venerdì 15 marzo 2019

La Preghiera di Manasse


di Nicolò Ghigi


Tra le preghiere penitenziali che accompagnano la Grande Quaresima nel rito bizantino figura la cosiddetta Preghiera (od Odedi Manasse, secondo la tradizione composta dal biblico re di Giuda Manasse[1] (695 a.C. - 642 a.C), anche se probabilmente formatasi nella diaspora ebraica del II-I secolo a.C., se non, secondo la postdatazione di alcuni studiosi, all'inizio dell'Era Cristiana. La fonte biblica che permetterebbe di attribuire questa preghiera al re Manasse, è contenuta nel II Libro dei Paralipomeni[2], capo XXXIII, verso 18: Reliqua autem gestorum Manasse, et obsecratio ejus ad Deum suum, verba quoque videntium qui loquebantur ad eum in nomine Domini Dei Israël, conti­nentur in sermonibus regum Israël.
Tale versetto fa riferimento appunto a una preghiera di supplica del sovrano giudeo, che sarebbe contenuta in un fantomatico libro dei Discorsi dei sovrani d'Israele, uno dei molti altri libri storici del regno israelitico-giudaico che ci vengono citati dalla Sacra Scrittura ma di cui non abbiamo traccia[3].
L'ode costituisce il XII capitolo del Libro delle Odi, apocrifo dell'Antico Testamento presente nella versione greca dei Settanta e in appendice alla Vulgata Sisto-Clementina, nato probabilmente come manuale a uso liturgico, in quanto raccoglie 14 componimenti poetici[4] estratti da altri libri della Sacra Scrittura, che costituiscono il patrimonio innodico tutt'ora in uso negli uffici mattinali tanto presso i Greci quanto presso i Latini[5]. Tuttavia, essa assume dignità a sé, essendo parte fonda­mentale dell'ufficiatura dell' Ἀπόδειπνον τὸ Μέγα (Grande Compieta), ovverosia la forma partico­larmente lunga e provante di Compieta (la preghiera liturgica che si recita prima di coricarsi) pre­scritta dall'Orologion per i giorni feriali[6] della Grande Quaresima. Essa costituisce il fulcro della seconda sezione dell'ufficiatura[7], chiudendo e idealmente completando la recita dei salmi peni­tenziali 50 e 101.
Attestazioni e ipotesi sulla data di composizione
Tradizionalmente, gli studiosi attribuivano la redazione di questa preghiera, che andrebbe a supplire il testo della prece cui II Paral. XXXIII, 18 accenna senza riportarlo, all’ambiente giudaico di lingua greca del II-I secolo a.C., a “uno sconosciuto scrittore di capacità e pietà non comuni”[8]. Tuttavia, la maggior parte degli autori moderni tendono a postdatarla agl’inizi dell’Era Cristiana, soprattutto perché non vi sono attestazioni certe anteriori al IV secolo.
La preghiera è compresa in tutte le più antiche redazioni del Libro delle Odi, ovvero nei Codici Veronensis (R) e Turicensis (T), rispettivamente del VI e del VII secolo; nondimeno, essa circolava autonomamente già qualche secolo[9]: una versione è presente nel famoso Codex Alexandrinus (Londra, British Library, MS Royal 1. D. V-VIII; Gregory-Aland n. A o 02) della Septuaginta[10], datato generalmente al IV-V secolo. Tuttavia, la sua redazione potrebbe essere ancora anteriore, e afferire piuttosto all’ambiente siriaco: già nel III secolo la Didascalia sira cuciva IV Re, XXI,1-16 con una preghiera di Manasse, senza dare segno alcuno di dipendenza da fonte estranea. La stessa preghiera appare, con qualche modifica, nelle di poco successive Constitutiones Apostolorum[11]. “Tutto converge – scrive padre Nau agl’inizi del secolo scorso – a fare supporre che la prima origine della recensione attuale rimonti appunto alla Didascalia: per tal modo la Siria e il secolo III potrebbero essere assegnati a luogo e tempo della sua composizione”[12]. Più prudente è il giudizio del gesuita statunitense Harrington, il quale afferma non esservi elementi per identificare in modo preciso una data, se non che sicuramente essa dev’essere compresa tra la redazione del II Libro delle Cronache e l’attestazione nei manoscritti siriaci (un intervallo di oltre sei secoli!); inoltre, egli avanza alcuni dubbi sull’attribuzione della preghiera agli ambienti cristiani, al di là della datazione: “Dacché non vi sono riconoscibili elementi Cristiani, [la preghiera] fu probabilmente composta da un Giudeo di lingua greca. Non è impossibile, comunque, che un autore Cristiano, immedesimandosi in Manasse, abbia potuto scrivere questa preghiera in stile giudaico. L’uso di frasi della Septuaginta da parte dell’autore suggerisce, quale data per la composizione originaria, il periodo attorno al volgere dell’era, ancorché non si possa avere maggior precisione in questo campo”[13].
Particolarmente interessante risulta l’attestazione scoperta nel 2004 da un gruppo di archeologi dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che ha ritrovato su una parete nascosta di una stanza sotterranea di una casa a Hierapolis di Frigia (nell’attuale Turchia) un’iscrizione datata al V secolo contenente il testo greco della preghiera, probabilmente in uso già allora per il rito della penitenza oppure per gli esorcismi.
Testo dell'Ode
Testo Greco della Septuaginta[14]
Κύριε παντοκράτορ, ὁ Θεὸς τῶν Πατέρων ἡμῶν, τοῦ Ἀβραάμ, καὶ Ἰσαάκ, καὶ Ἰακώβ, καὶ τοῦ σπέρματος αὐτῶν τοῦ δικαίου, ὁ ποιήσας τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν σύν παντὶ τῷ κόσμῳ αὐτῶν, ὁ πεδήσας τὴν θάλασσαν τῷ λόγῳ τοῦ προστάγματος, σου, ὁ κλείσας τὴν ἄβυσσον, καὶ σφραγισάμενος αὐτὴν τῷ φοβερῷ καὶ ἐνδόξῳ ὀνόματί σου, ὃν πάντα φρίσσει καὶ τρέμει ἀπὸ προσώπου τῆς δυνάμεώς σου, ὅτι ἄστεκτος ἡ μεγαλοπρέπεια τῆς δόξης σου, καὶ ἀνυπόστατος ἡ ὀργὴ τῆς ἐπὶ ἁμαρτωλοῖς ἀπειλῆς σου, ἀμέτρητόν τε καὶ ἀνεξιχνίαστον τὸ ἔλεος τῆς ἐπαγγελίας σου. Σὺ γὰρ εἶ Κύριος ὕψιστος, εὔσπλαγχνος, μακρόθυμος, καὶ πολυέλεος, καὶ μετανοῶν ἐπὶ κακίας ἀνθρώπων. Σύ, Κύριε, κατὰ τὸ πλῆθος τῆς χρηστότητός σου ἐπηγγείλω μετάνοιαν, καὶ ἄφεσιν τοῖς ἡμαρτηκόσι σοι, καὶ τῷ πλήθει τῶν οἰκτιρμῶν σου ὥρισας μετάνοιαν ἁμαρτωλοῖς εἰς σωτηρίαν. Σὺ οὖν, Κύριε, ὁ Θεὸς τῶν δυνάμεων, οὐκ ἔθου μετάνοιαν δικαίοις, τῷ Ἀβραάμ, καὶ Ἰσαάκ, καὶ Ἰακώβ, τοῖς οὐχ ἡμαρτηκόσι σοι, ἀλλ' ἔθου μετάνοιαν ἐπ' ἐμοὶ τῷ ἁμαρτωλῷ, διότι ἥμαρτον ὑπὲρ ἀριθμὸν ψάμμου θαλάσσης. Ἐπλήθυναν αἱ ἀνομίαι μου, Κύριε, ἐπλήθυναν αἱ ἀνομίαι μου, καὶ οὐκ εἰμὶ ἄξιος ἀτενίσαι, καὶ ἰδεῖν τὸ ὕψος τοῦ οὐρανοῦ, ἀπὸ τοῦ πλήθους τῶν ἀδικιῶν μου, κατακαμπτόμενος πολλῷ δεσμῷ σιδηρῷ, εἰς τὸ μὴ ἀνανεῦσαι τὴν κεφαλήν μου, καὶ οὐκ ἔστι μοι ἄνεσις, διότι παρώργισα τὸν θυμόν σου, καὶ τὸ πονηρὸν ἐνώπιόν σου ἐποίησα, μὴ ποιήσας τὸ θέλημά σου, καὶ μὴ φυλάξας τὰ προστάγματά σου. Καὶ νῦν, κλίνω γόνυ καρδίας, δεόμενος τῆς παρὰ σοῦ χρηστότητος. Ἡμάρτηκα, Κύριε, ἡμάρτηκα, καὶ τὰς ἀνομίας μου ἐγὼ γινώσκω, ἀλλ' αἰτοῦμαι δεόμενος. Ἄνες μοι, Κύριε, ἄνες μοι, καὶ μὴ συναπολέσῃς με ταῖς ἀνομίαις μου, μηδὲ εἰς τὸν αἰῶνα μηνίσας τηρήσῃς τὰ κακά μοι, μηδὲ καταδικάσῃς με ἐν τοῖς κατωτάτοις τῆς γῆς· διότι σὺ εἶ Θεός, Θεὸς τῶν μετανοούντων, καὶ ἐν ἐμοὶ δείξεις πᾶσαν τὴν ἀγαθωσύνην σου, ὅτι ἀνάξιον ὄντα, σώσεις με κατὰ τὸ πολὺ ἔλεός σου, καὶ αἰνέσω σε διὰ παντὸς ἐν ταῖς ἡμέραις τῆς ζωῆς μου. Ὅτι σὲ ὑμνεῖ πᾶσα ἡ δύναμις τῶν οὐρανῶν, καὶ σοῦ ἐστιν ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας τῶν αἰώνων. Ἀμήν.
Versione Latina di S. Girolamo[15]
Domine omnipotens, Deus patrum nostrorum, Abraham, et Isaac, et Jacob, et seminis eorum justi, qui fecisti cælum et terram cum omni ornatu eorum, qui ligasti mare verbo præcepti tui, qui conclusisti abyssum, et signasti eam terribili et laudabili nomine tuo: quem omnia pavent, et tremunt a vultu virtutis tuæ, quia importabilis est magnificentia gloriæ tuæ, et insustentabilis ira comminationis tuæ super peccatores: immensa vero et investigabilis misericordia promissionis tuæ: quoniam tu es Dominus, altissimus, benignus, longanimis, et multum misericors, et pœnitens super malitias hominum. Tu Domine, secundum multitudinem bonitatis tuæ, promisisti pœnitentiam et remissionem iis, qui peccaverunt tibi, et multitudine miserationum tuarum decrevisti pœnitentiam peccatoribus, in salutem. Tu igitur Domine Deus justorum, non posuisti pœnitentiam justis, Abraham, et Isaac, et Jacob, iis qui tibi non peccaverunt; sed posuisti pœnitentiam propter me peccatorem: quoniam peccavi super numerum arenæ maris: multiplicatæ sunt iniquitates meæ Domine, multiplicatæ sunt iniquitates meæ, et non sum dignus intueri et aspicere altitudinem cæli, præ multitudine iniquitatum mearum. Incurvatus sum multo vinculo ferreo, ut non possim attollere caput meum, et non est respiratio mihi: quia excitavi iracundiam tuam et malum coram te feci: non feci voluntatem tuam, et mandata tua non custodivi: statui abominationes, et mutiplicavi offensiones. Et nunc flecto genu cordis mei, precans a te bonitatem. Peccavi, Domine, peccavi, et iniquitates meas agnosco. Quare peto rogans te, remitte mihi Domine, remitte mihi, et ne simul perdas me cum iniquitatibus meis; neque in æternum iratus, reserves mala mihi, neque damnes me in intima terræ loca: quia tu es Deus, Deus, inquam, pœnitentium: et in me ostendes omnem bonitatem tuam, quia indignum salvabis me secundum magnam misericordiam tuam, et laudabo te semper omnibus diebus vitæ meæ: quoniam te laudat omnis virtus cælorum, et tibi est gloria in sæcula sæculorum. Amen.
Traduzione Italiana
O Signore Onnipotente, Dio dei Padri nostri, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e della loro giusta discendenza, che creasti il cielo e la terra con tutto ciò che li orna, che incatenasti il mare con la parola del tuo comando, che chiudesti l’abisso e lo sigillasti col tuo nome terribile e glorioso, per il quale ogni cosa trema e rabbrividisce al cospetto della tua potenza, poiché insostenibile è la magnificenza della tua gloria, e non si può resistere al furore della tua minaccia sui peccatori, e incommensurabile e imperscrutabile è la misericordia della tua promessa. Tu infatti sei il Signore altissimo, compassionevole, longanime, molto misericordioso, e che si pente delle malvagie azioni degli uomini. Tu, o Signore, secondo la tua multiforme bontà, promettesti conversione e perdono per quanti hanno peccato contro di te, e, nella moltitudine delle tue misericordie, stabilisti la penitenza per i peccatori al fine della loro salvezza. Tu dunque, Signore, Dio delle potenze, non prescrivesti la penitenza ai giusti, per Abramo, per Isacco e per Giacobbe, che non hanno peccato contro di te, ma stabilisti la penitenza per me peccatore, perocché i miei peccati superano in numero i granelli della sabbia del mare. Si sono moltiplicate le mie iniquità, o Signore, si sono moltiplicate le mie iniquità, e non son degno di volger lo sguardo e mirare alla vetta del cielo, per la moltitudine delle mie ingiustizie son piegato da una pesante catena di ferro, talché non posso sollevare il capo, e non v’è per me sollievo veruno, in quanto ho provocato la tua ira, e ho operato il male anzi a te, non compiendo la tua volontà, e non serbando i tuoi precetti. E ora piego il ginocchio del mio cuore, rivolgendo una supplica alla tua bontà. Ho peccato, Signore, ho peccato, e conosco le mie iniquità, ma supplice ti rivolgo la mia preghiera: Perdonami, Signore, perdonami, non perdermi a cagione delle mie iniquità, né, sdegnato in eterno, serba memoria delle mie azioni malvagie, e non condannarmi alle profondità della terra: poiché tu sei Dio, Dio di coloro che si pentono, e mostrerai in me tutta la tua bontà, poiché, quantunque indegno, mi salverai secondo la tua grande misericordia, e ti loderò incessantemente per tutti i giorni della mia vita. Poiché inneggia a te ogni potenza celeste, e tua è la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Analisi del testo
Scrive il grecista e biblista metodista statunitense David A. deSilva: “La richiesta di perdono comincia con una meravigliosa im­magine dell’umiltà del cuore: ‘Piego il ginocchio del mio cuore’. Quest’affermazione si staglia in un marcato contrasto con l’hybris di cui Manasse fece mostra nel suo primiero disprezzo per il divieto divino dell’idolatria. Un altro riconoscimento del proprio peccato, ‘Ho peccato, Signore, ho peccato’ è poeticamente bilanciato dalla supplica ‘Perdonami, Signore, perdonami’. La richiesta si conclude identificando Dio come ‘Dio dei penitenti’, che è un modo del tutto originale di descrivere Dio, un sottile contraltare del ‘Dio dei giusti’ e un’espressione della convinzione che il Dio di tutti non cessa di essere Dio di coloro che cadono dal cammino nella via del Signore. In qualità di loro Creatore, e Unico che li aspetta, pronto a perdonare e a restaurare coloro che umiliano se stessi e si volgono dal loro cammino peccaminoso, Dio rimane il loro Dio” [16].
Con queste parole, egli pregevolmente descrive la raffinata costruzione, equilibrata e lirica, che caratterizza il componimento (non a caso inserito tra le Odi poetiche), i sapientemente studiati parallelismi, gli epiteti ricchi di significati profondi e inediti, le petizioni accorate che descrivono mirabilmente lo stato di prostrazione del peccatore pentito, iconizzato nel re giudeo. Il redattore della preghiera usa il linguaggio dei salmi: sono innumerevoli le citazioni dal salmo 50, che costituisce un parallelo esatto di questa preghiera, in quanto è la richiesta di perdono di un altro re d’Israele, Davide, che aveva concupito Betsabea, moglie di Uria l’Ittita. Non mancano tuttavia sintagmi tratti dalla Genesi, soprattutto nella prima parte, una sorta di captatio benevolentiæ che descrive le mirabili azioni del Creatore e inneggia alla sua potenza, e da altri passi scritturali. Le immagini impiegate nella preghiera sono molto forti (oltre al succitato “ginocchio del cuore”, si pensi alla “pesante catena di ferro” rappresentata dal vincolo del peccato), colpiscono immediatamente la mente e il cuore del lettore e ancor più dell’orante che usa le parole di questa preghiera per segnare la propria conversione e supplicare la misericordia divina. Da un punto di vista linguistico, è presente una rara subordinazione, talché prevalgono costruzioni paratattiche, secondo lo stile tipico delle Scritture, con una ricca coordinazione per polisindeto, mediante la quale vengono ora giustapposti e ora contrapposti i concetti fondamentali dell’orazione, creando una struttura chiara, quasi ritmata, facile da memorizzare e da interiorizzare.



[1] Re di Giuda, secondo una dubbia lezione ricavata da IV Re, XXI, 1, salì al trono all’età di 12 anni nel 687 a. C. al posto del padre Ezechia, e regnò per il lunghissimo periodo di 55 anni, contemporaneo ai re assiri Sennacherib, Assarhaddon e Assurbanipal, dei quali fu vassallo, non solo secondo la tradizione biblica, in quanto in un’iscrizione assira viene nominato in una lista di 22 “re di Hatti” tributari dei re d’Assiria. All'interno il suo regno fu in massima parte una reazione netta e radicale contro il periodo di suo padre Ezechia: come Ezechia era stato ardente fautore dello jahvismo, sotto l'ispirazione specialmente del profeta Isaia, e ostile a influenze straniere sul nazionalismo giudaico, così Manasse, rientrato nell'influenza della civiltà dell'Assiria attraverso i circoli di corte che lo dominarono fino da fanciullo regnante, fu poi ardente fautore della civiltà assira e per diretta conseguenza anche del sincretismo idolatrico. Sotto Manasse gli dei assiri e di altre nazioni furono veneratissimi nel regno di Giuda; nello stesso tempio di Gerusalemme furono innalzati altari a quelle divinità e vi fu praticata anche la prostituzione sacra (cfr. IV Re, XXIII, 3 segg.). Il dio antropofago Moloch fu onorato da Manasse col sacrificio nel fuoco del proprio figlio (ivi, XXI, 6; cfr. XXIII, 10), ed ebbe un luogo sacro speciale nella Valle di Hinnom. Manasse perseguitò con grandi stragi gli jahvisti fedeli all'antico indirizzo, e la tradizione secondo cui Isaia sarebbe stato martirizzato da Manasse, benché assai tardiva, è del tutto verosimile, attestando la tradizione ch’egli versò sangue innocente anche tra i profeti (cfr. Geremia, II, 30). Il solo Cronista (II Paral., XXXIII, 11 segg.) dà la notizia che, a un certo punto, Manasse fu portato dagli Assiri prigioniero in Babilonia, ove si pentì del male commesso nei suoi giorni di apostata, e, liberato più tardi e ritornato a Gerusalemme, passò alla corrente profetico-jahvistica, favorendola zelantemente e dandosi a distruggere le conseguenze del suo precedente atteggiamento. La stessa sorte di Manasse subì dagli Assiri Necao principe di Sais sul Delta egiziano (deportato in Mesopotamia e poi rimandato nei suoi dominî); come pure la deportazione in Babilonia (invece che in Assiria) si spiega col fatto che il monarca assiro di quel tempo, impadronitosi nel 648 a. C. di Babilonia, vi dimorò frequentemente per sorvegliarla dappresso. Sembra dunque che il fatto avvenisse sotto Assurbanipal. (cfr. G. RICCIOTTI e A. VITTI, Enciclopedia Italiana Treccani, Milano, 1934, alla voce Manasse; con integrazioni e precisazioni dell’autore)
[2] I due libri dei Paralipomeni (conosciuti anche come libri delle Cronache) si propongono di essere il completamento dei quattro libri dei Re: mentre i secondi afferiscono alla tradizione deuteronomistica, i primi invece si ascrivono alla categoria degli scritti sacerdotali, che hanno come principale scopo la glorificazione della fede d’Israele, del Tempio di Gerusalemme e della stirpe di Davide vista come unità del popolo eletto. A questo scopo, il Cronista racconta quanto afferma esser stato tralasciato dagli autori dei Libri di Re, in un certo senso correggendo in modo celebrativo quanto potrebbe esser letto a discapito dei discendenti di Salomone.
[3] cfr. Daniel J. Harrington SJ, Invitation to Apocrypha, 1999, p. 166
[4] Le 14 Odi (gr. Ὠδαί, lat. Cantica) sono: I. Ode di Mosè (Esodo, V, 1-19); II. Ode di Mosè (Deuteronomio, XXXII, 1-43); III. Preghiera di Anna, madre del Profeta Samuele (I Re, II, 1-10); IV. Preghiera del Profeta Abacuc (Abacuc, III, 2-19); V. Preghiera del Profeta Isaia (Isaia, XXVI, 9-20); VI. Preghiera del Profeta Giona (Giona, II, 3-10); VII. Preghiera di Azaria (Daniele, III, 26-56); VIII. Cantico dei Tre Fanciulli nella fornace (ivi, III, 57-88); IX. Cantico della Madre di Dio, conosciuto come Magnificat (Luca, I, 46-55), e Cantico di Zaccaria, conosciuto come Benedictus (Luca, I, 68-79); X. Ode di Isaia (Isaia, V, 1-9); XI. Preghiera di Ezechia, Re di Giuda (Isaia, XXXVIII, 10-20); XII. Preghiera di Manasse; XIII. Ode di Simeone, conosciuta come Nunc dimittis (Luca, II, 29-32); XIV. Inno del Mattino.
Oltre alla preghiera di Manasse, anche l’Inno del Mattino non è direttamente presente nella Sacra Scrittura, ma è piuttosto una collazione di versetti, alcuni dei quali derivati dai Salmi e che si apre con la citazione di Luca, II, 14: si tratta della cosiddetta Dossologia Maggiore (Gloria in excelsis) nella sua redazione greca, che aggiunge numerosi versetti a quella latina.
[5] Nel rito bizantino, al Mattutino si canta un Canone, legato alla festività o al Santo celebrati, le cui odi, in numero variabile ma non superiore a nove, traggono ispirazione (più o meno diretta) dalle prime nove Odi summenzionate: anticamente l’intera ode biblica veniva cantata in questo momento, mentre oggi ne resta solo un’epitome, che funge da εἰρμὸς, ovvero da modello che dà le indicazioni metriche e ritmiche cui devono attenersi tutte le strofe dell’ode. Il Mattutino si chiude sempre con la Grande Dossologia.
Nel rito romano, alla seconda parte dell’ufficio mattinale (le cosiddette Laudi), dopo i primi tre salmi viene intonato un cantico biblico, tratto proprio da quelli veterotestamentari del Libro delle Odi, secondo uno schema diversificato giorno per giorno (e, dopo la riforma operata da Pio X nel 1911, anche diversificato tra periodi “normali” e penitenziali). I Cantici neotestamentari sono cantati a compimento delle Ore principali (Benedictus alle Laudi, Magnificat al Vespero, Nunc dimittis alla Compieta), mentre la Grande Dossologia, pur nella versione latina ch’è notevolmente ridotta rispetto a quella contenuta nelle Odi, si canta nei riti iniziali della Liturgia Eucaristica nei giorni di festa.
[6] Cioè i giorni della settimana esclusi il sabato e la domenica, che in Oriente non sono giorni di digiuno. La tradizione religiosa conta i giorni al modo ebraico, ovvero da tramonto a tramonto: quindi viene cantato il lunedì, il martedì, il mercoledì e il giovedì sera (essendo rispettivamente martedì, mercoledì, giovedì e venerdì). Non viene però cantato la domenica sera (che sarebbe teoricamente già lunedì), come se la domenica avesse un “secondo Vespero”.
[7] Vengono identificate tre sezioni chiaramente distinguibili all’interno della Grande Compieta, ciascuna delle quali introdotta dal triplice invito alla preghiera Δεῦτε προσκυνήσωμεν καὶ προσπέσωμεν etc. (Venite, prosterniamoci e adoriamo), e ciascuna delle quali costituita essenzialmente da alcuni salmi (6 nella prima sezione, 2 nella seconda e nella terza) e una o più preghiere penitenziali (di S. Basilio nella prima, di Manasse nella seconda, di S. Paolo e S. Antioco nella terza), più alcuni componimenti ecclesiastici più o meno lunghi. Tra esse s’inframmezzano anche la nota Preghiera di S. Efrem il Siro e, in alcuni giorni della Grande Quaresima, il lunghissimo Canone di S. Andrea di Creta.
[8] James King West, Introduction to the Old Testament, Macmillan, 1971, pp. 470-471
[9] Se ne trovano accenni anche a S. Giovanni Damasceno, che, sotto l’autorità di un tal Africano, racconta la storia della conversione del re Manasse in Sacra Parallela, lit. E. tit. VII; in Patr. Graeca, XCV, 1436.
[10] Frederick G. Kenyon, Codex Alexandrinus. London: British Museum, 1909
[11] Cfr. Raymond E. Brown, The Jerome Biblical Commentary, 1968, vol. 1, p. 541
[12] Fr. Nau, Un extrait de la Didascalie: la prière de Manassé, in Rev. Orient Chrét., 1908, p. 140
[13] Daniel J. Harrington SJ, Harper's Bible Commentary, Society of Biblical Literature, 1988, p. 872
[14] Cfr. Septuaginta. Id est Vetus Testamentum Graece juxta LXX Interpretes, Stuttgart, Wurttembergische Bibelanstalt, 1935
[15] Cfr. Biblia Sacra Vulgatæ Editionis Sixti V. Pontificis Maximi jussu recognita, et Clementis VIII. auctoritate edita,  Lugduni, apud Perisse Fratres, 1830.
[16] David A. deSilva, Introducing the Apocrypha, 2002, p. 299

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