine tre volte è chiesto a Dio d'essere propizio (ἱλάσθητι) a noi peccatori, e infine una volta di avere misericordia (ἐλέησον). Secondo una tradizione popolare, ancorché non riportata dai tipici, a ciascuna di queste invocazioni si effettua una prostrazione, per un totale di 16.
Si ripetono a questo punto le preghiere iniziali, e dopo il Padre nostro si cantano dei tropari per intervallare gli stichi del Gloria: il lunedì e il mercoledì sera sono tre brevi, mentre il martedì e il giovedì sera sono quattro molto lunghi, che richiamano la liberazione dai nemici spirituali, il giudizio finale, il pentimento con l'immagine della Maddalena, e la fiducia nella protezione della Madre di Dio. Questa distinzione è dovuta al fatto che il martedì e il giovedì sera, liturgicamente, sono il mercoledì e il venerdì, cioè i due giorni più marcatamente penitenziali.
Il lettore dice dunque 40 volte Kyrie eleison, un Gloria, il tropario della Deipara Τὴν τιμιωτέραν (Tu più onorevole), quindi chiede la benedizione al celebrante, che la dà con la formula Δι'εὐχῶν τῶν ἁγίων πατέρων ἡμῶν (Per le preghiere dei santi nostri padri). Questa è una formula con cui tipicamente si danno le benedizioni solo alla fine degli uffici: ciò avvalora la tesi già esposta della collazione di diverse veglie. Alla benedizione finale segue, come a tutte le ore bizantine, una preghiera conclusiva detta da un lettore, e attribuita a San Basilio.
Subito, con altri tre Δεῦτε προσκυνήσωμεν e altrettante prostrazioni fino a terra, il lettore introduce la seconda parte dell'ufficio, e subito prosegue con i salmi 50 e 101. Questi salmi, come già il 6, sono qui letti a motivo del loro carattere penitenziali, già facendo parte del canone dei sette salmi penitenziali raccolto da Cassiodoro nel VI secolo. Quindi, immediatamente legge la Preghiera di Manasse Re di Giuda (di cui abbiamo già parlato qui). Si noti che non è rubricata come preghiera (εὐχή), che come tale sarebbe uso - come detto - leggerla dopo la benedizione, bensì come orazione (προσευχή), ed in quanto facente parte del Libro delle Odi biblico [4] trova all'interno dell'ufficio e non alla fine il suo posto naturale. Seguono nuovamente le preghiere iniziali, e dopo il Padre nostro i tropari di pentimento, che nelle vigilie sono sostituiti dal kontakion della festa, 40 Kyrie eleison, un Gloria, il tropario Τὴν τιμιωτέραν e nuovamente la benedizione come sopra. La preghiera conclusiva è una breve supplica trinitaria attribuita al martire cappadoco (o armeno secondo altre fonti) S. Mardario (III secolo).
Nuovamente si dicono tre Δεῦτε προσκυνήσωμεν con grandi prostrazioni, e inizia così la terza sezione che de facto è la Compieta vera e propria (piccola): il lettore salmeggia i salmi 69 e 142, e la Dossologia (Gloria in excelsis) secondo il formulario feriale. Rispetto alla piccola Compieta si omettono il salmo 50 e il Credo, poiché già detti in precedenza.
A questo punto, laddove usualmente s'inseriscono le Salutazioni alla Madre d Dio, nei primi quattro giorni di Quaresima, secondo la prassi greca si canta la porzione assegnata del Canone di Sant'Andrea, come detto sopra; negli altri giorni si dice il canone del giorno o della Madre di Dio, questi ultimi solitamente omessi fuori dai monasteri. Nell'uso russo, invece, il Canone di Sant'Andrea è recitato all'inizio dell'ufficio: dopo le preghiere iniziali, il lettore dice il salmo 69 e subito dopo si canta il Canone; quindi tutto il resto della Grande Compieta, omettendo il salmo 69 in quest'ultima sezione.
Alla fine del Canone, si dice il Trisagio e il Padre nostro, quindi è inserita un'altra parte direttamente tratta dal Mattutino, per le ragioni già menzionate: il salmo laudativo 150 antifonato con il tropario Κύριε τῶν δυνάμεων (Signore delle potenze). Ancorché nelle rubriche sia indicato come "tropario con i suoi stichi" (τροπάριον μετὰ τῶν στίχων αὐτοῦ), di fatto è una versione accorciata (solo l'ultimo salmo della triade 148-149-150) delle Laudi con cui si conclude il Mattutino [5]. Segue un Gloria intervallato da tropari d'intercessione e l'affidamento alla Madre di Dio cantato dai due cori con un tropario a testa; quindi, esattamente come alla Piccola Compieta, il lettore canta 40 volte Kyrie eleison, dice la preghiera Ὁ ἐν παντὶ καιρῷ (Tu che in ogni tempo) con la quale si conclude ogni ora liturgica minore, altri tre Kyrie eleison, il tropario Τὴν τιμιωτέραν, e chiede la benedizione. Il celebrante dà la benedizione "intermedia" Ὁ Θεὸς οἰκτειρήσαι ἡμᾶς (Iddio abbia pietà di noi), e a questo punto si recita la preghiera quaresimale di S. Efrem il Siro (di cui abbiamo parlato qui) con le sue prostrazioni. Seguono nuovamente le preghiere iniziali, le preghiere a Cristo e alla Vergine di S. Paolo e S. Antioco monaci, normalmente poste in questo punto alla Piccola Compieta, con i loro tropari susseguenti.
Detto un Gloria e un triplice Kyrie eleison, prima della litania, il celebrante benedice (Εἰρήνη πᾶσι: pace a tutti) e invita i fedeli a inchinare i capi; durante l'inclinazione, legge un'orazione sul popolo, che di fatto è un ampliamento eucologico del consueto congedo di tutti gli uffici Χριστὸς ὁ αληθινὸς Θεὸς ἡμῶν (Cristo vero Dio nostro), che infatti alla Grande Compieta sarà omesso, proprio perché già pregato, seppure in forma leggermente diversa, in questo punto. Segue la litania consueta Εὐξώμεθα ὑπὲρ εἰρήνης τοῦ κόσμου (Preghiamo per la pace del mondo) con i Kyrie eleison. Al termine, il secondo coro canta un tropario alla Beata Vergine (il lunedì e il mercoledì), oppure a Cristo Crocifisso (il martedì e il giovedì). Tutto è concluso con un Δι'εὐχῶν τῶν ἁγίων πατέρων ἡμῶν.
Nel tipico, subito dopo è riportata una Εὐχὴ λεγομένη ἐν τοῖς κελλίοις, cioè appunto una preghiera che i monaci dicono tornando alle loro celle, nella quale invocano il perdono su quanti li odiano, la ricompensa dei benefattori, la salvezza dei fratelli, la cura dei malati, la guida dei naviganti e dei pellegrini, l'ausilio ai re e la misericordia su quanti si sono affidati alle loro preghiere, supplicando dipoi Iddio per i fratelli e i padri defunti, per la liberazione dei fratelli prigionieri, per la ricompensa e la salvezza eterna di chi compie servizio nelle chiese, e infine per la guida dell'anima e della mente del monaco stesso attraverso le tribolazioni, con l'aiuto della Madre di Dio. Amin.
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NOTE
[1] Questa confluenza porterà alla scomparsa di moltissimi elementi del rito cattedrale (il rito della Grande Chiesa, di Santa Sofia) e alla redazione di un tipico quasi completamente monastico, ricco di ripetizioni e lunghe preghiere (per esempio i canoni del Mattutino); è interessante notare come col tempo la prassi parrocchiale (talora registrata addirittura nelle moderne edizioni del tipico) comporti la riduzione o eliminazione di alcune parti, risultandone una sorta di rito cattedrale "ricostruito".
[2] Si noti che tre di questi sei salmi sono presenti nell'ufficio latino della Compieta (4, 30 e 90): il quarto salmo della Compieta latina, il 133, secondo l'uso orientale è detto invece al Mesonittico, ma del resto nella scansione della giornata liturgica non vi intercorre troppo tempo. Degli altri salmi, curiosamente, ben due (6 e 12), che secondo la tradizione romana si cantano a Mattutino, sono stati portati a Compieta dopo la riforma del Breviario di Pio X. E' probabile che tuttavia il salmo 6 fosse qui presente in quanto salmo penitenziale, e non in quanto notturnale (vide infra).
[3] "Passato" è reso ora con διελθών, ora παρελθών e ora διαβάς; "ringrazio" (εὐχαριστῶ) diventa ora "glorifico" (δοξολογῶ) e ora "lodo" [lett. inneggio] (ὑμνολογῶ); "senza peccato", con leggere sfumature di significato, è reso ἀναμάρτητον, ἀσκανδάλιστον e ἀνεπίβουλον.
[4] Libro incluso nel canone biblico della Chiesa Ortodossa e posto in appendice alla Vulgata sisto-clementina latina: contiene undici cantici tratti da vari libri dell'Antico Testamento, molti dei quali cantati ai mattutini e latini e bizantini; appunto la preghiera di Manasse (non riportata nell'Antico Testamento, ma solo menzionata nel II Libro dei Paralipomeni), il cantico di Simeone (Lc 2) e il Gloria in excelsis.
[5] Peraltro, nelle parrocchie più piccole, anche durante le Laudi del Mattutino è cantato normalmente solo quest'ultimo salmo, o comunque solo quest'ultimo è antifonato con gli apostichi del giorno, mentre gli altri sono detti in salmodia diretta.
sabato 21 marzo 2020
Sonnolenza e preghiera - S. Giovanni Climaco
Nel rito bizantino, la quarta domenica della Grande Quaresima è dedicata alla figura del santo asceta Giovanni Climaco, monaco del monte Sinai vissuto tra VI e VII secolo. Questa ricorrenza è stata fissata in domenica nel Medioevo, per via della grande popolarità che aveva assunto il santo presso i Cristiani d'Oriente: tanto nei Minei quanto nel Martirologio Romano il suo transito è iscritto infatti al 30 marzo, e questa ne suole essere la domenica più vicina. La struttura del rito bizantino riesce del resto ad amalgamare molto bene le parti proprie della festa del santo senza far perdere il carattere fortemente penitenziale alla liturgia odierna. La fama di S. Giovanni Climaco è dovuta senza dubbio al suo trattato spirituale, la Scala paradisi (in greco Kλῖμαξ Παραδείσου, onde il nome Climaco), organizzato in 30 gradini di esortazioni ed esercizi di ascesi che debbono condurre l'anima alla cristiana perfezione, e che i Cristiani d'Oriente sono soliti leggere come lettura spirituale, un grado al giorno, durante i quaranta giorni di digiuno che precedono la Pasqua.
Proponiamo di seguito il XIX gradino, dedicato alla sonnolenza e alla preghiera.
Il sonno è una particolare esigenza della natura, immagine della morte, sospensione della sensibilità. Il sonno è un fenomeno unico, ma (come la cupidigia) ha moltissime cause, quali il temperamento, la nutrizione, i demonii, e forse anche il mangiar troppo poco, per cui il corpo, eccessivamente infiacchito, cerca di rifarsi attraverso il sonno. Come il bere molto dipende dall'abitudine, così il dormire molto; quindi dobbiamo combattere contro il sonno soprattutto nei primordi della vita religiosa; domare un'abitudine inveterata è assai più difficile.
Osserviamo bene, e vedremo che, quando la tromba dà il segnale, i fratelli si radunano visibilmente, e nello stesso tempo invisibilmente si raccolgono i nemici. Per questo i demonii, che stanno appresso il nostro letto, ci insinuano di rimanere coricati ancora un poco anche dopo la sveglia, e ci ripetono: "Rimani lì, finché intanto si cantino le parti introduttive; e dipoi andrai in chiesa". Altri quando attendiamo alla preghiera cercano di immergerci nella sonnolenza; altri ci fanno venire, contro il solito, un mal di stomaco troppo forte; altri combinano capannelli nella casa di Dio, per farci chiacchierare; alcuni ci trascinano a fantasie impure: altri ci invitano a poggiarci alle pareti, come persone finite e rifinite; talora ci assediano con interminabili sbadigli, e tal altra ci eccitano le risa perfino in mezzo alle preghiere, per eccitar contro di noi l'indignazione di Dio. Ci sono demonii che ci spingono a far tutto in fretta, per nostra poltroneria; e altri, i quali ci inducono a rallentare, per un certo gusto nostro. Succede pure che, posandocisi sulle labbra, ce le serrano e ci rendono malagevole l'aprirle.
Chi vuol mantenersi alla presenza di Dio, si conserverà sempre in pieno sentimento del suo cuore, fermo durante l'orazione come una colonna, senza lasciarsi andare a nessuno degli inconvenienti enumerati sopra. Chi è vero ubbidiente, spesso si alza su all'improvviso, per pregare, tutto fervore e gioia: era naturalmente anche prima preparato e pronto, e per l'esatta osservanza, da ardente lottatore. Pregare in mezzo agli altri, è possibile a tutti: a molti però conviene pregare con un compagno solo, che abbia lo stesso grado d'orazione. La preghiera solitaria è di pochi. Tuttavia finché uno prega fra il rumore della comunità, non gli è possibile pregare con fede pura...
Occupa la tua mente tenendo dietro al senso del sacro testo, o con qualche altra particolare riflessione, mentre gli altri terminano il versetto. Nessuno pregando deve fare alcun lavoro, né necessario, né tanto meno non necessario; questo lo ha insegnato chiaro l'Angelo che era con S. Antonio. Il fuoco prova l'oro (I Petr. I,7; Apoc. III,18) e il modo di pregare dimostra quanto fervore abbia il religioso e quanto amore a Dio.
Chi ha superato questa bella impresa, è vicino a Dio e sbaraglia i demoni.
S. Giovanni Climaco, Scala Paradisi, vol. II, Gradini 16-30, trad. it. del sac. Pietro Trevisan, in Corona Patrum Salesiana. Series Graeca 9, Torino, Società Editrice Internazionale, 1941, pp. 20-24.
Ἀπολυτίκιον.
Ἦχος γ'. Θείας πίστεως.
Θεῖον κλίμακα, ὑποστηρίξας, τὴν τῶν λόγων σου, μέθοδον πάσι, Μοναστῶν ὑφηγητὴς ἀναδέδειξαι, ἐκ πρακτικῆς Ἰωάννη καθάρσεως, πρὸς θεωρίας ἀνάγων τὴν ἔλαμψιν. Πάτερ Ὅσιε, Χριστὸν τὸν Θεὸν ἱκέτευε, δωρήσασθαι ἠμὶν τὸ μέγα ἔλεος.
Apolitikio.
Tono III. Della divina fede.
Avendo costruito una divina scala, il metodo dei tuoi discorsi, a tutti sei apparso quale maestro di Monaci, o Giovanni, portandoci dalla purificazione dell'ascesi alla luce della divina contemplazione. O beato padre, supplica Cristo Iddio di donarci la sua grande misericordia.
Proponiamo di seguito il XIX gradino, dedicato alla sonnolenza e alla preghiera.
Il sonno è una particolare esigenza della natura, immagine della morte, sospensione della sensibilità. Il sonno è un fenomeno unico, ma (come la cupidigia) ha moltissime cause, quali il temperamento, la nutrizione, i demonii, e forse anche il mangiar troppo poco, per cui il corpo, eccessivamente infiacchito, cerca di rifarsi attraverso il sonno. Come il bere molto dipende dall'abitudine, così il dormire molto; quindi dobbiamo combattere contro il sonno soprattutto nei primordi della vita religiosa; domare un'abitudine inveterata è assai più difficile.
Osserviamo bene, e vedremo che, quando la tromba dà il segnale, i fratelli si radunano visibilmente, e nello stesso tempo invisibilmente si raccolgono i nemici. Per questo i demonii, che stanno appresso il nostro letto, ci insinuano di rimanere coricati ancora un poco anche dopo la sveglia, e ci ripetono: "Rimani lì, finché intanto si cantino le parti introduttive; e dipoi andrai in chiesa". Altri quando attendiamo alla preghiera cercano di immergerci nella sonnolenza; altri ci fanno venire, contro il solito, un mal di stomaco troppo forte; altri combinano capannelli nella casa di Dio, per farci chiacchierare; alcuni ci trascinano a fantasie impure: altri ci invitano a poggiarci alle pareti, come persone finite e rifinite; talora ci assediano con interminabili sbadigli, e tal altra ci eccitano le risa perfino in mezzo alle preghiere, per eccitar contro di noi l'indignazione di Dio. Ci sono demonii che ci spingono a far tutto in fretta, per nostra poltroneria; e altri, i quali ci inducono a rallentare, per un certo gusto nostro. Succede pure che, posandocisi sulle labbra, ce le serrano e ci rendono malagevole l'aprirle.
Chi vuol mantenersi alla presenza di Dio, si conserverà sempre in pieno sentimento del suo cuore, fermo durante l'orazione come una colonna, senza lasciarsi andare a nessuno degli inconvenienti enumerati sopra. Chi è vero ubbidiente, spesso si alza su all'improvviso, per pregare, tutto fervore e gioia: era naturalmente anche prima preparato e pronto, e per l'esatta osservanza, da ardente lottatore. Pregare in mezzo agli altri, è possibile a tutti: a molti però conviene pregare con un compagno solo, che abbia lo stesso grado d'orazione. La preghiera solitaria è di pochi. Tuttavia finché uno prega fra il rumore della comunità, non gli è possibile pregare con fede pura...
Occupa la tua mente tenendo dietro al senso del sacro testo, o con qualche altra particolare riflessione, mentre gli altri terminano il versetto. Nessuno pregando deve fare alcun lavoro, né necessario, né tanto meno non necessario; questo lo ha insegnato chiaro l'Angelo che era con S. Antonio. Il fuoco prova l'oro (I Petr. I,7; Apoc. III,18) e il modo di pregare dimostra quanto fervore abbia il religioso e quanto amore a Dio.
Chi ha superato questa bella impresa, è vicino a Dio e sbaraglia i demoni.
S. Giovanni Climaco, Scala Paradisi, vol. II, Gradini 16-30, trad. it. del sac. Pietro Trevisan, in Corona Patrum Salesiana. Series Graeca 9, Torino, Società Editrice Internazionale, 1941, pp. 20-24.
Ἀπολυτίκιον.
Ἦχος γ'. Θείας πίστεως.
Θεῖον κλίμακα, ὑποστηρίξας, τὴν τῶν λόγων σου, μέθοδον πάσι, Μοναστῶν ὑφηγητὴς ἀναδέδειξαι, ἐκ πρακτικῆς Ἰωάννη καθάρσεως, πρὸς θεωρίας ἀνάγων τὴν ἔλαμψιν. Πάτερ Ὅσιε, Χριστὸν τὸν Θεὸν ἱκέτευε, δωρήσασθαι ἠμὶν τὸ μέγα ἔλεος.
Apolitikio.
Tono III. Della divina fede.
Avendo costruito una divina scala, il metodo dei tuoi discorsi, a tutti sei apparso quale maestro di Monaci, o Giovanni, portandoci dalla purificazione dell'ascesi alla luce della divina contemplazione. O beato padre, supplica Cristo Iddio di donarci la sua grande misericordia.
giovedì 19 marzo 2020
Nota sull'aggiunta di collette votive alla messa privata - St. Lawrence Press
Con la pandemia di Coronavirus ci sono state discussioni su alcuni siti, come New Liturgical Movement, circa la possibilità di aggiungere orationes imperatae alle Messe. Queste sono preghiere, o una singola preghiera, aggiunte alle Messe per una grave ragione comandata dall'Ordinario del luogo. Senza il comando dell'Ordinario, o un decreto generale, non è permesso ad alcun celebrante di aggiungere tali preghiere alla Messa.
Comunque, quello che è possibile, e senza necessità di alcun permesso speciale, è l'aggiunta di orazion votive alla maggior parte delle Messe di rito semplice, inclusa la maggior parte dei giorni feriali di Quaresima e Passione. Una delle aree di applicazione delle rubriche della liturgia tradizionale che non è compresa da molti, o è addirittura sconosciuta, è l'opzione per il celebrante della Messa privata di aggiungere collette addizionali (e ovviamente le corrispondenti segrete e postcomunioni) a quelle prescritte dalle rubriche e dall'Ordo.
R.G. IX, 12 & 14 e Additiones VI, 6 sono il fondamento di questa prassi. Le collette votive possono essere aggiunte alle Messe private, cioè -in questo contesto- privata significa letta, non cantata, e non conventuali, solo nelle feste di rito semplice e nei giorni feriali che non sono privilegiati (cioè, non il Mercoledì delle Ceneri, o il Lunedì, Martedì e Mercoledì della Settimana Santa). Le regole di base sono che il numero totale delle orazioni non deve essere superiore a sette, e che il numero totale dev'essere dispari, cioè tre, cinque o sette. In più, se (fuori dal tempo Pasquale), si sceglie una preghiera per i Morti, questa deve occupare il penultimo posto.
Queste preghiere possono essere tratte dalla sezione del Santorale del messale, dalla serie delle Messe votive che si trova dopo i Comuni, o dalle Orationes diversae alla fine del messale. Quando queste collette votive addizionali sono tratte dal Santorale, vanno dette prima di quelle tratte dalle Messe votive (se se ne aggiungono due dal Santorale, il loro ordine segue la precedenza dei santi scelti nelle Litanie) e quelle dalle Messe votive devono precedere le Orationes diversae.
Per fare un esempio. Il venerdì di questa settimana, la seconda colletta prescritta dalle rubriche è A cunctis, e la terza è Omnipotens. Così, questo venerdì il celebrante può aggiungere due collette votive addizionali, oppure quattro, ma non una o tre. Se l'Ordinario ha prescritto delle orazioni imperate, queste sono incluse nel totale, e non possono essere omesse. Presumendo che non vi siano orazioni imperate, il nostro esempio potrebbe apparire così:
Oremus.
Colletta del giorno con conclusione.
Oremus (solo avanti la 2a colletta)
2a colletta A cunctis (senza conclusione)
3a colletta Omnipotens (senza conclusione)
4a colletta di S. Giorgio Deus qui nos beati Georgii (senza conclusione)
5a colletta dalla Messa votiva per qualsiasi necessità Ineffabilem misericordiam (senza conclusione)
6a colletta per i morti Fidelium (senza conclusione)
7a colletta per la salute dei vivi Praetende, Domine, fidelibus. Conclusione.
Come nota pratica, particolarmente per quei celebranti disabituati a così tante orazioni alla Messa, annotare la serie da dire su un pezzo di carta, insieme all'uso di Post-it discretamente inseriti nel Messale, aiuteranno a raggiungere una naturale scorrevolezza senza interruzioni.
FONTE. Traduzione a cura di Traditio Marciana.
Comunque, quello che è possibile, e senza necessità di alcun permesso speciale, è l'aggiunta di orazion votive alla maggior parte delle Messe di rito semplice, inclusa la maggior parte dei giorni feriali di Quaresima e Passione. Una delle aree di applicazione delle rubriche della liturgia tradizionale che non è compresa da molti, o è addirittura sconosciuta, è l'opzione per il celebrante della Messa privata di aggiungere collette addizionali (e ovviamente le corrispondenti segrete e postcomunioni) a quelle prescritte dalle rubriche e dall'Ordo.
R.G. IX, 12 & 14 e Additiones VI, 6 sono il fondamento di questa prassi. Le collette votive possono essere aggiunte alle Messe private, cioè -in questo contesto- privata significa letta, non cantata, e non conventuali, solo nelle feste di rito semplice e nei giorni feriali che non sono privilegiati (cioè, non il Mercoledì delle Ceneri, o il Lunedì, Martedì e Mercoledì della Settimana Santa). Le regole di base sono che il numero totale delle orazioni non deve essere superiore a sette, e che il numero totale dev'essere dispari, cioè tre, cinque o sette. In più, se (fuori dal tempo Pasquale), si sceglie una preghiera per i Morti, questa deve occupare il penultimo posto.
Queste preghiere possono essere tratte dalla sezione del Santorale del messale, dalla serie delle Messe votive che si trova dopo i Comuni, o dalle Orationes diversae alla fine del messale. Quando queste collette votive addizionali sono tratte dal Santorale, vanno dette prima di quelle tratte dalle Messe votive (se se ne aggiungono due dal Santorale, il loro ordine segue la precedenza dei santi scelti nelle Litanie) e quelle dalle Messe votive devono precedere le Orationes diversae.
Per fare un esempio. Il venerdì di questa settimana, la seconda colletta prescritta dalle rubriche è A cunctis, e la terza è Omnipotens. Così, questo venerdì il celebrante può aggiungere due collette votive addizionali, oppure quattro, ma non una o tre. Se l'Ordinario ha prescritto delle orazioni imperate, queste sono incluse nel totale, e non possono essere omesse. Presumendo che non vi siano orazioni imperate, il nostro esempio potrebbe apparire così:
Oremus.
Colletta del giorno con conclusione.
Oremus (solo avanti la 2a colletta)
2a colletta A cunctis (senza conclusione)
3a colletta Omnipotens (senza conclusione)
4a colletta di S. Giorgio Deus qui nos beati Georgii (senza conclusione)
5a colletta dalla Messa votiva per qualsiasi necessità Ineffabilem misericordiam (senza conclusione)
6a colletta per i morti Fidelium (senza conclusione)
7a colletta per la salute dei vivi Praetende, Domine, fidelibus. Conclusione.
Come nota pratica, particolarmente per quei celebranti disabituati a così tante orazioni alla Messa, annotare la serie da dire su un pezzo di carta, insieme all'uso di Post-it discretamente inseriti nel Messale, aiuteranno a raggiungere una naturale scorrevolezza senza interruzioni.
FONTE. Traduzione a cura di Traditio Marciana.
mercoledì 11 marzo 2020
La Chiesa Ortodossa in Grecia si rifiuta di sospendere le celebrazioni
A differenza che in Italia, in Grecia il ministero della Sanità, retto da Vasilis Kikilias, pur avendo sospeso tutte le manifestazioni pubbliche laiche, non ha introdotto alcuna disposizione coercitiva nei confronti della Chiesa, lasciando ai vescovi la decisione a proposito. La Chiesa di Grecia ha dichiarato che la celebrazione della Divina Liturgia e degli altri uffici quaresimali continuerà regolarmente con concorso di fedeli, come pure regolarmente continuerà la distribuzione della Santa Comunione, secondo la tradizionale prassi orientale di assumerla dal cucchiaino. L'Arcivescovo Crisostomo di Patrasso ha dichiarato: "Non è semplicemente possibile fermare le chiese o smettere di distribuire la Comunione. Quanti credono che la Santa Comunione salvi, non hanno nulla da temere, è una questione di fede. Nel corso dei secoli non si è giammai avuto notizia di malattie diffuse attraverso la Comunione".
lunedì 9 marzo 2020
Una versione elegiaca del Miserere
Davide in preghiera. Illustrazione ai sette salmi penitenziali in Jean Fouquet, Heures d'Etienne Chevalier, 1452-60 c.a., British Library (London) |
Pro
summa pietate mei miserere rogantis,
Alme Pater miseris qui pius esse soles.
Lugentemque tuum gaudia sua crimina servum
Aspice, proque
tuo tolle favore Deus.
Turpiter offendi nimio tua numina lapsu,
Jamque premor sceleris præ gravitate mei.
Nunc pia Summe parens tua me clementia servet
Utque soles
maculas ablue, quæso, meas.
Mens oblita tui te solum crimine læsit,
Coram teque nefas est operata malum.
Omnis ut agnoscat te vera fuisse loquutum
Mundus, et injusti constituisse nihil.
Insuper ut vincas, si quis quasi sanctus et infons,
Tecum judicio cernere forte velit.
Ecce fui gravida natus peccator ab alvo
Matris et invitus jam grave pondus eram,
Fallax namque tibi neque falsus sermo probatur,
Utpote qui veri cultor es atque pater.
Nota mihi sophiæ fecisti dona latentis,
Delicias animi quæ mihi ferre solent.
At miser indignus me tanto munere dicar,
Te precor hæc lapsus vulnera pelle mei.
O pater hyssopi si me conspersus herba,
Protinus a facto crimine mundus ero.
Rursus et amissæ bonitatis laveris unda,
O Deus albentis jam nivis instar ero.
Fac lætus hilaris nostras sermonibus aures,
Et præstes animo gaudia sana meo.
Sic mea jam variis confecta doloribus ossa
Subilient veteris mole levata mali.
Vultus verte tuos ne perfida crimina spectent,
Sic mea pro votis facta nephanda premes.
In me conde Deus puri domicilia cordis,
Sanctaque da rursus me tua jussa sequi.
Tuque mei sporcas renova rogo corporis ædes,
Ut sit in his recti flaminis alma domus.
Da pater hos humiles aliquid valuisse precatus,
Ac liceat vultus ante stetisse tuos.
Majestatis enim facie si priver, et a me
Verterit ille suam Spiritus almus opem.
Sorte sub adversa quis me solabitur ægrum,
Vel quis, subsidium, qui ferat alter erit?
Me super ergo pii placidissima lumina vultus
Pande, nec aversa fronte repelle reum.
O mihi vera tuæ modo gaudia redde salutis,
Et mihi lætantis suggere cordis opes.
Mirifico nostrum confirma flamine pectus,
Artis ut ignaro Palladis arma ferat.
Doctus ab hoc alios via quæ sit eunda docebo,
Oppressos vitiis quos malus error agit.
Mox ita conversus, sua crimina fœda retractans,
Impius officio te revertente colet.
Nunc Deus ergo levet tua me miseratio lapsum,
In te fixa mihi spesque salusque sedet.
Crimen in insontem patratæ cædis alumnum,
Ætherei rector quæso remitte poli.
Justiciam sic lingua tuam mea grata sonabit,
Nec memor haud poterit muneris esse tui.
Constrictum rursus laxabis guttur ad odas,
Atque dabis sacrum me tibi ferre melos.
Rupto etenim nexu quo me scelus ante ligarat,
Non potero laudes non memorare tuas.
Ac tua per varias dicam præconia gentes,
Teque canam nostri qua patet orbis iter.
Ipseque jam ferrem structas holocausta per aras,
Officii velles si modo tale genus.
Non animalis enim mactatis sanguine gaudes,
Igne nec accenso thura Sabæa placent:
Sed magis his animos præfers sua crimina flentes,
Anxia proque sacro munere corda capis.
Nec tu despicies torvo pia pectora vultu,
Nec tibi mens humilis non placuisse potest.
O humiles igitur placata mente querelas,
Suscipe pro sancta sancte Sione Deus.
Ut laceris iterum Solymis sua mœnia surgant,
Perstet et in longos urbs tibi chara dies.
Rex tunc justiciæ tibi victima cæsa placebit,
Araque tum vitulum plena cruore fluet.
Mens oblita tui te solum crimine læsit,
Coram teque nefas est operata malum.
Omnis ut agnoscat te vera fuisse loquutum
Mundus, et injusti constituisse nihil.
Insuper ut vincas, si quis quasi sanctus et infons,
Tecum judicio cernere forte velit.
Ecce fui gravida natus peccator ab alvo
Matris et invitus jam grave pondus eram,
Fallax namque tibi neque falsus sermo probatur,
Utpote qui veri cultor es atque pater.
Nota mihi sophiæ fecisti dona latentis,
Delicias animi quæ mihi ferre solent.
At miser indignus me tanto munere dicar,
Te precor hæc lapsus vulnera pelle mei.
O pater hyssopi si me conspersus herba,
Protinus a facto crimine mundus ero.
Rursus et amissæ bonitatis laveris unda,
O Deus albentis jam nivis instar ero.
Fac lætus hilaris nostras sermonibus aures,
Et præstes animo gaudia sana meo.
Sic mea jam variis confecta doloribus ossa
Subilient veteris mole levata mali.
Vultus verte tuos ne perfida crimina spectent,
Sic mea pro votis facta nephanda premes.
In me conde Deus puri domicilia cordis,
Sanctaque da rursus me tua jussa sequi.
Tuque mei sporcas renova rogo corporis ædes,
Ut sit in his recti flaminis alma domus.
Da pater hos humiles aliquid valuisse precatus,
Ac liceat vultus ante stetisse tuos.
Majestatis enim facie si priver, et a me
Verterit ille suam Spiritus almus opem.
Sorte sub adversa quis me solabitur ægrum,
Vel quis, subsidium, qui ferat alter erit?
Me super ergo pii placidissima lumina vultus
Pande, nec aversa fronte repelle reum.
O mihi vera tuæ modo gaudia redde salutis,
Et mihi lætantis suggere cordis opes.
Mirifico nostrum confirma flamine pectus,
Artis ut ignaro Palladis arma ferat.
Doctus ab hoc alios via quæ sit eunda docebo,
Oppressos vitiis quos malus error agit.
Mox ita conversus, sua crimina fœda retractans,
Impius officio te revertente colet.
Nunc Deus ergo levet tua me miseratio lapsum,
In te fixa mihi spesque salusque sedet.
Crimen in insontem patratæ cædis alumnum,
Ætherei rector quæso remitte poli.
Justiciam sic lingua tuam mea grata sonabit,
Nec memor haud poterit muneris esse tui.
Constrictum rursus laxabis guttur ad odas,
Atque dabis sacrum me tibi ferre melos.
Rupto etenim nexu quo me scelus ante ligarat,
Non potero laudes non memorare tuas.
Ac tua per varias dicam præconia gentes,
Teque canam nostri qua patet orbis iter.
Ipseque jam ferrem structas holocausta per aras,
Officii velles si modo tale genus.
Non animalis enim mactatis sanguine gaudes,
Igne nec accenso thura Sabæa placent:
Sed magis his animos præfers sua crimina flentes,
Anxia proque sacro munere corda capis.
Nec tu despicies torvo pia pectora vultu,
Nec tibi mens humilis non placuisse potest.
O humiles igitur placata mente querelas,
Suscipe pro sancta sancte Sione Deus.
Ut laceris iterum Solymis sua mœnia surgant,
Perstet et in longos urbs tibi chara dies.
Rex tunc justiciæ tibi victima cæsa placebit,
Araque tum vitulum plena cruore fluet.
M.P. GELLERUS, Septem psalmi poenitentiales elegiaco carmine redditi, Ingolstadii, 1578
Interpunctionem atque graphiam originales servavi, erroribus orthographicis quos humanistae committere solebant inclusis, exempli gratia charus pro caro (juxta erroneam paretymologiam a graeco sermone χάρις) vel nephas pro nefas (paretymologia haec quoque, ad graecum sermonem reducendo latinissimum verbum).
Ad v. 7 servet correxi: serveit Gellerus.
domenica 1 marzo 2020
Il Synodikò dell'Ortodossia nella I Domenica di Quaresima di rito bizantino
Icona del Trionfo dell'Ortodossia |
Ἀπολυτίκιον Ἦχος β’.
Τὴν ἄχραντον Εἰκόνα σου προσκυνοῦμεν Ἀγαθέ, αἰτούμενοι συγχώρησιν τῶν πταισμάτων ἡμῶν, Χριστὲ ὁ Θεός· βουλήσει γὰρ ηὐδόκησας σαρκὶ ἀνελθεῖν ἐν τῷ Σταυρῷ, ἵνα ῥύσῃ οὓς ἔπλασας ἐκ τῆς δουλείας τοῦ ἐχθροῦ· ὅθεν εὐχαρίστως βοῶμέν σοι· Χαρᾶς ἐπλήρωσας τὰ πάντα, ὁ Σωτὴρ ἡμῶν, παραγενόμενος εἰς τὸ σῶσαι τὸν Κόσμον.
(Veneriamo la tua pura Immagine, o Buono, chiedendo perdono dei nostri peccati, o Cristo Iddio, che spontaneamente volesti nella carne ascendere alla Croce, per liberare quanti hai creato dalla schiavitù del nemico: laonde rendendoti grazie gridiamo: Tutto hai colmato di letizia, o Salvatore nostro, venendo a salvare il mondo).
Per la prima Domenica della grande Quaresima, il Triodion richiede la celebrazione della "Domenica dell'Ortodossia". Questa celebrazione è stata introdotta nel marzo dell'843 per celebrare la vittoria finale sull'iconoclastia. E' stata stabilita in seguito ogni anno alla prima Domenica di Quaresima per celebrare il trionfo dell'Ortodossia. Questa celebrazione è stata aggiunta alla più antica commemorazione dei santi profeti Mosè, Aronne, Davide, Samuele e degli altri profeti di quel giorno. Il Typikon di Alessio Studita richiede il canto dell'officio delle sante icone combinato con l'officio dei santi profeti. Nei successivi Typika Sabaiti, però, riflettendo la diffusa pratica della fine del quattordicesimo secolo, la commemorazione dei santi profeti è scomparsa, ed il loro canone è stato spostato alla compieta della Domenica sera.
Non dobbiamo dimenticare che, dopo la vittoria degli esicasti nel 1351, la Domenica dell'Ortodossia prese un significato addizionale. Essa commemorava non solo la vittoria sull'iconoclasmo, ma su tutte le eresie, inclusa la vittoria dei monaci esicasti sui loro oppositori. Notiamo qui che le decisioni del Concilio delle Blacherne (1351), in cui gli insegnamenti di san Gregorio Palamas risultarono vittoriosi, furono aggiunti al Synodikon dell'Ortodossia, che senza dubbio fu letto per la prima volta nella sua nuova redazione nella prima Domenica della Grande Quaresima del 1352. Questi elementi possono spiegare l'importanza ascritta all'officio del trionfo dell'Ortodossia e alla scomparsa della commemorazione dei santi profeti nei Typika Sabaiti e nei Triodia redatti in Palestina dopo il quattordicesimo secolo. Il canone ai profeti è sopravvissuto solo nelle edizioni slave, essendo trasferito dal mattutino della Domenica alla sera. E' completamente scomparso dalle edizioni greche.
da: J. GETCHA, The Typikon Decoded, Yonkers, SVS Press, 2012
Dopo la Liturgia di S. Basilio, secondo il tipico costantinopolitano, oppure dopo il Mattutino, secondo il tipico monastico, si fa la processione con tutte le icone e le reliquie custodite nella chiesa, al canto di inni di ringraziamento, facendo memoria del trionfo dell'Ortodossia sull'iconomachia e su tutte le eresie nell'843. Alfine si canta la professione della fede, cioè il Credo Niceno, e si proclamano gli Anatemi del Synodikò dell'Ortodossia, ovvero del VII Concilio Ecumenico (Nicea II) del 778, che condannò le eresie degli iconomachi e non solo. Dopo l'introduzione generale, si canta "Eterna memoria" ai santi confessori e dottori della fede, e si canta "anatema" agli eresiarchi e ai nemici della fede autentica.
ΣΥΝΟΔΙΚΟΝ ΤΗΣ ΟΡΘΟΔΟΞΙΑΣ
Προοίμιον (ἢ τίτλος)
§1 Ἐποφειλομένη πρὸς Θεὸν ἐτήσιος εὐχαριστία καθ’ ἣν ἡμέραν ἀπελάβομεν τὴν τοῦ Θεοῦ ἐκκλησίαν σὺν ἀποδείξει τῶν τῆς εὐσεβείας δογμάτων καὶ καταστροφῇ τῶν τῆς κακίας δυσσεβημάτων.
(Κυρίως Συνοδικόν)
§2 Προφητικαῖς ἑπόμενοι ῥήσεσιν ἀποστολικαῖς τε παραινέσεσιν εἴκοντες καὶ εὐαγγελικαῖς ἱστορίαις στοιχούμενοι, τῶν ἐγκαινίων τὴν ἡμέραν ἑορτάζομεν. ᾿Ησαΐας μὲν γάρ φησιν ἐγκαινίζεσθαι νήσους πρὸς τὸν Θεόν, τὰς ἐξ ἐθνῶν ὑπαινιττόμενος ἐκκλησίας· εἶεν δ’ ἂν ἐκκλησίαι, οὐχ αἱ τῶν ναῶν ἁπλῶς οἰκοδομαὶ καὶ φαιδρότητες, ἀλλὰ τῶν ἐν αὐταῖς εὐσεβούντων τὸ πλήρωμα, καὶ οἷς ἐκεῖνοι τὸ θεῖον ὕμνοις καὶ δοξολογίαις θεραπεύουσιν. ὁ δὲ ἀπόστολος, αὐτὸ τοῦτο παραινῶν, «ἐν καινότητι ζωῆς περιπατῆσαι» διακελεύεται καὶ «εἴ τις ἐν Χριστῷ καινὴ κτίσις» ἀνακαινίζεσθαι. τὰ δέ γε κυριακὰ λόγια τὴν προφητικὴν δεικνύντα κατάστασιν, «ἐγένετο, φησίν, τὰ ἐγκαίνια ἐν ᾿Ιεροσολύμοις καὶ χειμὼν ἦν», εἴτε νοητὸς καθ’ ὃν τὸ τῶν Ἰουδαίων ἔθνος κατὰ τοῦ κοινοῦ σωτῆρος τὰς τῆς μιαιφονίας ἐκίνει καταιγίδας καὶ τὸν τάραχον, εἴτε καὶ ὁ τὰς σωματικὰς αἰσθήσεις τῇ τοῦ ἀέρος ἐπὶ τὸ κρυμῶδες παραλυπῶν μεταβολῇ. γέγονε γὰρ δή, γέγονε καὶ καθ’ ἡμᾶς χειμὼν οὐχ ὁ τυχών, ἀλλ’ ὁ τῷ ὄντι τῆς μεγάλης κακίας ἐκχέων τὴν ὠμότητα, ἀλλ’ ἤνθησεν ἡμῖν τῶν χαρίτων τοῦ Θεοῦ τὸ πρωτοκαίριον ἔαρ, ἐν ᾧ καὶ τὴν εὐχαριστήριον τῶν ἐπ’ ἀγαθοῖς θερισμῶν τῷ Θεῷ συνεληλύθαμεν ποιήσασθαι, ὡς ἂν φαίημεν ψαλμικώτερον· «θέρος καὶ ἔαρ σὺ ἔπλασας αὐτά, μνήσθητι ταύτης». καὶ γὰρ τοὺς ὀνειδίσαντας Κύριον ἐχθροὺς καὶ τὴν τούτου ἁγίαν προσκύνησιν ἐν ἁγίαις εἰκόσιν ἐξατιμώσαντας ἐπαρθέντας τε καὶ ὑψωθέντας τοῖς δυσσεβήμασι, κατέρραξεν αὐτοὺς ὁ τῶν θαυμασίων Θεὸς καὶ τὸ τῆς ἀποστασίας φρύαγμα κατηδάφισεν, οὐδὲ παρεῖδε τὴν φωνὴν τῶν βοώντων πρὸς αὐτόν· «μνήσθητι, Κύριε, τοῦ ὀνειδισμοῦ τῶν δούλων σου, οὗ ὑπέσχον ἐν τῷ κόλπῳ μου πολλῶν ἐθνῶν· οὗ ὠνείδισαν οἱ ἐχθροί σου, Κύριε, οὗ ὠνείδισαν τὸ ἀντάλλαγμα τοῦ χριστοῦ σου». ἀντάλλαγμα δ’ ἂν εἶεν τοῦ Χριστοῦ οἱ τῷ θανάτῳ αὐτοῦ ἐξαγορασθέντες καὶ πεπιστευκότες αὐτῷ διά τε λόγων ἀνακηρύξεως καὶ εἰκονικῆς ἀνατυπώσεως, δι’ ὧν τὸ μέγα τῆς οἰκονομίας ἔργον τοῖς λελυτρωμένοις ἐπιγινώσκεται, διὰ σταυροῦ τε καὶ τῶν πρὸ τοῦ σταυροῦ καὶ μετὰ τὸν σταυρὸν παθῶν τε καὶ θαυμάτων αὐτοῦ· ἐξ ὧν καὶ ἡ τῶν αὐτοῦ παθημάτων μίμησις εἰς ἀποστόλους, ἐκεῖθέν τε εἰς μάρτυρας διαβαίνει, καὶ δι’ αὐτῶν μέχρις ὁμολογητῶν καὶ ἀσκητῶν κάτεισι.
§3 Τούτου τοίνυν τοῦ ὀνειδισμοῦ, «οὗ ὠνείδισαν οἱ ἐχθροὶ Κυρίου, οὗ ὠνείδισαν τὸ ἀντάλλαγμα τοῦ χριστοῦ αὐτοῦ», ἐπιμνησθεὶς ὁ Θεὸς ἡμῶν ὁ τοῖς ἰδίοις σπλάγχνοις παρακαλούμενος καὶ ταῖς μητρικαῖς αὐτοῦ δεήσεσιν ἐπικαμπτόμενος, ἔτι δὲ καὶ ἀποστολικαῖς καὶ πάντων τῶν ἁγίων, οἳ συνεξυβρίσθησαν αὐτῷ καὶ συνεξουθενώθησαν ἐν ταῖς εἰκόσιν, ἵνα, ὥς περ συνέπαθον σαρκί, οὕτως ἄρα, ὡς ἔοικε, καὶ ταῖς κατὰ τῶν σεπτῶν εἰκόνων αὐτῷ συγκοινωνήσωσιν ὕβρεσιν, ἐνήργησεν ὕστερον ὅ τι βεβούληται σήμερον, καὶ πέπραχε δεύτερον ὅ περ ἐτέλεσε πρότερον. πρότερον μὲν γάρ, μετὰ πολυετῆ τινα χρόνον τῆς τῶν ἁγίων εἰκόνων ἐκφαυλίσεως καὶ ἀτιμίας, ἐπανέστρεψε τὴν εὐσέβειαν εἰς ἑαυτήν· νυνὶ δέ, ὅ περ ἐστὶ δεύτερον, μικροῦ μετὰ τριάκοντα ἔτη κακώσεως, κατηρτίσατο τοῖς ἀναξίοις ἡμῖν τὴν τῶν δυσχερῶν ἀπαλλαγὴν καὶ τῶν λυπούντων τὴν ἀπολύτρωσιν καὶ τῆς εὐσεβείας τὴν ἀνακήρυξιν καὶ τῆς εἰκονικῆς προσκυνήσεως τὴν ἀσφάλειαν καὶ τὴν πάντα φέρουσαν ἡμῖν τὰ σωτήρια ἑορτήν. ἐν γὰρ ταῖς εἰκόσιν ὁρῶμεν τὰ ὑπὲρ ἡμῶν τοῦ δεσπότου πάθη, τὸν σταυρόν, τὸν τάφον, τὸν ᾅδην νεκρούμενον καὶ σκυλευόμενον, τῶν μαρτύρων τοὺς ἄθλους, τοὺς στεφάνους, αὐτὴν τὴν σωτηρίαν, ἣν ὁ πρῶτος ἡμῶν ἀθλοθέτης καὶ ἀθλοδότης καὶ στεφανίτης «ἐν μέσῳ τῆς γῆς κατειργάσατο». ταύτην σήμερον τὴν πανήγυριν ἑορτάζομεν, ἐν ταύτῃ εὐχαῖς καὶ λιτανείαις συνευφραινόμενοί τε καὶ συναγαλλόμενοι, ψαλμοῖς ἐκβοῶμεν καὶ ᾄσμασιν.
[Ἔξω, τρίς]
§4 Τίς θεὸς μέγας ὡς ὁ Θεὸς ἡμῶν; σὺ εἶ ὁ Θεὸς ἡμῶν ὁ ποιῶν θαυμάσια μόνος.
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