sabato 30 settembre 2017

Pontificale del Card. Burke a Ravenna

Comunicasi che sabato 28 ottobre, alle ore 11.00, Sua Eminenza Reverendissima il sig. Card. Raymond Leo Burke, Patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta, celebrerà una Solenne S. Messa Pontificale presso la Basilica di S. Apollinare in Classe a Ravenna, per onorare i dieci anni del Motu Proprio Summorum Pontificum.


Nota di redazione: Ravenna è forse la città che più di ogni altra vede in sè le vestigia di Bisanzio, del cui Esarcato d'Italia fu lungamente capitale. Una S. Messa Pontificale tra i mosaici delle basiliche ravennati, un segno della mirabile compartecipazione della tradizione romana e di quella orientale all'unica Chiesa di Cristo, è sicuramente un'occasione da non perdere.

martedì 26 settembre 2017

Sul segno della Croce

Cristo benedicente (mosaico ravennate)

Noto stupore, confusione, persino maldicenze, quando la gente vede che solgo segnarmi con tre dita unite ("come fanno gli ortodossi", dicono loro, come pretesto per accusare chicchessia di scisma). Al di là del fatto che anche i Cattolici Orientali si segnano in questo modo, dimostro qui che storicamente anche in ambiente romano il segno di croce si faceva con tre dita unite e toccando prima la spalla destra.

Scrive Papa Innocenzo III (Pont. 1198-1216) nel suo De sacro altaris mysterio (II, 45):

Il segno della croce deve essere fatto con tre dita, poiché si fa con l'invocazione della Santissima Trinità. Il modo deve essere dall'alto al basso e da destra a sinistra, perché Cristo è sceso dal Cielo sulla terra ed è passato dai giudei (destra) ai gentili (sinistra).
Poco più avanti aggiunge:
Vi sono alcuni, in questo momento, che fanno il segno della croce da sinistra verso destra, a significare che dalla miseria (sinistra) possiamo giungere alla gloria (destra), così come è successo con Cristo nel salire al Cielo. Alcuni sacerdoti fanno in questo modo e le persone cercano di imitarli.

Quest'ultimo uso, di stampo gallicano, si diffuse a partire dal XIII secolo, quando i fedeli iniziarono a imitare il modo in cui il sacerdote dà la benedizione (riproducendolo specularmente, dunque, e non seguendolo visivamente).
Papa Innocenzo III non fa menzione di un segno di croce con cinque dita, ma è probabile che nella sua epoca fosse già stata introdotta in ambito gallicano questa pratica, soprattutto per ignoranza anche del clero, contro la quale il Papa volle combattere con questo scritto.
Il segno di croce con la mano aperta a cinque dita compare per la prima volta in un documento ufficiale nelle rubriche del Missale Romanum di S. Pio V (1570), sul quale però non ci si sofferma, la qual cosa ci fa intuire che in quei trecento anni l'usanza, anziché venire combattuta, si diffuse fino a diventare pratica comune. La simbologia delle cinque piaghe è assai tardiva rispetto a queste date.

Ora, se a partire almeno dal XVI secolo quest'usanza è legittimamente diffusa e codificata, nulla mi dovrebbe vietare (anzi!) di tenere in auge una pratica più antica, simbolicamente più ricca, legittimata da Sommi Pontefici e di origine sicuramente apostolica. Accuse di "cripto-ortodossia", al di là del fatto che (ripeto) è un uso dei Cattolici Orientali pienamente in comunione con Roma, si rivelano dunque non solo del tutto infondate, ma finanche pretestuose. Del resto, come dice san Girolamo, “molti cadono in errore perché non conoscono la storia” (In Matthaeum I, 2,22).

lunedì 25 settembre 2017

Pellegrinaggio ad Aquileia - Resoconto

Comunicato ufficiale della Compagnia di  S. Antonio e degli altri organizzatori

Sabato 23 settembre, si è tenuto ad Aquileia il primo “Pellegrinaggio della Tradizione Cattolica” promosso dalla Compagnia di Sant’Antonio, con la collaborazione della Società Internazionale Tommaso d’Aquino, sez. FVG, e del Circolo Culturale Cornelio Fabro di Udine. Il pellegrinaggio è partito dalla città di Cervignano del Friuli, è proseguito poi lungo la via Julia Augusta e la Via Sacra per arrivare alla Basilica intitolata a Santa Maria Assunta, ad Aquileia. Durante l’itinerario, di circa sette chilometri a piedi, il cammino è stato costantemente accompagnato dalla preghiera, ed in particolare dalla recita del Rosario e da canti religiosi. Si è pregato per gli abitanti dei luoghi, per quanti si stavano recando al lavoro o a scuola, per le famiglie e gli ammalati, e per i prodotti della terra.
Lo stupore dei passanti si è spesso mutato in espressioni di condivisione e di apprezzamento. Non pochi si sono uniti ai pellegrini, lungo il percorso e ne hanno condiviso canti e preghiere. All’arrivo alla Basilica, passando attraverso la Via sacra, fra alti cipressi e ruderi dell’antica città romana, i pellegrini sono stati accolti da numerosi altri partecipanti che li attendevano – alcuni provenienti da Parma, Brescia, Verona, Vicenza oltre che  dal Friuli e dal Veneto – e da sacerdoti e ministranti, che li hanno guidati prima al Battistero paleocristiano, dove è stato recitato il Simbolo aquileiese che risale ai primi secoli del cristianesimo e che conosciamo grazie agli scritti di Rufino di Concordia, e poi alla cripta, dove sono state venerate le reliquie dei martiri aquileiesi, Ermagora e Fortunato, Ilario e Taziano, Canzio, Canziano e Canzianilla ed altri campioni della fede.
Si è respirata un’atmosfera di solenne omaggio e di devota comunione con gli antichi padri, vescovi, martiri e fedeli che hanno vissuto e pregato qui agli albori della Cristianità. Il passato è fatto presente nella comunione dei Santi. Anche attraverso il canto delle Litanie dei Santi, con i versetti e le preci, ed il canto dell’inno Sanctorum meritis, l’incensazione e le orazioni prescritte per l’esposizione delle reliquie. La Messa cantata, secondo il formulario della Messa votiva del Cuore Immacolato di Maria, con la commemorazione del sabato delle quattro Tempora di settembre, all’altare della navata centrale è stato il momento culminante della giornata orante. La viva partecipazione di numerosi fedeli, che hanno quasi saturato tutti gli spazi disponibili, ne ha suggellato il notevole riscontro. Nel pomeriggio la giornata è proseguita con due conferenze, rispettivamente dedicate alla Vita interiore come anima di ogni apostolato ed alle Priorità dell’apostolato. Il momento di formazione si è svolto presso la Sala Romana, gentilmente concessa dalla parrocchia di Aquileia, e si è conclusa con una supplica alla Madonna di Fatima, nel centenario delle Apparizioni.




















venerdì 22 settembre 2017

Le Quattro Tempora di Settembre

Le Quattro Tempora

Le Quattro Tempora sono, giusta il rito romano, quattro periodi durante le quattro diverse stagioni (la I settimana di Quaresima per la primavera, l'Ottava di Pentecoste per l'estate, la settimana dopo l'Esaltazione della Croce per l'autunno e la III settimana d'Avvento per l'inverno), durante i quali tre giorni (mercoledì, venerdì e sabato) vengono dedicati a particolari digiuni e preghiere per consacrare a Dio i diversi tempi dell'anno, e specialmente per invocare la protezione sui campi e i raccolti.
Queste "solennità rurali", che anticamente erano considerate di origine apostolica, si formano a Roma attorno al III secolo (la tradizione basata sul Liber Pontificalis ne attribuisce l'introduzione a Papa Callisto I; altri, addirittura a Papa Silicio, alla fine del secolo seguente, nell'ambito delle controversie coll'eretico Gioviniano circa l'utilità dei digiuni): in tale epoca esistevano solo tre tempora, e la quarta fu aggiunta in seguito per amor di simmetria: nel pieno V secolo Papa S. Leone Magno riferisce in un sermone l'esistenza di quattro periodi stagionali di digiuno, jejunum I, IV, VII et X mensis (che facendo partire l'anno a marzo, siccome era nell'antico calendario romano, combaciano perfettamente coi periodi attualmente osservati).
D'origine romana quindi, le quattro tempora si sono diffuse nei secoli successivi nel resto dell'Occidente (a Napoli nel VII secolo; in Inghilterra tra VII-VIII; in ambito gallicano nell'VIII; in quello ispanico e mozarabico nel XI; a Milano invece, nel rito ambrosiano, comparvero, con carattere esclusivamente penitenziale e non liturgico, solo attorno al XII secolo).
Attorno al 490 Papa Gelasio prescrisse di conferire le ordinazioni diaconali e sacerdotali nelle veglie notturne dei sabati delle Tempora, pratica spesso ancor oggi osservata.

Preghiera, digiuno ed elemosina sono gli esercizi principali di questo tempo di penitenza. Ma, all'epoca di san Leone, si sottolineava soprattutto il legame esistente tra ciascuno delle Tempora e il momento dell'annata agricola con la quale essi coincidevano. Questo legame è il solo rilevato nel Liber Pontificalis. Questo riferimento alla stagione agricola è totalmente assente dalle quattro tempora di Quaresima e di Avvento, le quali hanno subito una riforma testuale, trasformando la prima in prettamente penitenziale e conferendo alla seconda un forte significato messianico; la gioia della festa ha assai inficiato sul senso agricolo della liturgia delle Tempora di Pentecoste, mentre quest'ultimo è stato completamente mantenuto solo in quelle di Settembre.
 Le quattro tempora sono tutte, tempi di preghiera e di digiuno ufficiali che devono essere accuratamente distinti dai digiuni e dalle preghiere private, come San Leone esige espressamente. Sono, egli dice, atti ufficiali della Chiesa, che fanno appello al «popolo cristiano» nella sua interezza. Per questa ragione esse partecipano della «presenza speciale» di Cristo mediatore e godono, per questo, di una fecondità spirituale propria (cfr. Sermo LXXXVIII).

La tradizione, confermata dal Codice di Diritto Canonico del 1917, consiste nel praticare il digiuno e l'astinenza (secondo le prescrizioni consuete) il mercoledì, il venerdì e il sabato delle Tempora (nulla di strano, considerando che erano i giorni in cui si praticava abitualmente l'astinenza nei primi secoli della Chiesa, la quale sopravvisse in seguito solo al venerdì in Occidente). Il digiuno del sabato, che stando al Liber Pontificalis fu introdotto proprio insieme alle Tempora e poi passò a osservarsi nel resto dell'anno, fu nei secoli a venire oggetto di controversie tra Chiesa Orientale e Occidentale.
Nei giorni delle tempora si celebrava la sinassi eucaristica nella Basilica Stazionale, tranne al sabato: infatti, si celebrava una lunga veglia durante la notte (similmente a quelle del sabato di Pasqua o di Pentecoste), seguita dalla celebrazione dell'Eucaristia domenicale, che non veniva poi reiterata durante il giorno seguente (da ciò nacque l'impropria definizione di Dominica vacans). Ad oggi la veglia non è più celebrata, ma è stata sostituita, come gran parte delle liturgie notturne, da una Messa celebrata al mattino del sabato: il fatto che anticamente essa fosse una celebrazione vigiliare è tradito dal Vangelo, identico a quello della domenica susseguente.
Per quanto riguarda i testi delle Messe, nella riforma Tridentina furono conservate le due letture alle liturgie del mercoledì (tale arcaismo risale ai secoli in cui ogni Divina Liturgia aveva due letture, ossia prima del V-VI secolo). Essendo vigilie semplici, le liturgie del sabato constano di sei letture, ivi compresa l'epistola.
L'unità liturgica di queste quattro Tempora è data dalla presenza di alcune parti comune, come la lettura tolta dal cap. III di Daniele (episodio dei Tre Fanciulli), seguita dal relativo cantico (essa s'inserisce nel VII secolo sopprimendo la V lettura propria delle vigilie); essa è accompagnata da un'orazione molto popolare negli uffici sacerdotali della Chiesa latina (Deus qui tribus pueris), la quale ha origine dai Sacramentari gelasiano e gregoriano. Anche le antifone offertoriali (al di fuori delle Tempora d'Avvento che subirono le succitate modificazioni) sono identiche tra loro.

Tempora Septembris


Tra le più antiche, sono le uniche ad aver mantenuto interamente il formulario liturgico originario dei primi secoli, dedicato alle messi e alla vendemmia che cadono in questo periodo, quelle che anticamente erano le dominicae septem post festum s. Laurentii, una sezione dell'anno liturgico antico, la cui esistenza può desumersi dai tratti comuni di graduali e antifone di comunione delle domeniche IX-XV dopo Pentecoste. Le Tempora di Settembre segnavano anticamente la fine di questo periodo, avendosi poi una festa pro consummata perceptione omnium frugum, dignissime largitori earum Deo continentiae offertur libamen, per entrare infine in quello susseguente alla festa di S. Michele Arcangelo. Come alle altre Tempora, fu uso a partire da Papa Gelasio di conferire in questi giorni le Sacre Ordinazioni.

Molti testi liturgici sono tolti da quelli già utilizzati nelle feste giudaiche per le celebrazioni del settimo mese, ossia il primo dell'anno secondo il loro calendario. Secondo alcuni autori, era tradizione nei primi secoli di portare durante l'offertorio dei calici ricolmi di doni, soprattutto uva, che venivano poi benedetti durante il Canone e distribuiti ai fedeli alla fine della Messa.

L'introito del mercoledì, ad esempio, è tratto dal salmo LXXX, in cui si invita Israele a dar nei cembali a far vibrare l'arpa e la cetra soave, a sonare il corno in occasione del settimo novilunio, perché questa è una tradizione santa in Israele. La prima delle due lezioni è tolta dal profeta Amos, ed è una rassicurante descrizione della florida vendemmia del contadino fedele. "Se ora invece le campagne sembrano divenute sterili, - tuona il beato Ildefonso Schuster, riferendosi questo passo biblico - e se le malattie delle erbe, degli alberi e del bestiame rievocano il ricordo delle piaghe d'Egitto, la vera cagione va ricercata nei peccati dei popoli, nell'apostasia sociale da Dio e dalla sua Chiesa, nella sensualità, nell'anarchia, nella profanazione delle feste e nelle molte bestemmie, colle quali, assai più che coi chicchi di frumento, si fa la semina dei nostri campi". Dopo il versetto del salmo CXXII che esalta la potenza di Dio nel cielo e nella terra, si dice la colletta, che ricorda i digiuni di questo periodo, e un'altra lezione, dal II libro di Esdra, commemora la liberazione di Israele dal giogo babilonese, e la solenne restituzione della legge, proprio il primo giorno del settimo mese. Questo gioioso invito, che presenta ora un valore spirituale e simbolico, "pure rivela il carattere primitivo di queste antiche feste romane, dall'intonazione improntata alla più viva gioia e riconoscenza verso il Signore, datore magnifico dei frutti della terra". Il Vangelo, la guarigione del lunatico secondo S. Marco, è incentrato invece sulla necessità digiuno e la preghiera, che fanno emergere la nostra natura spirituale, rintuzzando gli attacchi demoniaci delle tentazioni, macerando la carne e le sue passioni, avvicinandoci a Cristo, uscendo da questo mondo di mortale sensualità. Le altre preghiere di questa Messa richiamano le prime due letture, tranne l'Offertorio che, come si è detto, è comunemente tratto dal salmo CXVIII.

Il venerdì, ad ogni tempora, si fa la Stazione ai SS. Apostoli; rispetto alle liturgie del mercoledì e del sabato, questo formulario è più tardivo, sulla cui origine le spiegazioni dei liturgisti non sono affatto esaurienti, tra chi ne fa una questione puramente testuale, chi una legata al digiuno, chi cita a sproposito Tertulliano e altre fonti che però parlano dei digiuni e della S. Eucaristia nei giorni ordinari dell'anno. Fatto sta che la struttura liturgica è identica a quella di tutte le Messe che conosciamo, e le parti salmodiche e le orazioni sono comuni prevalentemente ai formulari delle ferie quaresimali. La lettura è tratta dal libro del Profeta Osea, contenente le promesse di Dio al suo popolo, consistenti in grazie sovrabbondanti e soavi, paragonate ai dolci frutti delle messi orientali, qualora esso si converta, abbandoni gli idoli e ritorni al Signore. Una lettura ancora attuale, rifacendoci alle parole del beato Arcivescovo sopraccitato. L'odierna lezione evangelica, col racconto della conversione della povera Peccatrice secondo Luca, non corrisponde alla lista evangeliare di Würzburg, ma può essere che questa sia inesatta, o che la lettura sia stata cambiata nei secoli.

Per quanto concerne il sabato, infine, a proposito della lunga veglia notturna in San Pietro che precedeva l'Eucaristia, riportiamo la meravigliosa analisi del già più volte prezioso card. Schuster:

"L'introito è tratto dal salmo 94, ed invita l'anima ad umiliarsi innanzi alla maestà di Dio giusto e misericordioso; giusto, perché nelle fiamme della santità sua vendica tutto quello che trova di difettoso nei figli suoi; misericordioso, perché anche nell'esercizio di questa giustizia, s' ispira ad un immenso amore. Gli è nota [la debolezza del nostro essere], perché nell'eccesso della sua condiscendenza ha voluto anch'egli velarsi di questa carne umana e subire il cimento della nostra
travagliata vita. Dopo la preghiera litanica, che però oggi non è al suo posto, giacché, a cagione delle sacre ordinazioni, essa in Roma veniva differita sin dopo la lettura dell'Apostolo, si recita, quasi a conchiudere, la bella colletta. Segue la lezione del libro Levitico, che riallaccia il digiuno di questa settimana con quello giudaico corrispondente alla solennità dell'Espiazione, che si celebrava appunto il decimo giorno del settimo mese. Sembra tuttavia che questo riferimento del digiuno delle ferie autunnali alla solennità dell'Espiazione giudaica, sia semplicemente postumo, quando cioè a molte istituzioni liturgiche della prima ora si volle attribuire un'origine scritturale.
La penitenza di cui qui si parla, consisteva massimamente nel digiuno, che cessava al tramonto del sole. Dando a tutto il brano un significato spirituale assai più vasto, noi possiamo affermare la necessità universale della penitenza per tutta l'umanità prevaricatrice : Nisi poenitentiam egeritis, omnes similitier peribitis. Il graduale deriva dal salmo 78, ed è comune al sabato dei Quattro Tempi di Marzo, dopo la prima lezione. E' un canto di penitenza, e s'accorda mirabilmente col brano del Levitico ora recitato. La colletta sacerdotale dà compimento alla prima lettura.
La seconda lezione del Levitico, che nel Sacro Testo fa seguito alla precedente, descrive la solennità dei Tabernacoli, che durava una intera settimana ed aveva fine colla festa dell'Espiazione. Durante questo tempo, in memoria delle tende erette nel deserto durante i primi 40 anni dopo l '
esodo dall'Egitto, il popolo d'Israele dimorava in capanne ricoperte con palme e rami d'albero, al quale uso allude appunto il salmo 117: «Festeggiate nei tabernacoli ombrosi il giorno solenne».
Segue il graduale tratto dal salmo 83, esattamente come nei Quattro Tempi di Marzo. La colletta del presidente dell'assemblea,pone termine al canto responsoriale.
La seguente lezione di Michea descrive l'infinita misericordia di Dio che perdona al peccatore, e sommerge nel più profondo del mare i suoi delitti, per non ricordarsi che della sua misericordia, e delle promesse che egli ha fatto ad Abramo ed alla sua spirituale discendenza. Il graduale derivato dal salmo 89 è comune alla grande pannychìs di marzo. Segue la bella colletta sacerdotale, nella quale si
fa rilevare il doppio carattere del digiuno cristiano; in grazia sua si raffrena la carne colla penitenza corporale, affinchè lo spirito riconquisti contro di essa tutto il suo impero, quella vigoria insomma che è necessaria per dominare l'impeto delle sregolate passioni.
Segue un brano di Zaccaria, in cui alle antiche minacce di vendetta contro i peccatori, si contrappongono le più affettuose promesse per chi pentito ritorna al Signore. La vera conversione è intima ed interna, e consiste nella pratica della divina legge, di cui si deve soprattutto osservare il contenuto spirituale. Il Signore da parte sua farà si che i giorni altra volta luttuosi, come i digiuni israelitici del quarto, settimo e decimo mese, si convertano in altrettante fonti di gioia e di prosperità per il nuovo popolo che ama la verità e la pace. Quest'era nuova divinata qui dal Profeta, è appunto l'era Messianica. Il responsorio graduale tolto dal salmo 140, il salmo vespertino per eccellenza, è comune pur esso alla pannychìs di marzo. Segue la colletta sacerdotale in cui, per i meriti del digiuno pubblico e solenne che celebra la comunità cristiana di Roma, - è sempre da por mente che trattasi d ' una istituzione liturgica puramente romana - s' implora il perdono dei peccati. Segue, come nelle altre pannychìdes di dicembre e di marzo, la lezione di Daniele col Cantico delle Benedizioni, che serve quasi di canto di passaggio tra l'ufficio vigiliare e la Messa. Dopo le Benedictiones, seguiva la grande litania colle ordinazioni dei nuovi diaconi e presbiteri titolari romani. Compiuta la chirotesia, l'arcidiacono imponeva loro gli oraria, o stole, tolte da sopra la tomba di san Pietro, come i palli vescovili. Dopo la Comunione, il Papa consegnava ai nuovi presbiteri una delle oblate consacrate, affinchè essi per otto giorni ne deponessero un morsello nel proprio calice, a significare che il loro sacrificio era quasi un'estensione e continuazione di quello del Pontefice consacratore. Questo rito si
ritrova anche in Oriente. Dopo la messa, il clero ed il popolo parrocchiale del rispettivo titolo urbano, accoglieva il nuovo presbitero titolare e lo conduceva trionfalmente alla propria sede. Il Papa aveva già fatto agli ordinati degli splendidi presenti in generi, balsamo, grano, vino, olio, paramenti sacri e vasi liturgici. Precedevano il corteo alcuni valletti con incensieri e candelabri, onde diradare le tenebre della notte attraverso le anguste vie di Roma, addobbate per la circostanza con festoni, lauri e drappi. La folla circostante acclamava evviva: N.N. presbyterum sanctus Petrus elegit. Il nuovo eletto incedeva su cavallo bianco, sul quale era distesa la candida gualdrappa villosa, che costituiva l'insegna onorifica speciale di tutto il clero di Roma. Come per la consacrazione del Papa, cosi anche per la solenne cavalcata dei nuovi presbiteri titolari, i cantori per via eseguivano le tradizionali laudes, e la festa aveva termine con uno splendido banchetto, imbandito nelle aule annesse alla chiesa titolare del neo ordinato. Questa tradizione dell'ordinazione dei preti titolari di Roma e della loro cavalcata di possesso in occasione dei Quattro Tempi, ha lasciato dei lunghi strascichi negli usi della Corte pontificia. Infatti, sino a questi ultimi secoli, la creazione dei nuovi cardinali coincideva regolarmente coi digiuni dei Quattro Tempi, ed essi iniziavano il loro nuovo ufficio con una pomposa cavalcata da Porta del Popolo in Vaticano.
Nel brano dell'epistola agli Ebrei che precede la lezione evangelica, si descrive il rito giudaico della solennità dell' Espiazione, quando cioè il sommo sacerdote una volta all'anno penetrava nel
Santo dei Santi ad offrirvi il sangue del sacrificio. L'Apostolo, dal ripetersi di questo rito annuale ne deduce la sua inefficacia e la sua inutilità; mentre Gesù, Pontefice eterno del Nuovo Testamento, con un sacrificio unico, ma perfetto, ha santificato il popolo cristiano, aprendogli definitivamente le porte del santuario celeste. Segue il graduale tratto dal salmo 116, solito a cantarsi in Roma dopo compiute le sacre ordinazioni.
Il tempo autunnale fa si che l'odierna parabola evangelica (Luca XIII, 6-17) della ficaia sterile, sia tutt'altro che fuori di stagione. Essa è simbolo della Sinagoga e di quelle anime che, prevenute da Dio con abbondanti grazie, si contentano di vuoti riti esteriori che, al pari delle foglie, nascondono la sterilità dell'albero, senza rendere alcun vero frutto d'opere virtuose. Il regno di Dio non consiste né in
parole né in cerimonie, ma è essenzialmente spirituale ed interiore. San Gregorio Magno commentò al popolo l'odierna lezione evangelica nella basilica di san Lorenzo, o, secondo alcuni codici, in san Pietro stesso, in occasione della veglia notturna. Quest'ultimo particolare però è meno probabile, giacché tutto il contesto del discorso non contiene alcuna allusione a questa circostanza importantissima. Non conviene quindi insistervi molto, tanto più che le antiche liste evangeliari sono state più volte modificate.
Il verso offertoriale è tratto dal consueto salmo vigiliare 87, solito a cantarsi in tutte queste solenni pannychìdes romane. L' anima eleva la sua prece al Signore non solo di giorno, ma altresì di notte, e questo per più motivi. Oltre l'esempio che ce ne ha dato Gesù medesimo quando, dopo le fatiche del ministero evangelico diurno, saliva in sulla sera su qualche monte et erat pernoctans in oratione Dei, la preghiera notturna corrisponde a un vero bisogno dell'anima. Se lo spirito è tutto acceso d'amor di Dio, questo certo non sa rassegnarsi a lasciar trascorrere sterili lo lunghe ore della notte, senza rendere al Signore il dovuto omaggio di riconoscenza e di perfetta carità. E' in persona di questi tali che Isaia dice: anima mea desideravit te in nocte.
Se invece l'anima è ancora sulla strada dei proicienti, e per giunta è avvolta dalle tenebre delle tentazioni, - una buia notte spirituale - in questo stato è ancora necessaria l'assidua preghiera,
giacché il Salmista, descrivendo appunto tale stato dell'anima, dice: In die clamavi et nocte coram te.
Finalmente, se l'anima si sente depressa sotto il peso schiacciante delle sue colpe, anche in questo caso il suo scampo è nella preghiera, imitando cosi il Salmista penitente, il quale cantava: Lavàbo per singulas noctes lectum meum, lacrymis meis stratum meum rigabo. E' per tutti questi motivi che la Chiesa, ammaestrata da Cristo e dagli Apostoli, ha istituito la preghiera notturna, siccome parte del divino Ufficio, alla cui celebrazione solenne e splendida si dedicano di preferenza gli Ordini monastici, giusta quello che sta scritto: non extinguetur in nocte lucerna eius.
La colletta che fa da preludio all'anafora, è comune alla domenica fra l'ottava del Natale. Vi si domandano due grazie simboleggiate nella Sacra Eucaristia: la consacrazione cioè costante di tutte le nostre facoltà al servizio di Dio, - ecco il significato primitivo della devotio dei latini - e finalmente l'integrazione di questa consacrazione in cielo, quando Dio, mediante la visione beatifica, prenderà intero e perpetuo possesso dell'anima fedele, confermata nella carità, così che Egli allora sarà omnia in omnibus.
Il verso per la Comunione deriva dal testo del Levitico già letto precedentemente. Questa solennità [di cui parla] prelude a quella che celebreremo nel tabernacolo celeste, quando, trascorsi già i sei mesi che raffigurano il tempo penoso della presente vita, Dio c' introdurrà nel sabato del suo riposo. In questo settimo tempo, santificato e benedetto già dal Signore insin dagli esordi del mondo, noi eleveremo a lahvè un inno di ringraziamento, e sarà quello l'inno della riscossa, il carme degli scampati dalle onde del mare Eritreo, la canzone dei rimpatriati.
Nella colletta di ringraziamento, si domanda al Signore che la divina grazia, di cui l'Eucaristia è fonte vitale, consegua in noi piena efficacia; così che quell'unione mistica dell'anima nostra con Dio, quale viene ora simboleggiata dal Sacramento, raggiunga in cielo tutta la sua perfezione.
La Divina Eucaristia infatti, è una grazia ed una promessa. E' una grazia, in quanto ci rende capaci del consorzio della divina natura, allenandoci ad una vita di santità e di perfezione; ma insieme è altre sì una promessa, perché Gesù, al dire di Giovanni, dà gratiam pro grata, e quando Egli in cielo sottrarrà alla nostra fede le specie del Sacramento, darà al nostro amore quanto appunto in grazia dell'Eucaristia il cuore in terra si riprometteva di conseguire.
L'odierna liturgia insiste tanto nel ricordare la festa israelitica dell'Espiazione e dei Tabernacoli, per inculcarci la necessità della penitenza, senza la quale non si può giungere alla gloria. Questa penitenza, ad essere efficace, deve essere però unita alle pene di Gesù, il quale, per mezzo della sua passione, ha santificato e resi meritori tutti i nostri patimenti. La festa dei Tabernacoli ci deve inoltre ispirare un filiale abbandono nella divina Provvidenza, la quale per quarantanni ha fatto abitare sotto le tende nel deserto il popolo d'Israele, nutrendolo ogni giorno con cibo miracoloso, senza che durante sì lungo intervallo neppure le vesti venissero a consumarsi".
(A.I. Schuster, Liber Sacramentorum, V - Sono state eliminati dall'originale i testi tradotti delle lezioni e due errori di grammatica greca)



Parlando del valore straordinario di questi periodi di preghiera e pie pratiche osservati da tutta la comunione ecclesiale in modo pubblico, e non semplicemente come devozione privata, che acquistano grandissimo merito anzi a Dio (ah, quanto oggi sono invece aborrite dalla società le forme pubbliche di culto, come le grandi processioni tradizionali!), S. Leone Papa in occasione del jejunum VII mensis, antenato della Tempora, pronunziò questa bella omelia: L'osservanza regolata dall'alto, egli dice, supera sempre le pratiche di iniziativa privata, non importa quali esse siano, e la legge fatta per tutti rende l'azione più sacra che non possa fare un regolamento particolare. L'esercizio di mortificazione che ciascuno si impone di sua volontà riguarda infatti l'utilità di una parte, di un membro, mentre il digiuno fatto dalla Chiesa tutta non esclude alcuno dalla generale purificazione, e il popolo di Dio diventa onnipotente, quando i cuori si riuniscono nell'unità della santa obbedienza e quando, nel campo dell'armata cristiana, le disposizioni sono dappertutto eguali e la difesa è la stessa in tutti i luoghi. Ecco dunque, amatissimi, che oggi il digiuno solenne del settimo mese ci invita a schierarci sotto la potenza di questa invincibile unità. Leviamo a Dio i nostri cuori, togliamo qualche cosa dalla vita presente per accrescere i nostri beni eterni. Il perdono completo dei peccati si ottiene con facilità quando la Chiesa si riunisce tutta in una sola preghiera e in una sola confessione. Se il Signore promette di accogliere ogni domanda fatta nel pio accordo di due o tre come dire di no a tutto un popolo innumerevole, che segue uno stesso rito e prega in spirituale accordo? È casa grande davanti al Signore e prezioso lo spettacolo del popolo di Gesù Cristo, che si dedica allo stesso impegno e, senza distinzione di sesso e di condizione, in tutte le sue classi agisce come un cuore solo. È unico pensiero di tutti fuggire il male e fare il bene, Dio è glorificato nelle opere dei suoi servi, l'elemosina abbonda e ciascuno cerca solo l'interesse altrui e non il proprio. Per grazia di Dio che fa tutto in tutti, frutto e merito sono comuni, perché comune è l'amore nonostante la sproporzione di quanto si possiede, e quelli che meno possono dare si eguagliano ai più ricchi, per la gioia che sentono della generosità altrui. Nessun disordine in un popolo simile, nessuna dissomiglianza là dove tutti i membri dell'intero corpo tendono tutti a dare prova di una stessa intensità di amore. Allora la bellezza delle parti si riflette sul tutto e fa la sua bellezza. Abbracciamo dunque, o carissimi, questa saldezza di unità sacra e iniziamo il solenne digiuno con la ferma risoluzione di una volontà concorde.

mercoledì 20 settembre 2017

La Santa Messa XI - Dall'Unde et memores alla fine del Canone

Pubblicazione precedente: http://traditiomarciana.blogspot.com/2017/08/la-santa-messa-x-la-consacrazione.html

XXXVII. Unde et memores

La consuetudine di allargare le braccia sì ampiamente all'Unde et memores si è conservata anche in alcune varianti monastiche del rito romano

Ogni volta che il Sacrificio della Croce si rinnova sull’altare, automaticamente si fa anche memoria della prima volta che Gesù Cristo si è offerto al Padre il Venerdì Santo. Si obbedisce così all’ordine dato da Gesù agli Apostoli nell’Ultima Cena: “Ogni volta che farete questo, lo farete in mia memoria”. Così, subito dopo aver adorato il sangue, "Fatta la reale e sostanziale oblazione della Vittima con la Consacrazione, [il Sacerdote] conferma e conduce a termine la stessa, ripetuta l’oblazione verbale cioè l’orazione, che inizia Unde et memores… e con le altre cose susseguenti, aggiunti anche i sacri riti per lo stesso fine", come dice il Quarti.
Si aggiunge a ciò anche la commemorazione della Risurrezione, che ci conforta nella fede, e dell'Ascensione, che corrobora la nostra speranza (cfr. Dionigi Cartusiano), dacché quegli che quivi e sul Calvario fu immolato per la nostra redenzione, è il medesimo che risorse dai morti il terzo giorno e che ora siede glorioso al cielo alla destra del Padre.

In questa preghiera, il Sacerdote rinnova l'offerta della Chiesa alla SS. Trinità, precisando che la ricchezza del dono offerto durante il Sacrificio, Nostro Signore Gesù Cristo incarnato, non dipende dai propri meriti, bensì è un dono d'Iddio stesso: la Chiesa rende alla SS. Trinità ciò che Ella stessa le ha donato, il Figliuolo di Dio mandato a morire per la redenzione del mondo. Commenda dunque le oblate moltiplicando i segni di Croce, non certo per benedire la Vittima (che egli benediva quando era ancora vile materia, e non già Nostro Signore realmente presente) ma perché significhi che questa è la Vittima del Calvario, che veramente ha patito, immolata sulla Croce per l’uomo, perché si riporti la mente alla sua dolorosa Passione, si pensi nuovamente alle cinque Piaghe di Colui che pendeva in Croce. Anche, benedice in Cristo tutte le sue membra che in Lui sono un solo Corpo, e sono offerte in questo Sacrificio perché la grazia del Capo sia abbondantemente riversato su esse (Bousset).
Nel tracciare questi cinque segni di croce qualifica la Vittima con tre aggettivi, che leggiamo ispirandoci all'interpretazione data dal Soto:
  • Hostiam puram: la Vittima sacrificale dev'essere pura, gradita a Iddio, senza le macchie della corruzione che vengono, per esempio, dal culto degl'idoli. Questa prescrizione, già presente nei sacrifici cruenti veterotestamentari, si riflette completamente in Gesù Cristo, oblazione pura, contrapponendosi alle oblazioni compiute agli "dèi falsi e bugiardi", le quali sono impure e corrotte dalla falsa religione.
  • Hostiam sanctam: nella santità, però, il Sacrificio di Cristo si distacca gravemente dai sacrifici della Vecchia Legge, dacché solamente Dio immolato sulla Croce ha l'immenso potere santificante nei confronti di tutte le anime, che è condiviso anche dalla medesima Vittima offerta incruentemente sull'altare, che santifica immancabilmente il sacerdote e i presenti.
  • Hostiam immaculatam: anche qui il significato trascende la semplice "immacolatezza" prescritta dalla legge giudaica per le bestie sacrificali, perché chi più immacolato dell'Agnello di Dio, il quale mai commise peccato, ma anzi venne per portar su di sé i peccati del mondo?
Poi, segna singolarmente le due specie, nominandole come panem sanctum vitae aeternae e calicem salutis perpetuae, e dunque spiegando la loro duplice natura: come le vittime dei giudei venivano in parte offerte a Dio e in parte consumate dai sacerdoti, così il Cristo sacrificato non è solo oblazione infinitamente meritevole davanti a Dio, ma anche il nutrimento spirituale più elevato e santificante cui noi Cristiani possiamo accostarci, portando in sé i tesori della salvezza e della vita eterna.

Unde et mémores, Dómine, nos servi tui, sed et plebs tua sancta, eiúsdem Christi Fílii tui, Dómini nostri, tam beátæ passiónis, nec non et ab ínferis resurrectiónis, sed et in cælos gloriósæ ascensiónis: offérimus præcláræ maiestáti tuæ, de tuis donis, ac datis hóstiam + puram, hóstiam + sanctam, hóstiam + immaculátam, panem + sanctum vitæ ætérnæ e et cálicem + salútis perpétuæ.
Donde, o Signore, noi servi vostri, ma anche il vostro popolo santo, pure memori della sì beata Passione dello stesso Signore nostro Gesù Cristo vostro Figliuolo, nonché della sua risurrezione dagl’inferi, ma anche della sua gloriosa ascensione nei cieli: offriamo alla vostra sconfinata maestà, prendendo dai vostri doni e da ciò che voi ci avete dato, la vittima pura, la vittima santa, la vittima immacolata, il pane santo della vita eterna, e il calice della perpetua salvezza.

XXXVIII. Supra quae


Ancora il Sacerdote chiede a Dio di gradire le offerte, e facendolo fa memoria dei Sacrifici che gli furono offerti nell'Antico Testamento e che egli ebbe accetti: i sacrifici cruenti, infatti, prescritti dalla legge mosaica, erano prefigurazioni imperfette del Sacrificio cruento della Croce e della sua incruenta ripresentazione incruenta, che è la S. Messa; S. Bonaventura dice che "essi rappresentano propriamente la figura della Passione di Cristo e anzi della sua santissima Cena". Gli agnelli e i vitelli bruciati dai giudei erano così una anticipazione del perfetto Agnello di Dio, che porta su di sé i peccati del mondo. Per questo stesso motivo i sacrifici giudaici non furono più graditi a Dio, dopo la Passione di Nostro Signore: a qual scopo essi continuano a offrire oblazioni imperfette, quando una volontaria oblazione di merito infinito di Gesù Cristo l'aveva soppresse nel suo sangue versato per la remissione dei nostri peccati?

Prima di nominare questi sacrifici, però, chiede l'accettazione del Sacrificio per l'ennesima volta, e lo fa con le parole propitio ac sereno vultu respicere digneris (prese dalla Genesi IV, 4). Papa Benedetto XIV motiva l'ennesima iterazione della richiesta di gradimento con queste parole: "Anche se a Dio Padre è sempre accetta l’oblazione, sia da parte della cosa che è offerta sia da parte di Cristo che è l’offerente principale; ma potendo accadere che dalla parte del Sacerdote o del popolo non sia accetta, per questo il Sacerdote supplica Dio che posi uno sguardo favorevole e benigno sulle oblate".

Dopodiché passa alla elencazione dei sacrifici graditi offertigli dai grandi d'Israele, e ne ricorda tre particolarmente:
  • Il Sacrificio di Abele (cfr. Genesi IV), che la Sacra Scrittura ci presenta come accetto a Dio, a differenza di quello del fratello Caino. Bene scrive il Gueranger: "Così, Signore, avete accettato le offerte di Abele, benché fossero infinitamente inferiori a quelle che noi possiamo presentarti, [...] e con tutto ciò, per quanto infime fossero le offerte di Abele, voi eppure le avete accettate". Altri autori insigni rendono più ardito il paragone comparando la morte di Abele a quella del Cristo.
  • Il Sacrificio di Abramo (cfr. Genesi XXII), il quale per obbedienza al Signore era pronto a immolare il proprio unico figlio legittimo; benché il sangue di Isacco non fu sparso, perché un angelo di Dio impose di sostituirlo con un ariete, la deferenza del Patriarca lo rese comunque uno dei sacrifici più meritevoli; sarà poi il Padre stesso a mandare a morte, per obbedienza al suo medesimo disegno di salvezza, il suo Figliuolo unigenito, il quale però, per l'amore sconfinato che ci prova, arrivò a patire veramente la dolorosa morte.
  • Il Sacrificio di Melchisedech (cfr. Genesi XIV). Melchisedech è una delle prefigurazioni più perfette di Gesù Cristo, poiché era Sommo Sacerdote, il suo nome significa Re di Giustizia, era Re di Salem (che può leggersi sia "Gerusalemme" che "pace"), era senza genealogia (siccome il Cristo, essendo di natura divina generato prima di tutti i secoli), e offrì pane e vino, proprio come Nostro Signore durante la sua ultima cena.
Le parole conclusive, sanctum sacrificium et immaculatam hostiam, che fungono da apposizione al quae iniziale, dopo la lunga digressione "storica", furono introdotte, secondo molti autori, da Papa S. Leone, che ampliò il testo di una preghiera più antica. Effettivamente, la strana e illogica posizione di questi predicativi fa pensare sicuramente ad un'aggiunta tardiva.

Supra quæ propítio ac seréno vultu respícere dignéris: et accépta habére, sícuti accépta habére dignátus es múnera púeri tui iusti Abel, et sacrifícium Patriárchæ nostri Abrahæ: et quod tibi óbtulit summus sacérdos tuus Melchísedech, sanctum sacrifícium, immaculátam hóstiam.
Sopra le quali degnatevi di volgere uno sguardo propizio e benigno, e di averle accette, siccome vi degnaste di avere accetti i doni del vostro servo, il giusto Abele, il sacrificio del nostro Patriarca Abramo, e quello che v’offrì il vostro sommo sacerdote Melchisedech, il santo sacrificio, l’ostia immacolata.

XXXIX. Supplices te rogamus


Dunque, inchinato profondamente sull'altare, termina questa lunga sezione del Canone, iniziata prima della Consacrazione, e lo fa raccomandando la Vittima a Dio. Questa oblazione deve ascendere al cielo, infatti, poiché è la stessa che fu preparata dal cielo, la Santissima Umanità del Figlio, incarnata nel seno della Beata Vergine, e condorata di merito infinito dall'unione ipostatica con la natura divina. Dice infatti S. Gregorio Papa: "Allora Cristo immolò una Vittima solenne, quando Si offrì in cielo all’Eterno Padre per la materia della carne glorificata", vittima che, in virtù della successione apostolica del sacerdozio, continua a essere da lui medesimo offerta ogni giorno sugli altari.
L'orazione dice che il Sacrificio dev'essere portato al sublime e spirituale Altare di Dio, che S. Giovanni vide in visione e riportò nell'Apocalisse (VIII, 3), e che a portarlo misticamente debba essere un "Santo Angelo". Sul significato di queste oscure parole, che Innocenzo III definì "di tanta profondità che l’umano intelletto è appena capace di penetrarle", molti teologi e liturgisti si sono espressi, fornendo le più disparate interpretazioni. Riportiamo le principali:
  • S. Tommaso d'Aquino la interpreta in un senso tutto spirituale. "Il Sacerdote non chiede né che le specie sacramentali siano trasferite in cielo, - scrive infatti - né che il vero Corpo di Cristo cessi di essere lì, ma chiede questo per il Corpo Mistico (che certamente è significato in questo Sacramento), perché l’Angelo che assiste ai Divini Misteri ripresenti a Dio le preghiere del Sacerdote e del popolo". Dunque, secondo lui e molti altri teologi (la maggioranza), a dover compiere sì alto ministero non v'è angelo, né arcangelo, né cherubino, né serafino che sia degno, ma solo l'Angelus boni consilii, Nostro Signore Gesù Cristo stesso, il quale, conclude Benedetto XIV, "congiunge il Corpo Mistico con Dio Padre e con la Chiesa Trionfante".
    Da notarsi è che dom Gueranger segue la tesi che identifica il "Sanctum Angelum" con il Cristo Signore, ma nonostante ciò rifiuta l'interpretazione mistica del Corpo, che legge come quello fisico, sostenendo che in tal modo il Sacrificatore porterebbe Se Stesso Sacrificato al Padre, per far valere il merito infinito del suo olocausto.
  • Alcuni analisti, soprattutto greci, vedono qui l'Epiclesi (che, ricordiamo, i più vedono nel Veni Sanctificator o in altre preghiere del Canone), sostenendo che il termine "angelum" sia una brutta traduzione del greco (in cui era originariamente scritta la preghiera) ἄγγελον, che significa "messaggero, inviato", attributo tipico dello Spirito Santo. Alcuni liturgisti del XX secolo, affascinati da questa tesi, hanno provato a conciliarla con quella precedentemente esposta, sillogizzando che, essendo lo Spirito Santo e il Figlio due persone della stessa indivisa Trinità, ambedue sarebbero presenti con il loro compito in quell'Angelus boni consilii che ha da venire.
  • Ai più letterali, cui ci pare di poter dare ragione, pare che l'Angelo sia da intendersi in senso letterale, uno Spirito Celeste al quale incomba l’incarico di assistere il sacrificante, aiutarlo, dirigere e offrire le sue preghiere a Dio, l'Angelo che sta davanti all'Altare del Signore, secondo il libro dell'Apocalisse, e dunque (secondo l'esegesi comune) S. Gabriele. M. De Cochem riporta la visione di un sacerdote, cui apparve un angelo che portò l'ostia in cielo durante questa preghiera, come prova per questa lezione.
Il sacerdote conclude la preghiera richiedendo che il Sacrificio sia anche propiziatorio per sé e per chi assiste alla Santa Liturgia, perché li riempia di ogni grazia e celeste benedizione. Nel farlo, traccia un segno di croce sul calice, uno sull'ostia e poi segna se stesso. "Si rappresentano così il distendimento del Corpo, l’effusione del Sangue, ed il frutto della Passione" (S. Tommaso Aquinate).
Qui finisce la seconda parte del Canone, che riguarda l'offerta. Queste tre orazioni circondano l'atto della Consacrazione, come le precedenti l'hanno preparato. Ora la santa Chiesa ci conduce alla preghiera d'intercessione.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: iube hæc perférri per manus sancti Angeli tui in sublíme altáre tuum, in conspéctu divinæ maiestátis tuæ: ut quotquot, ex hac altáris participatióne sacrosánctum Fílii tui  Cór + pus et Sán + guinem sumpsérimus + ómni benedictióne cælesti  et grátia repleámur. Per eúmdem Christum Dóminum nostrum. Amen.
Supplici vi preghiamo, o Dio onnipotente: comandate che questi doni sian condotti al vostro sublime altare per mano del vostro santo Angelo, alla presenza della divina vostra maestà, affinché in quanta misura, dalla partecipazione a questo altare, avremo ricevuto il Corpo sacrosanto e il Sangue del vostro Figlio, siam ricolmati di ogni grazia e celeste benedizione. Per lo stesso Cristo Signore nostro. Amen.

XL. Memento dei morti


Lo fa dunque con la seconda orazione sopra i dittici: all'inizio del Canone aveva offerto il sacrificio per intercessione ai vivi, che almeno spiritualmente partecipano all'oblazione; ora lo fa per intercessione ai morti, che godono dei frutti dell'oblazione in virtù della nostra partecipazione. Prega qui per tutti quelli che nos praecesserunt cum signo fidei (il sigillo della SS. Trinità, ricevuto nel Battesimo e nella Cresima), e dunque per i cattolici in comunione con la Chiesa; aggiunge poi una preghiera per omnibus in Christo quiescentibus, includendo qui anche quelli che, eretici o scismatici inconsapevolmente o incolpevolmente, oppure eretici convinti che hanno avuto la grazia di una vera contrizione in punto di morte, hanno ottenuto mediatamente la salvezza attraverso il battesimo di desiderio. Non prega pubblicamente per chi è fuori dalla Chiesa, ma, come in precedenza, può farlo pubblicamente, come argomenta il Coninck: "È facile, allo stesso Sacerdote, compiere tale cerimonia come persona pubblica, ed offrire a Dio il Sacrificio nella persona della Chiesa – e poi, insieme, offrire lo stesso come privato e supplicare Dio per esso in favore di qualcuno".
L'orazione si conclude con una pericope antichissima, che ci ricorda nel linguaggio i tempi delle catacombe, con l'esaltazione del "sonno della pace", che si ritrova anche nelle più datate preghiere degli Uffici dei Martiri, e che costellava l'immaginario dell'epoca. Poi, si accenna alla dottrina del Purgatorio: le anime in Purgatorio, per cui noi preghiamo acciocché possano lasciare il luogo della loro purificazione e giungere al littore beato della Patria Celeste, hanno pace e quiete in quanto certe dell’eterna beatitudine e libere dalla guerra delle tentazioni, ma sono tormentate dalle fiamme e sono tenute lontane dal Divino Cospetto; per cui supplichiamo per loro il refrigerio cioè la liberazione dalla pena del senso, la luce o eterna gloria (quella che, stando all'Apocalisse, è emanata dalla lampada che è l'Agnello), e la pace o felicità perfetta.
Al Per eundem Christum il sacerdote inchina il capo, per eccezione, visto che le rubriche non prevedono questo per la conclusione breve; bellissima e universalmente accettata è la lettura del Cavalieri: “perché questa invocazione è per coloro che riposano in Cristo, o morti con Cristo. Come Cristo morendo chinò il capo, così il Sacerdote imitando questo gesto così suggestivo, vuole ricordare Colui il quale dopo aver chinato il capo e spirando discese a liberare tutti i giusti defunti”.

Meménto étiam, Dómine, famulórum famularúmque tuárum N. et N. qui nos præcessérunt cum signo fídei, et dórmiunt in somno pacis.
Ipsis, Dómine, et ómnibus in Christo quiescéntibus, locum refrigérii, lucis et pacis, ut indúlgeas, deprecámur. Per eúmdem Christum Dóminum nostrum. Amen.
Ricordatevi pure, o Signore, dei servi e delle serve vostre N. e N., che ci han preceduti col sigillo della fede, e dormono nel sonno della pace.
A loro, o Signore, e a tutti coloro che riposano in Cristo, vi preghiamo di concedere un luogo di refrigerio, di luce e di pace. Per lo stesso Cristo Signore nostro. Amen.

XLI. Nobis quoque peccatoribus


Solo tre parole, proferite in modo udibile, rompono armoniosamente il lungo silenzio del Canone: nobis quoque peccatoribus, la formula con il quale il sacerdote introduce la prece d'intercessione per sé e per coloro che assistono presentemente alla S. Messa, perché anch'essi sia fruttuoso il Sacrificio e perché possan trovare accettazione e misericordia anzi a Iddio. In essa, il Sacerdote, sull’esempio del Pubblicano, col segno e con la voce prega per la Chiesa Militante, perché Dio doni una qualche parte e la compagnia con la Chiesa Trionfante. Passa dunque a nominare un'altra schiera di quindici santi e sante martiri, prevalentemente romani, dei primi secoli (valgono i discorsi già fatti per il Communicantes), con i quali si chiede il "consorzio". Per questo, il Nobis quoque è anche detta Oratio pro consortio, mentre il Communicantes è detto piuttosto Oratio pro suffragio.

I Santi che hanno avuto il privilegio di essere nominati sono S. Giovanni Battista il Precursore, S. Stefano protodiacono, S. Mattia Apostolo, S. Barnaba compagno di S. Paolo, S. Alessandro Papa di Roma, S. Ignazio Vescovo di Antiochia, due altri martiri romani (Marcellino e Pietro) e sette vergini martiri (Felicita e Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia ligure).

Dopo aver fatto di nuovo memoria dei Santi, il sacerdote domanda a Dio che si degni ammetterci tra loro. Non certamente perché ne abbiamo diritto per i nostri meriti, ma per opera e grazia della sua bontà e misericordia. (Dom Gueranger)

Nobis quoque peccatóribus fámulis tuis, de multitúdine miseratiónum tuárum sperántibus, partem áliquam, et societátem donáre dignéris, cum tuis sanctis Apóstolis et Martyribus: cum Ioánne, Stéphano, Matthía, Bárnaba, Ignátio, Alexándro, Marcellíno, Petro, Felicitáte, Perpétua, Ágatha, Lúcia, Agnéte, Cæcília, Anastásia, et ómnibus Sanctis tuis: intra quorum nos consórtium, non æstimátor mériti, sed véniæ, quǽsumus, largítor admítte. Per Christum Dóminum nostrum.
Anche a noi peccatori, vostri servi, che speriamo della moltitudine delle vostre misericordie, degnatevi di donare una qualche parte, e il consorzio coi vostri santi Apostoli e Martiri: con Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino, Pietro, Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia, e tutti i vostri Santi: entro al cui consorzio, non valutando il merito, ma donando perdono, vi preghiamo di ammetterci. Per Cristo Signore nostro.

XLII. Dossologia conclusiva (per quem haec omnia)


L'orazione che precede la dossologia e l'elevazione che concludono il Canone era anticamente recitata dal Vescovo di Roma sopra dei doni (uva, frutta, olio etc.) che venivano portati dai fedeli alla Sinassi Eucaristica ed erano in tal momento benedetti. L'uso scomparve ben presto, procedendo di pari passo con la moltiplicazione delle Messe; l'orazione di benedizione, tuttavia, non andò perduta, ma fu mantenuta nel Canone, con i suoi segni di croce, riferendola tuttavia alle oblazioni. Questo è il motivo per cui in questa breve benedizione si trova la formula haec omnia e il lessico è dissimile (meno sacrificale) di quello delle altre preghiere liturgiche.
Di quest'antica usanza, peraltro, sono sopravvissute due vestigia: la benedizione del sacro crisma operata dal Vescovo al Giovedì Santo, che si fa in questo momento, e una cerimonia del rituale benedettino, ossia che il giorno della Trasfigurazione si benedice, in questo momento, l'uva, benché non si adoperino per questa benedizione le parole del Canone, ma un'orazione presa dal Messale di Cluny.

La rilettura "sacrificale" di questa orazione è pressoché la seguente: Dio tramite il Figlio crea questi beni, cioè pane e vino (dei quali restano gli accidenti); santifica con l’accettarli (accettando l’oblazione) come materia della Consacrazione, perché avvenga che passino dall’uso profano all’uso santo; vivifica per le parole della Consacrazione, con le quali la sostanza del pane e del vino si converte nella sostanza del Corpo e Sangue di Cristo, Egli stesso autore della vita, Che è “pane vivo e vitale, che dà la vita all’uomo”; benedice, poiché questo Sacramento è fonte di ogni grazia e benedizione, e ce ne fa dono con la Comunione, dalla quale siamo ricolmati di grazia e di tutti i beni.

Infine, tutto si conclude con una grande dossologia: Per ipsum perché Cristo, in quanto Dio-Uomo, è il Mediatore tra Dio e gli uomini, e cum ipso perché è Persona divina distinta dal Padre e dallo Spirito Santo, e in ipso perché (per “circumsessione”) è l’unico Dio col Padre e lo Spirito Santo. Questa prima parte viene accompagnata da tre segni di croce con l'ostia sopra il Sangue prezioso, a significare che il Figlio (e non le altre due persone), assunta l'umana natura, versò il proprio sangue per gli uomini. Poi, segnando sempre con l'ostia, sopra il corporale per due volte, pronuncia la vera e propria formola dossologica. Infine, eleva "un po'" l'ostia e il calice contemporaneamente. Anticamente, questa era l'unica elevazione, e tale è rimasta presso i Greci, e veniva compiuta con gran solennità, anche verso diversi punti cardinali, con copia di benedizioni, mentre in ambiente latino fu introdotta quella alla Consacrazione per contrastare le eresie che negavano la Presenza Reale, e dunque fu alquanto ridotto quanto a importanza. Nell'uso comune questa elevazione (essendo la fine del Canone) viene segnalata con un colpo di campanello, anche se questa usanza non è di origine romana, perché con la Elevazione maggiore alla Consacrazione il segnale si era trasferito lì e non doveva poi essere ripetuto anche qui (la prassi urbana, infatti, aborre la moltiplicazione di suoni del campanello che invece, da stampo gallicano, si diffuse in tutta Europa).

A questo punto, fino ai tempi di S. Gregorio Magno, si compiva anche la Fractio Panis, e qui ancora si trova nel Rito Ambrosiano. In ogni caso, quivi finisce il Canone e si passa poi ai riti della Comunione, e pertanto il sacerdote termina con le parole per omnia saecula saeculorum dette o cantate a voce alta.

Per quem haec omnia semper bona creas, sanctificas + vivificas + benedicis + et praestas nobis.

Per ipsum, et cum ipso, et in ipso, est tibi Deo Patri Omnipotenti omnis honor et gloria per omnia saecula saeculorum. Amen.
Per mezzo del quale voi sempre create, santificate, vivificate, benedite e concedete a noi tutti questi beni.

Per mezzo di lui, con lui ed in lui, vi spetta, o Dio Padre Onnipotente, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Fonti: sono indicati volta per volta gli autori da cui sono state prese delle parti
Prossima pubblicazione (settembre-ottobre): La Santa Messa XII - Dal Pater Noster alla Comunione

lunedì 11 settembre 2017

Preghiera del beato Marco d'Aviano per la battaglia di Vienna

Preghiera del Beato Marco d'Aviano, da lui composta per l'occasione e letta all'alba del 12 settembre 1683, dopo la celebrazione della S. Messa e la benedizione impartita all'esercito cristiano che si accingeva a dare vittoriosamente battaglia ai Turchi che assediavano Vienna.



O grande Dio degli eserciti, guardateci prostrati qui ai piedi della vostra maestà, per impetrarvi il perdono delle nostre colpe. Sappiamo bene di aver meritato che gl’infedeli impugnino le armi per opprimerci, perché le iniquità, che ogni giorno commettiamo contro la vostra bontà, hanno giustamente provocato la vostra ira. O gran Dio, vi chiediamo il perdono dall’intimo dei nostri cuori; esecriamo il peccato, perché Voi lo aborrite; siamo afflitti perché spesso abbiamo eccitato all’ira la vostra somma bontà. Per amore di Voi stesso, preferiamo mille volte morire piuttosto che commettere la minima azione che vi dispiaccia. Soccorreteci con la vostra grazia, o Signore, e non permettete che noi vostri servi rompiamo il patto che soltanto con Voi abbiamo stipulato.
Abbiate dunque pietà di noi, abbiate pietà della tua Chiesa, per opprimere la quale già si preparano il furore e la forza degl’infedeli. Sebbene sia per nostra colpa ch’essi hanno invaso queste belle e cristiane regioni, e sebbene tutti questi mali che ci avvengono non siano altro che la conseguenza della nostra malizia, siateci tuttavia propizio, o buon Dio, e non disprezzate l’opera delle tue mani. Ricordatevi che, per strapparci dalla servitù di satana, Voi hai donato tutto il vostro prezioso Sangue. Permetterete forse ch’esso venga calpestato dai piedi di questi cani? Permetterete forse che la fede, questa bella perla che cercaste con tanto zelo e che riscattaste con tanto dolore, venga gettata ai piedi di questi porci? Non dimenticate, o Signore, che se Voi permetterete che gl’infedeli prevalgano su di noi, essi bestemmieranno il vostro santo Nome e derideranno la vostra potenza, ripetendo mille volte: “Dov’è il loro Dio, quel Dio che non ha potuto liberarli dalle nostre mani?” Non permettete, o Signore, che vi si rinfacci di aver permesso la furia dei lupi, proprio quando v’invocavamo nella nostra miserevole angoscia.

Venite a soccorrerci, o gran Dio delle battaglie! Se Voi siete a nostro favore, gli eserciti degl’infedeli non potranno nuocerci. Disperdete questa gente che ha voluto la guerra! Per quanto ci riguarda, noi non amiamo altro che essere in pace con Voi, con noi stessi e col nostro prossimo. Rafforzate con la vostra grazia il vostro servo e nostro imperatore Leopoldo; rafforzate l’animo del re di Polonia, del duca di Lotaringia, dei duchi di Baviera e di Sassonia, e anche di questo bell’esercito cristiano, che stanno per combattere per l’onore del vostro nome, per la difesa e la propagazione della vostra santa Fede. Concedete ai principi e ai capi dell’esercito la fierezza di Giosué, la mira di Davide, la fortuna di Jefte, la costanza di Joab e la potenza di Salomone, vostri soldati, affinché essi, incoraggiati dal vostro favore, rafforzati dal vostro Spirito, e resi invincibili dalla potenza del vostro braccio, distruggano e annientino i nemici comuni del nome cristiano, manifestando a tutto il mondo che hanno ricevuto da Voi quella potenza che un tempo mostraste in quei grandi condottieri. Fate dunque in modo, o Signore, che tutto cospiri per la vostra gloria e onore, e anche per la salvezza delle anime nostre.
Ve lo chiedo, o Signore, in nome dei vostri soldati. Considerate la loro fede: essi credono in Voi, sperano tutto da Voi, amano sinceramente Voi con tutto il cuore. Ve lo chiedo anche con quella santa benedizione, che io conferirò a loro da parte vostra, sperando, per i meriti del vostro prezioso Sangue, nel quale ho posto tutta la mia fiducia, che Voi esaudirete la mia preghiera. Se la mia morte potesse essere utile o salutare, per ottenere il vostro favore per loro, ebbene ve la offro fin d’ora, o mio Dio, in gradita offerta; se quindi dovrò morire, ne sarò contento. Liberate dunque l’esercito cristiano dai mali che incombono; trattenete il braccio della vostra ira sospeso su di noi, e fate capire ai nostri nemici che non c’è altro Dio all’infuori di Voi, e che Voi solo avete il potere di concedere o negare la vittoria e il trionfo, quando vi piace. Come Mosé, estendo dunque le mie braccia per benedire i vostri soldati; sosteneteli e appoggiateli con la vostra potenza, per la rovina dei nemici vostri e nostri, e per la gloria del vostro Nome. Amen!

venerdì 8 settembre 2017

In Nativitate Beatae Mariae Virginis

Natívitas gloriosæ Vírginis Maríæ ex semine Abrahæ,
ortæ de tribu Juda, clara ex stirpe David!
(Antiphona I ad Laudes et Vesperas)

Sia benedetto il fortunatissimo momento in cui oggi nacque al mondo la Beatissima Vergine Maria, colei che sarebbe destinata ad essere la vera Madre di Dio!


Il racconto della Natività della Vergine non compare nei Vangeli canonici, ma nell'apocrifo Protovangelo di Giacomo, che racconta del parto di S. Anna a Gerusalemme, luogo in cui nel IV secolo sarebbe stata dedicata una grande basilica proprio all'ava di Gesù, e comunque questa ricorrenza gaudiosa è attestata da tutta la Tradizione della Chiesa.

La festa odierna ha origine nella tradizione orientale: sappiamo che l'Imperatore Maurizio (VI secolo) ne prescrisse la celebrazione insieme alle altre tre feste mariane (Annunciazione, Purificazione, Assunzione). Fu poi portata a Roma da Papa Sergio I, di origini siriane, nel VII secolo. Per influssi orientali, si sviluppò indipendentemente e quasi in contemporanea in terra sarda ed ambrosiana. Pare che nell'ambito germanico fosse stata portata da S. Bonifacio stesso, mentre nelle terre gallicane fu la Vergine stessa a richiedere che si celebrasse cotale festa già nell'anno 430, apparendo al vescovo Maurilio di Angers, e come tale in Francia la festa odierna è chiamata popolarmente "dell'Angevina". Chartres da parte sua rivendica al vescovo Fulberto (1028) una parte preponderante nella diffusione della festa in tutta la Francia.
La festa fu fissata definitivamente per tutta la Chiesa Universale attorno all'XI-XII secolo, e il successivo Concilio di Lione del 1245 sancì, per volontà di Innocenzo IV, l'istituzione dell'Ottava della Beata Vergine Maria, alla quale si era votato alla Madonna stessa durante il lungo periodo di sede vacante che era intercorso, a causa di Federico II, dalla morte di Celestino IV alla sua elezione. Anche una vigilia per tale festa sarebbe stata introdotta da Gregorio XI nel 1377, ma nei buij anni dello Scisma d'Occidente le intenzioni del Pontefice caddero lettera morta.

Giotto, Natività della Vergine Maria
Si allieta oggi Dio Trino nei cieli, al vedere quella purissima creatura, preservata dal peccato originale, nella quale Egli s'incarnerà per la nostra salute; si allietano gli Angeli "vedono che questa fanciulla è la meraviglia delle meraviglie dell'Onnipotente; in Lei Dio ha spiegato la sua sapienza, la sua potenza, il suo amore più che in tutte le altre creature; egli ha fatto di Maria lo specchio purissimo in cui si riflettono tutte le sue perfezioni; essi comprendono che Maria, da sola, dà al suo creatore più onore e più gloria che tutte le loro gerarchie insieme e già la salutano come regina, gloria dei cieli, ornamento del mondo celeste e del mondo terrestre" (cfr. Giovanni Geometra).
Si allieta la terra, e in particolare si allietano i beati genitori di Maria, i Santi Gioacchino ed Anna. Scrive S. Giovanni Damasceno: "O coppia felice, esclama san Giovanni Damasceno, tutta la creazione ha un debito verso di voi, perché per mezzo vostro ha offerto a Dio il più prezioso dei doni, la Madre ammirabile, che, sola, di lui era degna. Benedetto il tuo seno, o Anna, perché ha portato colei che nel suo seno porterà il Verbo eterno, colui che nulla può contenere e che porterà agli uomini la rigenerazione. O terra da principio infeconda e sterile, dalla quale è sorta una terra dotata di fecondità meravigliosa, che sta per produrre la spiga, che nutrirà tutti gli uomini! Beate le vostre mammelle, perché hanno allattato colei, che allatterà il Verbo di Dio, nutrice di Colui che nutre il mondo... "
Sempre S. Giovanni Damasceno riferisce che anche tutte le anime che nel limbo dei Padri attendevano la liberazione, e particolarmente Adamo ed Eva, si fossero rallegrati al vedere colei che avrebbe riscattato la loro sorte, e avessero gridato: "Sii benedetta, o figlia, che il Signore ci promise il giorno della nostra caduta: da noi hai ricevuto un corpo mortale e ci restituisci la veste dell'immortalità. Tu ci richiami alla nostra prima dimora; noi abbiamo chiusa la porta del paradiso e tu restituisci libero il sentiero che porta all'albero della vita". Similmente racconta anche Giacomo il Monaco nel suo trattato sulla Natività della Madonna.
Ma questo è anche il nostro gaudio, perché come insistentemente riporta tutto l'Ufficio, facendoci entrare in un clima assai gioioso, la nostra sorte di redenti dipese anche dalla nascita della Santissima Vergine, unica senza macchia entro al cui seno Iddio si degnò di assumere umana natura.

Maria è la nuova Eva: siccome da una donna nacque la rovina dell'uomo, così da una donna nascerà il Salvatore dell'umanità. Bello è il paragone instaurato da S. Agostino: Hevæ [...] dícitur: In dolóre paries fílios tuos; quia ista in lætítia Dóminum péperit. Heva enim luxit, ista exsultávit: Heva lácrimas, Maria gáudium in ventre portávit; quia illa peccatórem, ista édidit innocéntem. Mater generis nostri pœnam íntulit mundo, Génetrix Dómini nostri salútem íntulit mundo. Auctrix peccáti Heva, auctrix mériti Maria. "A Eva fu detto: Nel dolore partorirai i figli tuoi; imperciocché costei partorirà il Signore nella letizia. Eva infatti pianse, costei esultò: Eva vi portò lacrime, Maria portò nel ventre gioia; poiché lei generò un peccatore, questa generò l'Innocente. La madre della nostra stirpe portò la pena nel mondo, la Madre del Signore portò nel mondo la nostra salvezza. Origine del peccato Eva, origine del merito Maria".

Pietro Lorenzetti, Natività di Maria
Ascoltiamo infine qualche parola di S. Pier Damiani, proposta nel suo sermone per la festa odierna:

Dio onnipotente, prima che l'uomo cadesse, previde la sua caduta e decise, prima dei secoli, l'umana redenzione. Decise dunque di incarnarsi in Maria. Oggi è il giorno in cui Dio comincia a mettere in pratica il suo piano eterno, poiché era necessario che si costruisse la casa, prima che il Re scendesse ad abitarla. Casa bella, poiché, se la Sapienza si costruì una casa con sette colonne lavorate, questo palazzo di Maria poggia sui sette doni dello Spirito Santo. Salomone celebrò in modo solennissimo l'inaugurazione di un tempio di pietra. Come celebreremo la nascita di Maria, tempio del Verbo incarnato? In quel giorno la gloria di Dio scese sul tempio di Gerusalemme sotto forma di nube, che lo oscurò. Il Signore che fa brillare il sole nei cieli, per la sua dimora tra noi ha scelto l'oscurità (1 Re 8,10-12), disse Salomone nella sua orazione a Dio. Questo nuovo tempio si vedrà riempito dallo stesso Dio, che viene per essere la luce delle genti. Alle tenebre del gentilesimo e alla mancanza di fede dei Giudei, rappresentate dal tempio di Salomone, succede il giorno luminoso nel tempio di Maria. È  giusto, dunque, cantare questo giorno e Colei che nasce in esso.
(S. Pier Damiani, II sermone de Nativitate B. Mariae Virginis)

R. Cum jucunditate Nativitátem beátæ Maríæ celebremus,
* Ut ipsa pro nobis intercédat ad Dóminum Jesum Christum.
V. Corde et animo Christo canámus glóriam in hac sacra solemnitate præcelsæ Genitrícis Dei Maríæ.
R. Ut ipsa pro nobis intercédat ad Dóminum Jesum Christum.