In questo momento di siccità che
affligge le nostre terre, specialmente quelle del Nord Italia, pubblichiamo le
orazioni ad petendam pluviam, con la ferma fiducia che Dio è Signore di
tutto il creato. Invitiamo i nostri lettori alla preghiera.
La preghiera è rivolta a Dio, unico Signore, mai alla "Madre Terra" come vorrebbe la mentalità neopagana
Oratio
Deus, in quo vivimus, movemus, et sumus: pluviam
nobis tribue congruentem; ut, praesentibus subsidiis sufficienter adjuti, sempiterna
fiducialius appetamus. Per Dominum.
Secreta
Oblatis, quaesumus, Domine, placare muneribus: et
opportunum nobis tribue pluviae sufficientis auxilium. Per Dominum.
Postcommunio
Da nobis, quaesumus, Domine, pluviam salutarem: et
aridam terrae faciem fluentis caelistibus dignanter infunde. Per Dominum.
Come noto, è difficile individuare una data precisa della separazione effettiva tra la Chiesa d'Oriente e la Chiesa d'Occidente, prescindendo da quella del tutto convenzionale e poco significativa del 1054. A titolo d'esempio, le crisobolle imperiali relative a Venezia, sia quella del 1081 che quelle del XII secolo, si riferiscono ai vescovi lagunari come vescovi ortodossi, concedendo loro onorificenze della corte imperiale. Sicuramente la percezione cambia dopo i tragici fatti del 1204, e possiamo dire che entro il XV secolo abbiamo una completa comprensione della differenza, ecclesiologica e dogmatica, tra la Chiesa Ortodossa e quella latina, anche nelle zone dell'Occidente più legate a Costantinopoli, quale era Venezia, unica realtà occidentale rimasta formalmente sotto il dominio romano, quantunque di fatto pienamente indipendente.
Ciò rende indubbiamente singolare il fatto che una liturgia ortodossa sia stata celebrata nel bel mezzo del XV secolo nella cappella palatina di Venezia, la Ducale Basilica di S. Marco, chiesa indubbiamente bizantina e costruita in un'epoca in cui la Chiesa Veneziana era pienamente ortodossa, ma trovandoci ora in un periodo in cui la signoria veneta era dichiaratamente e attivamente cattolica [1].
I fatti sono presto spiegati. Conclusosi il 6 luglio 1439 il Concilio di Ferrara-Firenze, che decretò la falsa unione tra le Chiese, il doge Francesco Foscari propose che il Patriarca di Costantinopoli celebrasse in S. Marco una Divina Liturgia alla presenza dell'Imperatore. Una nota del cerimoniale di S. Marco [2], la quale costituisce peraltro una delle fonti documentarie principali dell'accaduto, riferisce che il doge aveva manifestato questo desiderio "per honor e fermezza della stabilita unione, alla quale la Repubblica di Venezia era sommamente inclinata, per motivi di religione e di stato". Tuttavia, il Patriarca Giuseppe II era morto a Firenze a giugno, e il successore (Metrofane II) non sarebbe stato eletto prima dell'anno seguente; perciò l'Imperatore incaricò della celebrazione il metropolita Antonio di Eraclea, che portava anche il titolo di "metropolita d'Europa" [3]. Egli, però, era un deciso oppositore dell'unia, e per questo rifiutò di celebrare, come la scrittura veneziana summenzionata riporta; ma, essa prosegue, l'Imperatore insistette a tal punto che egli alfine fu costretto ad accettare, e tuttavia volle celebrare a suo modo.
Ovvero, come ci narra fedelmente nella sua Silvestro Siropulo nella sua Vera historia unionis non verae [4], con sicura precisione essendo stato egli personalmente presente alla cerimonia, il metropolita Antonio celebrò sul proprio antimensio, ordinò che il Credo si cantasse senza Filioque e si rifiutò categoricamente di commemorare il Papa o qualsiasi altro gerarca, pregando dunque "per tutto l'episcopato degli Ortodossi". In questo modo, quella che doveva essere una liturgia "uniata" per celebrare l'unia fiorentina, fu in realtà una liturgia pienamente ortodossa, l'ultima celebrata all'altar maggiore della Ducale Basilica nella sua storia.
Essa non fu però l'ultima liturgia ortodossa in assoluto nella Basilica poiché, come si può vedere, da diverso tempo questa è celebrata con cadenza pressoché annuale dal clero della Chiesa Ortodossa Russa nella cripta della Basilica stessa, ove riposarono le spoglie del Santo Evangelista dall'XI secolo fino al 1811, quando vennero collocate sotto l'altar maggiore (dove si trovano tuttora) in seguito a una ricognizione e agli stravolgimenti della Basilica conseguenti alla soppressione del primicerato. Nella foto, in particolare, l'allora Arcivescovo Innocenzo di Korsun (oggi metropolita di Vilnius e di tutta la Lituania) vi celebra la Divina Liturgia pontificale in occasione della festa di S. Marco secondo il calendario giuliano, forse del 2008 o 2009 [5].
NOTE
[1] Si vedano anche i coevi provvedimenti contro il clero greco delle colonie da mar, all'epoca particolarmente duri, e che invece lasceranno spazio a decisa tolleranza nei secoli successivi, fino a una sorta di vera e propria 'intercomunione' (cfr. K. Ware, "Orthodox and Catholics in the Seventeenth Century: Schism or Intercommunion?", in The Orthodox West 01.03.2018, https://journal.orthodoxwestblogs.com/2018/03/01/orthodox-and-catholics-in-the-seventeenth-century-schism-or-intercommunion/).
[2] Perduta in originale, ma riportata in copia in Archivio Storico Patriarcale, Scritture antiche e recenti della chiesa dei Greci in Venezia raccolte l'anno 1762 per comando e cura di mons. Giovanni Bragadin Patriarca, Cancelliere Spiridione Talù, fasc. B, f. 4.
[3] Non già il continente intiero, si badi bene, ma la omonima provincia romana della Tracia, che corrisponde sostanzialmente all'odierna Turchia europea e che era il lembo di terra di cui la fanciulla del mito era effettivamente eponima, cfr. Inno ad Apollo, vv. 247-251, nome poi esteso per sineddoche all'intero continente.
[4] Ed. postuma di R. Crayghton (Den Haag 1660), successivamente riveduta e purgata da alcune manomissioni inserite da questi in funzione polemistica ad opera di L. Allacci (Roma 1665).
[5] L'Arcivescovo fu difatti reggente pro tempore della Chiesa Russa in Italia dal dicembre 2007 al dicembre 2010.
BIBLIOGRAFIA GENERALE
J. GILL, The Council of Florence, Cambridge 1961, p. 302; G. FEDALTO, Ricerche storiche sulla posizione giuridica ed ecclesiastica dei Greci a Venezia nei secoli XV e XVI, Firenze 1967, pp. 24-25.
Lunedì 17 (30) maggio 2022, nell'occorrenza delle Rogazioni minori, sono state cantate le Litanie nell'isola di S. Erasmo per invocare la divina protezione sui campi, a cura del Circolo Traditio Marciana.
L'isola di S. Erasmo, situata nell'area nord-orientale della Laguna Veneta, è principalmente deputata alle attività agricole da secoli immemorabili (già F. Sansovino nel Cinquecento rammenta che l'isola forniva alla città "copia di herbaggi, e di frutti, in molta abbondanza e perfetti"), e particolarmente nota per la coltivazione delle castraure, primizie di carciofo violetto autoctono della Laguna.
La sacra officiatura è iniziata di buon mattino con il canto dell'Ora Nona nei pressi della Torre Massimiliana (massiccio fortificativo di età austriaca), quindi i fedeli si sono incamminati lungo il perimetro settentrionale dell'isola (via dei Forti), intonando le Litanie dei Santi, doppiate giusta rubriche, secondo l'uso della Ducale Basilica di S. Marco (ovverosia, con l'inclusione dei santi martiri e confessori particolarmente venerati nelle Venezie). Dopo esser proseguiti tagliando i campi per via de la Toreta, il sacro rito si è concluso nella parrocchiale dei Ss. Erasmo ed Ermete (ridedicata nel 1929 a Cristo Re; l'edificio attuale, in forme novecentesche, si situa sulla precedente ottocentesca dedicata ai due santi patroni dell'isola; la chiesa antica, risalente all'XI secolo e distrutta in età napoleonica, era situata al lembo settentrionale dell'isola: dell'arredo sopravvive l'antico battistero e alcuni quadri, tra cui un Tintoretto, conservati nell'attuale parrocchiale): ivi sono stati cantati il salmo 69 coi suoi versicoli e le 10 orazioni conclusive, alle quali sono state aggiunte le orazioni prescritte dal Rituale in tempo di guerra.
I fedeli convenuti hanno dipoi condiviso un momento di convivialità, culminato in un pranzo al sacco sulla banchina antistante la vicina isola del Lazzaretto Nuovo. Sulla via del ritorno in città, si è offerta una visita orante alla statua di S. Giovanni Nepomuceno, patrono del clero e della Città di Venezia, posta all'angolo tra il Rio di Cannaregio e il Canal Grande affianco alla chiesa di S. Geremia, essendosi entro l'ottava del santo ieromartire.
Sancte Marce, Evangelísta Dómini fidélis, pátriæ nostræ decus et glória, réspice de cœlis víneam istam, et pérfice eam, quam plantávit déxtera tua, ímpetrans nobis gáudium sempitérnum, allelúja.
O San Marco, fedele Evangelista del Signore, della nostra patria gloria e splendore, risguarda dal cielo questa tua vigna, che la tua destra ha piantata, e rendila perfetta, impetrando per noi la gioia sempiterna, alleluia.
(Antifona al Magnificat del I Vespro)
xxv. aprilis
In festo S. Marci Evangelistae
Patroni Principalis Dioecesis et Civitatis, nec non totius regionis olim subjectae Reipublicae nostrae
duplex I classis cum Octava
Jam
nostra pronis áuribus,
Cœléstis Heros, éxcipe
Vota, et benígni Núminis
Fac ad tribúnal ófferas.
Dominica Resurrectionis Ἡ Ἁγία Ἀνάστασις Свѣтлое Христово Воскресение Santa Pasqua di Risurrezione
MMXXII
Deus qui hodierna die per Unigenitum tuum aeternitatis nobis aditum, devicta morte, reserasti, da nobis, quaesumus, ut qui resurrectionis dominicae solemnia colimus per innovationem tui Spiritus, a morte animae resurgamus. Per eundem. O Dio, che oggi per mezzo del tuo figlio Unigenito, sconfitta la morte, ci hai riaperto le porte dell'eternità, concedi, te ne preghiamo, che noi che celebriamo solennemente la risurrezione del Signore, rinnovati dal tuo Spirito, risorgiamo dalla morte dell'anima. Per lo stesso Signore nostro. (Colletta di Pasqua nel Sacramentario Gelasiano)
Icona russa della Risurrezione, XVI secolo, Museo Nazionale di Stoccolma
Ah, come l'iniqua sinagoga ha condannato a morte il Re del Creato, non provando vergogna per le sue buone opere, rammentando le quali Ei si rivolse loro dicendo: Popolo mio, che cosa ti ho fatto? Forse che non ho sanato ogni piaga e malattia: perché dunque mi consegnate? Perché siete ingrati con me? Riservandomi piaghe in cambio delle medicine, mettendomi a morte in cambio della vita, appendendo a un legno come un malfattore il benefattore, come un iniquo colui che ha dato la legge, come un condannato il re d'ogni cosa. Signore magnanimo, gloria a Te.
Ténebræ factæ sunt, dum crucifixíssent Jesum Judǽi: et circa horam nonam exclamávit Jesus voce magna: Deus meus, ut quid me dereliquísti? Et inclináto cápite, emísit spíritum.
Exclámans Jesus voce magna, ait: Pater, in manus tuas comméndo spíritum meum. Et inclináto cápite, emísit spíritum.
Si fece buio allorché i Giudei ebbero crocifisso Gesù: e verso le quindici, Gesù con gran voce gridò: Dio mio, perché mi hai abbandonato? E chinato il capo, rese lo spirito. E Gesù, gridando con gran voce, disse: Padre, nelle tue mani raccomando lo spirito mio. E chinato il capo, rese lo spirito..
(V Responsorio dell'Ufficio delle Tenebre del Venerdì Santo)
La liturgia
ambrosiana del giovedì santo presenta in modo molto diverso dal corrispettivo
romano i primi episodi della Passione. Anzitutto è diverso l’aspetto
accentuato: l’istituzione dell’Eucarestia non è vista tanto come episodio
gioioso ma sacrificale: da qui l’uso del colore liturgico rosso per la
celebrazione in Coena Domini e, di conseguenza, per tutte le altre
funzioni legate strettamente al Santissimo Sacramento. In questo scritto ci
concentreremo particolarmente su alcuni testi, esprimenti la natura sacrificale
(né gaudiosa né luttuosa) di questi misteri della redenzione.
Giotto, Bacio di Giuda, 1303-1305, particolare
La Messa in
Coena Domini è inserita all’interno della celebrazione vespertina. Il primo
testo che analizziamo è infatti l’inno dei Vespri, Hymnum canamus supplices:
Traduzione: Cantiamo supplici un inno di lode al Dio
che venne a redimere col Suo sangue la nostra umanità colpevole. / Il vespro
aveva lasciato il posto alla notte, cruenta per il delitto; quando venne alla
santa cena di Cristo l’empio traditore. / Gesù annuncia agli Apostoli che
mangiavano il futuro: uno dei commensali consegnerà il Divin Maestro a morte. /
Giuda, senza alcun pudore, bacia Cristo sulla guancia; eppure l’Agnello
innocente non si sottrae al bacio. / Così, il vile bagliore dell’argento [delle
monete] paga la luce del mondo; il tremendo mercante ha venduto il Sole alle
tenebre. / Il prefetto Pilato riconosce Gesù innocente, ma poi lavandosi le
mani lo consegna al furore della folla. / Così la folla scellerata preferisce
la vita di un criminale e condanna il giudice supremo, destinando il Re alla
Croce. / Barabba viene liberato, colui che la sua colpa aveva condannato a
morte: è invece uccisa la Vita del mondo, per la quale i morti risorgono. Sia
gloria al Padre e al Figlio e a Te, Spirito Santo, come fu e come sarà per
sempre nei secoli. Amen.
L’inno è attribuito a S. Ambrogio da alcuni
autori, nonostante il parere contrario dei Maurini che curarono la biografia in
due volumi uscita tra 1686 e 1690[2].
In ogni modo, il testo dell’inno presenta la cena e il tradimento, segnato dal
sacrilego bacio, la condanna di Cristo e la liberazione ingiusta dell’empio
Barabba.
All’inno segue un responsorio in coro:
Omnes vos
scandalum patiemini in me hac nocte, dicit Dominus. Scriptum est enim: V
Percutiam pastorem et dispergentur oves gregis.
Sic? Non
potuistis una hora vigilare, qui exhortabamini mori mecum? Vel Judam videte
quomodo non dormit, sed festinat tradere me Judaeis. Surgite, eamus;
appropinquavit enim hora, sicut scriptum est; V
Percutiam pastorem et dispergentur oves gregis.
Trad.: Questa notte voi tutti sarete scandalizzati a
causa mia, dice il Signore. Infatti sta scritto: ucciderò il pastore e le
pecore del gregge saranno disperse. Così non avete potuto vigilare una sola ora
con me, voi che vi esortavate a morire con me? Ma vedete come non dorme Giuda e
si affretta a consegnarmi ai Giudei. Alzatevi, andiamo; ormai l’ora è giunta,
infatti sta scritto: ucciderò il pastore e le pecore del gregge saranno
disperse.
Il responsorio presenta il rimprovero del
Signore agli Apostoli; coloro che si erano esortati a morire non riescono
neppure a stare svegli un’ora in preghiera, come racconta il Vangelo.
A questo punto viene letto l’intero libro del
profeta Giona, che consta di appena 4 capitoli. Alla lettura segue un salmello,
possibilmente da far cantare ai fanciulli, che riporta di nuovo gli ammonimenti
del Signore nell’orto degli ulivi:
Vigilate, et orate, ne intretis in
tentationem: quia Filius hominis tradetur in manus peccatorum. Surgite, eamus:
ecce appropinquavit qui me traditurus est in manus peccatorum.[3]
Trad.: Vegliate e pregate, per non entrare in
tentazione: perché il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei
peccatori. Alzatevi, andiamo: ecco che è arrivato colui che mi consegnerà nelle
mani dei peccatori.
Mentre si canta il salmello il celebrante
depone il piviale, assume pianeta e manipolo e inizia la Messa, more solito.
Dopo l’epistola (I Cor. XI 20-34) si canta un brano di squisita composizione:
Tamquam ad
latronem venistis cum gladiis comprehendere me: quotidie apud vos eram in
templo docens, et non me tenuistis: et ecce traditis ad crucifigendum. Adhuc eo
loquente, ecce turba: et qui vocabatur Judas, venit, et appropinquavit ad Jesum
ut eum oscularetur. Jesus autem dixit ei: Juda, osculo Filium hominis tradis ad
crucifigendum?
Trad.: Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi
armati di spade: ogni giorno ero nel tempio ad insegnare, in mezzo a voi, e non
mi avete catturato: ed ecco, ora mi consegnate per la crocifissione. Mentre
ancora parlava, ecco la folla: e Giuda arrivò, si avvicinò a Gesù per baciarlo.
Gesù gli disse: Giuda, con un bacio consegni il Figlio dell’uomo alla
crocifissione?
Il brano, la cui prima parte, con qualche
variante testuale, costituisce il IV Responsorio del Mattutino del venerdì santo
romano, mette in luce la cattura del Salvatore. Molto interessante è il gioco di
parole: l’originale etimo del verbo trado, consegnare, diventa la base
dell’esito italiano tradire: è interessante notare che «quell’anima là
su c’ha maggior pena» (IF XXIV 61) riesce a far modificare, suo malgrado
(contro una certa retorica giustificazionista[4]),
il senso di un verbo. Al lungo brano della Passione (Matth. XXVI 17-75),
proclamato dal solo diacono senza “drammatizzazione”, segue una dolce antifona
dopo il Vangelo:
Coenae tuae mirabili hodie Filius Dei socium
me accipis. Non enim inimicis tuis hoc mysterium dicam, non tibi dabo osculum sicuti
et Iudas: sed sicut latro confitendo te: memento mei Domine in regno tuo.
Trad.: Oggi, Figlio di Dio, come amico alla tua
mistica cena mi accogli. Non consegnerò ai tuoi nemici questo mistero, né ti
bacerò come Giuda, ma confido in Te come il ladro: ricordati di me, Signore,
nel Tuo regno.
Nella traduzione italiana inimicis tuis
è stato reso con indegni: è vero che in realtà nessuno di noi è degno di
accostarsi alla Sacra Mensa (ripetiamo infatti «Domine non sum dignus»
prima di comunicarci), ma probabilmente si voleva evitare l’utilizzo di un
termine ritenuto troppo forte in nome dell’imperante buonismo. È interessante
notare che lo stesso testo costituisce il tropario bizantino per lo stesso
giorno. Riportiamo solamente il testo greco, dal momento che la traduzione è
esattamente la stessa:
L’ultimo brano che analizziamo è il
Confrattorio, eseguito allo spezzare del pane, che la liturgia ambrosiana
prevede dopo la fine del Canone (particolarmente ricco per questa celebrazione)
e prima del Pater Noster. Così recita il testo:
Hoc Corpus quod pro vobis tradetur: hic
Calix novi testamenti est in meo Sanguine, dicit Dominus. Hoc facite,
quoetiescumque sumetis, in meam commemorationem.
Trad.: Questo è il Corpo che è dato per voi; questo è
il Calice della nuova alleanza nel mio Sangue, dice il Signore. Ogni volta che
lo assumete fate questo in memoria di me.
Ancora una volta riecheggiano le parole con
cui il Signore istituisce il gran Sacramento.
In seguito, terminata la celebrazione, il
Santissimo viene traslato all’altare di reposizione (popolarmente noto come scurolo),
dove rimarrà fino all’inizio della Messa della Vigilia pasquale. Si terminano i
Vespri in modo consueto.
[1]
Questo testo e quelli del Vespro sono tratti da Breviarium Ambrosianum, typis
Joannis Daverio, Mediolani 1957, pp. 570-571.
[2]Sancti Ambrosii Mediolanensis Opera, Coignard, Paris 1686. Per quanto
concerne il dibattito sull’attribuzione si veda Ufficio della Settimana
Santa in ispecie secondo il rito ambrosiano, per Vincenzo Ferrario, Milano
1821, pp.153-154.
[3]
Questo testo e gli altri della Messa sono tratti da Missale Ambrosianum,
ex typographia Pontificali Archiepiscopali Sancti Joseph, Mediolani 1936, pp. 176-185;
XVIII [Ho indicato in cifre romane le pagine del Repertorium in
appendice, che sul Messale sono però indicate con le cifre arabe, generando
potenziale confusione nel lettore].
[4]
Sia concessa una piccola nota teologica: c’è ormai da alcuni anni una corrente
eretica che mira a giustificare l’operato di Giuda; non si arriva certo ad una
sua glorificazione come facevano gli gnostici cainiti, ma testi come l’omelia Nostro
fratello Giuda di Don Primo Mazzolari vanno in questa linea. L’orazione sul
popolodi questa Messa ci dice invece con estrema chiarezza: «a quo et Judas
reatus sui poenam».
Conviene dunque con fretta il sinedrio dei Giudei, per consegnare a Pilato il Creatore e Fattor d'ogni cosa; ah, empi! ah, miscredenti! che mandano a giudizio colui che viene a giudicare i vivi e i morti, e preparano per la passione quegli che guarisce le passioni. Signore magnanimo, grande è la tua misericordia, gloria a te.
(Stichira del Vespro della Mistica Cena)
Mistica Cena, XIV sec., Chiesa della Panagia Perivleptos (Mistrà, Peloponneso)
Amicus meus ósculi me trádidit signo: Quem osculátus fúero, ipse est, tenéte eum: hoc malum fecit signum, qui per ósculum adimplévit homicídium. Infélix prætermísit prétium sánguinis, et in fine láqueo se suspéndit. Bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille.
Il mio amico mi ha tradito col segnale d'un bacio: Colui che bacerò, è lui, catturatelo; ha dato tale perfido segnale, colui che ha compiuto un omicidio per mezzo di un bacio. Infelice, non badò al prezzo del sangue, e alla fine s'impiccò. Meglio sarebbe stato per lui se quell'uomo non fosse mai nato.
(IV Responsorio dell'Officio delle Tenebre del Giovedì Santo)
Un tratto caratteristico della Settimana Santa latina sono indubbiamente le Passiones, lo scenografico canto dei racconti evangelici della passione e morte di Nostro Signore, inscenate a mo' di dramma sacro da tre diaconi che interpretano, rispettivamente, le parti del cronista, di Cristo e della sinagoga, alternandosi nel canto delle peculiari melodie. Spesso ad alcune parti della sinagoga si univa in canto tutto il popolo, o questi produceva strepiti e rumori, con raganelle e percussioni, all'Ave rabbi, come ci riporta Durando.
Dal punto di vista cerimoniale, non ci sono troppi rimarchi da fare: mentre si canta il Tratto, i tre diaconi indossano l'amitto, il camice, il cingolo, il manipolo e la stola viola, e si recano al luogo, nel lato settentrionale della navata o all'ambone settentrionale se è abbastanza grande, ove canteranno la Passio, subito principiandola dal titolo Passio Domini nostri Jesu Christi secundum N. annunziato dal cronista. La notazione speciale della Passione è oggi spesso contenuta in tre libri distinti, uno per ciascuno dei diaconi, posti su appositi leggii, ma anticamente era contenuto in un solo libro, e i cerimoniali antichi specificavano che un accolito doveva reggerlo, spostandosi da un diacono all'altro a seconda della parte da cantare, cosa indubbiamente poco agevole. Al momento della morte di Cristo, si fa una lunga pausa, e tutti genuflettono per questo intervallo.
Tre diaconi cantano la Passione secondo S. Giovanni a un Venerdì Santo.
L'unico appunto qui fattibile è sull'interesse del muro ad ascoltare la Passione: il rivolgersi verso settentrione ben specificato dalle rubriche presuppone un pulpito settentrionale o quantomeno lo stare nella navata (l'extra presbyterium di cui nel Caeremoniale Episcoporum del 1600), non già il volger la faccia al muro.
Si deve notare che la Passio non tiene luogo del Vangelo, ma è un rito distinto: d'altro canto i diaconi che la cantano non domandano la benedizione né dicono la preghiera Munda cor meum prima di leggere, e indossano la sola stola e non lo stolone (cioè la poenula traversa normalmente indossata dal diacono sopra la stola per il canto del Vangelo nei tempi penitenziali). Infatti, l'ultima parte - il racconto della sepoltura - è cantata separatamente dal diacono che ministra il celebrante alla messa (che, si noti, non è normalmente ricompreso tra i tre diaconi che cantano la Passione: idealmente dovrebbero esserci quattro diaconi quindi), il quale indossa la poenula traversa, dice il Munda cor meum inginocchiato all'altare, domanda la benedizione del celebrante e incensa il libro prima di cantarla (l'incenso si omette solo al Venerdì Santo per il peculiare clima luttuoso; i lumi sono invece spenti sempre al Vangelo dopo la Passione, in ragione del Cristo morto). La canta in tono Evangelii, seppur nell'ultimo secolo delle suggestive melodie speciali siano state composte per questi brani, perché questo è effettivamente il Vangelo delle Messe che prevedono la Passio.
Nelle piccole chiese, dove non si possono avere quattro diaconi, il celebrante - levatosi la pianeta - può cantare la parte del Cristo all'altare, mentre dal piano o dall'ambone il diacono - in stola e senza stolone -svolge il ruolo del cronista e il suddiacono - solo col manipolo, quindi restando senza la pianeta piegata - quello della sinagoga. Se un sacerdote officia senza sacri ministri, dovrebbe cantare egli stesso tutte le parti; tuttavia a parere dell'autore non è abusivo che dei chierici, tonsurati o meno, cantino le parti del cronista e della sinagoga, la quale ultima può essere pure cantata dal coro intiero rimanendo nella cantoria (ciò è particolarmente adatto quando si cantino parti polifoniche per la turba, come quelle notissime di De Victoria). Il noto decreto della Sacra Congregazione dei Riti del XVII secolo, che prescrive tassativamente che chi canta la Passio deve essere ordinato almeno diacono, è secondo me ingiustamente ed eccessivamente restrittivo, considerando che - come ben spiegato - non si tratta del Vangelo della messa (che è officio proprio del diacono), ma di una lezione il cui testo è tratto dall'Evangelo, priva delle cerimonie proprie del Vangelo (in ciò, simile alla lezione evangelica presente ai Mattutini, che quando celebrati in choro senza officiante in sacris è semplicemente cantata dal più degno dei presenti).
Trascorsi questi dettagli cerimoniali, andiamo a vedere quando si dovrebbero cantare le Passiones. Nella forma tridentina del rito romano, più conosciuta alla maggioranza dei nostri lettori, tutte le quattro Passioni si cantano alla Messa, quella dei Presantificati nel caso del Venerdì Santo.
Domenica delle Palme: S. Matteo
Martedì Santo: S. Marco
Mercoledì Santo: S. Luca
Venerdì Santo: S. Giovanni
Quest'ordine, tuttavia, non era quello originario, ma una modifica portata dai franchi e diffusasi a Roma nel basso Medioevo; infatti apprendiamo dal Missale vetus lateranense, p. 87, che al Martedì Santo nel rito romano alla Messa si legge un brano del Vangelo di S. Giovanni 13, uno degli ultimi discorsi del Maestro ai suoi discepoli prima dell'Ultima Cena, e non già la Passione. Una nota spiega, citando molti autori e manoscritti, che anticamente la Passione si leggeva solo la Domenica delle Palme e il Mercoledì Santo (oltreché al Venerdì Santo ai Presantificati): la Passione di S. Marco era invece letta, secondo il costume lateranense, al Mattutino della Domenica delle Palme come IX lezione. Se nel Breviario di Pio V infatti, dopo Geremia 2 al primo notturno e il sermone sulla Passione di S. Leone nel secondo, al terzo notturno è proposto il Vangelo dell'Ingresso a Gerusalemme secondo Matteo con omelia di S. Ambrogio, nell'antico Breviario Romano si leggevano come settima e ottava lezione l'Epistola ai Filippesi, e come nona lezione la Passione secondo S. Marco. Certo questo costume - che c'informa il De Azevedo essere stato comune anche alla liturgia gallicana - allunga notevolmente la già lunghissima funzione del giorno delle Palme (che include la Passione di S. Matteo alla messa e il lungo officio di benedizione dei rami dopo Terza), ma - con l'accortezza di anticipare il Mattutino alla sera - è stato preservato sino al secolo scorso dalla Chiesa Lionese. Il Cardinal Tomasio fa notare che questo costume è stato assunto a Roma a partire dal sesto o settimo secolo, su influsso gallicano, mentre ai tempi di S. Leone Magno la lettura della Passione di S. Marco faceva parte dell'ufficio di Nona del Sabato Santo, forse non una collocazione ideale, né per simbologia né per agevolezza (vista la lunghezza della funzione vesperale del Sabato). Lo spostamento della Passione di S. Marco al Martedì Santo, con conseguente soppressione di Gv 13 quel giorno e il riarrangiamento del Mattutino delle Palme è di origine certamente franca e post-carolingia, e si afferma nell'Urbe a partire dal XII secolo, soppiantando definitivamente il rito basilicale romano entro il secolo successivo (Rodolfo da Rivo nota nel suo Liber de canonum observantia che papa Niccolò III, asceso al soglio nel 1271, fece buttare via gli antifonari, i graduali e i messali antichi che si usavano in Roma, e prescrisse l'uso dei libri liturgici francescani, che contenevano l'ufficio romano-franco: è la morte del rito romano tradizionale e la nascita del rito "della curia romana", che sarà poi la base del Messale Tridentino).
O Signore, la Donna che era caduta in molti peccati, avvertita la tua Divinità, prendendo il ruolo di mirofora e spargendo miro su di te, ti unge prima della tua sepoltura. "Ahimè! - dice - Poiché la notte è per me stimolo di dissolutezza, oscura e senza luna, è amore pel peccato. Accetta le sorgenti delle mie lacrime, tu che con le nuvole conduci l'acqua del mare: piegati ai gemiti del mio cuore, tu che piegasti i cieli con la tua ineffabile incarnazione: bacerò i tuoi piedi immacolati, nuovamente li asciugherò coi capelli del mio capo, quei piedi il cui calpestio sentendo con le sue orecchie, Eva nel Paradiso si nascose per la paura. Chi può esaminare la moltitudine dei miei peccati e gli abissi dei tuoi giudizi, o salvatore delle anime, mio Salvatore? Non sdegnare me la tua serva, tu che possiedi misericordia incommensurabile.
(Poema della Monaca Cassiana per gli Apostichi delle Lodi del Mattutino dello Sposo del Grande e Santo Mercoledì)
Pietro Lorenzetti, Flagellazione di Cristo, 1311-19
Affreschi della Basilica Superiore di S. Francesco ad Assisi
Contumélias et terróres passus sum ab eis: et Dóminus mecum est tamquam bellátor fortis.
Ho patito da loro terrori e contumelie: ma il Signore è con me come forte guerriero.