sabato 19 febbraio 2022

Alcuni canti e testi per la domenica di Settuagesima

Con la domenica di Settuagesima prende compiutamente inizio il tempo pre-quaresimale (di cui abbiamo fornito una breve sinossi qui): esso, secondo la mistagogia liturgica dei Padri, rappresenta un percorso di preparazione della mente, che sarà seguito da un percorso di preparazione del corpo (Quaresima) e di preparazione dell'anima (Settimana Santa) alle grandi solennità pasquali. La tradizione liturgica romana inizia a tingere con toni penitenziali le proprie ufficiature: i sacri ministri indossano i parati violacei, ancorché non ancora del tutto penitenziali dacché diacono e suddiacono indossano le dalmatiche e non le pianete piegate, e soprattutto scompare dagli uffici la parola Alleluja, che nel costume romano ha un significato prettamente pasquale e gioioso. L'Alleluja riceve il congedo durante il Vespro del sabato sera, e precisamente al Benedicamus Domino, che è seguito - così come la sua risposta - da tale duplice invocazione; dipoi l'Alleluja sarà dismesso fino a Pasqua, e all'inizio degli uffici al suo posto si canterà Laus tibi, Domine (che altro non è che una parafrasi, dacché la parola ebraica significa "Lodiamo Dio").

Alla messa, invece, il canto dell'Alleluja, è sostituito dal Tratto, cioè da un salmo intero cantato tutto d'un tratto. Il tratto di questa prima domenica senza Alleluja è costituito dal De profundis, cioè il salmo 129, che esprime l'accoratezza del grido dei fedeli verso Dio (che poco prima è stato salutato come aiuto nelle tribolazioni dal salmo 9 da cui è tratto il Graduale), i quali lo invitano a non guardare alle iniquità, ma a perdonarli e venir loro in aiuto: questo è esattamente lo spirito di compunzione con il quale i fedeli, in questo tempo benedetto, si accostano alle pie rimembranze della penitenza.

Graduale
Ps 9,10-11; 19-20
Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine,
V. Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo.

Tu sei l'aiuto nei casi della vita e nella tribolazione: sperino in te quanti ti han conosciuto, poiché non abbandoni chi ti cerca, o Signore.
V. Poiché non ti dimenticherai alla fine del povero, la sofferenza del povero non andrà nell'eterna perdizione: sorgi, o Signore, affinché non prevalga l'uomo.

Tractus
Ps 129,1-4
De profúndis clamávi ad te. Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.
V. Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui.
V. Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit?
V. Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine.

Dal profondo del cuore a te ho gridato, Signore: Signore, ascolta la mia voce.
V. Siano le tue orecchie attente all'orazione del tuo servo.
V. Se baderai alle iniquità, o Signore: Signore, chi potrà resistere?
V. Poiché presso di te è la clemenza, e a motivo della tua legge ho confidato in te, Signore.

Graduale
Tratto

Parlando di congedo dell'Alleluja, dobbiamo menzionare che in alcune tradizioni anglo-germaniche si compiva una curiosa usanza denominata "Funerale dell'Alleluia", ovverosia la simulazione di una cerimonia funebre in cui il sepolto altri non è che un panno o una tavola di legno con la scritta Alleluia, da seppellire nel cimitero o sotto le tovaglie dell'altare secondo gli usi. Durante questa bizzarra cerimonia, veniva spesso intonato un meraviglioso inno, che alcune tradizioni inglesi pure pongono come inno vesperale del sabato avanti la Settuagesima:

Alleluja, dulce carmen,
Vox perennis gaudii,
Alleluja vox suavis,
Est choris cælestibus,
Quem canunt, Dei manentes
In domo per sæcula. 

Alleluja læta, mater
Concinis Jerusalem,
Alleluja vox tuorum
Civium gaudentium :
Exules nos flere cogunt
Babylonis flumina.

 Alleluja non meremur
Nunc perenne psallere,
Alleluja nos reatus
Cogit intermittere,
Tempus instat, quo per acta
Lugeamus crimina.

 Unde laudando precamur
Te beata Trinitas,
Ut tuum nobis videre
Pascha des in æthere,
Quo tibi læti canamus
Alleluja jugiter. Amen.

 

Alleluia, dolce canto,
voce perenne di gioia,
Alleluia, è una parola soave
per i cori del cielo,
che questi cantano, restando
nella dimora di Dio nei secoli. 

Alleluia, lo canti lietamente,
o madre Gerusalemme;
Alleluia è la voce dei tuoi
cittadini festanti;
ma ora ci costringono a piangere, esuli,
i fiumi di Babilonia.

 Alleluia, non meritiamo
ora di poterlo cantare per sempre;
Alleluia, la colpa ci costringe
a interromperlo.
Viene un tempo in cui con le nostre azioni
dobbiamo piangere i nostri peccati.

 Perciò lodando preghiamo
Te, o beata Trinità,
acciocché ci conceda di vedere
la tua Pasqua nel cielo,
talché lieti potremo cantarti
Alleluia in quantità. Amen.


La bellissima figura della seconda strofa, con i Cristiani costretti dalla prigionia del peccato a interrompere i canti di gioia, come un tempo l'esilio babilonese costrinse gli Ebrei a cessarli, ci rimanda direttamente al salmo 136, che per una ragione analoga costituisce una parte preminente dell'officiatura della Settuagesima bizantina. Benché il libro liturgico del Triodio abbia avuto inizio già con l'Ottuagesima (Domenica del Fariseo e del Pubblicano), solo da oggi (Domenica del Figliuol Prodigo) al Polieleo ai due consueti salmi 134-135 se ne aggiunge un terzo, proprio il 136, cantato in un modo molto solenne. Nell'ascoltarlo (qui sotto in due versioni: la prima polifonica, la seconda in znamennyj e con il testo slavonico in sovraimpressione) si noterà che, a differenza di quanto sopra detto per l'uso latino, gli Alleluja non mancano, anzi abbondano! Si pensi che la stessa rubrica dice che il salmo va cantato "con un Alleluja bello [i.e., ornato]". Questo perché nella concezione liturgica bizantina l'Alleluja non è un canto pasquale o gioioso, ma primariamente un canto di umile lode, lode che è vieppiù necessaria insieme quando ci accostiamo a implorare il perdono delle nostre trasgressioni.




Un'altra notevole caratteristica dell'ufficiatura bizantina di questo giorno, con la quale chiudiamo la nostra carrellata, sono i tropari che sostituiscono quelli consueti cantati dopo il Vangelo aurorale, i quali costituiscono un toccante e profondo invito alla conversione dell'anima e del cuore.

Δόξα. Ἦχος πλ. δ' Τῆς μετανοίας ἄνοιξόν μοι πύλας Ζωοδότα· ὀρθρίζει γὰρ τὸ πνεῦμά μου, πρὸς ναὸν τὸν ἅγιόν σου, ναὸν φέρον τοῦ σώματος, ὅλον ἐσπιλωμένον· ἀλλ' ὡς οἰκτίρμων κάθαρον, εὐσπλάγχνῳ σου ἐλέει.


Καὶ νῦν. Θεοτοκίοv Τῆς σωτηρίας εὔθυνόν μοι τρίβους, Θεοτόκε· αἰσχραῖς γὰρ κατερρύπωσα, τὴν ψυχὴν ἁμαρτίαις, ὡς ῥαθύμως τὸν βίον μου, ὅλον ἐκδαπανήσας, ταῖς σαῖς πρεσβείαις ῥῦσαί με, πάσης ἀκαθαρσίας.

Στίχ. Ἐλέησόν με ὁ Θεὸς κατὰ τὸ μέγα ἔλεός σου καὶ κατὰ τὸ πλῆθος τῶν οἰκτιρμῶν σου, ἐξάλειψον τὸ ἀνόμημα μου.

Ἦχος πλ. β'. Τὰ πλήθη τῶν πεπραγμένων μοι δεινῶν, ἐννοῶν ὁ τάλας, τρέμω τὴν φοβερὰν ἡμέραν τῆς κρίσεως, ἀλλὰ θαρρῶν εἰς τὸ ἔλεος τῆς εὐσπλαγχνίας σου, ὡς ὁ Δαυῒδ βοῶ σοι· Ἐλέησόν με ὁ Θεός, κατὰ τὸ μέγα σου ἔλεος.

Gloria, tono VIII. Aprimi la porta  della conversione, o Datore di vita, fin dall’aurora infatti si protende il mio spirito al tuo tempio santo, portandoti il tempio del mio corpo tutto insudiciato: ma tu, che sei compassionevole, purificami nella tua benevola misericordia.

E ora, della Madonna. Appianami i sentieri verso la salvezza, o Deipara, poiché ho insozzato la mia anima con osceni peccati, e ho consumata tutta la mia vita nell’indolenza: ma con le tue preghiere liberami da ogni impurità.

Poi in tono VI. Abbi misericordia di me, o Dio, secondo la tua grande misericordia, e secondo la moltitudine delle tue compassioni cancella la mia iniquità. Considerando, io infelice, la moltitudine dei miei orridi delitti, tremo di fronte al terribile giorno del giudizio: ma confidando nella tua benevola misericordia, come Davide ti grido: Abbi misericordia di me, o Dio, secondo la tua grande misericordia.



A tutti buona Settuagesima, buon Triodio, καλὸν στάδιον!

lunedì 14 febbraio 2022

La preghiera personale tra liturgia e devozioni

 

Nella vita del cristiano la preghiera è componente fondamentale: del resto, è già Nostro Signore Gesù Cristo ad ammonirci: Hoc genus [spirituum, ndr] in nullo potest exire nisi in oratione (Marc. IX 29). Questa è una chiara condanna di certo attivismo dilaga e tra i progressisti e tra i “tradizionalisti” (si pensi a coloro che pensano di unire tutti i non meglio specificati “figli della luce” indipendentemente dal Credo). In questo blog abbiamo tanto parlato di liturgia, cioè di un atto pubblico solenne di culto. Ma come si deve regolare il cristiano per la preghiera privata? Vogliamo provare a dare alcuni consigli.



Concretamente, è assai proficuo intraprendere la preghiera dell’Ufficio. Purtroppo, molti cristiani sono scoraggiati perché lo ritengono lungo e difficile; ora, nessun laico è tenuto all’obbligo, pertanto non è necessario passare da niente a tutto nel giro di un giorno: anzi, un buon sistema per far confusione è proprio il cominciare, di punto in bianco, pregando tutte le ore. La preghiera, invece, deve essere qualcosa che accompagna la giornata e la santifica, ma che non deve mai (neppure per un chierico!) essere percepita come un peso, un macigno di cui liberarsi, ma come una lode continua da elevarsi a Dio. Pertanto, si consiglia di partire con un’ora liturgica, aggiungendo gradualmente ciò che si riesce fare, compatibilmente con i propri ritmi di vita ed orari: è molto più proficuo pregare solo Prima e Vespri al mattino e al tramonto che non seguire il metodo usato dal card. Richelieu recitando frettolosamente tutte le ore una dopo l’altra per mero soddisfacimento dell’obbligo.

Man mano che si recita l’Ufficio si impareranno a memoria i principali cantici (Zaccaria, Beata Vergine Maria, Simeone), alcuni salmi o segmenti di essi (per esempio, singole frasi del lunghissimo salmo 118), che possono essere ripetuti durante la giornata e pregati anche quando non v’è a disposizione il breviario.

Come si diceva prima, molti sono preoccupati dal non comprendere le rubriche: il nostro blog offre la proposta di un ordo che segue il calendario giuliano e parte da una base romano-veneta,  epurando alcuni appesantimenti posticci (come l’ingolfamento di feste doppie): naturalmente non è vincolante per nessuno, ma può essere uno spunto interessante; in tal modo si aiutano i fedeli a districarsi nella giungla rubricale (e vi assicuriamo che non sempre è facile, ma la liturgia merita studio e attenzione).

In ogni caso, quando le ore sono celebrate pubblicamente è bene prendervi parte dal momento che l’officiatura pubblica è sempre più importante di quella privata.

Un’altra forma di preghiera che consigliamo è la cosiddetta Messa secca, su cui faremo un post specifico più avanti; per ora basti pensare che si prega con i testi liturgici della Divina liturgia del giorno.

Un maggior uso dei testi liturgici porta quindi a scartare dalla propria preghiera personale quell’ammasso di preghiere “devozionali” come coroncine ai più disparati aspetti di Nostro Signore, della Beata Vergine o dei Santi (ho letto di una coroncina al Cuore castissimo di S. Giuseppe), quelle orazioni su cui molto ci sarebbe da dire dal punto di vista teologico e che, talora, hanno già ricevuto la condanna (come la celebre “preghiera per liberare cinque anime dal Purgatorio del venerdì” o le “orazioni di S. Brigida”). Naturalmente non significa che preghiere di sana devozione antica come i rosari e alcune novene siano da rigettare in toto, ma che vadano subordinati alla liturgia: in quante parrocchie non si cantano Laudi prima della Messa perché “troppo difficili” e al suo posto si recita il rosario? Per esempio, un altro assurdo che ho sentito con le mie orecchie: un anno, il 25 dicembre del calendario gregoriano cadde di venerdì: prima della Messa una delle pie donne principiò il rosario…meditando i misteri dolorosi! Che importa della festa liturgica? La devozione dice di recitare i misteri dolorosi il venerdì e questo non ammette scuse!

Ecco, il problema è proprio il subordinamento della liturgia (vista come qualcosa di freddo) alla devozione. È invece cosa buona e giusta concepire la preghiera personale eliminando quella ricerca sentimentale figlia di un falso spiritualismo. L’anima va invece nutrita della devozione, non languida né intimistica, propria dell’atto liturgico, anche nella preghiera personale.

mercoledì 19 gennaio 2022

Publicatio festorum mobilium pro A.D. MMXXII

Excerpta ex Pontificali Romano, et ad A.D. MMXXII accommodata

In Epiphania Domini, cantato Evangelio, Archidiaconus, sive aliquis Canonicus, vel Beneficiatus, aut alius, juxta consuetudinem loci, pluviali paratus ascendet ambonem, vel pulpitum, & ibidem, vel in alio loco, ubi cantari solet Evangelium, e vetusto Ecclesiæ sanctæ instituto publicabit Festa mobilia anni currentis, juxta infrascriptam formulam.

Noveritis, fratres carissimi, quod annuente Dei misericordia,  sicut de Nativitate Domini nostri Jesu Christi gavisi sumus, ita et de Resurrectione ejusdem Salvatoris nostri gaudium vobis annuntiamus. 

Die septima Februarij erit Dominica in Septuagesima. 

Dies vigesima quarta ejusdem dies Cinerum, et initium jejunij sacratissimæ Quadragesimæ. 

Undecima Aprilis sanctum Pascha Domini nostri Jesu Christi cum gaudio celebrabimus. 

Die vigesima Maji erit Ascensio Domini nostri Jesu Christi. 

Die trigesima ejusdem Festum Pentecostes. 

Die vigesima octava Novembris Dominica prima Adventus Domini nostri Jesu Christi, cui est honor et gloria, in sæcula sæculorum.  Amen.


Tabula conversionis pro novum kalendarium assequentibus:

Septuagesima = 7 febr. = 20 febr.
Cineres = 24 febr. = 9 mar.
Pascha = 11 apr. = 24 apr.
Ascensio = 20 maj. = 2 jun.
Pentecost. = 30 maj. = 12 jun.
Adventus = 28 nov. = 11 dec.

lunedì 10 gennaio 2022

I dodici giorni del Natale nella tradizione bizantina

 originariamente pubblicato in Templum Domini, X, 3, pp. 4-11

 di Nicolò Ghigi

Sebbene nel mondo orientale la celebrazione del Natale non abbia ricevuto nel corso dell’età moderna quel particolare slancio che invece ha conosciuto nella tradizione occidentale (e l’esito dege-nerato di questo pio affetto per il Natale è che oggi in Occidente è considerato più importante della Pasqua dalla gente di estrazione “laica”), pure la tradizione bizantina presenta una serie di devote pratiche, liturgiche e popolari, per festeggiare degnamente la Natività di Nostro Signore e le altre feste del cosiddetto δωδεκαήμερον, cioè il periodo di dodici giorni che intercorre tra la Natività e la Teofania (Epifania). Infatti la tradizione bizantina, seguendo la decisione del Concilio di Calcedonia e l’esortazione di Giustiniano, già entro il VI secolo adottò universalmente la data del 25 dicembre (7 gen.)[1] per la Natività di Cristo, già diffusasi in Occidente e nella città di Costantinopoli da un paio di secoli, conservando per il 6 gennaio (19 gen.) invece la celebrazione del Battesimo di Cristo (Teofania), per differenziarsi dalla più antica tradizione, conservata da copti e armeni, di celebrare questi misteri insieme il 6 gennaio, la qual cosa era diventata una bandiera di dette comunità monofisite[2].



1. Preparazione al Natale.

Pur prevedendo un preciso periodo di digiuno in preparazione alla festa del Natale (Νηστεία Χριστουγέννων, Digiuno di Natale), che principia il 15 (28) novembre, il giorno dopo la festa dell’Apostolo Filippo (laonde è detto talora pure “digiuno di S. Filippo”), durante il quale non è permesso il consumo di alcun prodotto di origine a animale, l’uso bizantino, a differenza della tradizione occidentale, non conosce un tempo d’Avvento propriamente strutturato dal punto di vista liturgico: per il rito romano, infatti, esso è un’innovazione di Papa S. Gregorio Magno[3]. Durante il digiuno prosegue infatti il ciclo delle domeniche dopo la Pentecoste: da dopo la festa della Presentazione della Madre di Dio al Tempio (21 nov./4 dic.), però, vengono quotidianamente cantate le katavasie[4] di Natale al Mattutino e il kontàkion proeòrtion[5] Ἡ παρθένος σήμερον («La vergine oggi»). Secondo il tipico, i servizi feriali dovrebbero esser serviti more quadragesimali, cioè con l’Alleluia al Mattutino e la Grande Compieta: il gran numero di feste che cadono in questo periodo ha reso di fatto ininfluente questa rubrica. Solo le ultime due domeniche hanno una dedicazione speciale che anticipa il periodo natalizio, rispettivamente ai Santi Progenitori (Ἁγ. Προπατόρων), ossia gli antenati di Cristo nella carne, e ai Santi Padri (Ἁγ. Πατέρων), ossia tutti i giusti dell’Antico Testamento. I testi liturgici delle due domeniche in gran parte coincidono, e infatti la prima, più recente, non è che un doppione della seconda. Tali testi vengono comunque cantati in unione all’ufficio domenicale consueto dall’ottoico[6].

La preparazione prossima (proeortìa) al Natale inizia il 20 dicembre: i quattro giorni che precedono la vigilia sono celebrati con particolare intensità, e tutti gl’inni liturgici sono propri e ricordano il mistero della venuta di Cristo. Alcune parti della liturgia di Natale sono state costruite come un parallelo della liturgia pasquale, e perciò alla Compieta vengono cantati alcuni Canoni (cosa riservata a pochi giorni speciali) con gli stessi acrostici dei Canoni della Compieta della Settimana Santa[7].

Durante questo periodo, le case, le strade e le chiese vengono addobbate in modo non dissimile da come avviene in Occidente: soprattutto in Russia la tradizione germanica dell’albero è radicata da molti secoli, e non è infrequente trovarli nelle stesse chiese ai lati dell’iconostasi in questo periodo; recentemente si è diffuso pure l’uso del presepe, pur essendo una tradizione latina del XVII secolo. In Grecia, invece, l’uso tradizionale prevede l’erezione di grandi barche decorate con luminarie, che rappresentano l’immagine mistica della Chiesa, la cui illuminazione inizia con la nascita del Divin Redentore.



2. Vigilia e festa di Natale.

Il giorno della vigilia (paramonì) di Natale, di digiuno strettissimo[8], è molto ricco liturgicamente, e ricalca in alcuni punti la struttura del Venerdì e del Sabato Santi. Esso inizia, come il Venerdì Santo, con la celebrazione delle Ore Regali[9], cioè le ore Prima-Terza-Sesta-Nona unite insieme e celebrate con una certa solennità; infatti, queste ore sono arricchite ciascuna da letture di una profezia veterotestamentaria, un brano delle epistole paoline e una pericope evangelica, il sacerdote le officia con anche il felonio indosso, e incensa la chiesa a ciascuna di esse. L’Ora Nona è arricchita da un tropario particolarmente complesso e solenne (Σήμερον γεννᾶται, Oggi nasce), composto su imitazione del tropario che annuncia la morte di Cristo all’Ora Nona del Venerdì Santo, e, nella prassi russa, dal canto degli auguri (Mногаѧ лѣта) al Patriarca, al vescovo e a tutto il clero e il popolo.

Subito dopo le Ore, sebbene l’ora corretta sarebbe nel primo pomeriggio, indossati i paramenti bianchi, viene cantato con solennità il Vespro festivo, regolare fino al Piccolo Ingresso. Dopodiché, segue il canto di 8 profezie veterotestamentarie, intercalate da alcuni responsori, per i quali si aprono le porte regali a marcarne la solennità; concluse le profezie, si cantano un’epistola e un Vangelo, e quindi si interrompe il Vespro e si celebra la Divina Liturgia, iniziando dalle litanie dopo il Vangelo; l’anafora impiegata è quella di S. Basilio, per imitazione della liturgia vesperale del Sabato Santo.

La sera stessa del 24 dicembre (6 gennaio) si celebra la grande veglia di Natale: poiché, però, il Vespro è già stato cantato, il Mattutino viene fatto precedere dall’ufficiatura solenne della Grande Compieta, arricchita dalla litia[10]. Dopo il Vangelo aurorale, vengono con solennità cantati i due canoni di Natale, i cui irmi così suonano:

Χριστὸς γεννᾶται, δοξάσατε. Χριστὸς ἐξ οὐρανῶν ἀπαντήσατε. Χριστὸς ἐπὶ γῆς, ὑψώθητε, ᾌσατε τῷ Κυρίῳ πᾶσα ἡ γῆ, καὶ ἐν εὐφροσύνῃ, ἀνυμνήσατε λαοί, ὅτι δεδόξασται.

Ἔσωσε λαόν, θαυματουργῶν Δεσπότης,
Ὑγρὸν θαλάσσης κῦμα χερσώσας πάλαι·
Ἑκὼν δὲ τεχθεὶς ἐκ Κόρης, τρίβον βατήν,
Πόλου τίθησιν ἡμῖν· ὃν κατ'οὐσίαν,
Ἶσόν τε Πατρί, καὶ βροτοῖς δοξάζομεν.

Cristo nasce, glorificatelo. Cristo viene dai cieli, andategli incontro. Cristo viene sulla terra, elevatevi. Cantate al Signore, o terra tutta, e con letizia intonate inni, o popoli, poiché è stato glorificato. (Canone I)

Salvò il suo popolo tra i prodigi il Signore,
riducendo un tempo a siccità l'onda del mare:
ma di propria volontà nascendo da una Vergine, un sentiero percorribile
apre per noi nel cielo: colui che per essenza
è uguale al Padre e ai mortali, noi lo glorifichiamo. (Canone giambico di S. Gio. Damasc.)

Concluso il Mattutino e letta l’Ora Prima, si canta la Divina Liturgia di S. Giovanni Crisostomo, con inizio rigorosamente dopo la mezzanotte. I testi sono quasi tutti propri, e il Trisagio è sostituito dal «Quanti in Cristo siete stati battezzati»[11]. E’ da notare che il kontakion della festa menziona anche l’adorazione dei Magi, che infatti è compresa negli episodi evangelici letti in questi giorni: infatti, adottando la data del 25 dicembre per il Natale, anche la contemplazione di tale mistero è stata spostata al tal giorno, mentre in Occidente è rimasta al 6 gennaio insieme al Battesimo.

Terminata a notte fonda la liturgia, spesso i fedeli si ritrovano a festeggiare in parrocchia o nelle proprie case, consumando finalmente cibi grassi dopo il lungo digiuno, e mangiando i dolci tipici. Il giorno della festa (25 dic./7 gen.) è “libero”, poiché essendosi celebrata la Divina Liturgia durante la notte, e non venendo questa ripetuta[12], l’unico servizio a cui s’interviene è quello del secondo Vespro[13]. E’ da notare, però, che in Grecia si è perso l’uso della funzione notturna durante la turcocrazia: allora, la sera è celebrata solo la Grande Compieta, mentre al mattino presto del giorno stesso il Mattutino e la Divina Liturgia: tale prassi contrasta però con il tipico, fedelmente osservato in Russia, e sta venendo corretta.

Durante il dì di festa, i bambini girano per le strade, cantando canzoni tradizionali dedicate alla Natività (gr. κάλαντα, rus. колядки) e ricevendo dolcetti e monetine.

TROPARIO E KONTAKION

Ἡ γέννησίς σου Χριστὲ ὁ Θεὸς ἡμῶν, ἀνέτειλε τῷ κόσμῳ, τὸ φῶς τὸ τῆς γνώσεως· ἐν αὐτῇ γὰρ οἱ τοῖς ἄστροις λατρεύοντες, ὑπὸ ἀστέρος ἐδιδάσκοντο, σὲ προσκυνεῖν, τὸν Ἥλιον τῆς δικαιοσύνης, καὶ σὲ γινώσκειν ἐξ ὕψους ἀνατολήν, Κύριε δόξα σοι.

Ἡ Παρθένος σήμερον, τὸν ὑπερούσιον τίκτει, καὶ ἡ γῆ τὸ Σπήλαιον, τῷ ἀπροσίτῳ προσάγει. Ἄγγελοι μετὰ Ποιμένων δοξολογοῦσι. Μάγοι δὲ μετὰ ἀστέρος ὁδοιποροῦσι· δι' ἡμᾶς γὰρ ἐγεννήθη, Παιδίον νέον, ὁ πρὸ αἰώνων Θεός.

La tua natività, o Cristo Dio nostro, fece risplendere al modo la luce della conoscenza: grazie a essa infatti quelli che un tempo veneravano le stelle, vengono guidati da una stella ad adorare te, il Sole della giustizia, e a riconoscere in te l’Oriente che sorge dall’alto: o Signore, gloria a te.

La Vergine oggi genera il Sovraessenziale, e la terra offre una grotta all’Inaccessibile: gli angeli e i pastori cantano la sua gloria, i magi camminano seguendo la stella: per noi infatti è nato come un bambinello il Dio che esiste da prima dei secoli.



3. Meteortìa di Natale e Circoncisione.

Il periodo dopo la festa (meteortìa, corrispondente all’ottava romana) è caratterizzato dal riprendere i temi e i canti del Natale, uniti a quelli dei santi eventualmente celebrati

Il 26 dicembre (8 gennaio) ricorre la Sinassi della Madre di Dio, che però è un nome convenzionale per indicare la ripresa, in modo piuttosto solenne, degli stessi testi e ritmi della liturgia natalizia, e non una vera festa della Madonna; la Divina Liturgia viene usualmente servita in tutte le parrocchie anche in questo giorno. Le feste di alcuni comites Christi (S. Stefano e i Santi Innocenti) sono presenti pure nella tradizione bizantina, seppur spostate di un giorno, quindi rispettivamente il 27 dic. (9 gen.) e il 29 dic. (11 gen.). La festa di S. Giovanni, invece, presso i bizantini è celebrata nelle due date del Transito (26 set./9 ott.) e dell’Assunzione (8/21 mag.), e non durante l’ottava di Natale. La domenica fra l’Ottava è dedicata alla memoria di S. Giuseppe il Giusto, S. Davide Re e S. Giacomo fratello del Signore, per il legame speciale che questi hanno con la nascita secondo la carne di Nostro Signore, e il loro ufficio si combina a quello domenicale dell’ottoico e a quello della festa.

L’apodosis (conclusione) della festa è il 31 dicembre (13 gen.), e l’ufficiatura festiva viene dunque ripetuta per intiero: propriamente l’ottava si concluderebbe il 1° gennaio, ma per non sovraccaricare il già ricco ufficio di quel giorno (vide infra), la tradizione sabaita ha anticipato di un giorno la conclusione della meteortìa. Durante questo periodo, e poi ancora nei giorni successivi fino al 4 gennaio, i digiuni consueti del mercoledì e del venerdì sono sospesi.

Il 1° (14) gennaio, oltre alla festa della Circoncisione del Signore, ricorre pure il transito del nostro padre tra i santi Basilio di Cesarea; poiché la struttura del rito bizantino, a differenza di quello romano, permette di combinare agevolmente più uffici festivi, queste due ricorrenze sono celebrate insieme, con un pari numero di tropari a Vespro e Mattutino (addirittura, quelli del santo vengono cantati per primi, benché l’altra sia una festa del Signore; ma il padre cappadoco è a tal punto sentito presso la mens liturgica bizantina, di cui fu uno dei massimi ispiratori, da meritare tale onore). In onore del santo del giorno, l’anafora impiegata alla Divina Liturgia è quella di S. Basilio, una delle 10 volte all’anno in cui viene usata e l’unica in cui non ha una funzione penitenziale. La festa è particolarmente sentita in Grecia, dove viene onorata con la preparazione di un dolce speciale, la vasilòpita, torta allo yogurt contenente una monetina, talché chi la troverà nella propria fetta sarà protetto dal santo per tutto l’anno. Il dolce viene portato in chiesa e benedetto con una speciale preghiera dopo la Divina Liturgia. Anche in questo giorno i bambini vanno in giro a cantare le tradizionali κάλαντα, la cui più famosa di questo giorno (Ἀρχιμηνιὰ κὶ ἀρχιχρονιὰ, Inizio del mese e inizio dell’anno) è particolarmente nota per contenere una poesia d’amore nascosta al suo interno, composta da un giovane costantinopolitano innamorato della principessa.

Dal 2 al 4 gennaio si compie la preparazione alla festa della Teofania, che ricalca nella sua struttura quella del Natale e, quindi, quella della Pasqua, con testi propri a tutte le ore e Canoni speciali alla Compieta. Qualora vi cada una domenica (detta πρὸ τῶν φώτων, prima delle luci), anch’essa viene celebrata con testi propri che contengono un carattere di preparazione alla festa imminente.



4. La Teofania e la sua meteortìa.

La struttura della vigilia della Teofania (5/18 gen.) è, ancora una volta, simile a quella del Venerdì e del Sabato Santo, e quindi diventa un parallelo perfetto della vigilia di Natale, persino nel digiuno: anzi, a voler essere precisi, per le ragioni già dette, tutta l’ufficiatura di Natale è una copia perfetta di quella della Teofania, a sua volta ispirata a quella pasquale. Il tema principale della festa della Teofania è il Battesimo di Cristo, che nella tradizione romana è invece in secondo piano rispetto all’Adorazione dei Magi; il miracolo delle Nozze di Cana, facente parte del “triplice mistero epifanico”, è ricordato nel sinassario ma non presenta testi liturgici dedicati.

Anche questa officiatura inizia con il canto delle Ore Regali, con la medesima struttura di quelle natalizie, e anche qui all’Ora Nona è cantato il solenne tropario (Τὴν χεῖρά σου τὴν ἁψαμένην, La tua mano che toccata) a imitazione del Venerdì Santo. Segue il Vespro festivo, e dopo l’Ingresso la lettura di 13 profezie veterotestamentarie intervallate da solenni responsori, quindi l’epistola, il Vangelo e la Divina Liturgia vigiliare di S. Basilio. Al termine di questa Liturgia, dopo la preghiera di ringraziamento dietro l’ambone, il clero procede solennemente con lumi e incenso nel nartece, ove si trova il fonte battesimale o un altro catino ricolmo d’acqua, e officia la Grande Santificazione delle Acque. Dopo i tropari iniziali, durante i quali si incensa il fonte, seguono tre profezie veterotestamentarie, una breve epistola e un breve Vangelo, quindi una grande litania contenente petizioni speciali per la benedizione dell’acqua e due lunghe preghiere di benedizione, la seconda delle quali, dal carattere talmente catechetico da essere definita omelia da alcuni liturgisti[14], è attribuita a Sofronio Patriarca di Gerusalemme (VII secolo). Infine, la croce viene immersa per tre volte nell’acqua al canto del tropario della festa, e con l’acqua così santificata tutti i fedeli vengono aspersi.

Similmente al Natale, pure la veglia notturna della Teofania è celebrata con la Grande Compieta con litia e il Mattutino, e pure in questa festa sono cantati due canoni in modo solenne, il secondo dei quali è composto dal Damasceno con stile elevato e arcaizzante (notevolissimo un genitivo epico già al primo verso, e altri epicismi e ricercatezze linguistiche in tutto il testo), in un difficile metro lirico anapestico della tradizione poetica classica:

Σήμερον ἀχράντοιο βαλών,
Θεοφεγγέϊ πυρσῷ,
Πνεύματος, ἐνθάπτει νάμασιν, ἀμπλακίην,
Φλέξας παμμεδέοντος ἐΰς Πάϊς·
Ἠπιόων δ, Ὑμνηταῖς μελέων τῶν δ δίδωσι χάριν.

Oggi, immergendosi nel fuoco
divinamente lucente dello Spirito
purissimo, annega nei flutti la colpa,
consumandola nel fuoco, l’eccelso Figlio che tutto governa,
doni dunque la grazia a quanti gli cantano dolci inni.

Mentre nei monasteri la Divina Liturgia segue immediatamente la veglia notturna, nelle parrocchie usualmente essa è celebrata al mattino dell’indomani: essa possiede numerose parti proprie, e in luogo del Trisagio è cantato «Quanti in Cristo siete stati battezzati» a motivo del carattere battesimale della festa. Al termine della Divina Liturgia, è consuetudine ripetere in modo più solenne la benedizione delle acque officiata il giorno precedente, benedicendo però le acque dei fiumi, dei laghi e dei mari attigui: quest’uso, benché non previsto dai libri liturgici, che riportano unicamente la benedizione del 5/18 gen. (e infatti pure in quelle zone d’Occidente ove si è diffusa questa usanza orientale della benedizione delle acque[15] essa si compie soltanto alla sera della vigilia), origina direttamente dalla prassi del Monastero di San Saba in Palestina, il cui tipico “sabaita” divenne il modello su cui si costituì il tipico bizantino ordinario nel corso del secondo Medioevo, in cui i monaci in questo giorno uscivano dal monastero e si recavano al fiume Giordano per ripetere la benedizione direttamente sulle sue acque, atto senz’altro suggestivo, dal momento che si ha davanti agli occhi materialmente il fiume benedetto che gl’inni liturgici esaltano quale luogo di grazia.

Il giorno successivo (7/20 gen.) è la Sinassi del Precursore e Battista Giovanni, ma al netto di qualche tropario dedicato al santo si tratta in buona sostanza della ripetizione della liturgia epifanica, che garantisce in tal modo un “secondo Vespro” alla festa.

Come indicato dal Mineo[16] stesso, il periodo natalizio (δωδεκαήμερον) termina con la Divina Liturgia del 6 gennaio, benché la gioia della festa della Teofania prosegua per tutta la sua meteortìa, cioè fino al 14 (27) gennaio, in cui l’intiera officiatura viene ripetuta.

TROPARIO E KONTAKION

Ἐν Ἰορδάνῃ βαπτιζομένου σου Κύριε, ἡ τῆς Τριάδος ἐφανερώθη προσκύνησις· τοῦ γὰρ Γεννήτορος ἡ φωνὴ προσεμαρτύρει σοι, ἀγαπητόν σε Υἱὸν ὀνομάζουσα· καὶ τὸ Πνεῦμα ἐν εἴδει περιστερᾶς, ἐβεβαίου τοῦ λόγου τὸ ἀσφαλές. Ὁ ἐπιφανεὶς Χριστὲ ὁ Θεός, καὶ τὸν κόσμον φωτίσας δόξα σοι.

Ἐπεφάνης σήμερον τῇ οἰκουμένῃ, καὶ τὸ φῶς σου Κύριε, ἐσημειώθη ἐφ᾽ ἡμᾶς, ἐν ἐπιγνώσει ὑμνοῦντας σε. Ἦλθες, ἐφάνης τὸ Φῶς τὸ ἀπρόσιτον.

Quando venisti battezzato nel Giordano, o Signore, si manifestò l’adorazione della Trinità: la voce del tuo Genitore infatti ti testimoniò, chiamandoti Figlio diletto, e lo Spirito in forma di colomba confermò questo verbo sicuro. O Cristo Dio, che per noi ti sei manifestato e hai illuminato il mondo, gloria a te.

Ti sei manifestato oggi all’orbe, e hai fatto risplendere la tua luce su di noi che ti cantiamo, o Signore: Sei venuto, ti sei manifestato, o Luce inaccessibile.



[1] Poiché la maggioranza delle Chiese Ortodosse e molte Chiese Cattoliche di rito bizantino seguono il calendario giuliano tradizionale, istituito da Giulio Cesare, le date nell’articolo saranno sempre duplici, con la data tra parentesi che indica la corrispondenza col calendario gregoriano (civile), introdotto in Occidente dal 1583: la data giuliana infatti differisce di 13 giorni (nel XXI secolo) da quella gregoriana. Perciò, è scorretto dire, ad esempio, che i Russi festeggiano il Natale il 7 gennaio: essi festeggiano il Natale il 25 dicembre del calendario giuliano, che corrisponde al 7 gennaio gregoriano/civile.

[2] Cfr. B. Botte, Les origines de Noël et de l’Épiphanie, Louvain, 1932, pp. 19-20; M. Van Esbroeck, “La lettre de l’empereur Justinien sur l’Annonciation et la Noël”, Analecta Bollandiana 86 (1968), 351-52; Id., “Encore la lettre de Justinien”, Analecta Bollandiana 87 (1969), 442-44.

[3] P. Gueranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 25.

[4] Letteralmente «discesa»: si tratta di un gruppo di otto troparj, divisi in più serie per le grandi feste dell’anno più l’ordinario, che si cantano a conclusione di ciascuna delle odi del Canone del Mattutino (lungo poema dedicato al santo o alla festa del giorno, intercalato ai cantici veterotestamentarj).

[5] Il kontakion è un tipo di testo liturgico poetico dalla metrica e dal linguaggio molto elevati e complessi, ideato da S. Romano il Melode e molto popolare nella liturgia bizantina dell’Alto Medioevo. Vengono cantati al Mattutino dopo la VI Ode del Canone e alla Liturgia insieme ai troparj del giorno dopo il Piccolo Ingresso.

[6] Ciclo di otto uffici domenicali, uno per ciascuno dei toni melodici, che si alternano nelle domeniche infra l’anno.

[7] J. Getcha, The Typikon Decoded, New York, 2012, pp. 129-30.

[8] Così nel tipico sabaita, originariamente proprio della Palestina e divenuto nel tempo quello bizantino “ordinario”. Il tipico studita, in uso a Costantinopoli fino alla conquista latina, la identificava invece come un giorno di festa, senza digiuno e senza prostrazioni.

[9] Il nome è una pura imitazione del servizio del Venerdì Santo, senza che vi fosse la ragione per cui quelle del Venerdì Santo son chiamate così (cioè la presenza dell’Imperatore), perché a Costantinopoli non si celebravano. I libri liturgici più antichi le chiamano infatti “Le ore dei dodici tropari”, riferendosi ai dodici inni che, divisi in gruppi di tre, si cantano durante queste ore tra la salmodia e le letture.

[10] Processione interna alla chiesa con benedizione di cinque pani, del grano, dell’olio e del vino (residuo del pasto che un tempo si consumava, interrompendo la veglia di tutta la notte); ordinariamente si officia verso la fine del Vespro.

[11] Questo perché la festa ha preso molti caratteri dall’originaria celebrazione dell’Epifania, da cui si è separata tardivamente, cfr. nota 1.

[12] L’uso delle tre liturgie di Natale è prettamente romano, e perde di senso storico al di fuori delle celebrazioni stazionali di tre Messe in tre chiese distinte.

[13] Come sappiamo, la tradizione bizantina propriamente non prevede i Secondi Vespri; nondimeno, le feste maggiori sono seguite da una «Sinassi» che, pur prendendo vari nomi, di fatto riprende i temi e i testi liturgici della festa precedente, talché il Vespro di tale sinassi può ben costituire il secondo vespro della festa.

[14] [14] J. Getcha, The Typikon Decoded, New York, 2012, pp. 138.

[15] Cfr. https://traditiomarciana.blogspot.com/2019/01/la-benedizione-delle-acque-nella.html

[16] Letteralmente “mensile”: libro liturgico bizantino corrispondente al “Proprio dei Santi”, chiamato così perché è consuetamente diviso in 12 tomi, appunto uno per mese.


mercoledì 29 dicembre 2021

Il Patriarcato Ecumenico: Storia di un titolo

Presentiamo un articolo del giornalista Pavel Kuzenkov, apparso sul sito del Dipartimento per le Relazioni Esterne del Patriarcato di Mosca. Il testo è di alcuni anni fa, ma ancora attualissimo, e la stesura e i dati presentati risultano particolarmente interessanti.

Il Patriarca di Costantinopoli Geremia II (Tranos), regnante tra il 1572 e il 1595.
Si tratta di una figura molto controversa, salita tre volte sul trono patriarcale dopo esser stata costretta a discenderne; diplomatico, grande benefattore della "Nazion Greca", ma considerato vicino all'Occidente e unionista nelle sue posizioni religiose, intessendo egli relazioni sia col Papato (intendeva adottare il calendario gregoriano), sia con i protestanti di Tubinga (benché abbia poi condannò le loro tesi, scrivendo una lettera di riassunto della dommatica ortodossa nei punti di distacco dall'eresia luterana). Nell'articolo è presentato come uno degli artefici dell'idea del patriarcato ecumenico come "capo dell'ortodossia mondiale". (disegno di D. Kamporoglou) [N.G.]

Conosciamo molto bene il titolo completo del Primate della prima Chiesa ortodossa autocefala secondo il dittico: “Arcivescovo di Costantinopoli – Nuova Roma e Patriarca Ecumenico”. Sembra che tutti capiscano che la parola “Ecumenico” qui non è che un fiorito titolo bizantino, un omaggio alla tradizione antica. Perché la dottrina ortodossa non ammette nessuna – oltre a quella di Cristo stesso – “giurisdizione universale”: come gli apostoli, nell’unanimità fraterna, ma indipendentemente e a se stanti, fecero la loro missione affidatagli da Dio, così anche le Chiese locali fondate da loro sono sorelle unite nello Spirito Santo come parti della Chiesa – Una, Santa, Cattolica e Apostolica. Però in un modo del tutto diverso percepiscono questo titolo gli uomini lontanti dalle finezze del diritto canonico e non familiari con la storia. Nella loro comprensione, basata sul significato principale della parola “universo”, questo titolo sembra un riconoscimento ufficiale del primo dei Patriarchi come leader dell’Ortodossia universale. E questo nonostante il fatto che il suo gregge in tutto il mondo conta ca. 6 milioni di fedeli (1) — attorno al 2% del numero totale dei cristiani ortodossi (2).

Che cosa significa il titolo “Ecumenico”, da dove proviene e quale è il suo vero valore? 

L'Impero come universo

Prima di tutto, occorre capire la parola stessa “universo” — in greco οἰκουμένη. È il participio passivo dal verbo οἰκέω “vivere, abitare, popolare” con il sostantivo “terra” che di solito viene omesso, e letteralmente significa lo “spazio terreno abitato dall’uomo”. Così i greci antichi chiamavano il mondo conosciuto, a differenza dalle regioni lontane, disabitate oppure abitate dai barbari selvaggi. Solitamente, con il termine “universo” denotavano non tutto il mondo, ma solo quella parte di esso dove esisteva la civiltà. I sovrani dei grandi regni si chiamavano “re dell’universo” – come, per esempio, Ciro di Persia nella Bibbia (2 Esd. 2:2). E quando la civiltà greco-romana fu unita sotto il potere degli imperatori romani, l’Impero Romano venne chiamato “universo”. Proprio in questo senso usa la parola il santo evangelista Luca, quando scrive della natività di Cristo: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra” (πᾶσαν τὴν οἰκουμένην — Lc. 2:1). Il termine οἰκουμένην significava non tanto lo spazio abitato, quanto lo spazio culturale della civiltà antica. Le altre culture avevano i loro “universi”, e questa percezione durò per secoli. Ad esempio, quando nel 1262 il signore bulgaro Yakob Svyatoslav inviò una copia del Nomokanon al metropolita Kirill II di tutta la Rus’, scrisse: “Che l’universo russo sia illuminato dalla tua parola!” 

Quando il santo imperatore Costantino l’Uguale agli apostoli convocò nel 325 a Nicea i vescovi da tutto il suo impero per discutere di problemi ecclesiastici, questa riunione ebbe il nome di “Concilio Ecumenico”. Così nacque l’istituzione del livello panimperiale, alla quale si riunivano i vescovi da tutto l’immenso stato romano chiamati dagli imperatori nei casi particolarmente importanti, — presieduta dai vescovi più autorevoli che col tempo sono stati chiamati “capi dei padri”— Patriarchi.

L’epiteto “universale” nel senso “panimperiale, statale” ebbe una diffusione particolarmente ampia nella legislazione di Giustiniano il Grande (527–565). Nelle sue leggi sempre s’incontrano le parole “universo, universale” come denominazione di tutto il territorio dell’Impero. Nella novella 109 dell’anno 541 l’imperatore dà una spiegazione esauriente delle istituzioni ecclesiastiche maggiori – Concili Ecumenici e Patriarcati: “I padri chiamavano e chiamiamo noi eretici coloro che appartengono a diverse eresie... generalmente tutti coloro che non sono membri della Santa Cattolica ed Apostolica Chiesa di Dio in cui tutti i santissimi Patriarchi di tutto l’universo – di Roma occidentale e di questa città regnante, di Alessandria, di Teupolis (Antiochia – P.K.), di Gerusalemme e tutti i reverendissimi vescovi sottomessigli – dichiarano unanimamente la fede apostolica e la tradizione” (3).

Così, dal punto di vista della legislazione imperiale, la fede ortodossa viene concordemente professata dai cinque “Patriarchi dell’universo” e i vescovi loro sottomessi – e proprio per testimoniare questo accordo gli imperatori convocano i Concili Ecumenici. L’ordine di riverenza dei Patriarchi è definito dai canoni (2 Conc. Ec. 3; 4 Conc. Ec. 28; Trul. 36) e confermato nelle leggi dell’Impero Romano (Codex Iustiniani, I.1.7, I.2.16; Novella Iustiniani 131 e altre): Roma — Costantinopoli — Alessandria — Antiochia — Gerusalemme. È importante notare che quest’ordine delle cinque sedi patriarcali non esaurisce il numero delle Chiese ortodosse autocefale: oltre si trovano non solo le Chiese ortodosse che all’epoca erano al di fuori dell’Impero (Chiesa georgiana e quella di Aquileia), ma anche quelle all’interno dei suoi confini (Chiese di Cipro, di Cartagine, di Giustiniana Prima). La pentarchia, secondo Giustiniano, simboleggiava l’unità della Chiesa ortodossa, i cui garanti erano i Primati delle sedi episcopali più autorevoli dell’Impero. E la cosa più importante, tutti i cinque Patriarchi erano considerati “universali”. 

Dai cinque “Patriarchi dell’universo” — all’unico “Patriarca Ecumenico” 

Nelle fonti superstite l’epiteto “ecumenico” applicato ad un vescovo appare per la prima volta negli atti del così detto conciliabolo d’Efeso del 449: il vescovo Olimpio di Evaso nel suo discorso chiamò Dioscoro d’Alessandria, guida di questo conciliabolo scandaloso, “il nostro santissimo padre e l’arcivescovo ecumenico della grande città di Alessandria”. Due anni più tardi, al Concilio di Calcedonia, i legati di Papa Leone Magno firmarono a nome “del nostro signore, beatissimo ed apostolico uomo, vescovo della Chiesa Universale e della Roma antica” (5).

Solo nelle leggi di Giustiniano (dal 530) la formula “Patriarca Ecumenico” comincia ad applicarsi ufficialmente agli arcivescovi di Costantinopoli – Nuova Roma (6). Questa novità non fu subito notata al di fuori del Bisanzio, ma quando fu notata, immediatamente suscitò un adirato rimprovero da parte della Sede di Roma. Il santo Papa Gregorio I vide nella parola “Ecumenico” la pretesa di Costantinopoli al primato nella Chiesa, di cui scrisse con amarezza a Eulogio d’Alessandria (7). In risposta Eulogio e lo stesso Patrairca di Costantinopoli assicurarono il Papa che si trattava solamente di un fiorito titolo cerimoniale e che il vero leader dei cristiani di tutto il mondo certamente era lui, Primate della Sede apostolica...

La percezione di tutte le sedi patriarcali come universali si custodiva in Bisanzio lungo i secoli. Per esempio, al VII Concilio Ecumenico il rappresentante del Patriarca di Gerusalemme Giovanni chiamò i santissimi Patriarchi “pastori dell’universo” (8). San Teofane il Confessore († 818) nella prefazione alla sua famosa “Cronografia” scrive che indicherà gli anni “dei primati delle grandi ed ecumeniche sedi, cioè di Roma, di Costantinopoli, d’Alessandria, d’Antiochia e di Gerusalemme, sia quelli che pasceva la Chiesa in modo ortodosso che quelli che come ladroni guidavano in eresia” (9).

È caratteristico che nel IX secolo alla domanda diretta sul significato del titolo “Ecumenico” fatta a Costantinopoli dal legato papale Anastasio il Bibliotecario gli risposero che chiamavano il Patriarca “Ecumenico” (oecumenicus, universalis) non perché fosse il vescovo di tutto il mondo, ma perché aveva il potere su una delle parti del mondo abitato dai cristiani (10).

In seguito i canonisti bizantini Teodoro Balsamon (XI sec.) e Matteo Blastaris (XIV sec.) sottolinearono che fra i cinque Patriarchi furono distribuite le “regioni dei quattro climi dell’universo”, senza contare le “piccole Chiese” non sottomesse a nessuno dei Patriarchi: Bulgara, Cipriota e Georgiana. A nessuno dei Patriarchi è permesso di mandare una rappresentanza in un paese che è sottomesso a un altro Patriarca, né prenderne un chierico, affinché non vengano violati i diritti delle Chiese” (11).

Ciononostante, nella legislazione imperiale e nei nomokanoni bizantini comparisce l’idea delle prerogative particolari ed uniche di Costantinopoli. Per esempio, nel Nomokanon dei XIV titoli nella versione del 880 leggiamo (titolo I, cap. 5): “Della dignità dei Patriarchi... e che il capo di tutte le chiese è Costantinopoli, leggi il libro I del Codice, titolo 1, rubrica 7; titolo 2, rubriche 6, 20 e 24; e anche il titolo 1 delle Novelle, rubrica 2, e il titolo 2, rubrica 3. E la rubrica 16 del titolo 2 del libro I del [Codice] dice che Costantinopoli abbia il primato sopra di tutti” (12). Segue questo testo anche l’ “Eisagoge” dell’imperatore Basilio I (886 г.), in cui si dice: “La Sede di Costantinopoli, decorata con il regno, è dichiarata dalle decisioni conciliari la prima; seguendole, le leggi divine prescrivono di trasmettere alla sua considerazione e decisione anche le controversie che abbiano luogo in altre sedi” (13). È caratteristico che nessun testo annoverato nel Nomokanon parla di Costantinopoli come “capo di tutte le chiese” e nessuna legge impone la giurisdizione universale della Sede di Costantinopoli. Ma nel caso si parla del territorio dell’Impero stesso, le affermazioni del Nomokanon e dell’ “Eisagoge” sono giuste. Il fatto è che entro il IX secolo il Bisanzio perse tutti i suoi domini in Oriente ed in Occidente e i suoi confini effettivamente coincisero con il territorio della giurisdizione canonica del Patriarcato di Costantinopoli. Siccome la sfera di applicazione dei codici legislativi è per definizione limitata dal territorio dell’Impero, le prerogative di Costantinopoli definite in quelli sono ridotte allo stesso territorio. A ciò perfettamente corrisponde il suo titolo “Ecumenico”, in cui sotto il termine “universo”, come di solito, viene percepito l’Impero Romano (Bizantino). 

Dal “millet-pascià” al “leader dell’Ortodossia mondiale” 

Nel 1453 l’Impero bizantino cadde. Costantinopoli divenne la capitale di uno stato islamico – l'Impero ottomano. Tutti i Patriarcati ortodossi si unirono di nuovo in uno stato, ma ormai su principi giuridici diversi. Siccome la Sharia non veniva applicata ai cristiani né agli ebrei, essi furono segregati nelle corporazioni etno-religiose autonome – i millet, guidati dai leader spirituali. Uno di tali “millet-pascià” era il Patriarca di Costantinopoli trasferito dai turchi da Santa Sofia al quartiere Fanar. Secondo le leggi turche, egli aveva la giurisdizione su tutti i cristiani ortodossi che abitavano sotto il potere ottomano. Usando il loro nuovo status, i Patriarchi fanarioti cominciarono a intrommettersi negli affari di altre Chiese autocefale, però incappavano in una rigida posizione canonica dei Primati loro. In modo breve e preciso fu espressa da Melezio Pygas, Patriarca d’Alessandria, nella lettera del 1592 a Geremia II di Costantinopoli: “Nessuna sede patriarcale si sottomette a un’altra” (14).

La lettera fu scritta in occasione dei tentativi di Geremia di agire come leader dell’Ortodossia mondiale nel dialogo con i protestanti, i quali in quell’epoca attivamente cercarono alleati nella loro lotta accanita con il papato. “La Chiesa Ecumenica è la patria delle Chiese e presiede in competenza... Essa ricevette il primato nell’ortodossia ed è messa a capo”, rassicurò Geremia II i teologi di Tubinga nel 1576 (15).

Usufruendo la protezione delle autorità musulmane e prendendo gioco dei canoni ortodossi, i fanarioti cercarono di riempire il titolo di “Patriarca Ecumenico” con sostanza reale, mettendo Costantinopoli nella posizione del leader di tutto il mondo ortodosso. Nel novembre del 1872 l’ambasciatore russo presso la corte del sultano conte N. P. Ignatiev, commentando la situazione del Patriarcato di Gerusalemme, riportò al Ministero degli esteri: “L’aspirazione di sollevare la Sede di Costantinopoli sopra tutte le altre, assegnarle un primato simile a quello della Sede papale nel mondo occidentale e vedere la proprietà delle altre Chiese come sua propria si manifesta sempre di più nel partito dei greci fanarioti. Questo partito spera, diventato signore del mondo ortodosso, di prendere le ricchezze a favore dei laici-fanarioti, che guidano il Patriarcato Ecumenico” (16).

È caratteristico che allo stesso tempo i Patriarchi di Costantinopoli condannarono in una maniera rigorosa e non equivoca i tentativi della Roma papale di giustificare il suo primato su altre Chiese. Nella lettera patriarcale e sinodale del 1895 è detto chiaramente: “Ogni Chiesa autocefala in Oriente e Occidente era completamente indipendente e autonoma nei tempi dei Concili Ecumenici. Come i vescovi delle Chiese autocefale d’Oriente, così anche i vescovi d’Africa, di Spagna, di Gallia, di Germania e di Britannia guidavano le loro Chiese tramite i loro Concili locali; il vescovo di Roma, il quale doveva sottomettersi alle decisioni conciliari lui stesso, non aveva nessun diritto di intervenire. E quando si sollevarono le questioni importanti, che chiedevano le deliberazioni di tutta la Chiesa, si convocavano i Concili Ecumenici, i quali unici sempre furono e rimangono il potere supremo nella Chiesa. Questa è la costruzione ecclesiastica antica” (17).

Il crollo dell’Impero ottomano generò nel mondo greco l’illusione della realizzazione veloce della “Grande idea” della restaurazione del Bisanzio con l’aiuto della vittoriosa Triplice Intesa. Su questo sfondo all’interno del Fanar nacque l’idea: trasformare il Patriarcato Ecumenico nel centro cristiano inter-ecclesiale mondiale. L’11 febbraio (il 29 gennaio secondo il calendario giuliano) 1920 il Sinodo di Costantinopoli presieduto dal locum tenens della sede patriarcale vacante dall’autunno del 1918 si rivolse alle “Chiese di Cristo ovunque esistenti” con la proposta di fondare, secondo il modello della Lega delle nazioni, una Lega delle Chiese pancristiana (in greco Κοινωνία, che significa non solo “unione, società”, ma anche “comunione ecclesiastica”, il che dava al termine una sfumatura particolare) “per preparare e organizzare più facilmente con l’aiuto di Dio l’unione benedetta” dei cristiani di tutte le confessioni (18). Il progetto ambizioso siscitò l’approvazione di molti vescovi ortodossi e un vivo interesse da parte dell’arcivescovo luterano svedese Nathan Söderblom, uno dei fondatori del movimento ecumenico. Iniziarono le trattative di preparazione del “Concilio Ecumenico” pancristiano nel 1925, anniversario del Concilio di Nicea.

Tuttavia la politica impedì la realizzazione dei sogni. La guerra greco-turca finì con l’espulsione dell’esercito dell’Intesa da Costantinopoli e la deportazione della popolazione greca dai territori della Turchia ristabilita da Kemal Atatürk. Alla Conferenza di Losanna del 1923 i kemalisti insistettero anche sull’escusione del Patriarcato “greco”. E allora, si dovette usare il titolo di “Ecumenico” agli scopi del tutto diversi: la delegazione greca con E. Venizelos a capo dichiarò che “il Patriarcato Ecumenico ha il primato fra tutte le Chiese ortodosse... Nelle questioni di fede, morale cristiana e diritto canonico la posizione e l’autorevolezza del Patriarcato Ecumenico hanno l’importanza decisiva” (19).

Sotto la pressione dei francesi e inglesi i turchi fecero concessioni, e al Patriarca con i fanarioti fu permesso rimanere ad Istanbul, sulle condizioni della rinuncia completa alla politica. Ma bisognava dimenticare il “Concilio Ecumenico”... 

Nel secolo scorso la posizione del Patriarcato Ecumenico in Turchia non si è consolidata affatto. Al contrario, la popolazione greca del Fanar è diminuita drasticamente, e ora sul territorio canonico, che fu sottomesso a Costantinopoli dal Concilio di Calcedonia 1570 anni fa, praticamente non ci sono più i parrocchiani del Patriracto Ecumenico. La maggior parte del suo gregge si trova adesso in America e in Europa Occidentale. Tale situazione ha bisogno di un fondamento. Perciò negli studi dei canonisti costantinopolitani prima timidamente e poi sempre più francamente ha cominciato a svilupparsi l’idea che il Patriarca insignito col titolo di “Ecumenico” debba avere anche la giurisdizione “ecumenica”. Per argomentare questa tesi si cerca qualsiasi episodio del passato, gli antichi precedenti vengono tolti dal contesto, i canoni ecclesiastici da tanto tempo interpretati vengono reinterpretati male. Ma particolarmente attivo è l’uso del titolo antico.

Nel 2008, rivolgendosi all’Assemblea del Parlamento europeo, il Patriarca Bartolomeo disse: “In quanto istituzione puramente spirituale, il nostro Patriarcato Ecumenico abbraccia un ministero apostolico veramente mondiale, cercando di sollevare e ampliare la coscienza della famiglia umana, di portare la comprensione del fatto che abitiamo in una casa. Nel senso basilare, tale è il significato della parola “ecumenico” perché l’“ecumene” è il mondo abitato, la terra percepita come casa in cui abitano tutti i popoli, tribù e etnie”.

Per un’auditorio anglofano la parola ecumenical — “universale”, che fà parte del titolo patriarcale di Bartolomeo, ha una connotazione specifica legata al famoso movimento protestante per l’unità pancristiana. Se nel linguaggio ecclesiastico russo i termini “universale” e “ecumenico” sono piuttosto antipodi, in inglese e in greco nuovo sono la stessa parola. E nei testi, che escono dalla penna degli attuali apologeti della «nuova ecclesiologia», è sempre più difficile tracciare una linea tra questi significati. L’antico termine dei tempi di Giustiniano il Grande, il quale denotava il ruolo specifico dei cinque Patriarchi universali dell’Impero come colonne e garanti dell’Ortodossia, impercettibilmente si è trasformato nel “Ecumenical patriarch”, che combina le pretese per lo status di “leader del mondo ortodosso” (20) con le pretese per il ruolo del leader “sovra-confessionale” di tutto il cristianesimo. E non per caso la recente iniziativa del Patriarca Bartolomeo di un incontro dei leader ecclesiali nel 2025, in occasione di un nuovo giubileo del Primo Concilio Ecumenico, propone di elaborare a quell’incontro «a more determined ecumenical course» (21).

NOTE

1. Nelle versioni russa e inglese della Wikipedia — ca. 5,3 mln, in quella greca — ca. 6,6 mln.

2. 300 mln, secondo la Wikipedia russa (col riferimento: Juergensmeyer M., Roof W. C. (ed.). Encyclopedia of Global Religion. Los Angeles: SAGE Publications, 2012. Vol. 1. P. 319); la versione greca riporta il numero da 200 a 260 mln, quella inglese — 220 mln.

3. Corpus Iuris Civilis. T. III: Novellae. Berlin, 1963 (8 ed.). P. 518.

4. Acta Conciliorum Oecumenicorum. T. II.3.1. Berlin; Leipzig, 1935. P. 187.

5. Acta Conciliorum Oecumenicorum. T. II.1.2. Berlin; Leipzig, 1933. P. 141; T. II.3.2. 1936. P. 415–416.

6. Cf.: Codex Iustiniani, I.2.24; I.1.7.

7. Epistula 9, cap. 12.

8. Acta Conciliorum Oecumenicorum. Series 2. T. III.1. Berlin; New York, 2008. P.188–189.

9. Theophanis Chronographia / Ed. C. De Boor. Leipzig, 1883. Vol. 1. P. 3.

10. Acta Conciliorum Oecumenicorum. Series 2. T. III.1. Berlin; New York, 2008. P.1–2.

11. Σύνταγμα τῶν θείων καὶ ἱερῶν κανόνων. Ἀθῆναι, 1992. Τ. 6. Σ. 257–258.

12. Juris Ecclesiastici Graecorum historia et monumenta / Ed. I. B. Pitra. Romae, 1868. T. II. P. 462–463.

13. Collectio librorum juris Greco-Romani ineditorum / Ed. C. E. Zachariae von Lingenthal. Lipsiae, 1852. P. 66–68.

14. Μεθόδιος (Φούγιας), μητρ. Ἐπιστολαί Μελετίου Πηγᾶ, Πάπα καὶ Πατριάρχου Ἀλεξανδρείας (1590–1601). Αθῆναι, 1976. Σ. 19, 21.

15. Ἐκκλησίας. Τ. 1. Ἀθῆναι, 1960. Σ. 476.

16. Каптерев Н. Ф. Сношения Иерусалимских патриархов с русским правительством. СПб., 1898. Ч. 2. С. 804 (Kapterev N. F. Le relazioni dei Patriarchi di Gerusalemme con il governo russo, San Pietroburgo, 1898, parte II, P. 804).

17.https://azbyka.ru/otechnik/bogoslovie/okruzhnoe-patriarshee-i-sinodalnoe-poslanie-konstantinopolskoj...

18. Καρμίρης Ι. Τὰ δογματικὰ καὶ συμβολικὰ μνημεῖα… Τ. Βʹ. Ἀθῆναι, 1953. Σ. 957–960.

19. Lausanne Conference on Near Eastern Affairs (1922–1923). Records of Proceedings and Draft Terms of Peace. London, 1923. P. 324, 335.

20. Именно так, «leader of the Orthodox world», назвал Варфоломея в своём Твиттере Госсекретарь США Майкл Помпео в ноябре 2020 г. — URL: https://www.ekathimerini.com/news/259272/pompeo-hails-patriarch-as-key-partner/

21. Church Times, 19 February 2021. URL: https://www.churchtimes.co.uk/articles/2021/19-february/news/world/after-1700-years-let-s-talk-again....