mercoledì 29 settembre 2021

Digiuno e astinenza: un vademecum

Questo scritto non vuole essere la spiegazione del senso cristiano dell’astinenza e del digiuno, ma, più sinteticamente, costituire una guida, un vademecum, per i nostri lettori che volessero adeguarsi alla prassi occidentale tradizionale. Per compilare le regole seguenti, infatti, abbiamo pensato di tornare alla prassi più antica, risalente addirittura ai Padri della Chiesa per alcuni aspetti, eliminando quindi le concessioni e gli allargamenti che, soprattutto nel mondo latino, sono stati via via introdotti non tanto per le necessità della vita moderna ma per assecondare la pigrizia spirituale. Chiaramente, noi non siamo nessuno per poter dire cosa scegliere nella vita spirituale: vogliamo però fare una proposta, dove sia possibile fare esperienza della più autentica Tradizione anche in questa materia.

Tanto per cominciare, ribadiamo l’importanza di avere un padre spirituale con cui confrontarsi: sarà lui a concedere, se necessario, dispense o piccoli adattamenti della regola, agendo con acribia o economia.

Si ricorda inoltre che sono dispensati dal digiuno (e, in alcuni casi, dall’astinenza) coloro che svolgono lavori pesanti (e.g. muratori, minatori…), impieghi in cui è necessaria l’attenzione (e.g. chirurghi, studenti sotto esame, autisti di mezzi pubblici…) o persone malate e donne gravide.

Su tutto, deve prevalere il buon senso: non avrebbe alcun significato (se non di rispetto puramente formale della regola), per esempio, non mangiare neppure una fetta di carne in un giorno di astinenza ma gustare costose ostriche o satollarsi in un sushi all you can eat.

Nei giorni di astinenza sono proibiti gli alimenti di origine animale (carne, brodo, sugna, salumi, insaccati, uova, latticini), il vino e i superalcolici. Sul pesce i canonisti antichi sono molto divisi, anche complice l'ambigua classificazione aristotelica di questa specie; secondo la prassi a nostro avviso più coerente è ammesso il sabato e la domenica e nelle feste doppie di I classe feriate che cadano in Quaresima o in altri periodi di astinenza stretta. L'uso romano non considera l'astinenza dall'olio d'oliva. La tradizione monastica prevede anche la xirofagia, cioè l’astensione dai cibi cotti. Sono giorni di astinenza:

  • tutti i mercoledì e venerdì, eccettuati quelli in cui cade una festa doppia di I classe con precetto (festa feriata [1]), dal Natale alla vigilia dell’Epifania (esclusa), la settimana che precede la Settuagesima e l’Ottava di Pentecoste; se in essi occorre una festa doppia o semidoppia si può consumare il vino;
  • tutti i giorni nel tempo di Avvento (in senso largo, maggiore del tempo liturgico propriamente detto): dall’11 novembre (festa di S. Martino) alla vigilia di Natale, esclusi i mercoledì ed i venerdì (che sono di digiuno);
  • le settimane di Sessagesima e i tre giorni di Quinquagesima (sono escluse le carni, ma non i derivati animali);
  • le domeniche di Quaresima;
  • il giovedì santo (l’ultimo pasto va consumato prima delle Tenebrae, con cui inizia il venerdì);
  • il sabato santo (dopo la celebrazione vigiliare è concesso il vino);
  • tutti i giorni in preparazione alla festa dei Ss. Pietro e Paolo, dal lunedì successivo alla festa della SS. Trinità al 27 giugno compreso (in questo periodo il vino è generalmente concesso);
  • tutti i giorni in preparazione alla festa dell’Assunzione della BVM, dall’1 al 13 agosto;
  • le vigilie delle feste dei Ss. Apostoli (20 dicembre per S. Tommaso, 23 febbraio per S. Mattia, 24 luglio per S. Giacomo, 23 agosto per S. Bartolomeo, 20 settembre per S. Matteo, 27 ottobre per i Ss. Simone e Giuda, 29 novembre per S. Andrea).

Il digiuno, comprendendo anche l’astinenza (poiché la legge più stringente comprende sempre quella minore [2]), prevede che si consumi un solo pasto al giorno dopo il Vespro [3]. Le colazioni (“refezioncelle”) sono introduzioni più tarde, eventualmente da concordare con il padre spirituale.

Sono giorni di digiuno:

  • tutti i mercoledì e venerdì compresi tra l’11 novembre ed il 24 dicembre;
  • il mercoledì, il venerdì ed il sabato delle Tempora d’inverno (dopo la III domenica di Avvento);
  • la vigilia di Natale (24 dicembre), che però è un jejunium gaudiosum in quanto all'unico pasto si possono consumare grandi quantità di cibo incluso il pesce
  • tutti i giorni di Quaresima, tranne le domeniche, fino al mercoledì santo incluso;
  • il mercoledì, il venerdì ed il sabato delle Tempora di primavera (dopo la I domenica di Quaresima);
  • la vigilia dei Ss. Pietro e Paolo (28 giugno);
  • la vigilia dell’Assunzione della BVM (14 agosto);
  • il mercoledì, il venerdì e il sabato delle Tempora d’autunno (dopo la festa dell’Esaltazione della S. Croce, 14 settembre);
  • La vigilia di Tutti Santi (31 ottobre);

Vi sono poi due giorni di "digiuno nero", ovverosia il mercoledì delle ceneri e il venerdì santo, in cui secondo tradizione non è permesso mangiare né bere alcunché. 

La birra, nei giorni di digiuno ordinario, è sempre consentita: ottenendosi dal malto d’orzo, essa è considerata una sorta di pane liquido [4].

Il vino si può consumare nelle feste grandi che occorrono in Quaresima (e.g. Annunciazione) e nei mercoledì e venerdì in cui occorre una festa che abbia almeno il grado semidoppio.

Nel tempo di Pasqua è sempre consentito il vino e non vi sono mai periodi di digiuno.

_____________________________
NOTE

1: nella concezione antica, non esisteva il precetto: le feste più importanti in settimana si riconoscevano dal fatto che in esse non si amministrava la giustizia ed erano sospesi i commerci.

2: per esempio, il divieto di fermata per strada comprende anche il divieto di sosta, come è chiaro che sia. Non si vede quindi per quali motivi la legge del digiuno non debba comprendere quella dell’astinenza. E' perciò poco sensato che esistano dei giorni di digiuno senza astinenza, come invece previsto dalla riforma della legge del digiuno col codice piano-benedettino del 1917.

3: per questo motivi taluni sono soliti, in Quaresima, cantare il Vespro prima di mezzogiorno.

4: Questo spiega perché molti monasteri, soprattutto in Belgio e in Germania, si sono fatti produttori di ottima birra, capace di nutrire senza violare la regola dell’astinenza.


domenica 19 settembre 2021

6 settembre - In festo Sanctorum Patronorum terrae Sueciae

Nell’immaginario collettivo, la Svezia non è certamente associata alla Vera Fede: si pensa piuttosto alla chiesa nazionale riformata (religione di stato fino al 2000, praticata dalla famiglia reale e cui aderiscono, nominalmente, il 56,4% dei sudditi) o all’ateismo totale, dove il protestantesimo liberale si è ormai trasformato in aperta rinuncia di qualunque tipo di dogma.

Tuttavia, anche in queste fredde terre è brillata la luce della santità: tali figure, però, rischiavano di essere obliate dalla riforma luterana. È necessario comprendere bene: talora, in modo un po’ semplicistico (sovente nella prassi scolastica), si afferma che i protestanti rifiutano i Santi; in realtà, Lutero (non così Zwingli e Calvino) accetta la loro presenza come semplici testimoni da ricordare, a cui magari intitolare anche le chiese (e.g. S. Maria a Berlino, S. Tommaso a Lipsia…), ma se ne rifiuta la capacità di intercedere (principio del solus Christus).

Così, quando nel XVI secolo il protestantesimo giunse in Svezia, molte reliquie furono distrutte (ciò accadde anche nei Paesi Bassi, nella Francia ugonotta e in Norvegia, dove non vennero risparmiate neppure le spoglie del santo re Olaf II) con l’intento di sradicare il culto dei Santi. Per fare sì che tali figure non venissero dimenticate, si pensò che l’idea migliore fosse quella di istituire una festa liturgica in loro onore: entra qui in scena Sigismondo III Vasa.

Il sovrano, figlio di Giovanni III di Svezia e della cattolica Caterina Jagellona, fu eletto Re di Polonia nel 1587 e detenne il trono fino alla morte (1632). Affezionato ai Santi della sua terra, inviò a Papa Sisto V la richiesta di introdurre, in alcune diocesi polacche, la festa dei Santi Patroni della Svezia. Il pontefice, che già aveva favorito Sigismondo contro Massimiliano d’Austria nella successione al trono polacco, concesse la festa; le feste dei singoli santi svedesi furono parimenti adottate nei calendari locali delle diocesi della Pomerania e del nord della Polonia, regioni in stretto contatto con i paesi scandinavi.

Secondo la tradizione, questi erano i Santi patroni della terra svedese:

Sant’Ansgario: nacque nell’801 ad Amiens, fu monaco benedettino in Francia ed in Germania prima di essere inviato, nell’826, a evangelizzare anzitutto la Danimarca, poi la Norvegia e la Svezia. Nell’834 Papa Gregorio IV lo nominò primo Arcivescovo di Amburgo, nonché legato pontificio per la Svezia e la Danimarca. Nell’848 divenne anche Vescovo di Brema, dove morì nell’865. Le spoglie dell’Apostolo della Scandinavia si trovano ad Amburgo, in parte nella cattedrale e in parte in una parrocchia.

. Bornemann, S. Ansgario, 1454, chiesa di S. Pietro (Amburgo)

San Sigfrido di Växjö: nacque nel X secolo in Inghilterra, dove divenne monaco benedettino. Nonostante nel IX secolo Sant’Ansgario avesse portato il cristianesimo, le terre erano ricadute nel paganesimo. Fu pertanto inviato presso il Re di Norvegia Olaf I per poter iniziare la sua missione. In seguito giunse in Danimarca e in Svezia, dove fondò una chiesa coi suoi tre nipoti chierici (un sacerdote, un diacono e un suddiacono). Nel 1008 ebbe l’onore di battezzare, presso il lago Vänern, il re di Svezia Olof III. Fu Vescovo di Skara e anche di Växjö, dove fece costruire la prima cattedrale e dove morì nel 1045. Le sue reliquie furono poste proprio in quella cattedrale. La maggior parte di esse furono distrutte nel 1600 dal vescovo riformato Petrus Jonae Angermannus; porzioni minori si trovano a Copenaghen e Roskilde, rispettivamente capitale ed ex capitale della Danimarca.

Anonimo, S. Sigfrido, 1250 c., chiesa Överselö (Södermanland, Svezia)

Santi Eschilo e Davide: i due nacquero nell’XI secolo in luogo indefinito. Di origine anglosassone, furono inviati entrambi da S. Sigfrido nel Södermanland e nel Västmanland. S. Davide fu anche il primo vescovo di Munkathorp. Pur desideroso di morire martire, morì di vecchiaia nel 1082. Quando giunse il luteranesimo in Svezia, il suo sarcofago fu distrutto.

Anonimo, S. Davide, 1250 c., chiesa Överselö (Södermanland, Svezia)

S. Eschilo fu invece il primo vescovo della diocesi delle terre del lago Mälaren, oggi Strängnäs. La maggior parte delle sue reliquie si trovavano nel monastero di Eskilstuna, oggi perdute; altri frammenti minori si trovano sparsi tra la Svezia e la Danimarca.

Anonimo, S. Eschilo , 1250 c., chiesa Överselö (Södermanland, Svezia)

S. Botvido: nacque nell’XI secolo in Svezia. Secondo la tradizione, conobbe il cristianesimo in Inghilterra, si convertì e tornò in patria con dei monaci per evangelizzarla. Fu molto attivo nella predicazione, pur rimanendo semplice laico. Fu anche intenzionato a portare la fede in Finlandia, ma la sua guida, uno schiavo che il santo aveva riscattato, lo uccise nel Södermanland nel 1120. Fu sepolto nella chiesa di Botkyrka, che a lui fu intitolata.

Anonimo, S. Botvido, 1500 c., chiesa Ytterselö (Södermanland, Svezia)

S. Erik IX: nacque in Svezia, probabilmente nel 1120. Nel 1150 fu eletto re dell’Uppland, mentre era ancora in carica, sul trono nazionale, Sverker I. Quando costui venne assassinato, nel 1156, Erik poté divenire ufficialmente Re di Svezia. Durante il suo regno portò a completamento la cattedrale di Uppsala vecchia e incentivò la cristianizzazione della Finlandia, combattendo contro i pagani del luogo. Sposatosi con la nobile danese Cristina Bjørnsdatter, ebbe cinque figli. Secondo la leggenda, vide il sole trasformarsi in croce nel cielo limpido: da questo nacque l’immagine della bandiera svedese. Il giorno dell’Ascensione del 1160 o 1161 fu assassinato fuori dalla cattedrale, da lui completata in cui fu sepolto. Nel 1273 le reliquie furono traslate nella nuova cattedrale di Uppsala.

Anonimo, S. Eric di Svezia, XIII s. (?), cfr. Kulturhistoriskt lexikon för nordisk medeltid, band 4, 1959.

S. Elena di Skövde: nacque a Skövde, forse nel 1101. Era una donna aristocratica, si sposò ma rimase presto vedova. Quando il genero fu assassinato, i parenti l’accusarono di essere coinvolta nell’omicidio. Elena andò per quattro anni in Terra Santa, dove visse di elemosine e in grande orazione. Mentre si reca a Götene fu assalita e uccisa nel 1160; fu poi sepolta nella chiesa di Skövde. Nel luogo in cui venne sorpresa a tradimento sgorgò una fonte d’acqua miracolosa, fatta interrare nel 1569 dal vescovo luterano Abraham Andersson.

A. Traube, S. Elena di Skövde, 1950, chiesa di S. Elena a Skövde

S. Irene di Kiev: nacque in Svezia nel 1001 da Re Olof III e da Estrid degli Obotriti. Il suo nome originario era Ingigerd. Inizialmente fu fatta fidanzare con Olaf II di Norvegia, ma poi, nel 1019, fu unita in nozze a Jaroslav I di Kiev. Giunta nel principato, cambiò il proprio nome in Irene e fu coinvolta nella vita politica e militare dal marito. Gestì le relazioni tra i paesi scandinavi e i territori russi. Mise al mondo nove figli e gestì un monastero femminile a Kiev intitolato a S. Irene. Grazie a lei furono avviati i lavori per la costruzione della cattedrale di S. Sofia a Novgorod, dove fu sepolta. Secondo una tradizione morì nel 1050, secondo un’altra spirò nel 1056 dopo essere divenuta vedova ed essere entrata in monastero.

A.I. Trankovskij, Jaroslav il Saggio e la principessa svedese Ingigerd, fine XIX - inizio XX sec., collezione privata

Ant. ad Magn.: Recordare, Domine, gloriosae Matris tuae Mariae, et dilectorum servorum tuorum Joannis Baptistae, Laurentii, Ansgarii, Sigfridi, Aeschili, Davidis, Henrici, Erici, Botvidi, Helenae, Irenis et aliorum sanctorum Patronorum terrae Sueciae, et ne auferas misericordiam tuam a nobis.

Oratio. Infirmitatem nostram, quaesumus, Domine, propitius respice: et mala omnia, quae pro peccatis nostris juste meremur, sanctorum tuorum terrae Sueciae Patronorum intercessione clementer averte. Per Dominum.

venerdì 10 settembre 2021

L'Ufficio Divino Bizantino - 4. Il Vespro

 Ma l'inno vespertino espone questa medesima cosa:
la nostra glorificazione del nostro Creatore
poiché siam giunti al tramonto, cioè alla fine del giorno
e lo poniamo tutto quanto dinnanzi a Dio.

San Simeone di Tessalonica


Il Vespro (greco Ἑσπερινὸς, slavo ecclesiastico Bечернѧ) è la funzione del tramonto, come il nome stesso suggerisce; con essa ha inizio il giorno liturgico, che secondo la tradizione giudaico-romana inizia con la notte. E' una delle preghiere liturgiche quotidiane più antiche, quella "all'accensione della lampada vesperale" ricordata dalla Traditio Apostolica. La lampada vesperale, un costume di origine pre-cristiana, è rimasta simbolicamente in molte tradizioni cristiane, rappresentando la luce di Cristo che non tramonta, in un rituale detto "lucernario", che il rito bizantino conserva, insieme - ad esempio - all'ambrosiano tra gli occidentali.

Il Vespro bizantino si distingue in "Piccolo" o "Grande" a seconda della solennità della festa che si celebra: le feste "con polieleo" (paragonabili alle semidoppie latine) prevedono il Grande Vespro. Le feste "con veglia" (paragonabili alle doppie latine), dacché dovrebbero celebrarsi con una veglia di tutta la notte che inizi col Vespro e prosegua con Mattutino e Liturgia, prevedono un'anomalia che è il canto di un doppio vespro: il Piccolo Vespro alla sera, all'ora consueta, e il Grande Vespro a un'ora più tarda, dopo il pasto, unito al resto delle funzioni. Questa prassi è disusata fuori dai grandi monasteri: il solo Grande Vespro viene celebrato abitualmente in questi casi, sia che sia servito da solo, sia che sia seguito immediatamente dal Mattutino in forma di veglia.

Sebbene, con minimi adattamenti come l'omissione delle litanie, possa essere celebrata da soli laici o lettori come tutte le altre Ore, tuttavia la forma ordinaria del Vespro prevede la presenza del sacerdote e del diacono. Per il Piccolo Vespro il sacerdote indossa l'epitrachilio (stola) sopra l'exoraso (veste nera dalle ampie maniche che si pone sopra la talare; corrisponde idealmente alla cotta) e, nella prassi slava, le soprammaniche; per il Grande Vespro, indossa pure il felonio (casula). Secondo il tipico, esso andrebbe indossato dopo la lettura del salterio, e smesso dopo la litania di supplica, per compiere i restanti riti in stola; tuttavia la prassi consueta, specie nelle veglie di tutta la notte, è di indossare il felonio dall'inizio alla fine. Il diacono è sempre in sticario (facente funzione di camice, anche se esteticamente appare una dalmatica), soprammaniche nell'uso slavo e orario (stola diaconale). Il sacerdote dovrebbe stare a capo coperto per tutta l'officiatura, eccetto quando dice le preghiere segrete all'inizio, all'ingresso e quando compie la litia, ma secondo alcune usanze indossa il copricapo solo per le incensazioni, e sta altrimenti a capo scoperto.

La struttura generale del Vespro, che poi analizzeremo nel dettaglio, è la seguente:

  • Salmo proemiale (103) e preghiere segrete
  • Grande litania
  • Kathisma del salterio e piccola litania
  • Salmi vespertini con incensazione e stichire del giorno
  • Piccolo Ingresso
  • Prochimeno
  • Profezie (nelle grandi feste)
  • Litania ardente
  • Preghiera vesperale
  • Litania di supplica
  • Litia (nelle grandi feste)
  • Stichi vesperali
  • Ode di Simeone
  • Trisagio e Apolytikia
  • Congedo
Salmo proemiale e preghiere segrete

Dopo la benedizione consueta Εὐλογητὸς ὁ Θεὸς ἡμῶν... ("Benedetto il nostro Dio..."), data entro il Santuario con le porte regali aperte se è un Grande Vespro, o davanti alle porte regali chiuse se è un Piccolo Vespro, il lettore dice il triplice Δεῦτε προσκυνήσωμεν... ("Venite adoriamo"), e subito inizia a salmeggiare il salmo 103, che è detto "proemiale" (προοιμιακός). Questo salmo è stato interpretato dai Padri come un'allegoria della Creazione, poiché in essa si loda la potenza di Dio che ha stabilite le creature sulla terra e a loro provvede: e infatti, mistagogicamente, il Vespro essendo la prima ora del giorno liturgico rappresenta proprio la Creazione, di cui analogamente parlano gl'inni del Vespro feriale romano.

E' da notare che il Vespro è l'unica ora in cui mancano le preghiere iniziali (Βασιλεῦ οὐράνιε - "Spirito celeste"), con cui normalmente si aprono tutti i servizi liturgici bizantini; questo perché il Typikon prescrive che il Vespro sia celebrato immediatamente di seguito all'Ora Nona, durante la quale sono già state dette; anche se nella prassi non sempre l'Ora Nona viene premessa, le preghiere iniziali comunque non si recitano. Nell'uso slavo il solo celebrante le dice segretamente mentre incensa l'altare: difatti, quando si celebra una veglia di tutta la notte si compie un'incensazione dell'altare prima dell'inizio della funzione e poi, data la benedizione iniziale al modo dei mattutini (Δόξα τῇ Ἁγίᾳ... - "Gloria alla Santa...") durante questo salmo s'incensano le icone, i fedeli e tutta la chiesa. In questo caso, nella prassi slava, il salmo non è salmeggiato, ma ne sono cantati solo alcuni versetti con una melodia particolarmente ornata.

Durante il salmo, e dopo aver compiuto l'incensazione se prescritta, il sacerdote, stando a capo scoperto davanti alle porte sante chiuse, legge sette preghiere segrete di ringraziamento e supplica al Signore per esser giunti al termine della luce e chiedere protezione nelle tenebre addivenienti. Secondo autorevoli liturgisti, tali preghiere originariamente erano le orazioni segrete che accompagnavano alcune litanie diaconali durante il corso del Vespro che, una volta scomparse dal loro posto proprio, sono state aggregate come preghiere sacerdotali in questo punto. Quando si fa una veglia di tutta la notte, talora alcuni omettono qui le preghiere vesperali, e le uniscono a quelle mattutinali durante l'esapsalmo del Mattutino.

Grande Litania (Εἰρηνικὰ)

Si tratta di una litania diaconale, detta εἰρηνικὰ (cioè "pacifica") dalle sue parole iniziali (Ἐν εἰρήνῃ τοῦ Κυρίου δεηθῶμεν - "In pace preghiamo il Signore") comprendente parecchie invocazioni, con cui si prega per la pace, per la Chiesa, per il vescovo, per la città e la nazione, e per varie necessità. Questa medesima litania è posta all'inizio degli altri due grandi servizi liturgici, il Mattutino e la Divina Liturgia: come detto, però, in questo caso l'esclamazione (ecfonesi) finale del celebrante non è preceduta da un'orazione segreta da dirsi durante le invocazioni diaconali, che è stata spostata durante il salmo proemiale.

Kathisma del salterio e piccola litania

A questo punto, il lettore salmeggia il kathisma, cioè la porzione, del salterio assegnata per il giorno della settimana corrente: come nella quasi totalità dei riti apostolici, l'intero salterio è letto nel corso della settimana a Vespro e Mattutino. La domenica e le grandi feste il catisma del salterio è sempre il primo, cioè i salmi 1-8. Sfortunatamente, nella prassi parrocchiale greca il salterio molto spesso viene omesso, mentre è rigorosamente letto nei monasteri. Nella prassi slava, invece, il salterio domenicale è abbreviato in una raccolta di uno o due versetti da ciascun salmo, cantati con una melodia ornata e accompagnati da numerosi alleluia, in una composizione detta (dalle parole iniziali del salmo 1) Бл҃женъ мꙋжъ ("Beato l'uomo").

Dopo il salterio il diacono canta una piccola litania (Ἔτι καὶ ἔτι ἐν εἰρήνῃ... - "Ancora e ancora in pace..."), conclusa dall'ecfonesi del sacerdote.

Salmi vespertini

A questo punto, si cantano i salmi fissi del Vespro, quelli che accompagnano l'offerta dell'incenso: essi sono i salmi 140, 141, 129 e 116. Sono tutti salmi vespertini secondo la tradizione apostolica, e infatti si ritrovano pure nel cursus vesperale della tradizione occidentale. Il salmo 140, chiamato psalmus lucernalis dalla Traditio Apostolica risulta particolarmente adeguato al momento per il suo secondo versetto: Κατευθυνθήτω ἡ προσευχή μου, ὡς θυμίαμα ἐνώπιόν σου, ἔπαρσις τῶν χειρῶν μου θυσία ἑσπερινὴ ("Sia diretta la mia preghiera come incenso al tuo cospetto, l'elevazione delle mie mani come sacrificio vespertino"). Al canto di questo versetto (che, nella prassi greca, è cantato insieme al primo con una melodia molto ornata detta Κεκραυγάριον), il diacono incensa l'altare dai quattro lati, e poi, mentre con una melodia più rapida vengono cantati i salmi, egli uscendo dalla porta settentrionale incensa le icone, i fedeli e l'intera chiesa.

Durante i salmi, e precisamente negli ultimi dieci versetti (cioè gli ultimi due del salmo 141, e tutti i salmi 129 e 116) si inseriscono le stichire, cioè delle antifone mediamente lunghe, della feria o della festa che si celebra: se in un giorno si celebrano più ricorrenze, le stichire vengono sommate tra loro, fino a un massimo di dieci. Se fossero solo 6 od 8, si inizia a cantarle rispettivamente dagli ultimi sei od otto versetti. In una festa semplice, ad esempio, si cantano 3 stichire del santo e 3 del giorno; in una festa con polieleo, 6 tutte del santo. La domenica, invece, si cantano 4 stichire dell'ottoico (il libro che contiene i servizi per gli otto toni, che si alternano nel ciclo domenicale ordinario) e 4 anatoliche (nome non chiaro: potrebbero chiamarsi così perché composte dal monaco Anatolio, o perché originalmente cantate in un monastero situato nella Siria orientale); se però si commemora anche la festa di un santo semplice, se ne cantano 4 dall'ottoico, 3 anatoliche e 3 del santo, e via così.

Il typikon costantinopolitano revisionato da Violakis nel XIX secolo permette che nelle grandi feste, supponendo che le stichire saranno cantate in modo molto ornato, si possano omettere i versetti dei salmi 140 e 141 durante i quali non vi sono stichire; l'estensione di questa prassi al Vespro quotidiano, benché diffusa, è un abuso.

Dopo i salmi, viene cantato "Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo", e una stichira molto lunga del santo del giorno detta doxastico. Quindi "E ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen" e una stichira alla Madre di Dio. In questo momento si aprono le porte regali per l'Ingresso.

Piccolo Ingresso

Durante la stichira della Madre di Dio, il diacono incensa con tre colpi verso l'altare, e un colpo verso la croce astile e l'immagine astile della Madre di Dio poste rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra. Quindi, fatta con il celebrante e gli accoliti coi candelieri reverenza all'altare, escono tutti dalla porta settentrionale e, fatta una breve processione, durante la quale il celebrante dice una preghiera segreta, si dispongono davanti alle porte regali. Il celebrante benedice l'ingresso: Εὐλογημένη ἡ εἴσοδος τῶν ἁγίων σου... - "Benedetto l'ingresso del tuo santuario..."

Quindi il diacono, tracciando un segno di croce col turibolo, canta: Σοφια! Ὀρθοί! ("Sapienza! In piedi!"). Il coro canta allora l'inno del Lucernario: Φῶς ἱλαρόν ("O luce radiosa"). Intanto il celebrante bacia le icone del Cristo e della Madre di Dio, benedice gli accoliti ed entra nel Santuario, accompagnato dal diacono che incensa.

L'inno Φῶς ἱλαρόν, benché chiamato "Poema di Sofronio" e attribuito all'omonimo patriarca gerosolimitano del VII secolo dalle edizioni slave, è in realtà uno degli inni cristiani più antichi conosciuti, risalente addirittura al II secolo. E' quel che resta nel rito bizantino del Lucernario, anche se fisicamente la lampada vesperale non è accesa.

Si deve notare che il Piccolo Vespro, propriamente, non avrebbe l'Ingresso: perciò le porte restano chiuse, e terminata lo stico della Madre di Dio il coro canta immediatamente il Φῶς ἱλαρόν senza cerimonie. In Grecia è tuttavia prassi compiere l'ingresso ogni giorno, anche al Piccolo Vespro. La prassi, parimenti diffusa in Grecia, di leggere il Φῶς ἱλαρόν anziché cantarlo, non trova invece giustificazioni storiche.


Prochimeno

Durante la conclusione dell'inno, il celebrante, fatta riverenza all'altare, va al seggio posto dietro lo stesso sul lato destro, e, voltosi al popolo, lo benedice. Quindi, il diacono intona il prochimeno "della sera", diverso per ogni giorno della settimana. Il prochimeno ha la struttura di un responsorio, con il primo verso ripetuto dal coro a ogni versetto cantato dal diacono; letteralmente προκείμενον significa "assegnato", e sottintende "stico", tuttavia potremmo traslatamente chiamarlo "graduale", poiché la sua funzione è quella di canto interlezionale durante la Divina Liturgia. Anche al Vespro esso è stato introdotto in ragione delle letture profetiche che seguiranno; tuttavia, l'uso ha fatto sì che questo venisse cantato anche nei giorni in cui le letture non sono previste, assumendo un significato a sé.

Letture profetiche

Terminato il prochimeno si chiudono le porte regali. Il lettore, portatosi al centro della chiesa, proclama il titolo della prima profezia, e il diacono annuncia: Πρόσχωμεν! ("Stiamo attenti!"). Le letture veterotestamentarie, in numero di tre, sono previste unicamente nelle grandi feste.

Litania ardente

Il diacono quindi canta la litania ardente (Εἴπωμεν πάντες... - "Diciamo tutti..."), simile a quella che si canta dopo il Vangelo durante la Divina Liturgia. Il coro risponde tre volte Kyrie eleison a ogni invocazione. Nel Piccolo Vespro questa litania è stata spostata per motivi ignoti alla fine della funzione, prima del congedo, forse per rassomigliare alle litanie conclusive della Compieta e del Mesonittico. Poiché questo spostamento è privo di ragione storica, non è sbagliata la prassi di molti sacerdoti di cantarla in questo punto pure nei feriali.

Preghiera vesperale

Segue la preghiera vesperale (Καταξίωσον, Κύριε - "Rendici degni, o Signore"), cantillata dal lettore o cantata dal coro secondo le rispettive prassi greca e slava.

Litania di supplica (Πληρωτικὰ)

Il diacono quindi prosegue con la litania di supplica (Πληρώσωμεν τὴν ἑσπερινὴν δέησιν ἡμῶν τῷ Κυρίῳ - "Completiamo la nostra preghiera della sera al Signore"), in cui si richiedono che la sera passi pacifica e senza peccato, un angelo di pace a guidarci, la remissione dei peccati, il dono della penitenza, una morte cristiana e una valida difesa al tribunale di Cristo. La stessa preghiera viene rivolta al termine del Mattutino e due volte durante la Divina Liturgia (dopo il Grande Ingresso e prima del Padre Nostro), e invocazioni simili contiene la litania gelasiana impiegata nel rito romano arcaico. Al termine di questa, il sacerdote si volge al popolo e lo benedice; il diacono invita quindi a chinare il capo, e il celebrante volto all'altare recita una preghiera segreta sui capi inclinati, concludendola a voce alta.

Litia

La litia è una processione culminante con una benedizione del pane, del grano, dell'olio e del vino, che si compie nelle grandi feste, e tutte le domeniche secondo il Tipico; nella prassi, è omessa nelle domeniche ordinarie. In antico, e ancora così in Grecia, si benedicevano solo cinque pani dolci, a memoria del miracolo della moltiplicazione dei pani; in Russia e in altre terre accanto ai cinque pani s'iniziarono a benedire del vino, dell'olio, del grano o altri prodotti della terra. Questi vengono posti su un tavolino al centro della chiesa, con tre candele accese.

Dopo la litania, il coro inizia a cantare le stichire della Litia: il celebrante esce dalle porte regali, accompagnato dal diacono col turibolo fumigante e da due accoliti coi candelieri. Si fa una processione interna lungo il lato settentrionale della chiesa, e ci si reca nel nartece. Ivi, quando il coro ha cantato il Gloria e le ultime stichire, il diacono canta la preghiera Σῶσον ὁ Θεὸς τὸν λαόν σου... - "Salva o Dio il tuo popolo", in cui si chiede l'intercessione di moltissimi santi; il coro risponde cantando 40 volte Kyrie eleison. Il diacono quindi prosegue con una litania con intercessioni molto lunghe ed elaborate: il coro risponde dapprima con 30 Kyrie eleison, poi 50, e infine 3 alle ultime invocazioni. Il celebrante quindi benedice il popolo, il diacono l'invita a chinare il capo e il celebrante dice una preghiera ad alta voce in cui rinnova la richiesta d'intercessione ai molti santi sopraddetti. Risposto "Amen", il coro prosegue con gli stichi vesperali, mentre il sacerdote attende nel nartece col clero.

Se la Litia non si tiene, dopo la litania di supplica il coro canta subito gli stichi vesperali, e il clero resta in Santuario.

Stichi vesperali

Il coro canta dunque alcune stichire, intervallate da versetti salmici scelti. Durante le domeniche ordinarie, le stichire sono tratte dall'ottoico in un ciclo ininterrotto di 24 (3 per ciascuna delle 8 domeniche del ciclo) in acrostico. Le feste minori non usano stichire proprie: si cantano quelle feriali, oppure dell'Ottava se ne ricorresse una o del tempo liturgico; per le feste con polieleo generalmente si ricorre a un "Comune" (stichire per i confessori, per i martiri, per i vescovi etc.), a differenza delle stichire dei salmi vesperali, che sono proprie di ciascun santo anche per i santi minori. Le grandi feste hanno anche queste stichire proprie.

Ode di Simeone

Subito dopo, si canta l'Ode di Simeone, cioè il Nunc dimittis (Lc II, 29-32): a differenza della prassi romana, essa costituisce il cantico evangelico del Vespro e non della Compieta; bisogna però considerare che nell'uso bizantino sia Benedictus che Magnificat sono cantati al Mattutino. Nella prassi greca il Cantico di Simeone è cantillato dal celebrante, mentre nell'uso slavo è cantato dal coro in tono sesto. Le due prassi diverse derivano dal fatto che, originariamente, l'Ode di Simeone era cantata dal coro in questo punto, e invece cantillata dal celebrante durante le preghiere di ringraziamento dopo la Divina Liturgia; la prassi greca uniformò le due facendole sempre cantare al celebrante, mentre la prassi slava le uniformò in senso opposto, dando anche quella dopo la Liturgia al coro.

Trisagio e Apolytikia

Il lettore cantilla quindi il Trisagio, seguito come sempre dal Gloria al Padre, dalla preghiera Παναγία Τριὰς, ἐλέησον ἡμᾶς... ("Santissima Trinità, abbi misericordia di noi..."), da un triplice Kyrie eleison, un altro Gloria al Padre e il Padre Nostro, concluso dal celebrante con l'ecfonesi Ὅτι σοῦ ἐστιν ἡ βασιλεία... ("Poiché tuo è il regno").

Il coro canta dunque gli apolytikia del giorno: originariamente nati con questa funzione (ἀπόλυσις = conclusione, stanno alla conclusione del Vespro), sono diventati i tratti riconoscibili di ogni giorno liturgico, venendo cantati alla Divina Liturgia dopo il Trisagio e a ogni altra ora liturgica (hanno un carattere identificativo simile alla colletta romana, però non sono né preghiere sacerdotali né impetratorie in senso stretto, seppure alcune si concludano con la richiesta al santo di pregare Iddio per noi). Se si è celebrata la Litia, in questo momento il celebrante procede dal nartece nel mezzo della chiesa, e ivi incensa i pani, girando tre volte attorno a essi e poi, preso un pane e tracciando con esso un segno di croce sugli altri quattro, pronuncia la preghiera di benedizione su di essi.

Se si celebra la veglia di tutta la notte di una domenica, poiché gli apolytikia domenicali saranno dopo poco ripetuti al Mattutino, vengono sostituiti da una triplice Θεοτόκε Παρθένε, χαῖρε ἡ κεχαριτωμένη Μαρία ("Vergine Deipara, Ave Maria, piena di grazia..."), che è la forma bizantina dell'Ave Maria. Se però si commemora anche una grande festa, si cantano due Ave Maria e l'apolytikio della festa.

Congedo

Come spesso accade, i congedi bizantini sono frutto di accavallamenti di diverse tradizioni, cattedrali e monastiche, studite, sabaite e aghiorite. I libri liturgici più antichi non sono affatto chiari nell'indicare le prassi dei congedi vesperali, e solo più recentemente sono stati uniformati.

Il Vespro feriale termina così: dopo la litania ardente (se si è spostata a questo punto; altrimenti subito dopo gli apolytikia) il diacono esclama: Σοφια! ("Sapienza!"), il coro domanda la benedizione, e il celebrante dice Ὁ ὢν εὐλογητὸς... ("Colui che è benedetto..."). Segue un'invocazione del coro per la conservazione della fede dei Cristiani Ortodossi, e quindi la consueta invocazione alla Madre di Dio (Τὴν τιμιωτέραν - "Tu più onorevole"), il Gloria, un triplice Kyrie eleison e la richiesta di benedizione, seguita dal congedo ordinario Χριστὸς ὁ ἀληθινὸς Θεὸς ἡμῶν... - "Cristo vero Dio nostro...".

Al Vespro festivo, invece, il coro canta tre volte, come alla Divina Liturgia, Εἴη τὸ ὅνομα Κυρίου... - "Sia benedetto il nome del Signore...", quindi il salmo 33 per intero, e a seguire il celebrante, voltatosi verso il popolo, lo benedice come alla Divina Liturgia Εὐλογία Κυρίου ἔλθοι ἐφ' ὑμᾶς... - "La benedizione del Signore venga su di voi...", e a seguire il congedo feriale come sopra o, se si celebra una veglia di tutta la notte, direttamente s'inizia il Mattutino. Questa seconda prassi origina dalla Litia: il salmo 33, quello di ringraziamento per eccellenza, si spiega infatti perché in questo momento avviene la distribuzione del pane benedetto durante la medesima (e nei libri liturgici slavi è stampato in rubrica un poemetto rivolto al sacerdote che gli ricorda di osservare i canoni e non benedire una seconda volta gli stessi elementi in occasione di un'altra officiatura); quando la veglia o il Vespro festivo sono celebrati senza Litia, il salmo è spesso omesso e sono cantati solo i tre introduttivi Εἴη τὸ ὅνομα Κυρίου.

Al Vespro quaresimale, la preghiera di S. Efrem s'inserisce subito prima del congedo, e dopo di esso - anche nei feriali - sono salmeggiati i salmi 33 e 144; questi due salmi accompagnano infatti la distribuzione dell'antidoro dopo la celebrazione dei Presantificati, che nei monasteri in Quaresima avviene ogni giorno.

martedì 7 settembre 2021

25 agosto - In festo S. Dionysii Zacynthensis

 Il 25 agosto (7 settembre) ricorre la festa di S. Dionisio di Zante, detto "il Nuovo", vescovo e taumaturgo, una delle gemme spirituali dell'isola ionica che a lungo fu della Veneta Repubblica.

Dionisio, al secolo Gradenigo Siguros, nacque nel 1547 ad Egialò, villaggio costiero dell'isola di Zante, da un'inclita famiglia iscritta nel Libro d'Oro della nobiltà: suo padre, Muzio Siguros, era stato onorato come benemerito della Repubblica di Venezia nelle guerre veneto-turche. Secondo una popolare tradizione dell'isola, ebbe come padrino al Battesimo nientemeno che san Gerasimo di Cefalonia. Sin dall'infanzia ricevette un'istruzione alle lettere cristiane, apprendendo, oltre al veneto e al greco, pure il latino; della sua educazione teologica è traccia una lettera giovanile conservatasi in cui Gradenigo esprime delle riflessioni su alcuni passi da S. Gregorio Nazianzeno.

All'età di 20 anni, dopo la morte dei genitori, decise di devolvere la sua parte di eredità ai fratelli e si ritirò nel monachesimo nel monastero delle Strofadi, isoletta a sud di Zante, col nome di Daniele. La sua devozione alla preghiera ascetica e allo studio delle Sacre Scritture fu tale, e tanti i suoi progressi spirituali, che nel giro di due anni divenne abate del monastero; l'anno successivo, nonostante le iniziali resistenze (poiché, come san Dionisio sapeva bene, la vocazione del monaco è l'ascesi, non il sacerdozio), ricevette l'ordinazione per le mani del vescovo Teofilo Loverdo di Zante, Itaca e Cefalonia.

Dopo qualche anno, nel 1577, lo ieromonaco Daniele decise di compiere un pellegrinaggio verso la Terra Santa: durante il viaggio, passando da Atene, volle andare a ricevere la benedizione dal vescovo locale, Nicanora, il quale fu tanto colpito dall'educazione e dall'ascesi del santo, che pensò di destinarlo a più luminosa carriera. Chiesta dunque la benedizione del Patriarca di Costantinopoli Geremia II Tranos, lo nominò vescovo dell'isola di Egina, nel golfo Saronico di fronte alla penisola dell'Attica, la cui sede era rimasta vacante dalla presa dell'isola da parte del corsaro ottomano Ariadeno Barbarossa nel 1537. Così, il 16 luglio di quell'anno lo ieromonaco Daniele fu consacrato all'episcopato col nome di Dionisio nella chiesetta della Madonna "Gorgoepikoos" e di S. Eleuterio, la cosiddetta "Piccola Metropoli" che funse da cattedrale di Atene tra la conquista ottomana e la costruzione della nuova cattedrale nel XIX secolo.

Dopo tre anni di episcopato, nel quale il santo visse in umile ascesi in una celletta sopra la chiesa della Madonna a Paleocora, dove aveva posto la sua sede, decise di ritirarsi e fare ritorno nella sua città natale. Lì dovette comunque esercitare funzioni di corepiscopo, svolgendo ordinazioni e visite pastorali col titolo di "Presidente di Zante" conferitogli dal Patriarca, poiché la sede era rimasta per diversi anni vacante e tra le varie isole e il governo veneto c'erano contese su chi dovesse essere il nuovo vescovo. Egli stesso a un certo momento venne indicato dal Patriarca come vescovo, ma il procuratore Nicolò Da Ponte si oppose, sospettando che la mossa fosse stata in qualche modo orchestrata dagli ottomani sotto la cui autocrazia si trovava di fatto il patriarcato di Costantinopoli. Perciò, nel 1583, la Comunità di Zante (organo amministrativo dell'isola sotto la Repubblica) lo nomino parroco della chiesa stavropegiale di San Nicola al Molo; egli tuttavia rimase lì un solo anno, scegliendo poi di ritirarsi nel monastero di Anafrionita, e visitando regolarmente pure il suo vecchio monastero nelle Strofadi, vivendo asceticamente in preghiera e digiuno, carità e guida spirituale

Nel dicembre dello stesso anno vi furono nell'isola dei disordini, causati dalla secolare rivalità tra le famiglie nobili Siguros e Mondinos, durante i quali il fratello del santo, Costantino, fu assassinato. Il suo ignoto assassino, per sfuggire alle guardie, si rifugiò nel monastero di Anafonitria, ignorando la parentela dell'abate con l'ucciso: quando questi gli chiese perché venisse al monastero, l'assassino confessò pentito, e san Dionisio mostrò grandissima pietà, nascondendo l'assassino nel monastero, dichiarando di non conoscerne la storia quando le guardie ivi giunsero a cercarlo, e poi aiutandolo a rifugiarsi a Cefalonia. La compassione del santo in questo episodio è cantata dal poeta Andrea Martzokis nella poesia "L'Abate di Anafonitria" (Ὁ γούμενος τῆς Ἀναφωνητρίας) del 1882:

Τέτοια τους λέει στενάζοντας, καὶ τὸ χρυσό του στόμα
ποῦ ἀφ'ὅτου ἐπρωτολάλησε δὲν εἶπε ψέμα ἀκόμα,
ἐψεύτηκε πρώτη φορὰ! Τὴν παρθενιά του χάνει,
κι ἁγιάζει ὁ ἀναμάρτητος τὴν ὥρα π’ ἀμαρτάνει!…

Queste cose le disse sospirando, e la sua bocca aurea
che, da quando per la prima volta avea parlato, giammai ancora avea detto una bugia,
mentì per la prima volta! Perse la sua verginità,
ma colui ch'è senza peccato santifica pure nel momento in cui pecca.

Tra i molti miracoli del santo, si narra che fermò il corso di un fiume durante un temporale per evitare che questo travolgesse un suo studente; che liberò dalla maledizione una donna morta durante un aborto; che ammonì dei pescatori che bestemmiavano e questi, come si furono pentiti, furono ricolmati di pesci. Il suo spirito di discernimento era tale da essere uno dei confessori più famosi del suo tempo, l'unico - secondo la tradizione - a cui lo ieromonaco Pancrazio ebbe il coraggio di confessare che un giorno gli cadde a terra dalle mani un pezzo del Corpo di Cristo mentre faceva la Comunione.

La "discesa" del santo che si compie alle 11 del 23 agosto di ogni anno, a memoria della traslazione delle sue reliquie. Il corpo incorrotto viene posto verticalmente davanti all'altare della cattedrale di Zante.

Il 17 dicembre 1622 si addormentò in Cristo all'età di 75 anni, e fu sepolto secondo il suo volere nella cappella di San Giorgio delle Strofadi, nell'isola di Stamfani, dove aveva ricevuto l'ordinazione sacerdotale. Dopo tre anni, il suo corpo fu ritrovato incorrotto, e perciò fu intronizzato nel katholikon del monastero, e sin da allora venerato da moltissimi pellegrini come patrono della sua terra: affermano di averlo veduto intatto e profumato sul trono despotico due visitatori veneziani nel 1717, lo storico Ferrari e l'ammiraglio Pisani.

Nell'agosto dell'anno stesso 1717, tuttavia, il pirata turco Mostrino saccheggiò l'isola, profanando il monastero e tagliando gli arti del santo, che poi vendettero a Chio. Più tardi queste sono state restituite, e ora si trovano nel monastero, dove sono usate per le benedizioni agl'infermi e gli esorcismi, visto che le reliquie del santo hanno un grande potere taumaturgico contro i demoni e le possessioni. Dopo la catastrofe dell'isola, il 24 agosto i monaci superstiti trasportarono il "santo corpo" (τ'ἅγιο Κορμί, come lo chiamano gli abitanti delle isole ioniche) in città a Zante, dove fu deposto nella cattedrale di San Nicola degli Stranieri, e più tardi nella chiesa della Natività della Vergine nel villaggio di Kaliteros, metochio del monastero delle Strofadi. Per questo il santo viene onorato nell'isola alla fine di agosto, con una lunghissima processione; lo ricorda invece il 17 dicembre la città di Atene, che ne conserva una reliquia e un'icona aurea seicentesca nella chiesa di S. Irene sulla via di Eolo, dove il santo è particolarmente onorato dalla comunità zacintese della capitale. Viene molto venerato pure nelle restanti isole ioniche, nonché ad Egina, della quale fu il primo patrono, prima dell'elezione di S. Nettario da parte degl'isolani a proprio speciale protettore nel XIX secolo.

PROPOSTE DI TESTI LITURGICI

Ad Magn. ant. Ton. VI. Festum hodie * laetissimum celebret civitas Zacynthus, quae cum Strophadis Aeginaque, hymnis et canticis conlaudat decus suum Dionysium.

Ad Benedict. ant. Ton. VIII. Novissimi * sancti festum celebremus Dionysii, ex quo Zacynthus decoratur, cunctique fideles ab omni periculo et spiritu malignitatis liberantur.

lunedì 30 agosto 2021

L'Investigatore confutato - Nota su Lc 1,49

 Fortuitamente nella nostra Ottava dell'Assunzione, il buon Marco Tosatti ha ospitato sul suo blog (qui) l'intervento di un anonimo personaggio che si fa chiamare "Investigatore biblico", e che sostiene di aver individuato un errore nella traduzione CEI del 2008 di Lc 1,49, che poi è il terzo versetto del Magnificat.

Lascio ai lettori di leggere il suo breve scritto, e riassumo solo brevemente l'errore, che egli individua confrontando con la traduzione CEI del 1974:

CEI 1974: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” (Lc 1,49);
CEI 2008: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49).

L'argomentazione consiste nell'analisi del testo greco e del testo latino, ma è un'argomentazione alquanto difettosa. Il testo greco infatti dice: ὅτι ἐποίησέν μοι μεγάλα ὁ δυνατός; quello latino letteralmente traduce: Quia fecit mihi magna qui potens est.

Ora, il Nostro, citando come "autorevoli" fonti a suo sostegno uno specchietto di mezza pagina sui pronomi personali greci (che non lo sostiene nella sua tesi, in realtà) e un traduttore automatico online dal latino (ben messi siamo!), sostiene che sia palese che la traduzione corretta sia "in me", e "per me" sia una distorsione che mira a una diminutio dell'opera dello Spirito Santo in Maria. E il Nostro analizza:

oti: che [impreciso: "poiché", non essendo nel contesto di una dichiarativa; identidem il quia latino; farei notare, e il Nostro non lo fa, che nessuna delle due traduzioni italiane riporta la preposizione causale]
epoiesen: fatto [errore: "fece", o tutt'al più "ha fatto"; "fatto" sarebbe πεποιημένον]
moi: me [errore: "a me", o "mi" in posizione atona, essendo dativo; "me" (che in italiano è c. ogg, quindi acc.) è με]
megala: grande [errore: grandi! Neutro plurale accusativo!]
o dunatos: l’Onnipotente [errore: "colui che è potente", "il potente"; e infatti la traduzione latina dice qui potens est; "onnipotente" equivale a παντοκράτωρ / omnipotens, ma né la CEI del '74 né quella del 2008 né il Nostro paiono avvedersene]

Cinque errori su cinque parole sono un record interessante; ma non pago, il Nostro prosegue:

Il pronome “moi” nel versetto in esame non può essere assolutamente tradotto con “per me”.
Il contesto stesso ci porta all’esatta traduzione: “in me”.

Purtroppo per il Nostro, μοι (così come mihi) è un dativo di vantaggio, costruzione comunissima nel greco, e perciò la traduzione corretta è proprio "per me". "In me" è una supposizione intepretativa che non ha ragioni linguistiche: bisognerebbe che il testo avesse ἐποίησεν ἐν ἐμοὶ, oppure in una versione più raffinata con preverbio (che però sarebbe stilisticamente improbabile trovare nel testo greco "volgare" dei sinottici) ἐνεποίησέν μοι. San Luca intendeva altro? Possibile, ma il testo tradito è questo, e può essere letto solo così, non seguendo le nostre ubbie teologico-interpretative (la teologia si ricava dall'esperienza, non si adatta l'esperienza [cioè la Liturgia e la Scrittura] alla teologia speculativa!).

Perciò la versione CEI 2008 su questo corregge un errore dell'imprecisa CEI 1974; entrambe però sono imprecise su altri due punti della traduzione di questo solo versetto, oltre che in tutto il resto della Scrittura. Questo è un errore tipico delle traduzioni interpretative (le antiche traduzioni a scopo sacro e liturgico, come quella latina di S. Girolamo o quella slavonica dei Ss. Cirillo e Metodio, traducono parola per parola, e addirittura cercano di imitare le parole composte tipicamente greche), che sono per questo sommamente inadatte all'uso sacro, poiché la mente dei fedeli si lega alla traduzione, e percepisce come sbagliato il suo aggiornamento, anche quando questo corregge un errore della precedente (vedasi il caso della "rugiada dello Spirito"); perciò, invitiamo il Nostro e tutti i lettori a non affidarsi ai traduttori-traditori della CEI, ma a preferire le versioni antiche nelle lingue liturgiche dei testi sacri.

Infine, ci preme segnalare un errore tipico del mondo conservatore e "tradizionalista", che abbiamo ben visto in questo caso: persone che non sanno e non studiano, e nondimeno insegnano, con grande danno per tutti.

venerdì 6 agosto 2021

San Gregorio Magno e il Papato moderno - parte II

Proseguiamo la rassegna di testi con cui san Gregorio il Grande esprime la dottrina tradizionale e patristica sul papato, a confronto con quella ultramontana oggi diffusa nella chiesa Cattolica. Varie lettere di san Gregorio sull'argomento originano dalla disputa sul titolo di ecumenico, cioè universale che il patriarca di Costantinopoli si era attribuito in quanto vescovo della sede imperiale. Tra le numerose lettere agli altri Patriarchi ch'egli dedica alla questione, riportiamo - col prezioso commento ottocentesco dell'Archim. Wladimir Guettée, apologeta della dottrina patristica contro l'ultramontanismo del Vaticano I - una indirizzata direttamente al vescovo di Costantinopoli Giovanni. Utile non solo contro il papismo ultramontano, ma pure contro il papismo costantinopolitano dei giorni nostri.

LETTERA DI S. GREGORIO AL PATRIARCA GIOVANNI DI COSTANTINOPOLI
(V, 18)

Gregorio a Giovanni, vescovo di Costantinopoli.

Dal momento in cui la Vostra Fraternità è stata elevata alla dignità sacerdotale, ella si ricorda quanta pace e concordia tra le Chiese si sia avuta. Ma, ignoro per quale azzardo o per quale superbia, ella ha cercato di impossessarsi di un nuovo titolo, onde potesse causarsi scandalo nei cuori di tutti i fratelli. E della qual cosa assai mi stupisco, poiché ricordo che non volevi giungere all'episcopato, ma volevi fuggirlo. Eppure, una volta ottenutolo, lo vuoi esercitarlo così come se lo avessi ricercato con ambizioso desiderio. Tu infatti che ti dicevi essere indegno d'esser chiamato vescovo, sei arrivato ora, disprezzando i tuoi fratelli, al punto di voler aver tu solo il titolo di vescovo. E su questo argomento furono trasmessi alla vostra santità dei gravi scritti del mio predecessore Pelagio di santa memoria, nei quali rifiutò, per il titolo nefando di superbia, gli atti del sinodo che presso di voi era stato riunito in favore della causa del nostro allora fratello e co-episcopo Gregorio, e proibì di celebrare messa insieme a voi all'arcidiacono, che secondo consuetudine aveva mandato alla corte imperiale. Dopo la sua [di Pelagio] morte, invero, essendo stato condotto io indegno al governo della Chiesa [Per S. Gregorio Magno ogni vescovo prende parte al governo della Chiesa, risedendo l'autorità nell'episcopato (W. Guettée), ndt], e prima per mezzo dei miei inviati, e ora per il nostro comune figlio il diacono Sabiniano, ho avuto cura di rivolgermi alla vostra fraternità non già per iscritto, ma di persona, affinché rinunciasse a tale presunzione. E qualora rifiutaste di correggervi, gli ho proibito di celebrar messa insieme alla vostra fraternità, per instillare alla vostra santità un qualche timore della vergogna, prima che, qualora il nefando e profano orgoglio non potesse correggersi con la vergogna, di procedere per le vie prescritte e canoniche. E poiché prima di amputare la ferita essa va palpata dolcemente, vi prego, vi supplico, e v'imploro con quanta dolcezza posso, che la vostra fraternità si opponga a tutti i suoi adulatori e a quanti gli attribuiscono un titolo errato, e non permetta di farsi chiamare con un titolo tanto stolto e superbo. In verità piangendo lo dico, e con profondo dolore del cuore attribuisco ai miei peccati il fatto che un mio fratello non ha voluto sino ad ora ritornare all'umiltà, lui che si è stabilito solo nella dignità episcopale per ricondurre all'umiltà le anime degli altri; che colui che insegna agli altri la verità non la insegnerebbe a se stesso, né vi consentirebbe, nonostante le mie preghiere.

Considera, ti prego, che da questa presunzione temeraria è turbata la pace di tutta la Chiesa, e che contraddici alla grazia che su tutti è stata comunemente effusa. Nella quale tu potresti assai tanto più crescere, quanto più in te stesso ti umilierai. E tanto più grande diverrai, quanto più ti asterrai dall'usurpazione di tanto stolto e superbo titolo. E tanto trarrai profitto, quanto non ti adopererai per arrogartene a scapito dei fratelli. Ama dunque, fratello carissimo, l'umiltà con tutto il tuo cuore, per mezzo della quale possa esser custodita la concordia di tutti i fratelli e l'unità della santa Chiesa universale. Certamente Paolo apostolo quando udiva alcuni dire: Io son di Paolo, io d'Apollo, io invero di Cefa (I Cor. 1, 13), temendo assai fortemente tale dilacerazione del corpo del Signore, in conseguenza della quale le membra del suo corpo si attaccavano ad altri capi, esclamava dicendo: Forse che per voi è stato crocifisso Paolo, o siete stati battezzati in nome di Paolo (Ibid., 13)? Se dunque quegli si sforzava d'evitare che le membra del corpo del Signore fossero attaccati come a capi ad alcuni che non fossero Cristo, ancorché questi fossero apostoli, tu che dirai a Cristo, ovvero al capo della chiesa Universale, nell'interrogatorio dell'estremo giudizio, tu che tutte le sue membra vuoi sottomettere a te col titolo di univerale? Chi ti proponi a modello, ti domando, in questo perverso titolo, se non colui che, sprezzate le legioni di angeli costituite con sé in società, tentò di elevarsi al culmine della singolarità, acciocché non paresse sottomettersi ad alcuno ed anzi a tutti esser capo lui solo? Colui che pure disse: Salirò al cielo, esalterò il mio soglio sovra gli astri del cielo. Siederò sul monte dell'alleanza, sulle rocce dell'Aquilone. Salirò sopra la vetta delle nubi, sarò simile all'Altissimo (Isaia xiv, 13).

Cosa son dunque i tuoi fratelli, tutti i vescovi della Chiesa universale, se non le stelle del cielo, la cui vita e il cui insegnamento risplendono tra i peccati e gli errori degli uomini come tra le tenebre della notte? Quando per titolo ambizioso brami di elevarti al di sopra di loro, e svilire il loro titolo a confronto del tuo, che altro dici se non: Salirò al cielo, esalterò il mio soglio sovra gli astri del cielo? Forse che non son tutti i vescovi le nubi, che stillano le parole della predicazione, e splendono della luce delle buone opere? Quando la vostra fraternità, disprezzandoli, tenta di conculcarli sotto di sé, che altro dice, se non ciò che fu detto dal nemico antico: Salirò sopra la vetta delle nubi? E mentre piangendo veggo tutto ciò, e temo gli occulti giudizj di Dio, crescono le lacrime, i miei gemiti traboccano dal cuore, perché il signor Giovanni, quell'uomo così santo, di sì grande astinenza e umiltà, per la seduzione delle lusinghe dei parenti, è giunto a tal grado di superbia che, per la brama di quel titolo perverso, tenta d'esser simile a quegli che, volendo superbamente esser simile a Dio, perdè pure la grazia della somiglianza che gli era stata donata; e perciò perdè la vera beatitudine, poiché bramava una falsa gloria. Certamente Pietro, primo degli apostoli, e membro della santa e universale Chiesa, Paolo, Andrea, Giovanni, che altro sono se non capi di certi popoli? E pure tutte le membra son sotto un solo capo. E, per dir tutto in breve, i santi prima della Legge, i santi sotto la Legge, i santi sotto la grazia, tutti questi formano il corpo del Signore, son costituiti membri della Chiesa, e nessuno volle mai esser chiamato universale. La vostra santità dunque riconosca quanto sia gonfio, poiché brama d'esser chiamato con quel titolo con cui nessuno che fu veramente santo ebbe la presunzione di farsi chiamare.

Come sa la vostra Fraternità, forse che il venerando Concilio di Calcedonia ha, per l'onore tribuito, dato il titolo di universale ai vescovi di quella sede apostolica di cui, per volontà di Dio, io son servitore? E pure, nessuno mai avrebbe voluto essere chiamato con tale titolo, nessuno si attribuì un tanto temerario titolo, affinché, bramando la gloria della singolarità nella dignità episcopale, sembrasse negarla a tutti i fratelli.

Ma so che questo è stato conferito alla vostra santità da quelli che con capziosa familiarità vi adulano, contro i quali chiedo che la vostra fraternità sia solertemente vigile, e che non si lasci ingannare dalle loro lusinghe. Tanto più infatti debbono esser ritenuti pericolosi i nemici, quanto più adulano con finte lodi. Scaccia queste persone; e se devono necessariamente ingannare, almeno ingannino i cuori degli uomini terrei, e non dei sacerdoti. Lascia che i morti seppelliscano i loro morti (Lucas ix, 60). Voi invece col Profeta dite: Si ritirino subito arrossendo, quanti mi dicono: Bene! Bene! (Psal. lxix, 4). E ancora: Ma l'olio del peccatore non profumerà il mio capo (Psal. cxl, 5). Laonde bene ammonisce il Saggio: Con molti tu sia in pace, ma il tuo consigliere sia uno solo tra mille (Eccli. vi, 6). Le cattive parole corrompono infatti i buoni costumi (I Cor. xv, 33). Quando infatti l'antico nemito non può penetrare in un cuore robusto, cerca persone deboli che gli siano vicine, e per mezzo loro, come scale appoggiate contro alte mura, vi ascende. Così ingannò Adamo per la donna che le era vicina (Genes. iii), così quando uccise i figli al beato Giobbe e gli lasciò la moglie malata (Job ii, 10), affinché, non essendo da sé in grado di giungere al suo cuore, almeno potesse penetrarvi per le parole della moglie. Quanti dunque presso di voi sono infermi e mondani, siano scacciati nella loro adulazione e lusinga, poiché da lì proviene l'eterna inimicizia di Dio, da dove essi si mostrano come adulatori perversi.

Un tempo l'apostolo Giovanni certò gridava: Figliuoli, questa è l'ultima ora (I Joan. ii, 18); ora avviene secondo la predizione della Verità. Peste e spada infuriano per tutto il mondo, le nazioni insorgono l'une contro l'altri, è scosso l'universo, la terra sia per inghiottire i suoi abitanti. Tutto ciò che è stato previsto, infatti, accadrà. Il re della superbia è vicino, e, cosa orribile a dirsi, gli è pronto un esercito di sacerdoti, poiché pensano solo a elevarsi, loro che sarebbero stati stabiliti solo per condurre gli altri all'umiltà. Ma in questo, ancorché la nostra lingua non sia minimamente contraria, s'ergerà a vindice della sua virtù contro l'insuperbire colui che è per se stesso speciale avversario del vizio della superba. Perciò infatti sta scritto: Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà grazia (Jac. iv, 6). Perciò ancora è detto: Impuro agli occhi di Dio è colui che si esalta in cuor suo (Proverb. xvi, 5). Perciò contro l'uomo che s'insuperbisce è scritto: Perché dovresti esser superbo, tu che se' terra e cenere (Eccli. x, 9)? Perciò la Verità stessa dice: Chiunque si esalta, sarà umiliato (Luc. xiv, 11). E per ricondurci sulla via dell'umiltà, Ella s'è degnata di mostrarlo nella propria persona, dicendo: Imparate da me, ché son mite ed umile di cuore (Matth. xi, 29). Per questo infatti l'unigenito Figlio di Dio ha preso la forma della nostra debolezza, per questo l'invisibile è apparso non solo visibile, ma pure disprezzato; per questo ha sopportato oltraggi, insulti, tormenti, peché l'uomo imparasse da un Dio umile a non esser superbo. Quanto grande dunque è la virtù dell'umiltà, dacché per insegnarci questa sola in verità colui che è grande senza comparazione, si è fatto piccolo sino al patir la morte? Poiché infatti la superbia del diavolo fu la fonte della nostra perdizione, fu trovato per istrumento della nostra redenzione l'umiltà di Dio. Il nostro nemico infatti volea esser esaltato sopra tutto le creature in mezzo alle quali era pur lui; il nostro Redentore invece, pur restando grande sovra ogni creatura, s'è degnato di diventar piccolo fra tutte. 

Perché dunque ci chiamiamo vescovi, noi che abbiam ricevuto la nostra dignità dall'umiltà del nostro Redentore, ed eppure imitiamo la superbia del suo nemico? Ecco, sappiamo che il nostro Creatore è disceso dalla vetta della sua grandezza per dare gloria all'umanità, e noi, infime creature, ci gloriamo dell'aver privato i fratelli. Iddio umiliò se stesso insino alla nostra polvere, e la polvere umana brama di porre lasua bocca sopra il cielo e sfiorare appena la terra, e non se ne vergogna, non teme d'elevarsi l'uomo che non è altro che sporcizia, il figlio dell'uomo che non è che un verme (Job xxv). Rimembriamo, fratello carissimo, ciò che fu detto dal saggissimo Salomone: Il fulmine precede il tuono, e il cuor s'esalta pria di cadere (Eccli. xxxii, 14). E d'altra parte soggiunge: Prima della gloria ci s'umilia. Umiliamoci dunque nel cuore, se vogliamo giungere a una solida grandezza. Che gli occhi del nostro cuore mai non siano oscurati dal fumo dell'orgoglio, che più in alto s'eleva, tanto più in fretta svanisce. Riflettiamo sui precetti con cui ci ammonì il nostro Redentore, dicendo: Beati i poveri in spirito, poiché di questi è il regno de' cieli (Matth. v, 3). Poiché infatti per mezzo del profeta disse: Su chi riposerà il mio Spirito, se non sull'uomo umile e mansueto, che riverisce le mie parole (Isaias lxvi, 2)? E volendo certo chiamare all'umiltà i cuori ancor deboli dei suoi discepoli, il Signore disse: Se qualcuno tra voi brama esser primo, sarà di tutti il più piccolo (Matth. xx, 27). In ciò ci fa apertamente capire che veramente esaltato è colui che ne' suoi pensieri s'umilia. Temiamo dunque di esser tra coloro che cercano i primi posti nelle sinagoghe, e i saluti nella pubblica piazza, e voglion farsi chiamare maestri dagli uomini. Poiché in contrario il Signore ha detto ai suoi discepoli: Voi invece non fatevi chiamare maestri. Uno infatti è il vostro maestro; voi invece tutti siete fratelli. E non chiamate qualcuno Padre sulla terra, uno infatti è il Padre vostro (Matth. xxiii, 7-8).

Che dirai allora, fratello carissimo, in quel terribile interrogatorio del giudizio venturo, tu che non solo padre, ma pure padre universale brami d'esser chiamato nel mondo? Si faccia dunque attenzione al pravo consiglio dei malvagi, si fugga ogni istigazione allo scanalo. E' invero necessario che accadano scandali, ma guai all'uomo per mezzo del quale viene lo scandalo (Matth. xviii, 7). Ecco, a causa di questo nefando titolo di superbia, la Chiesa è divisa, i cuori di tutti i fratelli son scandalizzati. Avete forse dunque dimenticato ciò che dice la Verità: Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, convien per lui che gli sia appesa al collo una macina girata da asini, e che sia gittato nel profondo del mare (Ibid.)? Invero sta scritto: La carità non cerca ciò che le appartiene (I Cor. xiii, 4). Ecco, la vostra fraternità brama ciò che non le appartiene. Ancor sta scritto: Onoratevi gli uni gli altri (Rom. xiii, 10). E tu cerchi di togliere a tutti quell'onore che illecitamente desideri usurpare ai singoli. Dov'è, fratello carissimo, ciò che fu scritto: Abbiate ne' riguardi di tutti la pace, e la santimonia senza la quale niuno vedrà Iddio (Ibid.)? Dov'è ciò che fu scritto: Beati i pacifici, poiché saran chiamati figli di Dio (Matth. v, 9)?

Vi conviene badare che non vi blocchi una radice di amarezza che nuovamente germina nel vostro cuore, e dalla quale molti son contaminati. Se infatti trascuriamo di considerarla, i giudizi saran vigilanti sopra il gonfiore di tanta superbia. E noi ne' confronti di coloro dai quali una sì grande colpa è stata commessa per un empio azzardo, serbiamo i precetti della Verità, dicendo: Se il tuo fratello ha peccato contro di te, va' e riprendilo tra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello. Se invece non ti ascolterà, porta teco uno o due, affinché tutto stia nella bocca di due o tre testimoni. E se questi non li ascolterà, dillo all'assemblea. E se non ascolterà nemmeno l'assemblea, sia per te come un pagano o un pubblicano (Matth. xvii, 3). Io dunque per mezzo de' miei legati ho cercato una e due volte di correggere con umili parole il peccato che vien commesso contro tutta la Chiesa, e ora da me stesso lo scrivo. Qualunque cosa umilmente dovevo fare, non l'ho tralasciata. Ma se son sprezzato nella mia correzione, mi resta solo d'appellarmi alla Chiesa.

Iddio onnipotente vi renda manifesto da quanto amore son preso ne' vostri confronti parlando così, e di quanto m'addoloro in questa faccenda non contro di voi, ma per voi. Ma per quanto riguarda i precetti evangelici e le istituzioni canoniche e il vantaggio dei fratelli, non posso preferire una persona, nemmeno quella che molto amo.

Ho ricevuto da vostra santità scritti dolcissimi e sinceri circa la causa dei presbiteri Giovanni e Atanasio, circa la quale, con l'aiuto del Signore, risponderò in altre lettere che seguiranno, poiché sono astretto da tali tribolazioni e premuto dalle spade de' barbari, che non m'è lecito non solo occuparmi di molte cose, ma a malapena respirare.

Dato alle calende di gennajo, indizione decimaterza.

S. Gregorio Magno, Epistolarium, lib. v, ep. xviij (PL 77:738-743). Trad. it. di Nicolò Ghigi.

S. Gregorio Magno ispirato dallo Spirito Santo
(Treviri Stadtbibliothek, miniatura 983)

COMMENTO

Si vede, da questa prima lettera di papa san Gregorio Magno: 1° che l'autorità ecclesiastica risiede nell'episcopato, e non in un tal vescovo, per quanto elevato possa essere il suo rango nella gerarchia ecclesiastica; 2° che non fu la sua causa particolare ch'egli difese contro Giovanni di Costantinopoli, ma quella di tutta la Chiesa; 3° ch'ei non aveva il diritto di giudicare personalmente questo caso, e che doveva deferirlo alla Chiesa; 4° che il titolo di vescovo universale è contrario alla parola di Dio, superbo, criminale, stolto ed inetto; 5° che nessun vescovo, nonostante l'elevatezza del suo rango nella gerarchia ecclesiastica, può rivendicare un'autorità universale senza incidere sui diritti dell'episcopato intero; 6° che nessun vescovo nella Chiesa può pretendere di essere il padre di tutti i cristiani senza attribuirsi un titolo contrario al Vangelo, superbo, stolto e criminale.

Chiediamo ai neo-cattolici di riflettere seriamente su queste verità espresse così chiaramente in questa prima lettera, e che appariranno con nuove evidenze in quelle che seguiranno.

San Gregorio aveva risparmiato Giovanni di Costantinopoli, pur dicendogli la verità sulle sue ambiziose pretese. La ragione di questa riserva era stata il rispetto che aveva per l'imperatore Maurizio, che Giovanni si era guadagnato alla sua causa. Giovanni aveva persuaso Maurizio che, avendo la città di Costantinopoli rimpiazzato Roma come capitale dell'impero, il titolo di primo vescovo della Chiesa gli apparteneva, poiché i concili l'avevano concesso a quello di Roma solo per l'importanza della sua sede, e unicamente perché questa città era la prima dell'impero romano. Era sulla base di questa pretesa che aveva usurpato il titolo di ecumenico o universale. Aveva persino ingaggiato Maurizio per intervenire contro Gregorio, in modo che quest'ultimo chiudesse un occhio sulle sue pretese e vivesse con lui in buono spirito. Troviamo questi dettagli nella lettera di san Gregorio al diacono Sabino, che era allora suo agente presso l'imperatore, e che fu poi suo successore sul soglio di Roma (Lettere di san Gregorio, lib. V ; lettera 19e, ed. con licenza).

Archimandrite Wladimir Guettée, La Papauté moderne condamnée par le pape saint Grégoire le Grand, Paris, Dentu, 1861, pp. 18-19. Trad. it. di Nicolò Ghigi. Corsivi e maiuscoli originali.

mercoledì 4 agosto 2021

San Gregorio Magno e il Papato moderno - parte I

 In seguito alla pubblicazione del Motu Proprio "Traditionis Custodes", in alcuni ambienti cattolici, è iniziato un interessante dibattito su quali possano essere le prerogative e le limitazioni del potere papale. Tale discussione appare certamente utile e necessaria, e per aiutare quanti - anche tra i nostri lettori - vogliano dedicarsi a tali riflessioni, proporremo alcuni spunti per ragionare attorno alla figura papale provenienti dagli scritti di uno dei più grandi santi che sedettero sul trono patriarcale di Roma, ovvero San Gregorio il Grande. Prima di riportare alcuni testi della penna dello stesso San Gregorio, a mo' d'introduzione presentiamo questo confronto generale tra la dottrina patristica e quella ultramontana in merito.


San Gregorio Magno e Giobbe piagato
Affreschi del Sacro Speco di Subiaco

Al giorno d'oggi insegnano, in nome della Chiesa, e in favore del vescovo di Roma, questa dottrina che san Gregorio denunziava con tanta energia. Così il signor abate Bouix, nel suo corso di diritto canonico composto a Roma e pubblicato con l'approvazione di Roma; così monsignor Parisis, vescovo d'Arras, in un corso di diritto canonico ch'egli ha approvato per l'insegnamento dei suoi chierici, e che è seguito in parecchi altri seminari; così il quotidiano Le Monde, che è il giornale più autorizzato dal papa e dalla sua corte; e così è che cento altri scrittori ultramontani insegnano in tutti i modi che il papa ha una autorità universale; che egli è vescovo universale; che egli è il solo vescovo propriamente detto; la sorgente da cui scaturisce ogni dignità ecclesiastica, ivi compreso l'episcopato, che è solo indirettamente e mediatamente di diritto divino.

Questo è l'insegnamento che vorrebbero darci oggi come insegnamento cattolico. I nostri moderni novatori sanno che papa san Gregorio Magno avrebbe considerato diabolica una simile dottrina, e che ha chiamato anticipatamente Anticristo questo papa rivestito di un preteso episcopato universale?

San Gregorio non prese nessuna decisione importante senza darne conoscenza agli altri patriarchi. Così egli scrisse a quelli di Alessandria e di Antiochia per informarli di come si era comportato nei confronti del nuovo patriarca di Costantinopoli. Eulogio, patriarca di Alessandria, si lasciò persuadere, e annunciò a Gregorio che non avrebbe più conferito al vescovo di Costantinopoli il titolo di universale; ma, credendo di adulare Gregorio, che amava e che gli aveva reso servizio in svariate occasioni, diede questo titolo a lui medesimo, e scrisse che se non lo assegnava più al vescovo di Costantinopoli, era per sottomettersi agli ordini di Gregorio. Questi subito gli rispose, e troviamo nella sua lettera il seguente brano che mostrerà quale idea avesse san Gregorio della sua autorità come vescovo di Roma:

«Vostra Beatitudine si è premurata di dirci che scrivendo ad alcuni, ella non ha più dato loro titoli che avevano solo che l'orgoglio per origine, ma ella usa queste medesime espressioni nei miei confronti: come avete ordinato. Io vi prego, non fatemi mai più sentire questa parola ordine, ché io so chi sono e chi siete voi. PER IL VOSTRO POSTO, VOI SIETE MIO FRATELLO; per le vostre virtù, mi siete padre. Perciò io non ho ordinato; io mi son solamente premurato d'indicare alcune cose che mi pareano utili. Io non trovo però che Vostra Beatitudine abbia voluto perfettamente ritenere ciò che precisamente volea io affidare alla sua memoria, dacché ho detto che voi non avreste dovuto conferire questo a titolo più a me che ad altri; ed ecco che, nella sottoscrizione della vostra lettera, voi conferite, a me che l'ho proscritto, i superbi titoli di universale e di papa. Che la Vostra Dolce Santità più non lo faccia in futuro, la prego; dacché togli a te stesso ciò che di troppo dai a un altro. Io non dimando di crescere ne' titoli, ma nelle virtù. Non considero un onore ciò che fa perdere ai miei fratelli la lor propria dignità. Il mio onore, è quello di tutta la Chiesa. Il mio onore, è la fermezza incrollabile dei miei fratelli. Mi considero veramente onorato allorché a nessuno vien rifiutato l'onore che gli merita. Se Vostra Santità mi chiama papa universale, ella nega di essere ciò che io sarei intiero. Ah, Dio nol voglia! Lungi da noi parole che gonfiano la vanità e feriscono la carità! Vero è che, nel santo concilio di Calcedonia, e da allora dai Padri che son succeduti, questo titolo fu offerto ai miei predecessori, come Vostra Santità sa; ma nessuno di loro volea prenderlo, affinché amando in questo mondo la dignità di tutti i sacerdoti, potessero conservare la loro agli occhi dell'Onnipotente».  [Lettera a Eulogio, luglio 598, ndt]

Papa san Gregorio condannò dunque, nella persona medesima di vescovo di Roma, il titolo di papa universale; ei riconobbe che il patriarca di Alessandria è suo pari, che non ha ordini da dargli, e che conseguentemente non ha autorità su di lui.

Come conciliare questa dottrina ortodossa di papa san Gregorio il Grande con quella dottrina moderna che attribuisce al papa una autorità universale di Diritto Divino? Sta agli ultramontani rispondere a questa domanda.

Entro la discussione circa il titolo di universale, san Gregorio si esprimeva così in una lettera ai patriarchi di Alessandria e Antiochia:

«Ho ammesso alla comunione alla messa degli inviati di Ciriaco, poiché mi priegavano umilmente, e poiché anche, come ho scritto al serenissimo imperatore, gl'inviati del nostro fratello e co-episcopo Ciriaco hanno dovuto comunicare con me, per la ragione che grazie a Dio non son punto caduto nell'errore della superbia. Ma il mio diacono non ha potuto comunicare alla messa con il nostro fratello Ciriaco, per la ragione ch'egli è caduto e persiste nella colpa della superbia pretendendo un titolo profano» (Lettere di san Gregorio, lib. VII; lettera 34e, ed. con licenza).

 Così, secondo san Gregorio, gl'inviati del patriarca di Costantinopoli sarebbero venuti meno al loro dovere se, a Roma, avessero comunicato con lui, nel caso in cui avesse assunto il titolo di universale. Da ciò ne consegue che la comunione con il vescovo di Roma non è una condizione necessaria per appartenere alla Chiesa; che questo stesso vescovo può essere egli stesso fuori dalla Chiesa; e che gli basta, per essere fuori dalla Chiesa, assumere il titolo di universale.

Onde una domanda molto seria: il vescovo di Roma appartiene alla Chiesa se, non contento del vano titolo d'universale, pretende di avere l'autorità universale, cioè il titolo messo in pratica? Colui che usurpa questa autorità forse non è più usurpatore di quegli che semplicemente s'impadronisce della parola che ne è solo il segno?

Lasciamo al lettore la cura di trarre tutte le conseguenze che scaturiscono dai principi di san Gregorio su quest'ultimo punto, e gli chiediamo solo di prendere atto di questo serio insegnamento di un grande papa in ciò che concerne la comunione col vescovo di Roma. E' ovvio che ai suoi occhi si può appartenere alla Chiesa senza essere in comunione con lui. L'insegnamento di san Gregorio è formale su questo punto.


Archimandrite Wladimir Guettée, La Papauté moderne condamnée par le pape saint Grégoire le Grand, Paris, Dentu, 1861, pp. 43-46. Trad. it. di Nicolò Ghigi. Corsivi e maiuscoli originali.

giovedì 29 luglio 2021

17 luglio - In commemoratione Sancti Alexii

di Luca Farina

Oggi, 17 (30) luglio, commemoriamo Sant’Alessio confessore, noto come l’elemosiniere e come человѣ́къ Бо́жїй (uomo di Dio) nella tradizione slava. Nativo di Roma, nacque nel IV secolo e morì il 17 luglio 412. Il Santo, sebbene oggi in Occidente sia festeggiato in modo poco sentito e quasi ignorato, godeva di una particolare celebrità.

Secondo la versione greca e romana della storia (ve n’è anche una siriaca leggermente diversa), Alessio, giovane nobile romano, si sposa per assecondare la volontà dei genitori; la prima notte di nozze decide di non consumare il matrimonio con la propria sposa ma fugge, ritirandosi in vita ascetica e povera per 17 anni, fino a raggiungere Edessa (in Mesopotamia, attuale Turchia). Tornato a Roma, i genitori e la moglie, non riconoscendolo, lo ospitano per altri 17 anni in un sottoscala, dove Alessio vive solo di elemosine. Poco prima di morire scrive una lettera, che sarà letta dopo la sua dipartita. Il padre, la madre e l’amata si struggono per non averlo riconosciuto, e il suo corpo è subito custodito come reliquia dal popolo dell’Urbe.

Icona russa del XIX secolo di Sant'Alessio, con dodici scene della sua vita.
Dall'angolo in alto a sinistra in senso orario: Nascita e battesimo di S. Alessio; Educazione di S. Alessio; S. Alessio dà l'anello alla sua sposa; S. Alessio prende l'oro della sua casa e noleggia una nave; S. Alessio a Edessa chiede la carità alle porte della chiesa; S. Alessio parte da Edessa su una nave; S. Alessio giunge alla casa paterna; S. Alessio nutrito dai servi del padre; S. Alessio scrive la sua vita e il padre Eufemiano cerca di strappare il manoscritto dalle sue mani; Dormizione di S. Alessio; Traslazione delle reliquie di S. Alessio; Miracoli delle reliquie di S. Alessio (fonte).

Il culto a Sant’Alessio non è attestato prima della fine del X secolo. Nel 977 Papa Benedetto VII affidò ai monaci basiliani la chiesa di San Bonifacio sull’Aventino; essa sorge, secondo tradizione, sul luogo che ospitò la casa di Sant’Alessio e così, nel 986, fu aggiunto alla chiesa il titolo dell' uomo di Dio. Nel Messale di Pio V la sua festa è iscritta con il grado Semplice.

Le sue reliquie sono distribuite per diverse chiese: il suo capo è oggi custodito nel monastero di Aghia Lavranei pressi di Kalavryta, in Acaia: secondo lo Ktitorikon e l’iscrizione sul reliquiario, esso fu donato al monastero dall’imperatore Manuele II Paleologo nel 1398. Altri frammenti si trovano nella suddetta basilica romana, nel monastero athonita di Esphigmenou e nella lavra di S. Aleksandr Nevskij a San Pietroburgo.

La fama di Sant’Alessio ha portato alla stesura di numerose agiografie; quelle di epoca medievale costituiscono interessanti testimonianze degli albori della letteratura in volgare. Un esempio di esse è proprio la Vie de saint Alexis in antico francese (con forte patina normanna). Il testo consta di 625 versi distribuiti su 125 strofe, composti circa alla metà del secolo XI. L’opera è anonima, ma alcuni studiosi l’hanno attribuita a Tetbald di Vernon, un chierico normanno canonico della cattedrale di Rouen. Di costui sappiamo ben poco: tradusse dal latino diverse agiografie e le arricchì con la propria retorica; elementi giudicati sufficienti dal medievista Gaston Paris, che ne curò l’edizione critica del 1872 e la attribuì al canonico; non sufficientemente convincenti per altri studiosi, come il prof. Paolo Gresti, che nell’edizione a cui facciamo riferimento riporta il testo anonimo in via prudenziale. Il testo in questione ci è tramandato da otto testimoni (contando sia quelli interi che quelli frammentarii) e attinge ad una Vita latina.

Riportiamo quattro ottave del testo (seguito da traduzione), che rappresentano il dolore dei genitori e della moglie di Alessio e la preparazione del corpo per le esequie.

Metro: strofe di cinque decasyllabes [1] monoassonanzati. Cesura, spesso epica [2], dopo l’accento di quarta.

78Quant ot li pedre ço que dit ad la cartre
ad ambes mains derumpt sa blance barbe:
“E! filz”, dist il “cum dolerus message!”
Vis atendi quet a mei repairasses,
par Deu merci, que tu’m reconfortasses”.

[…]

85De la dolur que demenat li pedra
grant fut la noise, si l’antendit la medre.
La vint curante cume femme forsenede,
batant ses palmes, criant, eschevelede:
vit mort sum filz, a terre chet pasmede.

[…]

99 “Or par sui vedve, sire”, dist la pulcela;
“jamais ledece n’avrai, quar ne pot estra,
ne charnel hume n’avrai an tute terre.
Deu servirei, le rei ki tot guvernet:
il ne’m faldrat, s’il veit qye jo lui serve”.

100 Tant i plurerent e le pedra e la medra
e la pulcela que tuit s’en alasserent.
En tant dementres le saint cors apresterent,
tuit cil seinur, mult bel le conreerent:
com felix cels ki par feit l’enorerent!


Traduzione: Quando il padre ebbe ascoltato ciò che la carta diceva con entrambe le mani si strappa la barba bianca:” Ah! Figlio,” disse “che messaggio carico di dolore! Ho atteso, vivo, che tu ritornassi a me, per la grazia di Dio, che mi riconfortassi”. […] Fu grande lo strepito del dolore che manifestava il padre, la madre lo sentì. Giunse sul posto come una donna fuori di sé, battendo le mani, gridando, scarmigliata: vide il figlio morto, cadde a terra priva di sensi. […] “Ora sono vedova signore”, dice la fanciulla; “Non avrò più gioia, perché non può essere, né conoscerò carnalmente alcun uomo sulla terra. Servirò Dio, il re che tutto governa: egli non mi verrà meno, se vede che lo servo”. Tanto piangono il padre, la madre e la fanciulla, ne sono tutti sfiniti. Nel frattempo prepararono il santo corpo tutti quei signori [di Roma], lo vestirono molto riccamente: beati coloro che lo onorarono con fede!

(Testo e traduzione sono tratti da: P. Gresti, Antologia delle letterature romanze del Medioevo, Bologna, Pàtron, 2011)

Locandina di uno spettacolo teatrale sulla vita di S. Alessio presentato a Kiev nel 1674.
Come si legge nella pagina di destra, lo spettacolo è dedicato "Al piissimo sovrano l'Imperatore e Gran Principe ALESSIO figlio di Michele, di tutta la Grande, la Piccola e la Bianca Russia AUTOCRATORE, e di molte terre e signorie, d'Oriente e d'Occidente e di Settentrione, padre e nonno ed erede, e sovrano e signore: alla sua imperiale e luminosissima maestà il SOVRANO ORTODOSSO [...]". Il culto di S. Alessio si diffuse particolarmente nella Rus' proprio sotto l'impero di codesto Zar che portava il suo nome (1645-1676).

La vita del Santo, a ulteriore prova della sua celebrità, è narrata in tanti altri testi. Una rapida carrellata nella letteratura medievale ci farà incontrare anche l’anonimo Ritmo marchigiano dell’inizio del XIII secolo, la Vita beati Alexii in antico lombardo di Bonvesin de la Riva, l’Alexius in antico tedesco di Corrado di Wuerzburg (1275). Nel Rinascimento troviamo la Vida de Sant Alexo in antico spagnolo di Juan Varela de Salamanca (1520 circa); nel XVII secolo Auto de Santo Aleixo, filho de Eufemiano, senador de Roma, dramma in portoghese di Baltasar Dias (1613) e La vita di Sant'Alessio descritta ed arricchita con divoti episodi dello scrittore genovese Anton Giulio Brignole Sale (1648). La vita del Santo fu persino messa in musica: ricordiamo il Sant’Alessio di Stefano Landi (1632) e l’omonimo oratorio di Camilla de Rossi (1710).

____________________________
NOTE

[1] Secondo la metrica francese e provenzale, il décasyllabe corrisponde all’endecasillabo italiano (ultimo accento sulla decima sillaba).

[2] Si chiama così perché è usata spesso nei testi epici (e anche in quelli agiografici, come qui). La quarta sillaba è accentata e quella immediatamente successiva non viene computata, risolvendo così l’apparente ipermetria del verso.