Tra le preghiere penitenziali che accompagnano la Grande
Quaresima nel rito bizantino figura la cosiddetta Preghiera (od
Ode) di Manasse, secondo
la tradizione composta dal biblico re di Giuda Manasse[1] (695 a.C. - 642 a.C),
anche se probabilmente formatasi nella diaspora ebraica del II-I secolo a.C.,
se non, secondo la postdatazione di alcuni studiosi, all'inizio dell'Era
Cristiana. La fonte biblica che permetterebbe di attribuire questa preghiera al
re Manasse, è contenuta nel II Libro dei Paralipomeni[2], capo XXXIII, verso 18: Reliqua
autem gestorum Manasse, et obsecratio ejus ad Deum suum, verba
quoque videntium qui loquebantur ad eum in nomine Domini Dei Israël, continentur
in sermonibus regum Israël.
Tale versetto fa riferimento appunto a una preghiera di
supplica del sovrano giudeo, che sarebbe contenuta in un fantomatico libro
dei Discorsi dei sovrani d'Israele, uno dei molti altri libri
storici del regno israelitico-giudaico che ci vengono citati dalla Sacra
Scrittura ma di cui non abbiamo traccia[3].
L'ode costituisce il XII capitolo del Libro delle Odi,
apocrifo dell'Antico Testamento presente nella versione greca dei Settanta e in
appendice alla Vulgata Sisto-Clementina, nato probabilmente come manuale a uso
liturgico, in quanto raccoglie 14 componimenti poetici[4] estratti da altri libri
della Sacra Scrittura, che costituiscono il patrimonio innodico tutt'ora in uso
negli uffici mattinali tanto presso i Greci quanto presso i Latini[5]. Tuttavia, essa assume
dignità a sé, essendo parte fondamentale dell'ufficiatura dell' Ἀπόδειπνον τὸ
Μέγα (Grande Compieta), ovverosia la forma particolarmente lunga e provante di
Compieta (la preghiera liturgica che si recita prima di coricarsi) prescritta
dall'Orologion per i giorni feriali[6] della Grande Quaresima.
Essa costituisce il fulcro della seconda sezione dell'ufficiatura[7], chiudendo e idealmente
completando la recita dei salmi penitenziali 50 e 101.
Attestazioni e ipotesi sulla
data di composizione
Tradizionalmente, gli studiosi attribuivano la redazione di
questa preghiera, che andrebbe a supplire il testo della prece cui II Paral.
XXXIII, 18 accenna senza riportarlo, all’ambiente giudaico di lingua greca del
II-I secolo a.C., a “uno sconosciuto scrittore di capacità e pietà non comuni”[8]. Tuttavia, la maggior
parte degli autori moderni tendono a postdatarla agl’inizi dell’Era Cristiana,
soprattutto perché non vi sono attestazioni certe anteriori al IV secolo.
La preghiera è compresa in tutte le più antiche redazioni del
Libro delle Odi, ovvero nei Codici Veronensis
(R) e Turicensis (T), rispettivamente
del VI e del VII secolo; nondimeno, essa circolava autonomamente già qualche
secolo[9]: una versione è presente
nel famoso Codex Alexandrinus (Londra,
British Library, MS Royal 1. D. V-VIII; Gregory-Aland n. A o 02) della Septuaginta[10], datato generalmente al
IV-V secolo. Tuttavia, la sua redazione potrebbe essere ancora anteriore, e afferire
piuttosto all’ambiente siriaco: già nel III secolo la Didascalia sira cuciva IV Re, XXI,1-16 con una preghiera di
Manasse, senza dare segno alcuno di dipendenza da fonte estranea. La stessa preghiera
appare, con qualche modifica, nelle di poco successive Constitutiones Apostolorum[11]. “Tutto converge – scrive
padre Nau agl’inizi del secolo scorso – a fare supporre che la prima origine della
recensione attuale rimonti appunto alla Didascalia:
per tal modo la Siria e il secolo III potrebbero essere assegnati a luogo e tempo
della sua composizione”[12]. Più prudente è il
giudizio del gesuita statunitense Harrington, il quale afferma non esservi
elementi per identificare in modo preciso una data, se non che sicuramente essa
dev’essere compresa tra la redazione del II Libro delle Cronache e l’attestazione
nei manoscritti siriaci (un intervallo di oltre sei secoli!); inoltre, egli avanza
alcuni dubbi sull’attribuzione della preghiera agli ambienti cristiani, al di
là della datazione: “Dacché non vi sono riconoscibili elementi Cristiani, [la
preghiera] fu probabilmente composta da un Giudeo di lingua greca. Non è
impossibile, comunque, che un autore Cristiano, immedesimandosi in Manasse,
abbia potuto scrivere questa preghiera in stile giudaico. L’uso di frasi della
Septuaginta da parte dell’autore suggerisce, quale data per la composizione
originaria, il periodo attorno al volgere dell’era, ancorché non si possa avere
maggior precisione in questo campo”[13].
Particolarmente interessante risulta l’attestazione scoperta nel
2004 da un gruppo di archeologi dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che ha ritrovato
su una parete nascosta di una stanza sotterranea di una casa a Hierapolis di Frigia
(nell’attuale Turchia) un’iscrizione datata al V secolo contenente il testo
greco della preghiera, probabilmente in uso già allora per il rito della penitenza
oppure per gli esorcismi.
Testo dell'Ode
Testo Greco della Septuaginta[14]
Κύριε
παντοκράτορ, ὁ Θεὸς τῶν Πατέρων ἡμῶν, τοῦ Ἀβραάμ, καὶ Ἰσαάκ, καὶ Ἰακώβ, καὶ τοῦ
σπέρματος αὐτῶν τοῦ δικαίου, ὁ ποιήσας τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν σύν παντὶ τῷ κόσμῳ
αὐτῶν, ὁ πεδήσας τὴν θάλασσαν τῷ λόγῳ τοῦ προστάγματος, σου, ὁ κλείσας τὴν ἄβυσσον,
καὶ σφραγισάμενος αὐτὴν τῷ φοβερῷ καὶ ἐνδόξῳ ὀνόματί σου, ὃν πάντα φρίσσει καὶ
τρέμει ἀπὸ προσώπου τῆς δυνάμεώς σου, ὅτι ἄστεκτος ἡ μεγαλοπρέπεια τῆς δόξης
σου, καὶ ἀνυπόστατος ἡ ὀργὴ τῆς ἐπὶ ἁμαρτωλοῖς ἀπειλῆς σου, ἀμέτρητόν τε καὶ ἀνεξιχνίαστον
τὸ ἔλεος τῆς ἐπαγγελίας σου. Σὺ γὰρ εἶ Κύριος ὕψιστος, εὔσπλαγχνος, μακρόθυμος,
καὶ πολυέλεος, καὶ μετανοῶν ἐπὶ κακίας ἀνθρώπων. Σύ, Κύριε, κατὰ τὸ πλῆθος τῆς
χρηστότητός σου ἐπηγγείλω μετάνοιαν, καὶ ἄφεσιν τοῖς ἡμαρτηκόσι σοι, καὶ τῷ πλήθει
τῶν οἰκτιρμῶν σου ὥρισας μετάνοιαν ἁμαρτωλοῖς εἰς σωτηρίαν. Σὺ οὖν, Κύριε, ὁ Θεὸς
τῶν δυνάμεων, οὐκ ἔθου μετάνοιαν δικαίοις, τῷ Ἀβραάμ, καὶ Ἰσαάκ, καὶ Ἰακώβ, τοῖς
οὐχ ἡμαρτηκόσι σοι, ἀλλ' ἔθου μετάνοιαν ἐπ' ἐμοὶ τῷ ἁμαρτωλῷ, διότι ἥμαρτον ὑπὲρ
ἀριθμὸν ψάμμου θαλάσσης. Ἐπλήθυναν αἱ ἀνομίαι μου, Κύριε, ἐπλήθυναν αἱ ἀνομίαι
μου, καὶ οὐκ εἰμὶ ἄξιος ἀτενίσαι, καὶ ἰδεῖν τὸ ὕψος τοῦ οὐρανοῦ, ἀπὸ τοῦ πλήθους
τῶν ἀδικιῶν μου, κατακαμπτόμενος πολλῷ δεσμῷ σιδηρῷ, εἰς τὸ μὴ ἀνανεῦσαι τὴν
κεφαλήν μου, καὶ οὐκ ἔστι μοι ἄνεσις, διότι παρώργισα τὸν θυμόν σου, καὶ τὸ
πονηρὸν ἐνώπιόν σου ἐποίησα, μὴ ποιήσας τὸ θέλημά σου, καὶ μὴ φυλάξας τὰ προστάγματά
σου. Καὶ νῦν, κλίνω γόνυ καρδίας, δεόμενος τῆς παρὰ σοῦ χρηστότητος. Ἡμάρτηκα,
Κύριε, ἡμάρτηκα, καὶ τὰς ἀνομίας μου ἐγὼ γινώσκω, ἀλλ' αἰτοῦμαι δεόμενος. Ἄνες
μοι, Κύριε, ἄνες μοι, καὶ μὴ συναπολέσῃς με ταῖς ἀνομίαις μου, μηδὲ εἰς τὸν αἰῶνα
μηνίσας τηρήσῃς τὰ κακά μοι, μηδὲ καταδικάσῃς με ἐν τοῖς κατωτάτοις τῆς γῆς· διότι
σὺ εἶ Θεός, Θεὸς τῶν μετανοούντων, καὶ ἐν ἐμοὶ δείξεις πᾶσαν τὴν ἀγαθωσύνην
σου, ὅτι ἀνάξιον ὄντα, σώσεις με κατὰ τὸ πολὺ ἔλεός σου, καὶ αἰνέσω σε διὰ παντὸς
ἐν ταῖς ἡμέραις τῆς ζωῆς μου. Ὅτι σὲ ὑμνεῖ πᾶσα ἡ δύναμις τῶν οὐρανῶν, καὶ σοῦ ἐστιν
ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας τῶν αἰώνων. Ἀμήν.
Versione Latina di S. Girolamo[15]
Domine omnipotens, Deus patrum nostrorum,
Abraham, et Isaac, et Jacob, et seminis eorum justi, qui fecisti cælum et
terram cum omni ornatu eorum, qui ligasti mare verbo præcepti tui, qui
conclusisti abyssum, et signasti eam terribili et laudabili nomine tuo: quem
omnia pavent, et tremunt a vultu virtutis tuæ, quia importabilis est
magnificentia gloriæ tuæ, et insustentabilis ira comminationis tuæ super
peccatores: immensa vero et investigabilis misericordia promissionis tuæ:
quoniam tu es Dominus, altissimus, benignus, longanimis, et multum misericors,
et pœnitens super malitias hominum. Tu Domine, secundum multitudinem bonitatis
tuæ, promisisti pœnitentiam et remissionem iis, qui peccaverunt tibi, et
multitudine miserationum tuarum decrevisti pœnitentiam peccatoribus, in
salutem. Tu igitur Domine Deus justorum, non posuisti pœnitentiam justis, Abraham,
et Isaac, et Jacob, iis qui tibi non peccaverunt; sed posuisti pœnitentiam
propter me peccatorem: quoniam peccavi super numerum arenæ maris: multiplicatæ
sunt iniquitates meæ Domine, multiplicatæ sunt iniquitates meæ, et non sum
dignus intueri et aspicere altitudinem cæli, præ multitudine iniquitatum
mearum. Incurvatus sum multo vinculo ferreo, ut non possim attollere caput
meum, et non est respiratio mihi: quia excitavi iracundiam tuam et malum coram
te feci: non feci voluntatem tuam, et mandata tua non custodivi: statui
abominationes, et mutiplicavi offensiones. Et nunc flecto genu cordis mei,
precans a te bonitatem. Peccavi, Domine, peccavi, et iniquitates meas agnosco.
Quare peto rogans te, remitte mihi Domine, remitte mihi, et ne simul perdas me
cum iniquitatibus meis; neque in æternum iratus, reserves mala mihi, neque
damnes me in intima terræ loca: quia tu es Deus, Deus, inquam, pœnitentium: et
in me ostendes omnem bonitatem tuam, quia indignum salvabis me secundum magnam
misericordiam tuam, et laudabo te semper omnibus diebus vitæ meæ: quoniam te
laudat omnis virtus cælorum, et tibi est gloria in sæcula sæculorum. Amen.
Traduzione
Italiana
O Signore
Onnipotente, Dio dei Padri nostri, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e della
loro giusta discendenza, che creasti il cielo e la terra con tutto ciò che li
orna, che incatenasti il mare con la parola del tuo comando, che chiudesti
l’abisso e lo sigillasti col tuo nome terribile e glorioso, per il quale ogni
cosa trema e rabbrividisce al cospetto della tua potenza, poiché insostenibile
è la magnificenza della tua gloria, e non si può resistere al furore della tua
minaccia sui peccatori, e incommensurabile e imperscrutabile è la misericordia
della tua promessa. Tu infatti sei il Signore altissimo, compassionevole,
longanime, molto misericordioso, e che si pente delle malvagie azioni degli
uomini. Tu, o Signore, secondo la tua multiforme bontà, promettesti conversione
e perdono per quanti hanno peccato contro di te, e, nella moltitudine delle tue
misericordie, stabilisti la penitenza per i peccatori al fine della loro
salvezza. Tu dunque, Signore, Dio delle potenze, non prescrivesti la penitenza ai
giusti, per Abramo, per Isacco e per Giacobbe, che non hanno peccato contro di
te, ma stabilisti la penitenza per me peccatore, perocché i miei peccati
superano in numero i granelli della sabbia del mare. Si sono moltiplicate le
mie iniquità, o Signore, si sono moltiplicate le mie iniquità, e non son degno
di volger lo sguardo e mirare alla vetta del cielo, per la moltitudine delle
mie ingiustizie son piegato da una pesante catena di ferro, talché non posso
sollevare il capo, e non v’è per me sollievo veruno, in quanto ho provocato la
tua ira, e ho operato il male anzi a te, non compiendo la tua volontà, e non
serbando i tuoi precetti. E ora piego il ginocchio del mio cuore, rivolgendo
una supplica alla tua bontà. Ho peccato, Signore, ho peccato, e conosco le mie
iniquità, ma supplice ti rivolgo la mia preghiera: Perdonami, Signore,
perdonami, non perdermi a cagione delle mie iniquità, né, sdegnato in eterno,
serba memoria delle mie azioni malvagie, e non condannarmi alle profondità
della terra: poiché tu sei Dio, Dio di coloro che si pentono, e mostrerai in me
tutta la tua bontà, poiché, quantunque indegno, mi salverai secondo la tua
grande misericordia, e ti loderò incessantemente per tutti i giorni della mia
vita. Poiché inneggia a te ogni potenza celeste, e tua è la gloria nei secoli
dei secoli. Amen.
Analisi del testo
Scrive il grecista e biblista
metodista statunitense David A. deSilva: “La richiesta di perdono comincia con
una meravigliosa immagine dell’umiltà del cuore: ‘Piego il ginocchio del mio
cuore’. Quest’affermazione si staglia in un marcato contrasto con l’hybris di cui Manasse fece mostra nel
suo primiero disprezzo per il divieto divino dell’idolatria. Un altro
riconoscimento del proprio peccato, ‘Ho peccato, Signore, ho peccato’ è poeticamente
bilanciato dalla supplica ‘Perdonami, Signore, perdonami’. La richiesta si conclude
identificando Dio come ‘Dio dei penitenti’, che è un modo del tutto originale
di descrivere Dio, un sottile contraltare del ‘Dio dei giusti’ e un’espressione
della convinzione che il Dio di tutti non cessa di essere Dio di coloro che
cadono dal cammino nella via del Signore. In qualità di loro Creatore, e Unico
che li aspetta, pronto a perdonare e a restaurare coloro che umiliano se stessi
e si volgono dal loro cammino peccaminoso, Dio rimane il loro Dio” [16].
Con queste parole, egli pregevolmente
descrive la raffinata costruzione, equilibrata e lirica, che caratterizza il componimento
(non a caso inserito tra le Odi poetiche), i sapientemente studiati parallelismi,
gli epiteti ricchi di significati profondi e inediti, le petizioni accorate che
descrivono mirabilmente lo stato di prostrazione del peccatore pentito,
iconizzato nel re giudeo. Il redattore della preghiera usa il linguaggio dei
salmi: sono innumerevoli le citazioni dal salmo 50, che costituisce un
parallelo esatto di questa preghiera, in quanto è la richiesta di perdono di un
altro re d’Israele, Davide, che aveva concupito Betsabea, moglie di Uria
l’Ittita. Non mancano tuttavia sintagmi tratti dalla Genesi, soprattutto nella
prima parte, una sorta di captatio
benevolentiæ che descrive le mirabili azioni del Creatore e inneggia alla
sua potenza, e da altri passi scritturali. Le immagini impiegate nella preghiera
sono molto forti (oltre al succitato “ginocchio del cuore”, si pensi alla
“pesante catena di ferro” rappresentata dal vincolo del peccato), colpiscono
immediatamente la mente e il cuore del lettore e ancor più dell’orante che usa
le parole di questa preghiera per segnare la propria conversione e supplicare
la misericordia divina. Da un punto di vista linguistico, è presente una rara subordinazione,
talché prevalgono costruzioni paratattiche, secondo lo stile tipico delle
Scritture, con una ricca coordinazione per polisindeto, mediante la quale
vengono ora giustapposti e ora contrapposti i concetti fondamentali
dell’orazione, creando una struttura chiara, quasi ritmata, facile da memorizzare
e da interiorizzare.
[1] Re
di Giuda, secondo una dubbia lezione ricavata da IV Re, XXI, 1, salì al trono
all’età di 12 anni nel 687 a. C. al posto del padre Ezechia, e regnò per il
lunghissimo periodo di 55 anni, contemporaneo ai re assiri Sennacherib, Assarhaddon
e Assurbanipal, dei quali fu vassallo, non solo secondo la tradizione biblica,
in quanto in un’iscrizione assira viene nominato in una lista di 22 “re di
Hatti” tributari dei re d’Assiria. All'interno il suo regno fu in massima parte
una reazione netta e radicale contro il periodo di suo padre Ezechia: come
Ezechia era stato ardente fautore dello jahvismo, sotto l'ispirazione
specialmente del profeta Isaia, e ostile a influenze straniere sul nazionalismo
giudaico, così Manasse, rientrato nell'influenza della civiltà dell'Assiria
attraverso i circoli di corte che lo dominarono fino da fanciullo regnante, fu
poi ardente fautore della civiltà assira e per diretta conseguenza anche del
sincretismo idolatrico. Sotto Manasse gli dei assiri e di altre nazioni furono
veneratissimi nel regno di Giuda; nello stesso tempio di Gerusalemme furono
innalzati altari a quelle divinità e vi fu praticata anche la prostituzione
sacra (cfr. IV Re, XXIII, 3 segg.). Il dio antropofago Moloch fu onorato da Manasse
col sacrificio nel fuoco del proprio figlio (ivi, XXI, 6; cfr. XXIII, 10), ed
ebbe un luogo sacro speciale nella Valle di Hinnom. Manasse perseguitò con
grandi stragi gli jahvisti fedeli all'antico indirizzo, e la tradizione secondo
cui Isaia sarebbe stato martirizzato da Manasse, benché assai tardiva, è del
tutto verosimile, attestando la tradizione ch’egli versò sangue innocente anche
tra i profeti (cfr. Geremia, II, 30). Il solo Cronista (II Paral., XXXIII, 11
segg.) dà la notizia che, a un certo punto, Manasse fu portato dagli Assiri
prigioniero in Babilonia, ove si pentì del male commesso nei suoi giorni di
apostata, e, liberato più tardi e ritornato a Gerusalemme, passò alla corrente
profetico-jahvistica, favorendola zelantemente e dandosi a distruggere le
conseguenze del suo precedente atteggiamento. La stessa sorte di Manasse subì
dagli Assiri Necao principe di Sais sul Delta egiziano (deportato in
Mesopotamia e poi rimandato nei suoi dominî); come pure la deportazione in
Babilonia (invece che in Assiria) si spiega col fatto che il monarca assiro di
quel tempo, impadronitosi nel 648 a. C. di Babilonia, vi dimorò frequentemente
per sorvegliarla dappresso. Sembra dunque che il fatto avvenisse sotto
Assurbanipal. (cfr. G. RICCIOTTI e A. VITTI, Enciclopedia Italiana Treccani, Milano, 1934, alla voce Manasse; con integrazioni e precisazioni
dell’autore)
[2] I
due libri dei Paralipomeni (conosciuti anche come libri delle Cronache) si
propongono di essere il completamento dei quattro libri dei Re: mentre i
secondi afferiscono alla tradizione deuteronomistica, i primi invece si ascrivono
alla categoria degli scritti sacerdotali, che hanno come principale scopo la
glorificazione della fede d’Israele, del Tempio di Gerusalemme e della stirpe
di Davide vista come unità del popolo eletto. A questo scopo, il Cronista
racconta quanto afferma esser stato tralasciato dagli autori dei Libri di Re,
in un certo senso correggendo in modo celebrativo quanto potrebbe esser letto a
discapito dei discendenti di Salomone.
[3]
cfr. Daniel J. Harrington SJ, Invitation
to Apocrypha, 1999, p. 166
[4] Le
14 Odi (gr. Ὠδαί, lat. Cantica) sono:
I. Ode di Mosè (Esodo, V, 1-19); II. Ode di Mosè (Deuteronomio, XXXII, 1-43);
III. Preghiera di Anna, madre del Profeta Samuele (I Re, II, 1-10); IV.
Preghiera del Profeta Abacuc (Abacuc, III, 2-19); V. Preghiera del Profeta Isaia
(Isaia, XXVI, 9-20); VI. Preghiera del Profeta Giona (Giona, II, 3-10); VII. Preghiera
di Azaria (Daniele, III, 26-56); VIII. Cantico dei Tre Fanciulli nella fornace
(ivi, III, 57-88); IX. Cantico della Madre di Dio, conosciuto come Magnificat (Luca, I, 46-55), e Cantico
di Zaccaria, conosciuto come Benedictus
(Luca, I, 68-79); X. Ode di Isaia (Isaia, V, 1-9); XI. Preghiera di Ezechia, Re
di Giuda (Isaia, XXXVIII, 10-20); XII. Preghiera di Manasse; XIII. Ode di
Simeone, conosciuta come Nunc dimittis
(Luca, II, 29-32); XIV. Inno del Mattino.
Oltre alla preghiera di
Manasse, anche l’Inno del Mattino non è direttamente presente nella Sacra
Scrittura, ma è piuttosto una collazione di versetti, alcuni dei quali derivati
dai Salmi e che si apre con la citazione di Luca, II, 14: si tratta della
cosiddetta Dossologia Maggiore (Gloria in
excelsis) nella sua redazione greca, che aggiunge numerosi versetti a
quella latina.
[5]
Nel rito bizantino, al Mattutino si canta un Canone, legato alla festività o al
Santo celebrati, le cui odi, in numero variabile ma non superiore a nove,
traggono ispirazione (più o meno diretta) dalle prime nove Odi summenzionate:
anticamente l’intera ode biblica veniva cantata in questo momento, mentre oggi
ne resta solo un’epitome, che funge da εἰρμὸς, ovvero da modello che dà le indicazioni metriche e ritmiche
cui devono attenersi tutte le strofe dell’ode. Il Mattutino si chiude sempre
con la Grande Dossologia.
Nel rito romano, alla
seconda parte dell’ufficio mattinale (le cosiddette Laudi), dopo i primi tre
salmi viene intonato un cantico biblico, tratto proprio da quelli
veterotestamentari del Libro delle Odi, secondo uno schema diversificato giorno
per giorno (e, dopo la riforma operata da Pio X nel 1911, anche diversificato
tra periodi “normali” e penitenziali). I Cantici neotestamentari sono cantati a
compimento delle Ore principali (Benedictus
alle Laudi, Magnificat al Vespero, Nunc dimittis alla Compieta), mentre la
Grande Dossologia, pur nella versione latina ch’è notevolmente ridotta rispetto
a quella contenuta nelle Odi, si canta nei riti iniziali della Liturgia
Eucaristica nei giorni di festa.
[6]
Cioè i giorni della settimana esclusi il sabato e la domenica, che in Oriente
non sono giorni di digiuno. La tradizione religiosa conta i giorni al modo
ebraico, ovvero da tramonto a tramonto: quindi viene cantato il lunedì, il
martedì, il mercoledì e il giovedì sera (essendo rispettivamente martedì,
mercoledì, giovedì e venerdì). Non viene però cantato la domenica sera (che
sarebbe teoricamente già lunedì), come se la domenica avesse un “secondo
Vespero”.
[7]
Vengono identificate tre sezioni chiaramente distinguibili all’interno della
Grande Compieta, ciascuna delle quali introdotta dal triplice invito alla
preghiera Δεῦτε προσκυνήσωμεν καὶ προσπέσωμεν etc. (Venite, prosterniamoci e adoriamo), e ciascuna delle quali
costituita essenzialmente da alcuni salmi (6 nella prima sezione, 2 nella
seconda e nella terza) e una o più preghiere penitenziali (di S. Basilio nella
prima, di Manasse nella seconda, di S. Paolo e S. Antioco nella terza), più
alcuni componimenti ecclesiastici più o meno lunghi. Tra esse s’inframmezzano
anche la nota Preghiera di S. Efrem il Siro e, in alcuni giorni della Grande
Quaresima, il lunghissimo Canone di S. Andrea di Creta.
[8]
James King West, Introduction to the Old
Testament, Macmillan, 1971, pp. 470-471
[9] Se
ne trovano accenni anche a S. Giovanni Damasceno, che, sotto l’autorità di un
tal Africano, racconta la storia
della conversione del re Manasse in Sacra Parallela, lit. E. tit. VII; in Patr. Graeca, XCV, 1436.
[10] Frederick
G. Kenyon, Codex Alexandrinus.
London: British Museum, 1909
[11] Cfr.
Raymond E. Brown, The Jerome Biblical
Commentary, 1968, vol. 1, p. 541
[12] Fr.
Nau, Un extrait de la Didascalie: la
prière de Manassé, in Rev. Orient
Chrét., 1908, p. 140
[13] Daniel
J. Harrington SJ, Harper's Bible
Commentary, Society of Biblical Literature, 1988, p. 872
[14]
Cfr. Septuaginta. Id est Vetus
Testamentum Graece juxta LXX Interpretes, Stuttgart, Wurttembergische
Bibelanstalt, 1935
[15]
Cfr. Biblia Sacra Vulgatæ Editionis Sixti
V. Pontificis Maximi jussu recognita, et Clementis VIII. auctoritate edita, Lugduni, apud Perisse Fratres, 1830.
[16]
David A. deSilva, Introducing the
Apocrypha, 2002, p. 299
Nessun commento:
Posta un commento