lunedì 30 agosto 2021

L'Investigatore confutato - Nota su Lc 1,49

 Fortuitamente nella nostra Ottava dell'Assunzione, il buon Marco Tosatti ha ospitato sul suo blog (qui) l'intervento di un anonimo personaggio che si fa chiamare "Investigatore biblico", e che sostiene di aver individuato un errore nella traduzione CEI del 2008 di Lc 1,49, che poi è il terzo versetto del Magnificat.

Lascio ai lettori di leggere il suo breve scritto, e riassumo solo brevemente l'errore, che egli individua confrontando con la traduzione CEI del 1974:

CEI 1974: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” (Lc 1,49);
CEI 2008: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49).

L'argomentazione consiste nell'analisi del testo greco e del testo latino, ma è un'argomentazione alquanto difettosa. Il testo greco infatti dice: ὅτι ἐποίησέν μοι μεγάλα ὁ δυνατός; quello latino letteralmente traduce: Quia fecit mihi magna qui potens est.

Ora, il Nostro, citando come "autorevoli" fonti a suo sostegno uno specchietto di mezza pagina sui pronomi personali greci (che non lo sostiene nella sua tesi, in realtà) e un traduttore automatico online dal latino (ben messi siamo!), sostiene che sia palese che la traduzione corretta sia "in me", e "per me" sia una distorsione che mira a una diminutio dell'opera dello Spirito Santo in Maria. E il Nostro analizza:

oti: che [impreciso: "poiché", non essendo nel contesto di una dichiarativa; identidem il quia latino; farei notare, e il Nostro non lo fa, che nessuna delle due traduzioni italiane riporta la preposizione causale]
epoiesen: fatto [errore: "fece", o tutt'al più "ha fatto"; "fatto" sarebbe πεποιημένον]
moi: me [errore: "a me", o "mi" in posizione atona, essendo dativo; "me" (che in italiano è c. ogg, quindi acc.) è με]
megala: grande [errore: grandi! Neutro plurale accusativo!]
o dunatos: l’Onnipotente [errore: "colui che è potente", "il potente"; e infatti la traduzione latina dice qui potens est; "onnipotente" equivale a παντοκράτωρ / omnipotens, ma né la CEI del '74 né quella del 2008 né il Nostro paiono avvedersene]

Cinque errori su cinque parole sono un record interessante; ma non pago, il Nostro prosegue:

Il pronome “moi” nel versetto in esame non può essere assolutamente tradotto con “per me”.
Il contesto stesso ci porta all’esatta traduzione: “in me”.

Purtroppo per il Nostro, μοι (così come mihi) è un dativo di vantaggio, costruzione comunissima nel greco, e perciò la traduzione corretta è proprio "per me". "In me" è una supposizione intepretativa che non ha ragioni linguistiche: bisognerebbe che il testo avesse ἐποίησεν ἐν ἐμοὶ, oppure in una versione più raffinata con preverbio (che però sarebbe stilisticamente improbabile trovare nel testo greco "volgare" dei sinottici) ἐνεποίησέν μοι. San Luca intendeva altro? Possibile, ma il testo tradito è questo, e può essere letto solo così, non seguendo le nostre ubbie teologico-interpretative (la teologia si ricava dall'esperienza, non si adatta l'esperienza [cioè la Liturgia e la Scrittura] alla teologia speculativa!).

Perciò la versione CEI 2008 su questo corregge un errore dell'imprecisa CEI 1974; entrambe però sono imprecise su altri due punti della traduzione di questo solo versetto, oltre che in tutto il resto della Scrittura. Questo è un errore tipico delle traduzioni interpretative (le antiche traduzioni a scopo sacro e liturgico, come quella latina di S. Girolamo o quella slavonica dei Ss. Cirillo e Metodio, traducono parola per parola, e addirittura cercano di imitare le parole composte tipicamente greche), che sono per questo sommamente inadatte all'uso sacro, poiché la mente dei fedeli si lega alla traduzione, e percepisce come sbagliato il suo aggiornamento, anche quando questo corregge un errore della precedente (vedasi il caso della "rugiada dello Spirito"); perciò, invitiamo il Nostro e tutti i lettori a non affidarsi ai traduttori-traditori della CEI, ma a preferire le versioni antiche nelle lingue liturgiche dei testi sacri.

Infine, ci preme segnalare un errore tipico del mondo conservatore e "tradizionalista", che abbiamo ben visto in questo caso: persone che non sanno e non studiano, e nondimeno insegnano, con grande danno per tutti.

venerdì 6 agosto 2021

San Gregorio Magno e il Papato moderno - parte II

Proseguiamo la rassegna di testi con cui san Gregorio il Grande esprime la dottrina tradizionale e patristica sul papato, a confronto con quella ultramontana oggi diffusa nella chiesa Cattolica. Varie lettere di san Gregorio sull'argomento originano dalla disputa sul titolo di ecumenico, cioè universale che il patriarca di Costantinopoli si era attribuito in quanto vescovo della sede imperiale. Tra le numerose lettere agli altri Patriarchi ch'egli dedica alla questione, riportiamo - col prezioso commento ottocentesco dell'Archim. Wladimir Guettée, apologeta della dottrina patristica contro l'ultramontanismo del Vaticano I - una indirizzata direttamente al vescovo di Costantinopoli Giovanni. Utile non solo contro il papismo ultramontano, ma pure contro il papismo costantinopolitano dei giorni nostri.

LETTERA DI S. GREGORIO AL PATRIARCA GIOVANNI DI COSTANTINOPOLI
(V, 18)

Gregorio a Giovanni, vescovo di Costantinopoli.

Dal momento in cui la Vostra Fraternità è stata elevata alla dignità sacerdotale, ella si ricorda quanta pace e concordia tra le Chiese si sia avuta. Ma, ignoro per quale azzardo o per quale superbia, ella ha cercato di impossessarsi di un nuovo titolo, onde potesse causarsi scandalo nei cuori di tutti i fratelli. E della qual cosa assai mi stupisco, poiché ricordo che non volevi giungere all'episcopato, ma volevi fuggirlo. Eppure, una volta ottenutolo, lo vuoi esercitarlo così come se lo avessi ricercato con ambizioso desiderio. Tu infatti che ti dicevi essere indegno d'esser chiamato vescovo, sei arrivato ora, disprezzando i tuoi fratelli, al punto di voler aver tu solo il titolo di vescovo. E su questo argomento furono trasmessi alla vostra santità dei gravi scritti del mio predecessore Pelagio di santa memoria, nei quali rifiutò, per il titolo nefando di superbia, gli atti del sinodo che presso di voi era stato riunito in favore della causa del nostro allora fratello e co-episcopo Gregorio, e proibì di celebrare messa insieme a voi all'arcidiacono, che secondo consuetudine aveva mandato alla corte imperiale. Dopo la sua [di Pelagio] morte, invero, essendo stato condotto io indegno al governo della Chiesa [Per S. Gregorio Magno ogni vescovo prende parte al governo della Chiesa, risedendo l'autorità nell'episcopato (W. Guettée), ndt], e prima per mezzo dei miei inviati, e ora per il nostro comune figlio il diacono Sabiniano, ho avuto cura di rivolgermi alla vostra fraternità non già per iscritto, ma di persona, affinché rinunciasse a tale presunzione. E qualora rifiutaste di correggervi, gli ho proibito di celebrar messa insieme alla vostra fraternità, per instillare alla vostra santità un qualche timore della vergogna, prima che, qualora il nefando e profano orgoglio non potesse correggersi con la vergogna, di procedere per le vie prescritte e canoniche. E poiché prima di amputare la ferita essa va palpata dolcemente, vi prego, vi supplico, e v'imploro con quanta dolcezza posso, che la vostra fraternità si opponga a tutti i suoi adulatori e a quanti gli attribuiscono un titolo errato, e non permetta di farsi chiamare con un titolo tanto stolto e superbo. In verità piangendo lo dico, e con profondo dolore del cuore attribuisco ai miei peccati il fatto che un mio fratello non ha voluto sino ad ora ritornare all'umiltà, lui che si è stabilito solo nella dignità episcopale per ricondurre all'umiltà le anime degli altri; che colui che insegna agli altri la verità non la insegnerebbe a se stesso, né vi consentirebbe, nonostante le mie preghiere.

Considera, ti prego, che da questa presunzione temeraria è turbata la pace di tutta la Chiesa, e che contraddici alla grazia che su tutti è stata comunemente effusa. Nella quale tu potresti assai tanto più crescere, quanto più in te stesso ti umilierai. E tanto più grande diverrai, quanto più ti asterrai dall'usurpazione di tanto stolto e superbo titolo. E tanto trarrai profitto, quanto non ti adopererai per arrogartene a scapito dei fratelli. Ama dunque, fratello carissimo, l'umiltà con tutto il tuo cuore, per mezzo della quale possa esser custodita la concordia di tutti i fratelli e l'unità della santa Chiesa universale. Certamente Paolo apostolo quando udiva alcuni dire: Io son di Paolo, io d'Apollo, io invero di Cefa (I Cor. 1, 13), temendo assai fortemente tale dilacerazione del corpo del Signore, in conseguenza della quale le membra del suo corpo si attaccavano ad altri capi, esclamava dicendo: Forse che per voi è stato crocifisso Paolo, o siete stati battezzati in nome di Paolo (Ibid., 13)? Se dunque quegli si sforzava d'evitare che le membra del corpo del Signore fossero attaccati come a capi ad alcuni che non fossero Cristo, ancorché questi fossero apostoli, tu che dirai a Cristo, ovvero al capo della chiesa Universale, nell'interrogatorio dell'estremo giudizio, tu che tutte le sue membra vuoi sottomettere a te col titolo di univerale? Chi ti proponi a modello, ti domando, in questo perverso titolo, se non colui che, sprezzate le legioni di angeli costituite con sé in società, tentò di elevarsi al culmine della singolarità, acciocché non paresse sottomettersi ad alcuno ed anzi a tutti esser capo lui solo? Colui che pure disse: Salirò al cielo, esalterò il mio soglio sovra gli astri del cielo. Siederò sul monte dell'alleanza, sulle rocce dell'Aquilone. Salirò sopra la vetta delle nubi, sarò simile all'Altissimo (Isaia xiv, 13).

Cosa son dunque i tuoi fratelli, tutti i vescovi della Chiesa universale, se non le stelle del cielo, la cui vita e il cui insegnamento risplendono tra i peccati e gli errori degli uomini come tra le tenebre della notte? Quando per titolo ambizioso brami di elevarti al di sopra di loro, e svilire il loro titolo a confronto del tuo, che altro dici se non: Salirò al cielo, esalterò il mio soglio sovra gli astri del cielo? Forse che non son tutti i vescovi le nubi, che stillano le parole della predicazione, e splendono della luce delle buone opere? Quando la vostra fraternità, disprezzandoli, tenta di conculcarli sotto di sé, che altro dice, se non ciò che fu detto dal nemico antico: Salirò sopra la vetta delle nubi? E mentre piangendo veggo tutto ciò, e temo gli occulti giudizj di Dio, crescono le lacrime, i miei gemiti traboccano dal cuore, perché il signor Giovanni, quell'uomo così santo, di sì grande astinenza e umiltà, per la seduzione delle lusinghe dei parenti, è giunto a tal grado di superbia che, per la brama di quel titolo perverso, tenta d'esser simile a quegli che, volendo superbamente esser simile a Dio, perdè pure la grazia della somiglianza che gli era stata donata; e perciò perdè la vera beatitudine, poiché bramava una falsa gloria. Certamente Pietro, primo degli apostoli, e membro della santa e universale Chiesa, Paolo, Andrea, Giovanni, che altro sono se non capi di certi popoli? E pure tutte le membra son sotto un solo capo. E, per dir tutto in breve, i santi prima della Legge, i santi sotto la Legge, i santi sotto la grazia, tutti questi formano il corpo del Signore, son costituiti membri della Chiesa, e nessuno volle mai esser chiamato universale. La vostra santità dunque riconosca quanto sia gonfio, poiché brama d'esser chiamato con quel titolo con cui nessuno che fu veramente santo ebbe la presunzione di farsi chiamare.

Come sa la vostra Fraternità, forse che il venerando Concilio di Calcedonia ha, per l'onore tribuito, dato il titolo di universale ai vescovi di quella sede apostolica di cui, per volontà di Dio, io son servitore? E pure, nessuno mai avrebbe voluto essere chiamato con tale titolo, nessuno si attribuì un tanto temerario titolo, affinché, bramando la gloria della singolarità nella dignità episcopale, sembrasse negarla a tutti i fratelli.

Ma so che questo è stato conferito alla vostra santità da quelli che con capziosa familiarità vi adulano, contro i quali chiedo che la vostra fraternità sia solertemente vigile, e che non si lasci ingannare dalle loro lusinghe. Tanto più infatti debbono esser ritenuti pericolosi i nemici, quanto più adulano con finte lodi. Scaccia queste persone; e se devono necessariamente ingannare, almeno ingannino i cuori degli uomini terrei, e non dei sacerdoti. Lascia che i morti seppelliscano i loro morti (Lucas ix, 60). Voi invece col Profeta dite: Si ritirino subito arrossendo, quanti mi dicono: Bene! Bene! (Psal. lxix, 4). E ancora: Ma l'olio del peccatore non profumerà il mio capo (Psal. cxl, 5). Laonde bene ammonisce il Saggio: Con molti tu sia in pace, ma il tuo consigliere sia uno solo tra mille (Eccli. vi, 6). Le cattive parole corrompono infatti i buoni costumi (I Cor. xv, 33). Quando infatti l'antico nemito non può penetrare in un cuore robusto, cerca persone deboli che gli siano vicine, e per mezzo loro, come scale appoggiate contro alte mura, vi ascende. Così ingannò Adamo per la donna che le era vicina (Genes. iii), così quando uccise i figli al beato Giobbe e gli lasciò la moglie malata (Job ii, 10), affinché, non essendo da sé in grado di giungere al suo cuore, almeno potesse penetrarvi per le parole della moglie. Quanti dunque presso di voi sono infermi e mondani, siano scacciati nella loro adulazione e lusinga, poiché da lì proviene l'eterna inimicizia di Dio, da dove essi si mostrano come adulatori perversi.

Un tempo l'apostolo Giovanni certò gridava: Figliuoli, questa è l'ultima ora (I Joan. ii, 18); ora avviene secondo la predizione della Verità. Peste e spada infuriano per tutto il mondo, le nazioni insorgono l'une contro l'altri, è scosso l'universo, la terra sia per inghiottire i suoi abitanti. Tutto ciò che è stato previsto, infatti, accadrà. Il re della superbia è vicino, e, cosa orribile a dirsi, gli è pronto un esercito di sacerdoti, poiché pensano solo a elevarsi, loro che sarebbero stati stabiliti solo per condurre gli altri all'umiltà. Ma in questo, ancorché la nostra lingua non sia minimamente contraria, s'ergerà a vindice della sua virtù contro l'insuperbire colui che è per se stesso speciale avversario del vizio della superba. Perciò infatti sta scritto: Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà grazia (Jac. iv, 6). Perciò ancora è detto: Impuro agli occhi di Dio è colui che si esalta in cuor suo (Proverb. xvi, 5). Perciò contro l'uomo che s'insuperbisce è scritto: Perché dovresti esser superbo, tu che se' terra e cenere (Eccli. x, 9)? Perciò la Verità stessa dice: Chiunque si esalta, sarà umiliato (Luc. xiv, 11). E per ricondurci sulla via dell'umiltà, Ella s'è degnata di mostrarlo nella propria persona, dicendo: Imparate da me, ché son mite ed umile di cuore (Matth. xi, 29). Per questo infatti l'unigenito Figlio di Dio ha preso la forma della nostra debolezza, per questo l'invisibile è apparso non solo visibile, ma pure disprezzato; per questo ha sopportato oltraggi, insulti, tormenti, peché l'uomo imparasse da un Dio umile a non esser superbo. Quanto grande dunque è la virtù dell'umiltà, dacché per insegnarci questa sola in verità colui che è grande senza comparazione, si è fatto piccolo sino al patir la morte? Poiché infatti la superbia del diavolo fu la fonte della nostra perdizione, fu trovato per istrumento della nostra redenzione l'umiltà di Dio. Il nostro nemico infatti volea esser esaltato sopra tutto le creature in mezzo alle quali era pur lui; il nostro Redentore invece, pur restando grande sovra ogni creatura, s'è degnato di diventar piccolo fra tutte. 

Perché dunque ci chiamiamo vescovi, noi che abbiam ricevuto la nostra dignità dall'umiltà del nostro Redentore, ed eppure imitiamo la superbia del suo nemico? Ecco, sappiamo che il nostro Creatore è disceso dalla vetta della sua grandezza per dare gloria all'umanità, e noi, infime creature, ci gloriamo dell'aver privato i fratelli. Iddio umiliò se stesso insino alla nostra polvere, e la polvere umana brama di porre lasua bocca sopra il cielo e sfiorare appena la terra, e non se ne vergogna, non teme d'elevarsi l'uomo che non è altro che sporcizia, il figlio dell'uomo che non è che un verme (Job xxv). Rimembriamo, fratello carissimo, ciò che fu detto dal saggissimo Salomone: Il fulmine precede il tuono, e il cuor s'esalta pria di cadere (Eccli. xxxii, 14). E d'altra parte soggiunge: Prima della gloria ci s'umilia. Umiliamoci dunque nel cuore, se vogliamo giungere a una solida grandezza. Che gli occhi del nostro cuore mai non siano oscurati dal fumo dell'orgoglio, che più in alto s'eleva, tanto più in fretta svanisce. Riflettiamo sui precetti con cui ci ammonì il nostro Redentore, dicendo: Beati i poveri in spirito, poiché di questi è il regno de' cieli (Matth. v, 3). Poiché infatti per mezzo del profeta disse: Su chi riposerà il mio Spirito, se non sull'uomo umile e mansueto, che riverisce le mie parole (Isaias lxvi, 2)? E volendo certo chiamare all'umiltà i cuori ancor deboli dei suoi discepoli, il Signore disse: Se qualcuno tra voi brama esser primo, sarà di tutti il più piccolo (Matth. xx, 27). In ciò ci fa apertamente capire che veramente esaltato è colui che ne' suoi pensieri s'umilia. Temiamo dunque di esser tra coloro che cercano i primi posti nelle sinagoghe, e i saluti nella pubblica piazza, e voglion farsi chiamare maestri dagli uomini. Poiché in contrario il Signore ha detto ai suoi discepoli: Voi invece non fatevi chiamare maestri. Uno infatti è il vostro maestro; voi invece tutti siete fratelli. E non chiamate qualcuno Padre sulla terra, uno infatti è il Padre vostro (Matth. xxiii, 7-8).

Che dirai allora, fratello carissimo, in quel terribile interrogatorio del giudizio venturo, tu che non solo padre, ma pure padre universale brami d'esser chiamato nel mondo? Si faccia dunque attenzione al pravo consiglio dei malvagi, si fugga ogni istigazione allo scanalo. E' invero necessario che accadano scandali, ma guai all'uomo per mezzo del quale viene lo scandalo (Matth. xviii, 7). Ecco, a causa di questo nefando titolo di superbia, la Chiesa è divisa, i cuori di tutti i fratelli son scandalizzati. Avete forse dunque dimenticato ciò che dice la Verità: Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, convien per lui che gli sia appesa al collo una macina girata da asini, e che sia gittato nel profondo del mare (Ibid.)? Invero sta scritto: La carità non cerca ciò che le appartiene (I Cor. xiii, 4). Ecco, la vostra fraternità brama ciò che non le appartiene. Ancor sta scritto: Onoratevi gli uni gli altri (Rom. xiii, 10). E tu cerchi di togliere a tutti quell'onore che illecitamente desideri usurpare ai singoli. Dov'è, fratello carissimo, ciò che fu scritto: Abbiate ne' riguardi di tutti la pace, e la santimonia senza la quale niuno vedrà Iddio (Ibid.)? Dov'è ciò che fu scritto: Beati i pacifici, poiché saran chiamati figli di Dio (Matth. v, 9)?

Vi conviene badare che non vi blocchi una radice di amarezza che nuovamente germina nel vostro cuore, e dalla quale molti son contaminati. Se infatti trascuriamo di considerarla, i giudizi saran vigilanti sopra il gonfiore di tanta superbia. E noi ne' confronti di coloro dai quali una sì grande colpa è stata commessa per un empio azzardo, serbiamo i precetti della Verità, dicendo: Se il tuo fratello ha peccato contro di te, va' e riprendilo tra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello. Se invece non ti ascolterà, porta teco uno o due, affinché tutto stia nella bocca di due o tre testimoni. E se questi non li ascolterà, dillo all'assemblea. E se non ascolterà nemmeno l'assemblea, sia per te come un pagano o un pubblicano (Matth. xvii, 3). Io dunque per mezzo de' miei legati ho cercato una e due volte di correggere con umili parole il peccato che vien commesso contro tutta la Chiesa, e ora da me stesso lo scrivo. Qualunque cosa umilmente dovevo fare, non l'ho tralasciata. Ma se son sprezzato nella mia correzione, mi resta solo d'appellarmi alla Chiesa.

Iddio onnipotente vi renda manifesto da quanto amore son preso ne' vostri confronti parlando così, e di quanto m'addoloro in questa faccenda non contro di voi, ma per voi. Ma per quanto riguarda i precetti evangelici e le istituzioni canoniche e il vantaggio dei fratelli, non posso preferire una persona, nemmeno quella che molto amo.

Ho ricevuto da vostra santità scritti dolcissimi e sinceri circa la causa dei presbiteri Giovanni e Atanasio, circa la quale, con l'aiuto del Signore, risponderò in altre lettere che seguiranno, poiché sono astretto da tali tribolazioni e premuto dalle spade de' barbari, che non m'è lecito non solo occuparmi di molte cose, ma a malapena respirare.

Dato alle calende di gennajo, indizione decimaterza.

S. Gregorio Magno, Epistolarium, lib. v, ep. xviij (PL 77:738-743). Trad. it. di Nicolò Ghigi.

S. Gregorio Magno ispirato dallo Spirito Santo
(Treviri Stadtbibliothek, miniatura 983)

COMMENTO

Si vede, da questa prima lettera di papa san Gregorio Magno: 1° che l'autorità ecclesiastica risiede nell'episcopato, e non in un tal vescovo, per quanto elevato possa essere il suo rango nella gerarchia ecclesiastica; 2° che non fu la sua causa particolare ch'egli difese contro Giovanni di Costantinopoli, ma quella di tutta la Chiesa; 3° ch'ei non aveva il diritto di giudicare personalmente questo caso, e che doveva deferirlo alla Chiesa; 4° che il titolo di vescovo universale è contrario alla parola di Dio, superbo, criminale, stolto ed inetto; 5° che nessun vescovo, nonostante l'elevatezza del suo rango nella gerarchia ecclesiastica, può rivendicare un'autorità universale senza incidere sui diritti dell'episcopato intero; 6° che nessun vescovo nella Chiesa può pretendere di essere il padre di tutti i cristiani senza attribuirsi un titolo contrario al Vangelo, superbo, stolto e criminale.

Chiediamo ai neo-cattolici di riflettere seriamente su queste verità espresse così chiaramente in questa prima lettera, e che appariranno con nuove evidenze in quelle che seguiranno.

San Gregorio aveva risparmiato Giovanni di Costantinopoli, pur dicendogli la verità sulle sue ambiziose pretese. La ragione di questa riserva era stata il rispetto che aveva per l'imperatore Maurizio, che Giovanni si era guadagnato alla sua causa. Giovanni aveva persuaso Maurizio che, avendo la città di Costantinopoli rimpiazzato Roma come capitale dell'impero, il titolo di primo vescovo della Chiesa gli apparteneva, poiché i concili l'avevano concesso a quello di Roma solo per l'importanza della sua sede, e unicamente perché questa città era la prima dell'impero romano. Era sulla base di questa pretesa che aveva usurpato il titolo di ecumenico o universale. Aveva persino ingaggiato Maurizio per intervenire contro Gregorio, in modo che quest'ultimo chiudesse un occhio sulle sue pretese e vivesse con lui in buono spirito. Troviamo questi dettagli nella lettera di san Gregorio al diacono Sabino, che era allora suo agente presso l'imperatore, e che fu poi suo successore sul soglio di Roma (Lettere di san Gregorio, lib. V ; lettera 19e, ed. con licenza).

Archimandrite Wladimir Guettée, La Papauté moderne condamnée par le pape saint Grégoire le Grand, Paris, Dentu, 1861, pp. 18-19. Trad. it. di Nicolò Ghigi. Corsivi e maiuscoli originali.

mercoledì 4 agosto 2021

San Gregorio Magno e il Papato moderno - parte I

 In seguito alla pubblicazione del Motu Proprio "Traditionis Custodes", in alcuni ambienti cattolici, è iniziato un interessante dibattito su quali possano essere le prerogative e le limitazioni del potere papale. Tale discussione appare certamente utile e necessaria, e per aiutare quanti - anche tra i nostri lettori - vogliano dedicarsi a tali riflessioni, proporremo alcuni spunti per ragionare attorno alla figura papale provenienti dagli scritti di uno dei più grandi santi che sedettero sul trono patriarcale di Roma, ovvero San Gregorio il Grande. Prima di riportare alcuni testi della penna dello stesso San Gregorio, a mo' d'introduzione presentiamo questo confronto generale tra la dottrina patristica e quella ultramontana in merito.


San Gregorio Magno e Giobbe piagato
Affreschi del Sacro Speco di Subiaco

Al giorno d'oggi insegnano, in nome della Chiesa, e in favore del vescovo di Roma, questa dottrina che san Gregorio denunziava con tanta energia. Così il signor abate Bouix, nel suo corso di diritto canonico composto a Roma e pubblicato con l'approvazione di Roma; così monsignor Parisis, vescovo d'Arras, in un corso di diritto canonico ch'egli ha approvato per l'insegnamento dei suoi chierici, e che è seguito in parecchi altri seminari; così il quotidiano Le Monde, che è il giornale più autorizzato dal papa e dalla sua corte; e così è che cento altri scrittori ultramontani insegnano in tutti i modi che il papa ha una autorità universale; che egli è vescovo universale; che egli è il solo vescovo propriamente detto; la sorgente da cui scaturisce ogni dignità ecclesiastica, ivi compreso l'episcopato, che è solo indirettamente e mediatamente di diritto divino.

Questo è l'insegnamento che vorrebbero darci oggi come insegnamento cattolico. I nostri moderni novatori sanno che papa san Gregorio Magno avrebbe considerato diabolica una simile dottrina, e che ha chiamato anticipatamente Anticristo questo papa rivestito di un preteso episcopato universale?

San Gregorio non prese nessuna decisione importante senza darne conoscenza agli altri patriarchi. Così egli scrisse a quelli di Alessandria e di Antiochia per informarli di come si era comportato nei confronti del nuovo patriarca di Costantinopoli. Eulogio, patriarca di Alessandria, si lasciò persuadere, e annunciò a Gregorio che non avrebbe più conferito al vescovo di Costantinopoli il titolo di universale; ma, credendo di adulare Gregorio, che amava e che gli aveva reso servizio in svariate occasioni, diede questo titolo a lui medesimo, e scrisse che se non lo assegnava più al vescovo di Costantinopoli, era per sottomettersi agli ordini di Gregorio. Questi subito gli rispose, e troviamo nella sua lettera il seguente brano che mostrerà quale idea avesse san Gregorio della sua autorità come vescovo di Roma:

«Vostra Beatitudine si è premurata di dirci che scrivendo ad alcuni, ella non ha più dato loro titoli che avevano solo che l'orgoglio per origine, ma ella usa queste medesime espressioni nei miei confronti: come avete ordinato. Io vi prego, non fatemi mai più sentire questa parola ordine, ché io so chi sono e chi siete voi. PER IL VOSTRO POSTO, VOI SIETE MIO FRATELLO; per le vostre virtù, mi siete padre. Perciò io non ho ordinato; io mi son solamente premurato d'indicare alcune cose che mi pareano utili. Io non trovo però che Vostra Beatitudine abbia voluto perfettamente ritenere ciò che precisamente volea io affidare alla sua memoria, dacché ho detto che voi non avreste dovuto conferire questo a titolo più a me che ad altri; ed ecco che, nella sottoscrizione della vostra lettera, voi conferite, a me che l'ho proscritto, i superbi titoli di universale e di papa. Che la Vostra Dolce Santità più non lo faccia in futuro, la prego; dacché togli a te stesso ciò che di troppo dai a un altro. Io non dimando di crescere ne' titoli, ma nelle virtù. Non considero un onore ciò che fa perdere ai miei fratelli la lor propria dignità. Il mio onore, è quello di tutta la Chiesa. Il mio onore, è la fermezza incrollabile dei miei fratelli. Mi considero veramente onorato allorché a nessuno vien rifiutato l'onore che gli merita. Se Vostra Santità mi chiama papa universale, ella nega di essere ciò che io sarei intiero. Ah, Dio nol voglia! Lungi da noi parole che gonfiano la vanità e feriscono la carità! Vero è che, nel santo concilio di Calcedonia, e da allora dai Padri che son succeduti, questo titolo fu offerto ai miei predecessori, come Vostra Santità sa; ma nessuno di loro volea prenderlo, affinché amando in questo mondo la dignità di tutti i sacerdoti, potessero conservare la loro agli occhi dell'Onnipotente».  [Lettera a Eulogio, luglio 598, ndt]

Papa san Gregorio condannò dunque, nella persona medesima di vescovo di Roma, il titolo di papa universale; ei riconobbe che il patriarca di Alessandria è suo pari, che non ha ordini da dargli, e che conseguentemente non ha autorità su di lui.

Come conciliare questa dottrina ortodossa di papa san Gregorio il Grande con quella dottrina moderna che attribuisce al papa una autorità universale di Diritto Divino? Sta agli ultramontani rispondere a questa domanda.

Entro la discussione circa il titolo di universale, san Gregorio si esprimeva così in una lettera ai patriarchi di Alessandria e Antiochia:

«Ho ammesso alla comunione alla messa degli inviati di Ciriaco, poiché mi priegavano umilmente, e poiché anche, come ho scritto al serenissimo imperatore, gl'inviati del nostro fratello e co-episcopo Ciriaco hanno dovuto comunicare con me, per la ragione che grazie a Dio non son punto caduto nell'errore della superbia. Ma il mio diacono non ha potuto comunicare alla messa con il nostro fratello Ciriaco, per la ragione ch'egli è caduto e persiste nella colpa della superbia pretendendo un titolo profano» (Lettere di san Gregorio, lib. VII; lettera 34e, ed. con licenza).

 Così, secondo san Gregorio, gl'inviati del patriarca di Costantinopoli sarebbero venuti meno al loro dovere se, a Roma, avessero comunicato con lui, nel caso in cui avesse assunto il titolo di universale. Da ciò ne consegue che la comunione con il vescovo di Roma non è una condizione necessaria per appartenere alla Chiesa; che questo stesso vescovo può essere egli stesso fuori dalla Chiesa; e che gli basta, per essere fuori dalla Chiesa, assumere il titolo di universale.

Onde una domanda molto seria: il vescovo di Roma appartiene alla Chiesa se, non contento del vano titolo d'universale, pretende di avere l'autorità universale, cioè il titolo messo in pratica? Colui che usurpa questa autorità forse non è più usurpatore di quegli che semplicemente s'impadronisce della parola che ne è solo il segno?

Lasciamo al lettore la cura di trarre tutte le conseguenze che scaturiscono dai principi di san Gregorio su quest'ultimo punto, e gli chiediamo solo di prendere atto di questo serio insegnamento di un grande papa in ciò che concerne la comunione col vescovo di Roma. E' ovvio che ai suoi occhi si può appartenere alla Chiesa senza essere in comunione con lui. L'insegnamento di san Gregorio è formale su questo punto.


Archimandrite Wladimir Guettée, La Papauté moderne condamnée par le pape saint Grégoire le Grand, Paris, Dentu, 1861, pp. 43-46. Trad. it. di Nicolò Ghigi. Corsivi e maiuscoli originali.

giovedì 29 luglio 2021

17 luglio - In commemoratione Sancti Alexii

di Luca Farina

Oggi, 17 (30) luglio, commemoriamo Sant’Alessio confessore, noto come l’elemosiniere e come человѣ́къ Бо́жїй (uomo di Dio) nella tradizione slava. Nativo di Roma, nacque nel IV secolo e morì il 17 luglio 412. Il Santo, sebbene oggi in Occidente sia festeggiato in modo poco sentito e quasi ignorato, godeva di una particolare celebrità.

Secondo la versione greca e romana della storia (ve n’è anche una siriaca leggermente diversa), Alessio, giovane nobile romano, si sposa per assecondare la volontà dei genitori; la prima notte di nozze decide di non consumare il matrimonio con la propria sposa ma fugge, ritirandosi in vita ascetica e povera per 17 anni, fino a raggiungere Edessa (in Mesopotamia, attuale Turchia). Tornato a Roma, i genitori e la moglie, non riconoscendolo, lo ospitano per altri 17 anni in un sottoscala, dove Alessio vive solo di elemosine. Poco prima di morire scrive una lettera, che sarà letta dopo la sua dipartita. Il padre, la madre e l’amata si struggono per non averlo riconosciuto, e il suo corpo è subito custodito come reliquia dal popolo dell’Urbe.

Icona russa del XIX secolo di Sant'Alessio, con dodici scene della sua vita.
Dall'angolo in alto a sinistra in senso orario: Nascita e battesimo di S. Alessio; Educazione di S. Alessio; S. Alessio dà l'anello alla sua sposa; S. Alessio prende l'oro della sua casa e noleggia una nave; S. Alessio a Edessa chiede la carità alle porte della chiesa; S. Alessio parte da Edessa su una nave; S. Alessio giunge alla casa paterna; S. Alessio nutrito dai servi del padre; S. Alessio scrive la sua vita e il padre Eufemiano cerca di strappare il manoscritto dalle sue mani; Dormizione di S. Alessio; Traslazione delle reliquie di S. Alessio; Miracoli delle reliquie di S. Alessio (fonte).

Il culto a Sant’Alessio non è attestato prima della fine del X secolo. Nel 977 Papa Benedetto VII affidò ai monaci basiliani la chiesa di San Bonifacio sull’Aventino; essa sorge, secondo tradizione, sul luogo che ospitò la casa di Sant’Alessio e così, nel 986, fu aggiunto alla chiesa il titolo dell' uomo di Dio. Nel Messale di Pio V la sua festa è iscritta con il grado Semplice.

Le sue reliquie sono distribuite per diverse chiese: il suo capo è oggi custodito nel monastero di Aghia Lavranei pressi di Kalavryta, in Acaia: secondo lo Ktitorikon e l’iscrizione sul reliquiario, esso fu donato al monastero dall’imperatore Manuele II Paleologo nel 1398. Altri frammenti si trovano nella suddetta basilica romana, nel monastero athonita di Esphigmenou e nella lavra di S. Aleksandr Nevskij a San Pietroburgo.

La fama di Sant’Alessio ha portato alla stesura di numerose agiografie; quelle di epoca medievale costituiscono interessanti testimonianze degli albori della letteratura in volgare. Un esempio di esse è proprio la Vie de saint Alexis in antico francese (con forte patina normanna). Il testo consta di 625 versi distribuiti su 125 strofe, composti circa alla metà del secolo XI. L’opera è anonima, ma alcuni studiosi l’hanno attribuita a Tetbald di Vernon, un chierico normanno canonico della cattedrale di Rouen. Di costui sappiamo ben poco: tradusse dal latino diverse agiografie e le arricchì con la propria retorica; elementi giudicati sufficienti dal medievista Gaston Paris, che ne curò l’edizione critica del 1872 e la attribuì al canonico; non sufficientemente convincenti per altri studiosi, come il prof. Paolo Gresti, che nell’edizione a cui facciamo riferimento riporta il testo anonimo in via prudenziale. Il testo in questione ci è tramandato da otto testimoni (contando sia quelli interi che quelli frammentarii) e attinge ad una Vita latina.

Riportiamo quattro ottave del testo (seguito da traduzione), che rappresentano il dolore dei genitori e della moglie di Alessio e la preparazione del corpo per le esequie.

Metro: strofe di cinque decasyllabes [1] monoassonanzati. Cesura, spesso epica [2], dopo l’accento di quarta.

78Quant ot li pedre ço que dit ad la cartre
ad ambes mains derumpt sa blance barbe:
“E! filz”, dist il “cum dolerus message!”
Vis atendi quet a mei repairasses,
par Deu merci, que tu’m reconfortasses”.

[…]

85De la dolur que demenat li pedra
grant fut la noise, si l’antendit la medre.
La vint curante cume femme forsenede,
batant ses palmes, criant, eschevelede:
vit mort sum filz, a terre chet pasmede.

[…]

99 “Or par sui vedve, sire”, dist la pulcela;
“jamais ledece n’avrai, quar ne pot estra,
ne charnel hume n’avrai an tute terre.
Deu servirei, le rei ki tot guvernet:
il ne’m faldrat, s’il veit qye jo lui serve”.

100 Tant i plurerent e le pedra e la medra
e la pulcela que tuit s’en alasserent.
En tant dementres le saint cors apresterent,
tuit cil seinur, mult bel le conreerent:
com felix cels ki par feit l’enorerent!


Traduzione: Quando il padre ebbe ascoltato ciò che la carta diceva con entrambe le mani si strappa la barba bianca:” Ah! Figlio,” disse “che messaggio carico di dolore! Ho atteso, vivo, che tu ritornassi a me, per la grazia di Dio, che mi riconfortassi”. […] Fu grande lo strepito del dolore che manifestava il padre, la madre lo sentì. Giunse sul posto come una donna fuori di sé, battendo le mani, gridando, scarmigliata: vide il figlio morto, cadde a terra priva di sensi. […] “Ora sono vedova signore”, dice la fanciulla; “Non avrò più gioia, perché non può essere, né conoscerò carnalmente alcun uomo sulla terra. Servirò Dio, il re che tutto governa: egli non mi verrà meno, se vede che lo servo”. Tanto piangono il padre, la madre e la fanciulla, ne sono tutti sfiniti. Nel frattempo prepararono il santo corpo tutti quei signori [di Roma], lo vestirono molto riccamente: beati coloro che lo onorarono con fede!

(Testo e traduzione sono tratti da: P. Gresti, Antologia delle letterature romanze del Medioevo, Bologna, Pàtron, 2011)

Locandina di uno spettacolo teatrale sulla vita di S. Alessio presentato a Kiev nel 1674.
Come si legge nella pagina di destra, lo spettacolo è dedicato "Al piissimo sovrano l'Imperatore e Gran Principe ALESSIO figlio di Michele, di tutta la Grande, la Piccola e la Bianca Russia AUTOCRATORE, e di molte terre e signorie, d'Oriente e d'Occidente e di Settentrione, padre e nonno ed erede, e sovrano e signore: alla sua imperiale e luminosissima maestà il SOVRANO ORTODOSSO [...]". Il culto di S. Alessio si diffuse particolarmente nella Rus' proprio sotto l'impero di codesto Zar che portava il suo nome (1645-1676).

La vita del Santo, a ulteriore prova della sua celebrità, è narrata in tanti altri testi. Una rapida carrellata nella letteratura medievale ci farà incontrare anche l’anonimo Ritmo marchigiano dell’inizio del XIII secolo, la Vita beati Alexii in antico lombardo di Bonvesin de la Riva, l’Alexius in antico tedesco di Corrado di Wuerzburg (1275). Nel Rinascimento troviamo la Vida de Sant Alexo in antico spagnolo di Juan Varela de Salamanca (1520 circa); nel XVII secolo Auto de Santo Aleixo, filho de Eufemiano, senador de Roma, dramma in portoghese di Baltasar Dias (1613) e La vita di Sant'Alessio descritta ed arricchita con divoti episodi dello scrittore genovese Anton Giulio Brignole Sale (1648). La vita del Santo fu persino messa in musica: ricordiamo il Sant’Alessio di Stefano Landi (1632) e l’omonimo oratorio di Camilla de Rossi (1710).

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NOTE

[1] Secondo la metrica francese e provenzale, il décasyllabe corrisponde all’endecasillabo italiano (ultimo accento sulla decima sillaba).

[2] Si chiama così perché è usata spesso nei testi epici (e anche in quelli agiografici, come qui). La quarta sillaba è accentata e quella immediatamente successiva non viene computata, risolvendo così l’apparente ipermetria del verso.

martedì 27 luglio 2021

Un caso di sovrapposizione: un altro San Foca

Celebrando oggi 14 (27) luglio la festa di San Foca di Sinope, vescovo e martire, analizziamo un curioso caso di sovrapposizione del culto. Tale situazione si verifica infatti per alcuni Santi dei primi secoli e di cui vi sono poche notizie agiografiche (ma, non per questo, leggendarie e da espungere come fecero i riformatori [1]); celebri i casi di S. Dionigi di Parigi con l’omonimo Aeropagita (ricordati peraltro lo stesso giorno dalla liturgia orientale [2]), o della triade Maria Maddalena-Maria di Betania-peccatrice pentita (non a caso il Dies Irae recita “Qui Mariam absolvisti”).

Il nome Foca ci rimanda infatti a quello di più Santi. Wandelberto, monaco e poeta belga del IX secolo, scrive infatti:”Ternas martyr habet meritorum nomine Phocas” [3]. Vi è quindi un S. Foca vescovo, un secondo agricoltore e un altro soldato. Tuttavia, il cardinale Cesare Baronio, ripreso poi dal teologo calabrese (e non è un caso, come vedremo) Onofrio Simonetti, scrisse:”Duos fuisse Phocas, ambosque martyres illustres”. Quest'altra tradizione quindi distingue il santo vescovo e unifica l’agricoltore col soldato, entrambi degni della palma.

Martirio di San Foca di Sinope, dal Menologio di Basilio II (Costantinopoli, X sec.)

La festa odierna ci porta dunque a considerare anche il S. Foca agricoltore e martire, protettore contro i morsi dei serpenti. Secondo lo storico Michele Amari tale culto fu portato o rinforzato dal generale bizantino Niceforo Foca il Vecchio (830 ca. - 896 ca.), che liberò la Puglia e la Calabria dai saraceni. Non è quindi un caso che in provincia di Lecce troviamo San Foca, frazione di Melendugno, località in cui si parla il griko [4]; è ancor più sentito nella località calabrese di Francavilla Angitola, in provincia di Vibo Valentia.

In detto paese, molti uomini vengono ancora battezzati con questo nome e la devozione popolare ha prodotto un poemetto in dialetto noto come A raziuoni, di cui riportiamo qualche verso e la traduzione.

Santu Foca quandu era l’infidili
ed era de la curti bon sardatu,
venia nu juornu e pensau a la fidi
e de nuostru Signuri fu toccatu.
Pua dassau l’armi e cuminciau a patira
a chiju puntu votta vattijatu;
de pua se vozzafara nu giardinu
e tutti l’alimenti avia chiantatu,
avia chiantatu fuogghi e petrusinu
paria lu Paradisu rigistratu.

[…]

De pua spediru triccientu persuni
pe chiji vosca mu ajjhunu anumali
e hannu trovatu vipari e scurpiuni
serpenti ed ogni sorta d’animali.
De pua pigghiaru morteja e picuni
na scura foassa vozzaru scavara.
Pua pigghiaru a nostru Protetturi
nta chija scura fossa lu calaru.
Tutti chiji animali s’appartaru
e d’unu chi ndavia lu cchjù maggiuri.
E d’un chi ndavia lu cchju maggiuri
si lu tenia impugnatu nta li mani.
Cu la testuzza si venia nchinara
cu la lingua nci liccava li suduri.
All’uottu juorni li sordati jiru
mu vidanu s’è muortu o s’era vivo.
Quandu chija scura fossa l’apriru
vittaru splendori e jiornu chiaru.

[…]

O Francavija felice e biata
mo chi l’aviti stu Santu abbucatu
potiti caminara vosca e strati
pegura de nimali non teniti.
De pesta e terramota liberati
particulari li vuostri divuoti.
Calici d’uoru e calici d’argientu
o Santu Foca mio vi l’appresientu.
Si non vi dassu quantu v’ammeritati
o Santu Foca mio mi perdunati.
Mi perdonati cuomo peccaturi
Cuomo perduna a vui nuostri Signori.
Si fina la raziuoni e non va cchiù
o Santu Foca mio vi la dissamu a vui.

Traduzione: San Foca, quando era infedele ed era della corte un buon soldato, giunse un giorno al pensiero della fede e da Nostro Signore fu toccato. Lasciò le armi e iniziò a patire e a quel punto fu battezzato. Di sua volontà fece un giardino, e tutti gli ortaggi ci ha piantato: aveva piantato funghi e prezzemolo e sembrava il paradiso ordinato. […]. Di là [la corte in cui viene processato] spedirono trecento persone perché trovino alcuni animali e hanno trovato vipere, scorpioni, serpenti ed ogni sorta di animali. Poi hanno preso martello, piccone e una scure e scavarono una fossa; poi presero il nostro Protettore e lo hanno fatto scendere in quella fossa. Tutti quegli animali si misero da parte e il più grande era tenuto tra le mani [di Foca]. Con la testa gli si inchinava e con la lingua leccava il suo sudore. Dopo otto giorni i soldati andarono pensando di trovarlo morto ma invece era vivo. Quando quella scura fossa fu aperta videro lo splendore del giorno chiaro. […] O Francavilla felice e beata, ora che avete questo Santo avvocato potete camminare nella vasca e starci e non dovete temere gli animali. Dalla peste e dai terremoti liberateci, specialmente noi, vostri devoti. Calici d’oro e d’argento, San Foca mio, vi presento; se non vi do quanto meritate o San Foca mio, perdonatemi. Mi perdonate in quanto peccatore come perdonò a voi Nostro Signore. Se è finita l’orazione e non continua più, o San Foca mio lo lasciamo voi.

Secondo il testo, quindi, Foca abbandona la milizia dell’imperatore Traiano e si dedica alla coltivazione di un bellissimo giardino; la sua diserzione è punita con la damnatio ad bestias, da cui esce illeso in maniera miracolosa (sul modello di Daniele nella fossa dei leoni). Eletto a patrono della città di Francavilla, i suoi devoti gli offrono calici preziosi, a prova della loro devozione contro una certa vulgata pauperistica con cui è rappresentato il popolo.

Inoltre, secondo la tradizione (non integralmente riportata in questo poemetto), egli è nativo di Antiochia e costruì il giardino nei pressi del fiume Oronte. Durante il processo si rifiutò di adorare gli idoli e di riconoscere la natura divina dell’imperatore. Essendo stato vano il primo tentativo di ucciderlo, fu decapitato; il suo corpo fu poi mandato a Roma, dove venne accolto da Papa Sisto I.

I testi sono tratti da San Foca Martire Patrono di Francavilla Angitola, a cura di Foca Accetta e Franco Torchia, Vibo Valentia, 1985. Si ringrazia la sig.na Giorgia Niesi per aver fornito testo e traduzione.

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NOTE:

[1] A seguito della riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano II furono rimosse (o ridotte al grado di memoria facoltativa o inseriti solamente nei propri locali) dal calendario romano generale feste ivi presenti ab immemorabili come i Ss. Faustino e Giovita, S. Dorotea o S. Valentino.

[2] Del resto, secondo una prassi frequente nell’uso russo, i Santi con lo stesso nome sono ricordati nel medesimo giorno: per esempio S. Procopio grande martire di Cesarea di Palestina è festeggiato lo stesso giorno dell’omonimo jurodivyj di Ustjug.

[3] Nelle "Notizie storiche" del volume di F. Accetta e F. Torchia sopraccitato, il verso è riportato in questo modo: "Ternos habet martyr meritorium nomine Phocas", ametrico (cretico al quarto piede) e difettoso quanto a senso. Gli autori affermano di citare da O. Simonetti, Cenno biografico sovra l'Antiocheno Martire S. Foca, Monteleone, Raho, 1892, il quale erudito ecclesiastico, se non ha errato di suo, ha probabilmente trascritto da un codice alquanto corrotto del Martirologio metrico del Wandelberto. Confrontando con il testo del Martyrologium contenuto nel cod. Lat. 5251 della BNF, pur esso presentante a mio avviso una corruzione, propongo gli emendamenti che risultano nella forma citata in corpo di testo, in grafia normalizzata. E' da notarsi che il Wandelberto pone la festa al 5 marzo, che risulta una delle fin troppo numerose diverse date in cui il santo pare aver avuto culto nei diversi luoghi. (N. Ghigi)

[4] è il dialetto greco tipico della provincia di Lecce, costituente la Grecìa salentina.

domenica 25 luglio 2021

12 luglio - In commemoratione Sanctorum Naboris et Felicis Martyrum

 


Oggi, 12 luglio, commemoriamo i Santi Nàbore e Felice, martiri “milanesi”. I due fanno ormai parte della tradizione ambrosiana, pur essendo nati a migliaia di chilometri di distanza. Le informazioni sulla loro vita, come spesso accade per i Santi più antichi, sono purtroppo piuttosto scarne ma egualmente significative.

I due erano di origine berbera (probabilmente dall’attuale Algeria), cittadini romani. Giunsero infatti a Milano [1] come soldati dell’imperatore Massimiano [2]. Qui si convertirono al cristianesimo insieme a un loro collega (e forse superiore, [3]), Vittore. Nel 303 l’imperatore decise di sottoporre i militi cristiani a processo: secondo quanto si tramanda, i soldati affermarono la loro lealtà e fedeltà al sovrano in ambito bellico ma si rifiutarono di sacrificare agli idoli e di riconoscere la natura divina di Massimiano. Furono condannati a morte a Milano, ma si decise di eseguire la pena a Laus Pompeia, oggi Lodi Vecchio. L’obiettivo era quello di usare la decapitazione come deterrente per la numerosa comunità cristiana del luogo.

Nei giorni della carcerazione, ricevettero la visita della nobile Savina [4], che li confortò. Dopo l’esecuzione, raccolse le spoglie dei due Santi per portarli a Milano. Rinchiuse le spoglie dentro delle botti molto grandi. Fermata da una pattuglia, dichiarò di trasportare miele e vino e, con sua stessa grande sorpresa, i corpi si trasformano, in maniera miracolosa, per evitarle l’arresto.

Giunta a Milano, affidò i corpi, tornati in carne ed ossa, al vescovo Materno. Egli li depose nella basilica che fu intitolata proprio ai Santi Nabore e Felice Quel terreno non fu scelto in maniera casuale: ci si trovava accanto all’antico hortus Philippi, poi divenuto il grande cimitero in cui Sant’Ambrogio si recava ogni giorno a pregare e dove furono ritrovati i Santi Protaso e Gervaso.

La posizione dell'hortus e della Basilica: nelle vicinanze è possibile scorgere gli altri edifici della Milano imperiale e cristiana


Passarono gli anni, e la chiesa andò in decadenza: nel 1249 venne affidata ai “neonati” frati minori, appena giunti a Milano. Essi costruirono una chiesa intitolata al loro Serafico Padre, che nel 1256 inglobò la fatiscente basilica: nacque la chiesa di San Francesco Grande, la più grande della città dopo il Duomo. I religiosi erano ben coscienti di trovarsi in luogo in cui si era “stratificata” la santità: ce ne da testimonianza l’epigrafe metrica presso le porte del convento, oggi nella cappella di Santa Savina della basilica ambrosiana [5]. Ne proponiamo l’immagine e la trascrizione di qualche verso, in cui si fa riferimento ai Santi:

Hic Nabor hic Felix hic Fortunatus habetur

Et cum Materno Gayus dictusq(u)e Philippus

Nec non Savine sancte venerabile corpus

Secondo l'uso tipico dell'epoca, molte parole sono abbreviate. Compare un qualche accenno di punteggiatura, abbandonando la scriptio continua delle epigrafi classiche


Il loro culto fu considerato così importante tanto che nel 1396 l’arcivescovo Antonio da Saluzzo decretò il 12 luglio festa di precetto per la città: rimase tale fino al 1537, quando fu rimosso da parte di Ippolito II d’Este, su pressione di Carlo V [6].

Dopo una serie di restauri, nel 1472, i due crani (già staccati dal martirio) furono posti in reliquiario a parte; nel 1799, con le soppressioni napoleoniche, la chiesa fu chiusa, i corpi trasferiti in cattedrale e i crani vennero trafugati. San Francesco riaprì in seguito, ma non per molto: nel 1806 fu demolita per far posto alla Caserma dei Veliti Reali, oggi caserma Garibaldi della Polizia di Stato (in piazza Sant’Ambrogio).

Nel 1959 a Namur (Vallonia, Belgio) furono ritrovati i due capi in preziosi reliquiari d’argento presso il negozio di un antiquario. Su richiesta dell’arcivescovo Montini furono riportati a Milano in modo solenne.

I busti con i cranii al loro interno (Parrocchia dei Santi Nabore e Felice in Milano)


Oggi, i corpi acefali di Nabore e Felice si trovano nella navata destra della basilica ambrosiana, in un sarcofago marmoreo; i due capi si trovano nella novecentesca chiesa a loro intitolata.

Il sarcofago con i Santi Nabore e Felice e le reliquie dei Santi Materno, Valeria e Barnaba (Basilica di Sant'Ambrogio, abside destro)


Note:

1: Milano fu capitale dell’Impero romano d’Occidente tra il 286 ed il 402, a seguito della divisione dei territori ordinata da Diocleziano (tetrarchia).

2: Marco Aurelio Valerio Massimiano Erculeo (250 circa-310) ebbe formalmente il titolo di Augusto d’occidente con Diocleziano come corrispettivo orientale.

3: questo potrebbe spiegare per quale motivo egli sia citato per primo da Sant’Ambrogio nell’inno Victor, Nabor, Felix, pii, sia stato martirizzato in luogo differente dai due e non sia sepolto con gli altri due.

4: Santa Savina nacque circa nel 260, a Milano od a Lodi, da una nobile famiglia. Rimasta presto vedova, si dedicò alla carità per le comunità cristiane costrette alla clandestinità. Morì nel 311, le sue spoglie riposano nella Basilica di Sant’Ambrogio.

5: è la stessa cappella in cui è sepolta la Santa di cui sopra.

6: Carlo V d’Asburgo (1500-1558) governò col titolo di Re d’Italia a seguito delle guerre d’Italia, assorbendo nei suoi dominii il Ducato di Milano, che sarà formalmente restaurato con l’erede, Filippo. Milano rimarrà spagnola fino al Settecento.

venerdì 23 luglio 2021

Traditionis eversores - Commenti al nuovo Motu Proprio sulla liturgia tradizionale

 Sembra piuttosto comico che un Motu Proprio inteso a limitare in qualche modo una liturgia secolarmente praticata nella Chiesa ed espressione della tradizione liturgica occidentale e specificatamente romana principi con le parole Traditionis custodes, che sarebbero, nell'inteso del discorso, i vescovi. Il titolo che abbiamo scelto di mettere all'articolo sembra molto più calzante e, seppur i più fidi nostri lettori già ne conosceranno la spiegazione, ne renderemo ragione solo alla fine del discorso. Prima riteniamo conveniente, consci di arrivare tardi vista la gran mole di reazioni che già nelle ore immediatamente successive alla promulgazione del documento, occorsa a mezzodì dello scorso venerdì 16 luglio, hanno popolato la blogosfera “tradizionalista” e non solo, spendere qualche parola di analisi di ciò che è contenuto nel suddetto.

I. Previsioni normative del Motu Proprio.

Pur nascondendosi dietro l'aborrita firma di Bergoglio, questi ha negli anni passati dimostrato di non curarsi particolarmente di faccende liturgiche; laonde, pare decisamente più ragionevole supporre che il Motu Proprio abbia ben altri padri, tra cui, oltre al neo-presidente della Congregazione dei Riti card. Roche, non si può omettere di menzionare il prof. Andrea Grillo, per il quale il precedente regime instaurato da Summorum Pontificum era puro fumo negli occhi, soprattutto per due ragioni espresse ad nauseam in una congerie di articoli sul suo blog Come se non: 1) L'equiparazione del "Messale del 1962" e del "Messale di Paolo VI" come "due forme dello stesso rito" e "due espressioni della medesima lex orandi"; 2) La sottrazione dell'autorità sulla liturgia al vescovo diocesano, che era invece garantita dal precedente regime "dell'indulto". Ora questi due paiono essere pure i cardini delle disposizioni normative del documento.

All'articolo 1 si dichiara infatti perentoriamente che "I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano". Non della medesima lex credendi, che è in molti modi espressa dai molti riti della Cristianità, ma della medesima lex orandi, cioè lo stesso modo di pregare. E su questo non possiamo che dare ragione al buon Grillo e al Motu Proprio: da quando in qua si sono viste due forme contrapposte, l'una nata distruggendo a tavolino l'altra, la quale è invece eredità più che millenaria della Chiesa, espressione di una medesima cosa? La scienza liturgica conosce le famiglie dei riti, i riti e gli usi, ignora le forme; ma come ha ben spiegato don Mauro Tranquillo (qui) è scientificamente impossibile sostenere che il rito di Paolo VI sia una variante, cioè un uso, del rito romano, ed è necessariamente un altro rito, quindi una diversa lex orandi. Sulla bontà o meno di questa lex orandi, che non ha in sé nulla di apostolico, le nostre idee le abbiamo, ma il lettore giudichi da sé.

L'articolo 2 completa le aspettative grilline dicendo che "Al vescovo diocesano, quale moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare a lui affidata, spetta regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi". Questo punto è leggermente più problematico, ma ci ritorneremo in chiusura. Vediamo ora come fattivamente i vescovi dovranno controllare (oggi va di moda il controllo, no?) l'uso del rito tradizionale; ci limiteremo a fornire qualche suggestione e commento personale, non essendo mancata già in questi pochi giorni una colluvie di analisi canonistiche prodotte da menti che si trovano ben più a loro agio delle nostre tra cavilli e codicilli, analisi ora serie e approfondite al limite della pedanteria, ora condite dai giuochi letteralisti di un sacerdote canonista dallo pseudonimo giacobineggiante (qui) di cui, peraltro molto giustamente, i vescovi si faranno un baffo. Sostanzialmente si ritorna al regime dell'indulto, quello vigente prima di Summorum Pontificum, con delle esplicite limitazioni al clero che non può più scegliere con quale messale celebrare ma necessita del permesso del vescovo, o per i neomisti addirittura della Santa Sede (ma non era il vescovo il sommo liturgo, si è detto poco fa?) e ai luoghi (non già le chiese parrocchiali, cosa su cui il Motu Proprio di Ratzinger insisteva invece) e ai tempi della celebrazione. Si segnala, soprattutto, che non potranno costituirsi nuovi gruppi che chiedano la messa antica oltre a quelli preesistenti, il che è indubbiamente la limitazione più forte; le preesistenti parrocchie personali, tra cui quella ferrarese di recente fondazione, non subiranno forse scompensi in tempi brevi, ma il documento apre a una loro riconsiderazione – e forse soppressione – nei tempi a venire. Un altro articolo prevede che gli Istituti ex-Ecclesia Dei passeranno sotto la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata, il che pare effettivamente logico; la preoccupazione, reale, per i trascorsi a dir poco modernisti del cardinale Braz de Aviz che presiede detta congregazione è un fatto del tutto contingente e non certo di principio, pur con tutti gli effetti (negativi) che sicuramente avrà. Più (negativamente) interessante da un punto di vista liturgico e l'art. 3.3.2: "In queste celebrazioni le letture siano proclamate in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per l’uso liturgico, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali": la norma del rito prevede che queste vengano cantate in latino, ed eventualmente poi ne può essere letta una traduzione prima della predica, come pare si facesse pure in epoca storica. Il fatto che gran parte dei "tradizionalisti", specie francesi, già proclami le letture in volgare e voltati verso il popolo indica che questa modifica, per loro, significherà ben poco; da un punto di vista formale è ben più significativo, perché s'inizia a intaccare e dunque a snaturare il rito. Chi vieterà in futuro di apportare altre più pesanti modifiche alla struttura medesima dello stesso, per favorirne la riconciliazione con quello moderno (vedi sotto)? È da dire che ciò non è affatto una novità di Traditionis Custodes, dacché Summorum Pontificum apriva parimenti a modifiche rituali, effettivamente poi avvenute sia con la nuova preghiera per i Giudei del Venerdì Santo che con i nuovi prefazi e santi inseriti con decreto del Sant’Uffizio lo scorso anno, che abbiamo già avuto modo di commentare a loro tempo.

II. Ragione e funzione del Motu Proprio.

Ben più interessante del Motu Proprio è però la lettera accompagnatoria a detto documento, nella quale si spiegano le ragioni dell'intervento e gli scopi del medesimo. Oltre a ripercorrere la storia della "forma straordinaria del rito romano" e spiegare per quali ragioni non risulta più convincente la tesi delle due forme sostenuta da Benedetto XVI, in essa si menziona il famigerato "questionario" circolato nelle varie diocesi del mondo l'anno scorso circa la pratica della messa antica nelle medesime; non si menziona la contro-iniziativa della Federazione Internazionale Una Voce di un simile questionario compilato dai fedeli e quindi inviato al Sant’Uffizio, segno che tale iniziativa non ha avuto grande esito nei palazzi vaticani. Quindi, la lettera passa alle vere e proprie ragioni che hanno richiesto l'intervento: "Mi rattrista un uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”". Purtroppo, bisogna constatare che il fianco a codeste bordate lo hanno prestato i "tradizionalisti" medesimi, soprattutto con l'atteggiamento settario e neo-protestante (ben indagato da recenti articoli del prof. Andrea Sandri su Vigiliae Alexandrinae) di cui taluni circoli, definiti “neo-tradizionalisti”, acuiti da una certa propensione alla teoria del complotto nell'anno della grande pandemia (c'è una bella differenza tra criticare la verità ufficiale e mettere in luce i problemi morali della vaccinazione, come fa la gente seria, e credere al super-complotto contro Trump come fa qualcun altro), hanno fatto ampia mostra, atteggiamento che continua a essere dimostrato dall'inspiegabile adesione delle folle al progetto di un personaggio folle e visibilmente ridicolo quale don Alessandro Minutella, che non aspetta altro che muoia il suo "legittimo" Benedetto XVI per autoproclamarsi Papa (si è già messo in testa lo zucchetto e la croce pettorale al collo, notare). Il rifiuto del Concilio è un problema che sta a parte, il Concilio è per i modernisti un super-dogma, che dice tutto e niente; il rifiuto del Concilio, che nei modi in cui mons. Lefebvre lo ha portato avanti per decenni ha decisamente un senso, generalmente è stato portato in modo altrettanto strumentale tra i “tradizionalisti” per voler rifiutare altro, dall'immigrazionismo all'ecologismo, che sono temi poco dogmatici e molto politici (è la Santa Sede che erra in primis schierandosi così smaccatamente su questioni squisitamente politiche e non religiose, ma chi le va contro così fa lo stesso gioco, a volte). Il Concilio è, tanto per i “tradizionalisti” che lo demonizzano come la fonte di ogni male, quanto per i progressisti che lo venerano quale sorgente d’ogni novità, nulla più che una bandiera: la decadenza liturgica, dottrinale e morale della Chiesa Romana, iniziata ben prima del 1962, si sarebbe tranquillamente potuta compiere senza che qualche migliaio di vescovi si sedesse a parlare del nulla per qualche anno. Molto spesso in questo blog abbiamo stigmatizzato i "tradizionalisti" per cui la messa antica è una bandierina dietro la quale ci sta altro, da certi orientamenti politici o settaristici (vedasi la TFP), a romantiche nostalgie di tempi passati e idealizzati; ora costoro, con il chiasso ben visibile prodotto dalle loro trombe, hanno offerto il pretesto per danneggiare, sicuramente, anche coloro che dalla liturgia tradizionale volevano solo il giusto, cioè il culto proprio a Dio e la deificazione dell'anima.

Più diretto e preoccupante, però, è il fine: la lettera dice esplicitamente che le previsioni normative del Motu Proprio allegato presentano un unico scopo, ovverosia quello di “accompagnare coloro che sono legati al rito antico a una piena accettazione dei libri liturgici riformati”. In ciò, probabilmente, consiste la più grande differenza con i provvedimenti precedenti: si tratta di un indulto a tempo determinato, che nel giro di alcuni anni (quanti lo sa solo Iddio) si dovrà risolvere in una completa proibizione dell’uso dei libri liturgici tradizionali. L’indulto di Giovanni Paolo II era “a tempo” nella sua intenzione originaria nel senso che si sarebbe dovuto spegnere con la morte naturale di coloro che erano stati cresciuti col rito tradizionale; nei fatti, la sua natura temporanea è stata sin da subito smentita dalla partecipazione, non certo impedita, di nuove persone alle funzioni in rito antico. Il Motu Proprio di Benedetto XVI sanciva un principio, l’impossibilità di abrogazione dei libri liturgici tradizionali, prevedendone dunque un uso illimitato e infinito. Il nuovo Motu Proprio va, come detto, nella direzione completamente opposta: una tolleranza del tradizionalismo che, prima o poi, dovrà finire.


Frontespizio di un Missale ad sacrosancte Romane ecclesie usum
Parisii, 1517 - München, Bayerische Staatsbibliothek - Res/2 Liturg. 249

Vale la pena, infine, di contestare fortemente il riferimento a Pio V che Francesco fa nella sua lettera: in essa, egli afferma d’essere confortato dall’azione di tale Papa che abrogò una serie di riti. Questa affermazione, che vorrebbe confermare il potere dell’autorità papale sulla liturgia, che invece abbiamo più volte contestato su base storica (vedasi ad esempio qui; ma è interessante notare che i canonisti quattrocenteschi discutevano se un Papa potesse costruire ex novo una liturgia, giungendo a conclusione negativa e anzi ritenendo che tale Papa entrasse in scisma; che questo sia esattamente quello che hanno fatto i Papi da Pio X in poi è altro discorso), rientra nella “leggenda nera” che gravita attorno alla Quo primum, bolla di cui molti parlano ma che nessuno pare aver letto. Dopo aver promulgato il Messale Romano nel 1570, che altro non è che un’edizione filologicamente sistemata del Missale secundum consuetudinem curiae romanae stampato a Venezia nel 1494 (che, per informazione a quanti dicono che Pio V abolì le sequenze, conteneva esattamente quattro sequenze come il Messale Tridentino), con le uniche minime aggiunte riguardanti la gestualità alla consacrazione, e in particolare le genuflessioni, che erano entrate nella prassi in Germania ma non erano mai state previste dalle rubriche, e il tempo delle elevazioni; la lettera apostolica al capo IV dice chiaramente che con detto messale son tenute a celebrare le chiese “in quibus Missa conventualis alta voce cum Choro, aut demissa, celebrari juxta Romanae Ecclesiae ritum consuevit”. Cioè, solo in quelle in cui già si celebrava usando il predetto Missale secundum consuetudinem curiae romanae, diffuso in tutta Europa (pur con minime consuetudini cerimoniali e soprattutto con il santorale proprio di ogni luogo) soprattutto dai francescani, che al loro zelante ultramontanismo centralista ante-litteram univano l’uso del rito dell’Urbe che contribuirono a portare nelle chiese più varie. Ma il capo successivo dice chiaramente che le chiese ove vigono altre consuetudini rituali da tempo osservate devono mantenere il rito proprio; e se proprio una chiesa volesse passare al rito romano, può farlo, ma deve ottenere l’approvazione del vescovo diocesano e di tutto il capitolo. Gli unici riti soppressi sono quelli con meno di 200 anni d’uso continuativo (cioè nati dopo la metà del 1300! Sarebbero riti della tradizione della Chiesa questi?), i quali erano soventi intrisi di protestantesimo o altre eresie tipicamente bassomedievali: un intervento di tipo teologico e non certo liturgico, visto che quei riti – peraltro – non hanno certo una venerabile antichità che li renda patrimonio tradizionale e intoccabile della Chiesa. Il problema, se vogliamo, si verifica esattamente quando queste indicazioni vennero disattese, quando cioè i vescovi diocesani imposero illegittimamente l’uso del rito romano, non sempre con l’approvazione del clero e del popolo che continuò molto oltre a usare gli antichi rituali (si legga quel che dice il Diglich sull’uso dei funerali secondo il rito patriarchino nella Venezia dell’Ottocento, nonostante già da due secoli quasi il Patriarca avesse imposto i libri liturgici romani), oppure lo fecero abusivamente i visitatori apostolici (il De Rubeis riporta la relazione di un visitatore apostolico nel Patriarcato di Aquileia che rimproverò un prete per aver detto il Nunc dimittis alla purificazione, come il rito aquileiese prescriveva), oppure gli stessi stampatori rifiutandosi di editare nuovi messali secondo i riti propri (emblematico il caso del capitolo di Como, proprio da ciò e dalla rovina degli antichi libri patriarchini costretto a passare ai romani), o finanche monarchi non propriamente cristiani (nella Ducale Basilica di S. Marco e nelle quattro chiese da essa dipendenti il rito patriarchino fu soppresso da Napoleone nel 1806). Se leggiamo il Le Brun, ci accorgiamo che nella Francia di ancien régime il rito romano era qualcosa di pressoché sconosciuto, vigendo gli usi locali antichi. La Rivoluzione, il crollo dei capitoli e dei conventi, con la conseguente adesione di gran parte del clero all’eresia ultramontana, determinarono la situazione oggi conosciuta di un rito romano universale, che è veramente una situazione post-ottocentesca, laddove l’Europa prerivoluzionaria era e restò un fiorire di riti e usi locali, seppur in netta diminuzione per via dei succitati abusi.

Perciò, accertato che le intenzioni di Pio V erano ben diverse, si dovrebbero evitare impropri e mistificatori paragoni, tanto più quando i riti in questione non hanno più di una sessantina d’anni.

III. Reazioni ed esiti probabili

Il mondo “tradizionalista” è stato comprensibilmente scosso dal provvedimento, annunciato da talune indiscrezioni nelle settimane precedenti, ma da cui non ci si aspettavano previsioni normative e soprattutto toni così duri; tra drappi neri a lutto e reazioni stupite d’ogni tipo, si sono distinte analisi canonistiche e teologiche di buon livello, e interventi decisamente meno memorabili, tra cui un’analisi pseudo-liturgica sinceramente divertente nella sua ridicolaggine secondo la quale il Padre nostro recitato da tutti nella nuova messa è illegittimo perché il Padre nostro fa parte del rito e solo il sacerdote compie il rito. Alcune reazioni non hanno brillato per moderatezza, ed effettivamente se qualcuno ha pensato di intitolare un articolo “Resistere in faccia al Pachamama Pope” si potrebbe pensare che alcune delle motivazioni addotte da Bergoglio nella sua lettera non siano così campate in aria. Per fortuna questi fenomeni paiono soprattutto mediatici, frutto di un’autorappresentazione del mondo “tradizionalista” sulla blogosfera. Qualcuno non ha perso occasione di far notare che, come già il precedente Motu Proprio, pure questo menziona unicamente i libri liturgici già riformati e modernizzati del 1962, e non quelli precedenti, rendendoli gli unici leciti: tale approccio legalistico si conferma rovinoso, poiché gli alfieri di cavilli e codicilli non potranno che mutamente sottomettersi alle nuove disposizioni dell’idolo-legislatore. Del resto, se l’autorità già nel 1911 ha vietato l’Ufficio romano tradizionale sostituendovi un prodotto artificiale, nel 1955 la Settimana Santa sostituendovi qualcosa di inventato di sana pianta, nel 1962 il Messale sostituendovi un pallido surrogato, a buon diritto poi 1970 ha creato qualcosa di completamente opposto che sostituisse tutto il precedente; se all’autorità si è dato potere di intervenire allora, contro la tradizione apostolica e patristica, perché glielo si negherebbe ora?

D’altro canto, il mondo progressista ha gioito per il provvedimento che, a detta del già citato prof. Grillo, ristabilisce non solo la teologia corretta, ma pure la logica (ed effettivamente dell’illogicità delle due forme si è detto sopra). Fattivamente, credo che per i primi tempi non si verificheranno sostanziali modifiche dello status quo: sarà il tempo a suggerire cosa accadrà, se effettivamente i vescovi eserciteranno una qualche forza repressiva, se le comunità “tradizionaliste” saranno lasciate vivere o accompagnate ad eutanasia. Molti fedeli scorati probabilmente si rivolgeranno alla FSSPX, qualcuno finirà nelle grinfie di già citati personaggi che costituiscono sicure strade d’inferno, pochi onestamente credo ritorneranno nei ranghi novusordisti, e qualcuno forse giungerà a compiere delle riflessioni più profonde, che presentiamo di seguito.

IV. Conclusioni.

Il Motu Proprio dice che i vescovi sono i custodi della tradizione. Ciò è vero, e non è certo un’invenzione del Vaticano II, ma il Vaticano II e il Motu Proprio commettono una grave omissione; se leggiamo le epistole di S. Cipriano di Cartagine, scopriamo che per quel santo Padre della Chiesa i custodi della tradizione sono “i vescovi, il clero e tutto il popolo”, insomma il πλήρωμα della Chiesa. Nel XVI secolo, riporta il Righetti, la Cattedrale di Saragozza decise di adottare il Breviario del Quiñonez, un ufficio inventato di sana piana dall’omonimo cardinale spagnolo per sopperire alla pesantezza e lunghezza dell’ufficio romano (nulla di diverso da quel che farà Pio X quattro secoli dopo, in buona sostanza…), senonché alla sera del Mercoledì Santo, iniziato l’Ufficio delle Tenebre il popolo convenuto per la sacra funzione, udito che i salmi non erano quelli tradizionali, e pensando che fossero divenuti ugonotti, presero a lapidare i canonici della cattedrale, che presto ritornò ai libri liturgici tradizionali. Il popolo è al pari dei vescovi il custode delle tradizioni, e anzi verrebbe dire più dei vescovi, che spesso si sono dimostrati – come nel titolo – sovvertitori e distruttori delle tradizioni, e gli esempi si sprecherebbero.

D’altra parte, la mancata resistenza alle gravissime riforme liturgiche del secolo XX rende patente che questo spirito e questa consapevolezza era venuta decisamente meno nella popolazione cattolica degli ultimi secoli, assuefattasi a un antitradizionale e deleterio principio d’autorità, per cui una singola persona detentrice di autorità, quasi assoluta, può modificare a suo piacimento tutta la tradizione della Chiesa. Qui sta il problema principale, in una natura verticistica in cui non è più Dio al vertice, ma un uomo, sia esso il Papa o il vescovo: e, come ha ben scritto un amico, ora che ha abolita la liturgia apostolica, al Papa non resta che abolire Dio, e sostituirlo definitivamente con se stesso, completando un secolare percorso di deriva. Se i movimenti “tradizionalisti” non si accorgeranno di questo fondamentale problema, e continueranno a resistere ai singoli danni senza indagare alla radice dei problemi, non riusciranno mai a risolvere la terribile impasse in cui si ritrova oggi il cattolicesimo.

A tutti coloro che, giustamente, si sentono delusi da questo imperioso e dittatoriale provvedimento contro la tradizione apostolica, ricordo che c’è un luogo ove la liturgia millenaria della Chiesa e la tradizione apostolica non potranno mai essere aboliti, poiché non vi è un Sommo Pontefice che si arroghi il diritto di farlo; il luogo ove si fa e si farà come si è sempre fatto, in ogni dove, sempre e da tutti.

mercoledì 14 luglio 2021

San Giovanni Boemo, protoeremita della Cechia

 di Natale Vadori

SAN GIOVANNI BOEMO, UN SANTO EREMITA VENERATO SIA DAI CATTOLICI CHE DAGLI ORTODOSSI MA CHE PER ALCUNI NON SAREBBE MAI ESISTITO

Lo scorso 6luglio si è svolto un pellegrinaggio, promosso dalla FSSP ceca, a San Giovanni sotto la Roccia, in onore di san Giovanni Boemo. La santa messa è stata celebrata dal rev. p. Josef Peňáznella chiesa ipogea dedicata alla Nascita della Beata Vergine Maria (Skalní kostel Narození Panny Marie), in slavo ecclesiastico, ovvero secondo il messale tradizionale romano ma utilizzando invece del latino lo slavo ecclesiastico, la lingua liturgica composta dai SS. Cirillo e Metodio, gli apostoli degli Slavi, la cui ricorrenza in Cechia e Slovacchia è celebrata proprio il cinque luglio (ed è anche festa civile in entrambi i Paesi), il sette luglio secondo il calendario latino tradizionale, ed il 14 febbraio invece secondo quello promulgato nel 1969; l'11 maggio nel calendario bizantino.

La messa era quella della Comune dei confessori non vescovi, Os justi e l’ordinarium Orbis Factor.  Il canto finale è stato l’inno a S. Venceslao (Hymnus ke sv. Václavovi) [1]. 

San Giovanni sotto la Roccia (Svatý Jan pod Skalou) [2] è un borgo idilliaco, immerso nei boschi, ad una trentina di km a sud-ovest di Praga, presso la cittadina di Beroun [3]. È il più antico centro di pellegrinaggio boemo, legato alla figura di san Giovanni Boemo [4], il primo eremita ceco, vissuto nella prima metà del IX sec., che qui aveva stabilito il suo eremo, in una grotta con una sorgente di acqua curativa, tutt’ora attiva, sotto una roccia erta ed imponente.

L’autenticità storica di questo santo è dibattuta. Al giorno d’oggi il suo culto è permesso dalla Chiesa cattolica solo in questa località e non è più annoverato tra i protettori cechi [5].  A titolo esemplificativo della problematica, riporto qui in una mia traduzione, la scheda “La questione di san Ivan”, redatta da F. V. Mareš [6].

LA QUESTIONE DI SAN IVAN

Tra i protettori cechi era annoverato anche san Ivan; godeva di grande popolarità sopratutto nel periodo barocco. Era il primo eremita, figlio del duca polabo [7] Gestimulus (Gostomysl); nel suo eremo a San Giovanni sotto la Roccia (presso Beroun) lo scoprì il duca Borzivogio Premislide (Bořivoj Přemyslovec, seconda metà del IX sec, primo dinasta boemo e padre del duca san Venceslao). Nella chiesa di S. Giovanni sotto la Roccia sono conservate le sue reliquie; la loro autenticità è tuttavia dubbia e molto dibattuta, come più in generale la stessa esistenza del santo. Per questa ragione il suo culto è permesso dalla Chiesa solo in questo luogo (cioè a S. Giovanni sotto la Roccia, ricorrenza il 25 giugno [8]). Tra le più antiche ragioni dell’antichità del culto si riporta la leggenda veteroslava di san Giovanni, nota grazie ad alcune copie russe. Questa leggenda costituirebbe la principale prova dell’esistenza del santo. Mostra tuttavia che è piuttosto recente: giunse in ambienti russi in primis attraverso l’inaffidabile Cronaca Boema di Václav Hájkz Libočan (pubblicata nel 1541) e tramite la Cronaca del Mondo, redatta nella seconda metà del XVI sec. dal cronista polacco Martin Bielski. Sarebbe interessante ed importante condurre moderne ricerche antropologiche sui resti [9]. 

Così scrive il Mareš sul santo. Rimane in ogni caso il fatto che Borzivogio nella suddetta località vi fondò la cappella di S. Giovanni Battista e vi nominò due sacerdoti. Nel 1033 Bretislao I (Břetislav I) di Boemia  consegnò la cappella al monastero benedettino di San Giovanni Battista in Insula (Klášter Stětí sv. Jana Křtitele na Ostrově) di Davle, una ventina di km a sudovest di Praga. I monaci vi stabilirono una canonica e dopo la distruzione del monastero di Insula nel 1517 anche l’abbazia. Il nobile Oldřich Zajíc di Hazmburk fece costruire qui una nuova chiesa, dedicata alla Nascita di s. Giovanni Battista (kostel Narození sv. Jana Křtitele). A cavallo tra il XVII e il XVIII secolo vi fu costruito dai noti architetti Carlo Lurago (1615-1684) e Kilian Ignaz Dienzenhofer (1689-1751) un nuovo complesso monastico barocco, tutt’ora esistente, anche se destinato  da tempo ad altri usi.

Nel 1732 l’arcivescovo praghese Ferdinand conte Khünburg (1651-1731), originario di Mossa di Gorizia, costituì la Congregazione degli Ivaniti (Congregatio fratrum eremitarum divi Ivani); congregazione che univa laici ma anche religiosi eremiti e cenobiti che vivevano secondo il modello di san Ivan, specialmente nei dintorni di Praga (oltre a S. Giovanni sotto la Roccia, anche nella Valle di Procopio [Prokopské Údolí] e a Vyšehrad [10]) ma pure in altre località boeme, come Křemešník, importante centro di pellegrinaggi presso Pelhřimov, sulle Alture Cecomorave [11]. Spesso gli ivaniti svolgevano le funzioni di sagrestano, campanaro, necroforo. Già nel 1782 l’imperatrice Maria Teresa ne proibì però nuove affiliazioni. Suo figlio e successore, l’anticattolico Giuseppe II, li soppresse, come tutti gli ordini contemplativi. Nel 1785 il convento divenne una residenza privata, nel 1925 una scuola, durante il comunismo prima una prigione e poi una scuola per la polizia politica. Ora è una scuola superiore pedagogica. 

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È certamente verosimile ed anzi plausibile che nei secoli si siano inseriti elementi leggendari, mi pare difficile però ritenere che tutto sia frutto di fantasia, vista l’antichità e la continuità del culto, tuttora e continuativamente praticato dalla Chiesa Ortodossa delle Terre Ceche, nonostante le numerose avversità storiche. La grotta e poi il monastero già nel Medioevo erano divenuti un importante centro di pellegrinaggio, anzi, il primo in Boemia. Passato il burrascoso periodo hussita del XV-XVI sec., con la sua feroce distruzione di ogni presenza cattolica, i pellegrinaggi ripresero nel XVII sec. con la ricattolicizzazione della Boemia e conobbero con la Controriforma il loro periodo aureo. Di nuovo scomparsi per gli effetti della politica anticattolica giuseppina, ripresero nella seconda metà del XIX sec. anche come manifestazione patriottica ceca. Ovviamente proibiti nel periodo comunista, negli ultimi anni sono ripresi per iniziativa della FSSP che qui, come altrove, riscopre e rivitalizza antiche devozioni religiose. 


L’umile Ivan, che rifiutò gli onori del mondo per ritirarsi a vita contemplativa nei boschi, affascinò da subito i contemporanei, ed ancora oggi costituisce un modello da conoscere e su cui riflettere per molti fedeli. Ivan ha anche dato il nome ceco (Kavyl Ivanův) alla Stipa Pennata, una specie di pianta spermatofita monocotiledone della famiglia delle Poaceæ; conosciuta in italiano anche come Lino delle fate piumoso.

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NOTE

[1] Inno del XII sec., in cui s’invoca san Venceslao, padre della Patria, e tutti i protettori cechi. È tutt’ora molto popolare.

[2] Ecco un breve video illustrativo della zona: https://youtu.be/q1tJrElXtdw. Si segnalano inoltre due pubblicazioni locali: Jeskyně sv. Ivana ve Svatém Janě pod Skalou, 2008, Svatojánská společnost; Svatý Jan pod Skalou, 2010, Svatojánská společnost.

[3] Posta alla confluenza del Berounka e del Litavka, a 30 km a SW di Praga, nel Medioevo era il più importante guado sulla strada tra Praga e Pilsen, nel Sud. I primi coloni erano Tedeschi ma curiosamente il toponimo “Beroun” è una corruzione tedesca di “Verona”.

[4] Ivan Český in ceco, quando il corrispondente ceco di “Giovanni” sarebbe invece Jan; indizio questo dell’origine non ceca ma polaba di Ivan.

[5] Ecco il link a tutti i protettori cechi: http://www.abcsvatych.com/rozdeleni/cestisvati.htm

[6] F. V. Mareš, Otázka svatoivanská v “Bohemia Sancta-Životopisy Českých Světců a Přátel Božích”, Praha, 1989.

[7] Si intende come Polabia un insieme di territori tra il basso Oder e la bassa Elba, nel Medioevo abitati da Slavi Polabi, definitivamente germanizzati nel XVIII sec. Il polabo, lingua slava occidentale, è quindi da tempo estinto.

[8] Secondo il calendario giuliano; 8 luglio secondo quello gregoriano. Il pellegrinaggio il 6 luglio si spiega perché in Cechia è festa civile.

[9] Le analisi sulle ossa vennero poi effettuate nel 2005, ed i risultati le attribuirono proprio al IX-X sec.: https://www.katyd.cz/prilohy/svaty-ivan---prvni-cesky-zalesak.html

[10] Rocca praghese a strapiombo sulla riva destra della Moldava, antica residenza reale; dal 1070 vi è eretta la Collegiata Reale del Capitolo dei SS. Pietro e Paolo di Vyšehrad, dal 2003 Basilica Minor.

[11] Alture che separano la Boemia dalla Moravia. Per una panoramica geografica del territorio ceco: https://bohemiaromana.altervista.org/geografia-boemia-moravia/