sabato 24 ottobre 2020

Alcune note critiche sulla festa di Cristo Re

Ricorre oggi una festa molto amata dal mondo cattolico "tradizionalista", non solo perché coincidente con un noto pellegrinaggio romano quest'anno (fortunatamente) annullato, bensì perché massima espressione della "dottrina sociale della Chiesa" molto in voga nel cattolicesimo del XX secolo: la festa di Cristo Re.

Non sorprende poi molto che i "tradizionalisti" insistano nel difendere una festa assolutamente recente, stabilita solo nel 1925 con l'enciclica Quas primas di Pio XI e del tutto priva di precedenti storici; né che essi se la prendano con la leggera traslazione di significato che questa festa ha avuto nella riforma di Paolo VI (spesso esemplificata nella cattiva traduzione italiana "Re dell'universo" per Rex universorum, a voler sottrarre il valore sociale da loro tanto amato). Purtroppo, un'analisi rigorosa della festa e dei suoi testi troverà ben pochi argomenti in difesa della stessa.

Partiamo dal fatto che l'identificazione di Cristo con un Re è assai presente nella Sacra Scrittura, dai salmi (pss. 92-98) al Vangelo, fino alla Lettera agli Ebrei. Tuttavia, Cristo stesso insiste ripetutamente nello spiegare che il suo regno non è di questo mondo: il Regno dei Cieli, il Regno di Dio, è una realtà totalmente altra rispetto a questo mondo, che il Cristiano deve far suo già in questo mondo ricercando la grazia, ma che resta comunque disgiunto e contrapposto alla dimensione terrena. Ciò non significa ovviamente che il Cristiano non debba curarsi del fatto che questo mondo segua, per quanto possibile, le leggi di Dio, ma nella consapevolezza che il mondo cui apparteniamo è un altro. Un punto fondamentale della contrapposizione tra giudaismo e cristianesimo nell'età apostolica fu l'interpretazione del Messia, dai primi come un re del mondo terreno, dai secondi come il Re celeste della pace. Certamente l'onnipotenza di Dio comporta il suo essere sovrano di tutte le cose, anche di questo mondo, ma sempre in una prospettiva ultramondana che è fondamentale nel Cristianesimo. L'icona tradizionale (sopra) di Cristo Βασιλεὺς Βασιλέων καὶ Μέγας Ἀρχιερεύς (Re dei Re e Sommo Sacerdote) rappresenta il Salvatore nelle vesti liturgiche, di un'azione mistica che punta a distaccare dal mondo e proiettare nel Regno Celeste (e si appone peraltro sul trono del vescovo), per significare che la Sua regalità, pur estendendosi su questo mondo, è altra rispetto a questo mondo.

In secondo luogo, la Tradizione esalta la regalità di Cristo, anche nella sua dimensione di Signore d'ogni cosa, in ben tre feste: l'Epifania, la Crocifissione e l'Ingresso trionfale in Gerusalemme. In quest'ultima occasione, il prefazio di benedizione delle palme della tradizione romana (soppresso nel 1955) esprime molto chiaramente come tutte le potenze della terra siano soggette all'imperio sovraceleste di Cristo. Dunque, come già qualcuno rimarcò all'epoca di Pio XI, la Tradizione ha già i mezzi di onorare la regalità autentica di Cristo, senza bisogno dell'introduzione di una nuova celebrazione. Le feste predette, soprattutto, esprimono la regalità di Cristo nel contesto di un avvenimento storico, mentre la nuova festa di Cristo Re lo fa in modo astratto, come festa d'idea, che come abbiamo già spiegato conviene poco al culto cristiano (cfr. qui).

Un'icona che rappresenta insieme le tre feste della regalità di Cristo.
Si badi che la tradizione bizantina ricorda l'adorazione dei magi nel giorno di Natale, e non in quello della Teofania, laonde è spiegata la scelta della prima immagine.

In terzo luogo, la festa è, sin dalle sue origini più remote, ovvero da quando nel 1899 quarantanove vescovi, sollevati da p. Sanna Solaro SJ, scrissero a Papa Leone XIII per l'istituzione di una festa di tal schiatta, legata al culto del Sacro Cuore e alla consacrazione del genere umano al Cuore di Cristo. La polisemanticità del culto al Sacro Cuore, introdottosi pericolosamente da devozione popolare nella liturgia, alternativamente come una devozione eucaristica o una devozione doloristica della Passione, e successivamente conformatosi allo spirito popolare di culto sentimentalista e psicologista, assume qui una nuova forma che solleva non pochi dubbi. In tutta la messa e l'ufficio ricorrono numerosi i rimandi al Sacro Cuore, culto sconosciuto agli Apostoli, ai Padri e ai santi di quindici secoli, ed eppure divenuto in quei decenni il nuovo insostituibile centro della latria cattolica.

Dopo aver commentato l'idea della festa, veniamo alla festa in sé, a partire dai suoi testi e dalla sua collocazione. Si ordina di celebrarla in una domenica, appena 12 anni dopo una riforma che aveva combattuto per eliminare dalle domeniche quante più feste possibile. Nel 1955, per effetto delle nuove rubriche, la festa addirittura giunge a sopprimere interamente la domenica, annullandone la commemorazione e l'Ultimo Vangelo che prima, almeno, si conservavano. L'ufficio della V domenica di ottobre inizia nel 1925 il suo cammino verso la scomparsa. Le correlazioni cercate ex post con le letture del II Libro dei Maccabei che occorrerebbero questa domenica, oppure con la successiva festa d'Ognissanti, non paiono sempre convincenti.

Ai Vespri il capitolo, un passo della lettera ai Colossesi in cui san Paolo ricorda come la Risurrezione di Cristo ci abbia trasportati dal regno di questo mondo a quello sovraceleste e spirituale del Figlio, stride decisamente con l'inno di modernissima composizione che esalta Cristo come un imperatore del secolo. L'obiettivo dichiarato di Pio XI è combattere il secolarismo che nei primi decenni del Novecento aveva imperversato, ad esempio, in Spagna, Portogallo e Messico, portando agli eccessi una tendenza anticlericale già in voga da un secolo e mezzo in tutta Europa. Yves Chiron (Pio XI. Il papa dei Patti Lateranensi e dell'opposizione ai totalitarismi, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006) sostiene che Pio XI nell'introdurre questa festa fosse pure animato dal desiderio di contrapporsi ai totalitarismi: il che mi pare leggermente implausibile, dacché sia il totalitarismo sovietico (in piena guerra civile tra Stalin e Trotskij) che quello mussoliniano (la proclamazione delle leggi fascistissime sarebbe iniziata pochi giorni dopo l'enciclica) erano appena agli albori, e il resto d'Europa era lungi dal conoscerli. Sicuramente l'idea totalitarista era molto in voga nelle teorie filosofiche e politiche dell'epoca, ma è da dubitare che la Chiesa ne avesse compreso allora la pericolosità per sé. D'altro canto, anche ammettendo che al totalitarismo volesse opporsi, il compositore dell'ufficio da esso stesso era influenzato, poiché l'inno dei Vespri, piuttosto che riproporre un modello di monarchia d'ancient regime o il più tradizionale impero cristiano, presenta Cristo come il capo di uno stato totalitario, che deve sottomettere i ribelli, arbitrare sulle menti e sui cuori, essere riverito da maestri e giudici e cantato da leggi e arti. Non manca un accenno ambiguo al concetto di patria, che per il Cristiano dovrebbe essere quella sovraceleste o - al più - l'Imperium christianum universale, e non lo stato-nazione ottocentesco come la lettera del testo sembra suggerire.

Sullo stesso tenore prosegue l'inno del Mattutino: Cristo jure cunctis imperat, e la felicità dei cittadini (altro termine ambiguo, che appare avere un senso ben diverso dal suo impiego in civium supernorum che si avrà alla terza benedizione del terzo notturno) è essere sottomessi alle sue leggi. Non sono i concetti a essere ripudiandi, quanto piuttosto il modo in cui sono espressi, che tradiscono una concezione decisamente secolare della monarchia di Cristo. Nel secondo notturno la consueta autoreferenzialità dei Papi di Otto-Novecento c'invita a leggere, anziché gli ammonimenti di un Padre della Chiesa, l'enciclica di Pio XI. L'inno delle Lodi sembra aggiustare il tiro rispetto ai suoi omologhi, e ricorda che nel regno di Cristo non sono la violenza e l'armi a trionfare, ma l'amore e la pace segnate dalla croce; tuttavia, non può mancare un accenno alla visione sociale della "buona famiglia" cattolica dove la gioventù è pudica e fioriscono le virtù domestiche. Cose molto belle, ma forse non proprio adatte a un inno che si canta in coro (pardon, vista l'epoca dovrei dire "che un prete legge distrattamente da un breviario") e che non ha lo scopo precipuo di essere un catechismo sociale.

Se la colletta e la segreta si mantengono abbastanza equilibrate, uno spirito di ardore crociato si ravviva nel Postcommunio. Nel Vangelo (Giovanni 18,33-37), Nostro Signore ricorda a Pilato che il suo regno non è di quaggiù: è da supporre che questa frase nella predica immediatamente seguente venisse non di rado ignorata, se non ribaltata. Il Prefazio, con un latino ampolloso e nient'affatto scorrevole, adopera verbose costruzioni per ricordare l'unzione regale del Messia e l'instaurazione del suo Regno eterno e universale. Prendere il prefazio delle Palme e trasporlo avrebbe - oltreché evitato la moltiplicazione dei prefazi che nel Novecento si era iniziata in modo contrario alla millenaria economia del rito romano - fatto la gioia di ogni latinista, non costretto a sentire lo stridente contrasto tra un mal riuscito stile classicheggiante di moda all'epoca e la contemporanea violazione delle norme grammaticali del latino ciceroniano.

E mentre il mondo cattolico "tradizionalista" si prepara a difendere come ogni anno la sua festa degli anni '20, noialtri, affermando, come ogni domenica, nel verso di prostrazione delle Laudi (che poi è il prochimeno del Vespro del sabato sera nel rito bizantino) che "il Signore regna, si è rivestito di splendore", e chiedendogli come il Buon Ladrone che si ricordi di noi nel suo Regno sovraceleste ed eterno, ci prepariamo a celebrare il settimanale memoriale della Risurrezione riassumendo per la prima volta dal 27 settembre i paramenti verdi, e commemorando i santi martiri Crisanto e Daria, e i santi martiri Crispino e Crispiniano, resi arcinoti dalla battaglia di Azincourt.

venerdì 16 ottobre 2020

Si è addormentato in Cristo il Metropolita Gennadio

Il Circolo Traditio Marciana si unisce al cordoglio per la scomparsa di Sua Eminenza Reverendissima l'Arcivescovo d'Italia e di Malta, il Metropolita Gennadio, occorsa questa mattina dopo un repentino peggioramento delle sue condizioni di salute, da qualche tempo instabili.

Il Metropolita Gennadio, in Italia dal 1970, è stato eletto Arcivescovo d'Italia nel 1996. Durante il suo episcopato, ha fondato oltre 50 parrocchie e 5 monasteri, e ha restaurato l'antico monastero di San Giorgio a Venezia.

Questo pomeriggio il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo ha offerto in suo suffragio un Trisagio nella Chiesa di S. Giorgio al Fanar a Costantinopoli (vedi). L'Arcidiocesi comunicherà prossimamente le informazioni per le esequie.

Αἰωνία ἡ μνήμη Αὐτοῦ!
Νὰ ἔχουμε τὴν εὐχήν Tου.

martedì 6 ottobre 2020

MEMOR ERO TVI JVSTINA VIRGO

7 ottobre - S. Giustina di Padova, vergine e martire

Nonis Octobris Justinae templa quotannis
   Sacra solent Veneti visere, Duxque Patres.
Namque die hac Urbi insignis Victoria, & Orbi
   Toti habita est semper gaudia summa ferens.
Lux fuit haec omni per tempora cuncta fideli
   Gloria, Laus, & honor, gratia, paxque salus.
Turcarum vires omnes depressit, & hostes
   Militibus paucis dextera Sancta Dei.
Idque pius nobis praesertim praestitit almae
   Virginis istius motus amore Deus.
Haec prece protetrix nostros miserata labores
   Sollicita, Christum flexit, ut ista duret.

Il sette ottobre, ogni anno, soglion visitare
   il sacro tempio di Giustina i Veneti, il doge e i senatori.
Infatti in questo giorno una insigne Vittoria si ottenne
   per la Città e per il Mondo intero, che sempre porta grandissime gioie.
Questa luce risplendé, in ogni tempo, per ciascun fedele,
   gloria, lode e onore, grazia, pace e salvezza.
Abbatté tutte le forze dei Turchi, e i nemici abbatté
   con pochi uomini la santa destra di Dio.
E questo ce lo concedé Iddio soprattutto
   perché commosso dall'amore di quest'alma vergine.
Ella, nostra protettrice, avendo avuto pietà delle nostre sofferenze,
   sollecita con la preghiera piegò Cristo, affinché si salvasse questa Repubblica.

Epigramma in distici elegiaci di Enrico Sottovelo, riportato dal Sansovino (F. SANSOVINO - G. MARTINONI, Venetia, città nobilissima et singolare, Venezia, Curti, 1663, pp. 514-515).

Paolo Veronese, Martirio di S. Giustina, 1570-75,
Galleria degli Uffizi (Firenze)

***

La festa di S. Giustina è una festa doppia, e il suo colore liturgico è rosso. Giustina era una cristiana della civitas romana di Patavium (Padova), convertita secondo la tradizione dal primo vescovo della città S. Prosdocimo (ma più probabilmente da un suo successore, visto che S. Prosdocimo visse tra il I e il II secolo) e martirizzata a fil di spada sul Ponte Corvo per ordine del prefetto Massimiano il 7 ottobre del 304, durante la grande persecuzione di Diocleziano. Nel corso del VI secolo il prefetto del pretorio Venanzio Opilione fece erigere un sacello sulla sua tomba, ove furono riposti anche il corpo di S. Prosdocimo e quello di un altro martire padovano di IV secolo di nome Daniele, e sopra il quale sarà eretta in seguito la maestosa basilica benedettina intitolata alla medesima santa. Il suo culto si diffuse rapidamente in varie zone dell'Italia settentrionale (è per esempio presente nella teoria delle vergini nei mosaici di S. Apollinare Nuovo a Ravenna), e anche a Venezia, ove il vescovo di Oderzo S. Magno (580-670), rifugiatosi nel territorio lagunare con i suoi fedeli, fece ivi erigere otto chiese, tra cui una dedicata proprio a santa Giustina, che gli era apparsa in sogno [1].

Il sacello di S. Prosdocimo nella cripta di S. Giustina. I corpi del santo vescovo e della santa martire si trovano nell'altare di destra. Si noti la forma arcaica della pergula.

L'attuale monumentale Basilica di S. Giustina vista dal Prato della Valle

La teoria delle Vergini a S. Apollinare Nuovo.
S. Giustina è l'ultima a destra.

Il 7 ottobre del 1571 la flotta della Lega Santa, di cui Venezia costituiva parte preminente, ottenne la vittoria su quella ottomana nella battaglia di Lepanto (Naupatto). Il trionfo fu attribuito alla benigna intercessione presso Dio della Madre di Dio (in cui onore una festa, detta "della Madonna della Vittoria", fu istituita la prima domenica di ottobre) e della santa che a Venezia si ricordava particolarmente quel giorno, e cioè S. Giustina, nominata pertanto patrona secondaria della città. In occasione della vittoria, infatti, il Senato Veneto deliberò: "Non arma, non duces, non virtus, sed Maria Rosarii victores nos fecit", ma d'altra parte fece coniare una moneta commemorativa (un'osella per la precisione) alla martire patavina, sulla quale in epigrafe era riportato un verso endecasillabo: MEMOR ERO TVI IVSTINA VIRGO, ovvero "Mi ricorderò di te, o vergine Giustina". E proprio per serbare la memoria della potente intercessione della santa, la Repubblica decretò il 7 ottobre "Festa di Palazzo", a cui cioè tutta la corte dogale e il clero urbano dovevano prendere parte, mentre, si noti, non era tale la festa della Madonna della Vittoria - o del Rosario come fu in seguito denominata - la prima domenica di ottobre [2]. 

La "Giustina" del 1574.
recto: MEMOR ERO TVI IVSTINA VIRGO.
verso: S(anctus)•M(arcus)•VENETVS ALOY(sio)•MOCE(nigo)
B(enedictus) * P(isani) [massaro]

Paolo Veronese, Allegoria della Battaglia di Lepanto, 1572-73,
Gallerie dell'Accademia (Venezia).
Si noti, in primo piano tra gli intercessori presso Dio, S. Giustina,
con in mano la spada simbolo del suo martirio.

La festa, di rito doppio, inizia ovviamente ai I Vespri la sera del 6 ottobre. Tutto si prende dal Comune di una Vergine Martire, eccetto l'orazione propria. Si cantano le commemorazioni del secondo Vespro della precedente festa doppia di S. Magno di Oderzo, della seguente festa di S. Marco Papa e martire e della seguente festa dei Ss. Marcello e Apuleio martiri. La memoria dei santi Sergio e Bacco,  tradizionalmente fissata il 7 ottobre, a Venezia è perpetuamente traslata al 12 dello stesso mese per poter godere di ufficio pieno, in quanto essi furono i primi titolari della Cattedrale di Olivolo (quella che poi, con la nuova dedicazione avvenuta nel X secolo, diverrà S. Pietro di Castello) [3].

Al Mattutino si cantano tre lezioni proprie nel II Notturno, nelle quali è raccontata la vicenda del martirio della vergine (IV-V lezione), e la storia delle sue reliquie (VI lezione). Ivi si menziona una pietra del ponte ove la santa subì il martirio, recante le impronte dei suoi piedi, che si trovava nella chiesa a lei dedicata a Venezia - secondo il Sanudo - sin dai tempi del doge Pietro Ziani (XIII secolo) [4]. La V lezione si chiude con le seguenti parole: Quem diem [Nonas Octobres] Virginis festum pia Respublica Veneta augustius celebra[ba]t ob victoriam Christianorum ad Echinadas insulas de Turcis ipso reportatam [5].  

Udita nella Ducale Basilica la Messa solenne (Loquebar) cantata da un Canonico, alla quale prendeva parte la Cappella Marciana, il Doge, insieme alla sua corte, alle Scuole, agli ordini religiosi, e al clero delle Nove Congregazioni, in solenne processione (probabilmente lungo il Rio della Pietà), portando i vessilli sottratti ai Turchi durante la battaglia, si recavano alla Chiesa di S. Giustina, ove veniva solennemente cantato il Te Deum, preceduto dall'antifona Exaudi nos [6].

La festa, pur essendo doppia, si conclude a Nona, poiché in serata si canta il Vespro della seguente festa della Dedicazione della Ducale Basilica di S. Marco, che è doppia di I classe con ottava, senza alcuna commemorazione.

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Negli anni successivi alla caduta della Repubblica, la figura di S. Giustina iniziò a essere obliata dai Veneziani. Alla scomparsa della pubblica processione si aggiunse poco dopo la devastazione della chiesa ad opera di Napoleone, che la portò a essere sconsacrata nel 1810, trasformata in scuola militare nel 1844 (con conseguente distruzione del frontone della pregiata facciata in pietra d'Istria) e nel 1924 in liceo scientifico, intitolato al matematico veneto Giambattista Benedetti. Degl'interni dell'edificio nulla ormai rimane: allo scempio fu fortunatamente salvata l'insigne reliquia della pietra succitata, che fu posta nella vicina chiesa di S. Francesco della Vigna.



La chiesa di S. Giustina a Venezia rispettivamente in un'incisione del Carlevarijs del 1722; in una coeva del Lovisa; il resto della facciata ai giorni nostri (si noti la scritta "Liceo Scientifico" sopra la porta)

La memoria della santa scomparve definitivamente quando la riforma di Pio X assegnò al 7 ottobre la festa, sinora celebrata la prima domenica di ottobre, della Madonna del Rosario. Nel Proprium Officiorum pro Venetiarum Patriarchatu del 1915, curato dal Patriarca La Fontaine, che fu uno dei protagonisti della commissione piana di riforma del Breviario, la festa della santa patrona è infatti del tutto assente, pur non essendo stata formalmente rimossa dall'elenco dei patroni della città. A Padova, dove ella è pure patrona, la sua festa è osservata il 7 ottobre come doppia di II classe, con la traslazione al giorno successivo della Madonna del Rosario. Certamente però la riforma piana, e particolarmente la sua imprudente applicazione centralista a discapito del proprio locale in questo contesto, contribuirono a obliare una delle figure che per oltre due secoli a Venezia era stata ricordata coi massimi onori.

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NOTE

[1] Questa è la versione narrata dal Chronicon Gradense. Il Chronicon Altinate racconta invece che sarebbe apparsa al vescovo Mauro di Torcello.

[2] G. GALLICCIOLLI, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, vol. II, Venezia, Fracasso, 1795, pp. 165-168

[3] Nel Kalendarium Venetum dell'XI secolo i santi Sergio e Bacco sono riportati al 7 ottobre insieme a S. Giustina (che è pure in seconda posizione). A quel tempo però, pur celebrata localmente, la santa non godeva del prestigio che acquisì in seguito nella Repubblica, e dunque era quasi certamente solo commemorata nella gran festa dei due soldati martiri. Cfr. R. D'ANTIGA, "Il Kalendarium Venetum XI saeculi. Influssi bizantini nella religiosità veneziana", in Thesaurismata 43 (2013), pp. 9-59.

[4] M. SANUDO, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, a cura di A. Caracciolo Arricò, Milano, 1980, p. 163.

[5] Il verbo è all'imperfetto nei Breviari stampati dopo la caduta della Repubblica, cfr. infra.

[6] F. SANSOVINO - G. MARTINIONI, Venetia, città nobilissima et singolare, op. loc. cit.; F. CORNER, Notizie storiche delle chiese e dei monasteri di Venezia e Torcello, Padova, Stamperia del Seminario, 1739, p. 38; J.W. GOETHE, Ricordi di viaggio in Italia, trad. it. A. Di Cossella, Milano, Manini, 1875, pp. 84-85.

domenica 4 ottobre 2020

Una inquietante "preghiera" papolatrica

di Luca Farina

In tempi di grande confusione circa la fede, si assiste sempre di più ad uno strano ed inquietante “scambio di ruoli” tra Dio e il Papa. Tutto ciò è pericoloso poiché mentre si riduce il Signore Onnipotente ad un semplice amico, o peggio un’entità astratta, al tempo stesso si eleva, in una strana theosis tutta compiuta dall’uomo e non dalla grazia, la figura del Sommo Pontefice. Ci si indigna, giustamente, nel vedere quello che accade in alcune chiese sudamericane in cui la statua di Papa Francesco viene incensata, mentre l’Augustissimo Sacramento viene trasportato su droni, e questo sentimento è compreso da molti “tradizionalisti”: ma a costoro farebbe lo stesso effetto se tutto ciò fosse stato fatto negli anni ’50 (l’età dell’oro per taluni) con Pio XII o nel 2007 con Benedetto XVI? Invero, la tendenza papolatrica non nasce certo nel 2013, ma è un insieme di tappe, di cui talune già sono state affrontate su questo blog (come l’introduzione del comune dei Sommi Pontefici nel 1942, vedasi qui). Proponiamo ora un caso interessante di una preghiera indirizzata a Pio IX, spesso esaltato dai “tradizionalisti” ma, purtroppo, vero riformatore in senso liberale della Chiesa.


Papa Pio IX durante una messa prelatizia

L’autore di essa fu il giornalista francese Louis Veuillot. Nacque a Boynes nel 1813 e, dopo una formazione cattolica e aver pensato anche di entrare in seminario, abbandonò la fede, per poi riacquistarla dopo un viaggio a Roma, nel 1838, in cui fu ricevuto da Gregorio XVI. Giunto su posizioni ultramontaniste, lavorò per il giornale Univers religieux, nel quale troviamo la preghiera in oggetto, scritta alla vigilia del Concilio Vaticano I.

A Pio IX, Pontefice Re

Padre dei poveri,
Datore dei doni,
Luce dei cuori,
invia il tuo raggio
di luce celeste!

Si notino le inquietanti somiglianze (addirittura riprese di epiteti!) con la sequenza di Pentecoste Veni, Sancte Spiritus, in cui il Divin Paraclito è appellato pater pauperum, dator munerum e Gli si chiede “reple cordis intima tuorum fidelium”. Insomma, Pio IX viene posto allo stesso livello dello Spirito Santo, secondo le dinamiche dell’ecclesiologia “trinitaria” [1], al posto del modello tradizionale sponsale paolino. Il Papa non viene più considerato, a livello di “narrazione”, come il primo custode della fede, ma come il sovrano in re spirituali (in concomitanza con la fine del potere temporale).

Non bisogna pertanto stupirsi del comportamento di coloro che reputano il Pontefice romano come una divinità e che accetterebbero anche una sua dichiarazione palesemente contraria agli insegnamenti del Vangelo, motivandolo con “L’ha detto il Papa!”. Ma il nostro Salvatore è Gesù Cristo od un uomo? Deve predicare la parola di Dio o la propria?

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NOTE 

[1] Pare che questo modello stia trovando un'inedita diffusione anche in Oriente, con il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I celebrato dal suo fido scudiero Elpidoforo (Arcivescovo greco d’America) come “vicario del Padre”.

Bibliografia:

O’ MALLEY J.W., Vaticano I. Il Concilio e la genesi della Chiesa ultramontana, Milano, Vita e Pensiero, 2019