martedì 25 dicembre 2018

L'Inno di S. Stefano nella tradizione occidentale

Com'è noto, il rito romano (o, meglio, quella forma particolare, e ahimè piuttosto "povera" a livello di ricchezza testuale rispetto ad altre in uso nell'Urbe, che fu scelta come base per il Breviarium Romanum del 1568) non conosceva originariamente l'Inno, che fu introdotto successivamente su influenza monastica. Nonpertanto, si mantenne sempre una certa conservatività, evitando di ampliare a dismisura il numero di inni, non accogliendo dunque nuovi testi provenienti da altre usanze occidentali. E' interessante notare che, dei 39 santi menzionati nel Canone Romano, solo S. Giovanni Battista e i Ss. Pietro e Paolo hanno un'innodia propria, mentre per gli altri santi sono impiegati inni dal Comune. Anche le innodie proprie degli Angeli, di alcune feste della Beata Vergine etc. sono molto tardive (quelle degli Angeli, per esempio, sono del XVII secolo).
Andando ad osservare invece gli Uffici Divini propri di altre forme liturgiche tradizionali occidentali, dai riti monastici a quelli gallicani e germanici, troviamo una varietà molto maggiore di Inni in onore dei Santi, che insieme alle sequenze andavano a costituire quel patrimonio liturgico-agiografico estremamente importante nella tradizione ecclesiastica ma altrimenti sconosciuto all'Occidente.

Un esempio è proprio l'inno in onore di S. Stefano, Sancti Dei pretiose, in uso nel rito carmelitano, in quello premonstratense, e in molti usi inglesi antichi (Sarum e York, ad esempio), giusto per citarne alcuni. L'inno è propriamente del Vespero, ma in taluni riti è impiegato anche alle Laudi o al Mattutino, laddove altri vi preferiscono il Comune dei Martiri. Talora era impiegato pure per la festa dell'Invenzione di S. Stefano (3 agosto). Possiamo datare la sua composizione almeno all'XI secolo: originariamente doveva comprendere solo tre strofe, abbenché successivamente si trovi nei manoscritti un gran numero di aggiunte spurie, talora a integrare, e talora (come vedremo) a sostituire la versione antica.

Questa prima trascrizione, che rappresenta l'uso liturgico più vicino a noi, è da un Breviario di Sarum del XV secolo, ed è riportata parimenti nei Breviari dei Carmelitani dell'Antica Osservanza.

Sancte Dei, pretiose,
Protomartyr Stephane,
Qui virtute caritatis
Circumfulsus undique,
Dominum pro inimico
Exorasti populo

Funde preces pro devoto
Tibi nunc collegio,
Ut, tuo propitiatus
Interventu, Dominus
Nos, purgatos a peccatis
Jungat caeli civibus.

Gloria et honor Deo
Usquequaque Altissimo,
Una Patri, Filioque,
Inclyto Paraclito,
Cui laus est et potestas
Per aeterna saecula. Amen.
O Santo di Dio, glorioso,
protomartire Stefano,
che in ogni parte sei rivestito
della virtù della carità,
tu pregasti il Signore
per il popolo che ti era ostile.

Prega ora per questa
assemblea a te devota,
affinché il Signore,
propiziato dalla tua intercessione,
purificatici dai peccati,
ci congiunga agli abitanti del cielo.

Gloria e onore a Dio
Altissimo in ogni luogo,
nello stesso tempo al Padre, e al Figlio,
e al glorioso Paraclito,
cui spettano la lode e la potestà
nei secoli eterni. Amen.

La trascrizione riportata di seguito è invece eseguita su due manoscritti del secolo XI; il primo al British Museum (Vesp. D. xii., f. 36 ; Harl. 2961, f. 229); il secondo a Durham (B. iii. 32, f. 14.), quest'ultimo riportato anche nella raccolta Latin Hymns of the Anglo-Saxon Church del 1851.
Si noti come la prima strofa è identica (eccetto l'impiego di circumfulcio in luogo di circumfulgo, senza variazioni di significato), mentre le altre sono nettamente diverse.

Sancte Dei, pretiose,
Protomartyr Stephane,
Qui virtute caritatis
Circumfulsus undique,
Dominum pro inimico
Exorasti populo.

Et coronae qua nitescis
Almus sacri nominis,
Nos, qui tibi famulamur,
Fac consortes fieri :
Et expertes dirae mortis
In die Judicii.

Gloria et honor Deo
Qui te flore roseo
Coronavit et locavit
In throno sidereo:
Salvet reos, solvens eos
A mortis aculeo. Amen.
O Santo di Dio, glorioso,
protomartire Stefano,
che in ogni parte sei rivestito
della virtù della carità,
tu pregasti il Signore
per il popolo che ti era ostile.

E quella corona per la qual tu risplendi,
o benigno [santo] dal nome sacro,
fa’ che tocchi in sorte pure a noi,
che ti serviamo;
e sottraici alla funesta morte
nel giorno del Giudizio.

Gloria e onore a Dio
che ti ha incoronato con un fiore
rosa, e ti ha collocato
su di un trono celeste:
salvi i peccatori, liberandoli
dal pungiglione della morte. Amen.


Natale del Signore 2018

In Nativitate Domini Nostri Jesu Christi
Ἡ κατὰ σάρκα Γέννησις τοῦ Κυρίου Ἰησοῦ Χριστοῦ
Natività di Nostro Signore Gesù Cristo
MMXVIII


Duccio di Buoninsegna, Natività tra i profeti Isaia ed Ezechiele, 1308-11,
Washintong, National Gallery of Art

Μέγα καὶ παράδοξον θαῦμα, τετέλεσται σὴμερον!
Παρθένος τίκτει καὶ μήτρα οὐ φθείρεται,
ὁ Λόγος σαρκοῦται, καὶ τοῦ Πατρὸς οὐ κεχώρισται,
Ἄγγελοι μετὰ Ποιμένων δοξάζουσι,
καὶ ἡμεῖς σὺν αὐτοῖς ἐκβοῶμεν·
Δόξα ἐν ὑψίστοις Θεῷ, καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη.

Un grande e straordinario miracolo s'è oggi compiuto!
Una Vergine partorisce, e non si corrompe il suo grembo,
il Verbo si fa carne, e non si separa dal Padre,
gli Angeli insieme ai Pastori cantano lode,
e noi inneggiamo insieme a loro:
Gloria a Dio negli eccelsi, e pace sulla terra.

(dal Vespero di rito bizantino;
Stichiròn Idiòmelon di Germano di Costantinopoli)


Hódie nobis cælórum Rex
de Vírgine nasci dignátus est,
ut hóminem pérditum ad cæléstia regna revocáret:
Gaudet exércitus Angelórum:
quia salus ætérna humáno géneri appáruit.
Glória in excélsis Deo, 
et in terra pax homínibus bonæ voluntátis.

Oggi per noi il Re dei cieli
si è degnato di nascere da una Vergine,
per ricondurre l'uomo perduto al regno dei cieli:
si rallegra la schiera degli Angeli,
imperocché si è manifestata l'eterna salvezza per il genere umano.
Gloria a Dio negli eccelsi,
e pace in terra agli uomini di buona volontà.


(dal Mattutino di rito romano;
I Responsorio del I Notturno)


AUGURI DI UN SANTO NATALE 2018!

La direzione di Traditio Marciana

domenica 23 dicembre 2018

Cronaca del pellegrinaggio a Madonna del Monte


Salve sancta parens, enixa puerpera Regem,
qui coelum terramque regit in secula seculorum.

Sono le parole dell'introito della Messa in Nativitate Beatae Mariae Virginis celebrata oggi al santuario di Madonna del Monte di Aviano da mons. Sergio Moretto, rettore del santuario, in occasione del pellegrinaggio locale organizzato dalla Compagnia di Sant'Antonio e dalla sezione pordenonese di UNA VOCE.

In questo luogo santo, situato a mezza costa ed in posizione dominante sulla pianura del pordenonese, è giunto gruppetto di pellegrini  appartenenti alle Diocesi di Concordia-Pordenone e di Udine per onorare e supplicare la Vergine Santissima che qui apparve, ad un contadino di nome Antonio Zampara, l'8 settembre 1510.

Ella chiese al devoto un digiuno di tre sabati successivi in Suo onore e invitò che lo stesso facessero tutti gli abitanti della zona e infine dispose che fossero edificati una cappella e un altare. E così avvenne: l’apparizione mariana stimolò immediatamente devozione e pellegrinaggi, talché una piccola chiesa fu presto costruita. Essa venne poi ampliata nel 1615.
Non meravigli che questa apparizione si unisca a numerose altre di cui la Madre celeste volle gratificare le nostre genti agli inizi del ‘500 – si pensi all’apparizione a Motta di Livenza avvenuta il 9 marzo 1510 al pio contadino Giovanni Cigana. Quegli anni erano segnati dalle devastanti guerre d’Italia, che si sarebbero concluse solamente con la pace di Cateau Cambrésis del 1559, ma soprattutto sarebbero stati gli anni della durissima prova dell’apostasia protestantica (1517), destinata a lacerare le carni della Chiesa e a aprire definitivamente la deriva modernistica e secolarizzante. La Madre celeste volle e vuole sempre ammonire e consigliare i suoi figliuoli, perché si trovino pronti alla prova con la recita del Santo Rosario, coi i sacramenti e la partecipazione alla Santa Messa.
Nel corso dei secoli le popolazioni della Pedemontana incrementarono la loro pietà verso la Grande
Mediatrice, tanto che agli inizi del XX secolo il santuario fu ulteriormente ampliato, dotandolo di
una suggestiva cupola.

Pregando il Santo Rosario percorrendo l'irta strada che porta al monte, ritornavano alla memoria di molti le parole che la Vergine rivolse al contadino:" Dove vuoi andare, tu, uomo dabbene?" E' la domanda che ciascun pellegrino sempre si pone nel suo cammino di fede alla ricerca di Dio.

Un cammino devozionale che, iniziato con il nuovo anno liturgico, ci porterà da Madonna del Monte ad Aquileia, visitando alcuni tra i luoghi più significativi della pietà popolare tra il Veneto Orientale ed il Friuli.

Gli organizzatori ringraziano per l'ospitalità il rettore del santuario di Madonna del Monte e gli amici del Circolo Traditio Marciana per la consueta e preziosa collaborazione nel servizio all'altare.

CSA - UNA VOCE Pordenone







giovedì 20 dicembre 2018

Le reliquie di S. Tommaso nella Cattedrale di Ortona

Nella festa di S. Tommaso Apostolo, proponiamo questo contributo sull'interessante storia della traslazione d'insigni reliquie del Santo in Ortona (Chieti).
Testo ripreso da QUI, sito della Basilica Cattedrale di Ortona

Mappa del viaggio di Leone
L’isola di Chio, compresa nell’arcipelago delle Sporadi e vicinissima alla costa turca, nell’antichità fu fiorente città della Ionia d’Asia e vanta di aver dato i natali ad illustri uomini, quali i poeti Omero e Ione, lo storico Teopompo e il filosofo Metrodoro. Conquistata dai romani nel 70 a. C. successivamente fece parte dell’Impero bizantino. Fu saccheggiata dagli Arabi nell’VIII secolo e dai Turchi nel 1089.
Dal 1204, inserita nell’Impero latino d’Oriente, poco dopo divenne oggetto di contesa tra Venezia e Genova, che cominciò lo sfruttamento nel 1261. I Turchi la conquistarono nel 1566.

Il pio Leone salpa da Chio
Tre galee ortonesi raggiunsero l’isola di Chios nel 1258. L’impero bizantino era in crisi, il regno di Nicea sostenuto dai Greci tentava di strapparle il primato. Manfredi, principe di Taranto e futuro re di Puglia e di Sicilia, legato per accordi al despota dell’Epiro, e al re di Gerusalemme suo nipote, aveva favorito degli accordi, con documentazioni giunte fino a noi, non solo con tutte le città portuali dell’Adriatico Ortona compresa, ma anche con la stessa Genova, nemica dichiarata di Venezia. Manfredi aspirava non solo a conquistare l’Italia settentrionale, come in parte fece, ma anche a diventare imperatore d’Oriente. A tale scopo preparò una flotta di cento galee militari e affidò il comando al suo grande ammiraglio Filippo Chinardo. La flotta raggiunse Nauplia di Romània e poi si divise. Una parte combatté intorno al Peloponneso e alle isole dell’Egeo, l’altra nel mare che lambiva la costa siriana di allora. Le tre galee di Ortona si spostarono sul secondo fronte di guerra e raggiunsero l’isola di Chios. Il racconto che segue è fornito da Giambattista De Lectis, medico e scrittore ortonese del Mille e cinquecento. Dopo il saccheggio, il navarca ortonese Leone si recò a pregare nella chiesa principale dell’isola di Chios e fu attratto da un oratorio adorno e risplendente di luci. Un anziano sacerdote, attraverso un interprete lo informò che in quell’oratorio si venerava il Corpo di san Tommaso apostolo. Leone, pervaso da una insolita dolcezza, si raccolse in preghiera profonda. In quel momento una mano luminosa per ben due volte lo invitò ad avvicinarsi. Il navarca Leone allungò la mano ed estrasse un osso dal foro più grande della pietra tombale, su cui erano incise delle lettere greche e raffigurato un vescovo nimbato a mezzo busto. Ebbe la conferma di quanto gli aveva detto l’anziano sacerdote e di trovarsi effettivamente in presenza del corpo dell’Apostolo. Tornò sulla galea e progettò il furto per la notte successiva, insieme al compagno Ruggiero di Grogno. I due così fecero. Sollevarono la pesante lapide e osservarono le reliquie sottostanti. Le avvolsero in candidi panni, le riposero in una cassetta di legno ( conservata ad Ortona fino al saccheggio del 1566) e le portarono a bordo della galea. Leone, poi, insieme con altri compagni, tornò nuovamente nella chiesa, prese la pietra tombale e la portò via. Appena l’ammiraglio Chinardo venne a conoscenza del prezioso carico trasferì tutti i marinai di fede musulmana su altre navi e ordinò di prendere la rotta verso Ortona.

Il pio Leone approda a Ortona
La galea che recava le Ossa dell’Apostolo navigò in modo più sicuro e veloce delle altre ed approdò al porto di Ortona il 6 settembre 1258. Secondo il racconto di De Lectis, fu informato l’abate Iacopo responsabile della Chiesa ortonese, il quale predispose tutti gli accorgimenti per un’accoglienza sentita e condivisa da parte di tutto il popolo. Da allora il corpo dell’apostolo e la pietra tombale sono custoditi nella cripta della Basilica. Nel 1259 una pergamena redatta a Bari dal giudice ai contratti Giovanni Pavone, alla presenza di cinque testimoni, conservata a Ortona presso la Biblioteca diocesana, conferma la veridicità di quell’avvenimento, riportato, come detto, anche da Giambattista De Lectis, medico e scrittore ortonese del Cinquecento.
Attualmente, pertanto, abbiamo quattro prove della presenza dell’Apostolo in Ortona:

1. La pietra tombale, riconducibile all’arte siro-mesopotamica, è databile al terzo - quinto secolo sia sotto il profilo paleografico sia dal punto di vista iconografico. In essa è raffigurata una immagine a mezzo busto di uomo nimbato e benedicente con ai lati una scritta in caratteri greci onciali (o osios thomas, cioè san Tommaso. Va precisato che il termine osios era usato con il significato di santo solo nei primissimi secoli del Cristianesimo). Nella parte inferiore della lapide, poi, si aprono due fori di diversa dimensione come quelli presenti nelle tombe dei martiri, sempre dei primi secoli, e di san Paolo, per le reliquie da contatto e per le libagioni. Di essa si parla successivamente in modo dettagliato

2. La pergamena del 1259, conservata presso la biblioteca diocesana di Ortona, venne redatta a Bari dal giudice ai contratti G. Pavone, alla presenza di cinque testimoni. Un’altra pergamena dello stesso notaio, datata 1261 e riportata in un Codice barese, dimostra l’autenticità del documento, oltre la scrittura minuscola cancelleresca, le abbreviazioni ed altri elementi caratteristici del tempo storico di riferimento;

3. La ricognizione scientifica del 1984 ha accertato che il corpo venerato in Ortona appartiene ad un soggetto longitipo, con ossatura gracile, di aspetto minuto con statura di 160 o 170 centimetri, di età scheletrica alla morte compresa tra i 50 e i 70 anni, affetto da una forma particolare di spondiloartrite anchilopoietica con localizzazioni anche alle piccole articolazioni delle mani, portatore di un piccolo osteoma del cranio in regione frontale e di ossa soprannumerarie lungo una delle suture della volta cranica. Detto individuo mostra le tracce di una frattura dell’osso zigomatico destro provocata da un affilato fendente poco prima o poco dopo il decesso;

4. La reliquia di San Tommaso apostolo conservata a Bari è un osso radio sinistro, mancante nel corpo di Ortona, complementare e compatibile con lo stesso corpo. Il Cronicon barese chiarisce che un vescovo francese, cugino di Baldovino di Le Bourg signore di Edessa, nel 1102, di ritorno dalla Terra Santa e da Edessa, lasciò a Bari, presso la basilica di San Nicola, la reliquia di san Tommaso apostolo.

 Pietra tombale
La pietra tombale

La pietra tombale, portata a Ortona da Chios insieme alle reliquie dell’Apostolo, attualmente è conservata nella cripta della Basilica di san Tommaso, dietro l’altare. L’urna contenente le ossa, invece è posta sotto l’altare. La lapide ha le dimensioni di cm. 137 x cm. 48 e lo spessore di cm.52 circa. Dalla tradizione è definita pietra calcedonio.
Essa è il coperchio di un finto sarcofago, forma di sepoltura abbastanza diffusa nel mondo paleocristiano, quale parte superiore di una tomba di materiale meno pregiato.
La lapide presenta un’iscrizione ed un bassorilievo che rinviano, sotto molti punti di vista, all’area siro-mesopotamica.
Sull’iscrizione è possibile leggere, in caratteri greci onciali, l’espressione o osios thomas, cioè san Tommaso. Essa è databile dal punto di vista paleografico e lessicale al III-V secolo, epoca in cui il termine osios viene ancora usato quale sinonimo di aghios, nel senso che santo è colui che è nella grazia di Dio ed è inserito nella Chiesa: i due vocaboli, di conseguenza, indicano i Cristiani. Nel caso particolare della lapide di san Tommaso, poi, la parola osios può essere agevolmente la traduzione del termine siriaco mar (signore), attribuito nel mondo antico, ma anche ai giorni nostri, sia ad un santo sia ad un vescovo. Con tale termine, pertanto, si voleva indicare l’apostolo come primo vescovo della chiesa locale.
Guardando, tuttavia, con più attenzione l’iscrizione, è possibile notare che sopra le due parole sono tracciati dei segni che rinviano alle indicazioni paleografiche per la presenza di abbreviature per contrazione: in tal caso le parole potrebbero significare il reale san Tommaso.
Al centro della lapide è stato inciso un bassorilievo con l’immagine di un religioso, nimbato, in atto di impartire, con la mano destra, la benedizione (secondo il rito della Chiesa Orientale ed indicante le prime due lettere, in greco, della parola Cristo). Nella sinistra tiene un oggetto solitamente inteso come una croce, ma il patibulum è troppo corto. Dunque potrebbe essere anche una spada, con chiaro riferimento al martirio del Santo. Infatti gli Atti di Tommaso parlano di morte per un colpo di lancia o di spada. L’ultima ricognizione delle ossa del Santo, effettuata nel 1984, ha dimostrato che l’individuo aveva ricevuto un fendente in pieno volto poco prima o immediatamente dopo il decesso. Se invece si vuole attribuire un significato ampiamente teologico, allora possiamo indicare “la spada dello Spirito”, che nell’ottica cristiana, diventa con la croce speculare strumento per il trionfo della forza della Parola.
Iconograficamente, poi, il bassorilievo non discorda dalle caratteristiche artistiche dell’area siro-mesopotamica dei primi secoli dell’era cristiana. Significative, in particolare, sono le somiglianze con l’immagine di Aronne ritrovata nella sinagoga di Doura Europos datata al 250, e di alcune lapidi tombali, databili al I-II secolo, provenienti dall’area cimiteriale di Edessa. Proprio in quella città, oggi Sanliurfa, il corpo del Santo è stato conservato per alcuni secoli, per poi essere trasferito a Chio da dove è giunto in Ortona.
L’appartenenza della lapide ad un’area periferica del mondo ellenistico giustificherebbe ampiamente l’uso della parola osios per tradurre il siriaco mar ed il piccolo errore ortografico della parola Thomas, la cui o, in greco, è un omicron e non un omega, come solitamente il nome è scritto correttamente. Nelle aree ellenistiche di lingua semitica, infatti, frequentemente si rintraccia la confusione tra vocale greca lunga e breve: ciò è determinato da diversità di pronuncia e difficoltà di trascrivere termini provenienti da un ceppo linguistico con un sistema vocalico ben diverso. Nella parte bassa della lapide, inoltre, sono presenti due fori di differenti dimensioni, come quelli che si ritrovano in varie sepolture dei primi secoli del Cristianesimo, e in quella di san Paolo, al fine di introdurre balsami o fare libagioni sulla tomba del defunto. Quando si trattava della tomba di un martire, quello più ampio serviva anche per fornire reliquie da contatto.

Dal 6 settembre 1258, data dell’arrivo in Ortona delle Ossa dell’apostolo Tommaso, la storia del popolo ortonese si identifica con la vita che ruota intorno alla Tomba di san Tommaso. La notizia della presenza del corpo dell’Apostolo si diffonde rapidamente, i pellegrini affluiscono per rivolgersi a Lui, la Chiesa locale si fa promotrice di varie iniziative, i pontefici gratificano i fedeli con la concessione delle indulgenze.
L’indulgenza è la remissione davanti a Dio della pena temporale dovuta per i peccati già perdonati attraverso la confessione. Trova la sua giustificazione nella comunione dei santi, nel tesoro dei meriti di Cristo e di tutti i giusti. La Chiesa concede l’indulgenza attingendo a tale tesoro, a beneficio spirituale dei fedeli vivi, battezzati e in grazia di Dio, e a suffragio per i defunti. L’indulgenza è plenaria se riguarda l’intera pena temporale, perpetua se non prevede limitazione di tempo, parziale se è limitato ad un periodo di tempo specifico.
Innocenzo VI ( 1359- 1362) per primo concesse l’indulgenza plenaria ai fedeli che avrebbero visitato la tomba dell’Apostolo in Ortona e pregato su di essa il giorno 6 settembre di ogni anno. Bonifacio IX la confermò nel 1399, rendendola analoga a quella concessa da Celestino V alla Chiesa aquilana.
Il 5 luglio 1479, il papa Sisto IV con la Bolla Pastoris aeterni, scritta su pergamena e conservata nella biblioteca diocesana di Ortona, non solo rinnovò l’indulgenza, che peraltro era già stata concessa in perpetuo, ma autorizzò il trasferimento del giorno per lucrarla, dal 6 settembre, anniversario della traslazione delle reliquie dell’Apostolo, alla prima domenica di maggio. In tal modo veniva incontro al desiderio degli ortonesi, secondo i quali, i forestieri a maggio avrebbero più facilmente potuto raggiungere la città, pregare sulla tomba dell’Apostolo e ricevere l’indulgenza. Secondo alcuni storiografi locali, la richiesta degli ortonesi sarebbe stata motivata dalla volontà di abbinare la festa del Perdono con le fiere di maggio.
Gregorio XIII, il 13 settembre 1575, cinque anni dopo la restituzione del vescovado ad Ortona, con un “breve” confermò l’indulgenza concessa da Sisto IV per la prima domenica di maggio. Clemente VIII, nel breve del 4 marzo 1596, fissa due giorni per lucrare l’indulgenza: il 15 agosto e il 21 dicembre, festa liturgica di san Tommaso.
Nel Settecento, il vescovo di Ortona, monsignor Marcantonio Amalfitani si rivolge al papa Benedetto XIV per chiedere la proroga della concessione dell’indulgenza al lunedì e martedì successivi alla prima domenica di maggio. Benedetto XIV, con il breve del 14 aprile 1742, accolse la proposta e confermò in perpetuo il privilegio dell’indulgenza plenaria preesistente. Pertanto fissò il 21 dicembre, festa liturgica dell’apostolo, la prima domenica di maggio più il lunedì e il martedì successivi.
L'ultima bolla pontificia è del 2 settembre 1949, emessa da Pio XII. Con essa il pontefice concede una triplice indulgenza, da acquisire una sola volta l’anno per se stessi e come suffragio per i defunti: la prima domenica di maggio più i due giorni successivi, il 6 settembre e il 21 dicembre. Nella bolla il papa non solo parla della presenza delle Ossa dell’Apostolo in Ortona, ma accenna anche alle luttuose vicende della guerra, Infatti monsignor Pietro Tesauri, arcivescovo di di Lanciano e amministratore perpetuo di Ortona, in due lettere, l’una del 15 giugno e l’altra del 17 giugno 1944, aveva riferito la situazione delle due città colpite dalla guerra. La popolazione era esausta. Aveva sofferto la fame, il freddo, la distruzione delle case e delle chiese. Solo i parroci erano rimasti vicino ai loro fedeli e avevano portato loro un po’ di conforto.
Tutti documenti sono conservati presso la biblioteca diocesana di Ortona.

mercoledì 19 dicembre 2018

Santo Natale 2018 a Venezia

Chiesa di S. Simon Piccolo
FSSP Venezia

Immagine correlata

SANTO NATALE 2018

martedì 25 dicembre
Natività di Nostro Signore
S. Messa cantata della notte - ore 00.00
a seguire, venerazione della reliquia dei panni di N.S.
S. Messa cantata del giorno - ore 11.00

domenica 30 dicembre
Domenica fra l'Ottava di Natale
S. Messa cantata - ore 11.00

lunedì 31 dicembre
S. Silvestro Papa (fine dell'anno civile)
S. Messa cantata - ore 18.00
a seguire, canto del Te Deum e Benedizione Eucaristica

martedì 1 gennaio
Circoncisione di Nostro Signore
S. Messa solenne in terzo - ore 11.00
con canto del Veni Creator

domenica 6 gennaio
Epifania di Nostro Signore
S. Messa cantata - ore 11.00

domenica 13 gennaio
Ottava dell'Epifania di N.S.
S. Messa cantata - ore 11.00

sabato 15 dicembre 2018

Domenica dei Santi Progenitori

Δέξασθε χαρὰν οἱ πάλαι Προπάτορες,
Βλέποντες ἐγγίζοντα Xριστὸν Μεσσίαν.
Γήθει Ἀβραάμ, ὅτι Πρόπαππος Χριστοῦ ἐδείχθης.

Gioite, o antichi Progenitori,
vedendo che Cristo Messia è vicino.
Gioisci o Abramo, perché fosti antenato di Cristo.
(Trimetri giambici della Domenica dei Santi Padri, dal Menologio)


La domenica che cade dall'11 al 17 dicembre, corrispondente alla terza domenica dell'Avvento romano (la ben nota domenica Gaudete), cioè la penultima domenica prima del Natale di Nostro Signore, la tradizione bizantina celebra la domenica dei Santi Progenitori, in onore di tutti gli antenati secondo la carne del Nostro Salvatore.

Tale memoria si ritrova nei calendari costantinopolitani sin dai primi secoli: i santi Padri, illuminati dallo Spirito Santo e dalla loro scienza pastorale, hanno deciso di celebrare in questa data la memoria del patriarca Abramo, spiritualmente il padre di tutti i credenti, colui nel quale "tutte le generazioni sono state benedette", e della sua discendenza.
La liturgia odierna, ai consueti tropari domenicali (gioverà qui ricordare che la tradizione orientale non conosce l'Avvento come tempo liturgico definito, ma solo come pratica ascetica di digiuno, e pertanto nelle settimane precedenti il Natale si continua e termina ordinariamente la celebrazione delle "domeniche di S. Luca"), si aggiungono numerosi testi tratti delle feste individuali dei maggiori dei Progenitori di Cristo, e cioè Adamo, Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe, il profeta Elia e il profeta Daniele (commemorato sempre insieme ai Tre Fanciulli Sadrac, Mesac e Abdenego), il profeta Zaccaria, i santi e giusti Gioacchino e Anna, il santo glorioso profeta e Precursore del Signore, Giovanni Battista, e soprattutto la Madre di Dio, che in quanto genitrice del Signore nella carne non può che essere magnificata ed esaltata sopra tutte le creature umane. Naturalmente, come in tutti i giorni del mese di dicembre, si aggiungono anche dei tropari, e particolarmente il Kontakion Theotokìon propri della Natività del Signore, in lunga preparazione alla solennissima festa.

Alla Divina Liturgia si cantano delle letture proprie, volte a esortare i Cristiani all'imitazione spirituale del Nostro Redentore quand'ormai mancano pochi giorni a celebrare il primo passo della sua gloriosa e inenarrabile kènosis, ovverosia la mirabile assunzione della nostra natura in unione ipostatica con quella divina. L'Apostolo è tratto dalla lettera ai Colossesi di San Paolo, nella quale il Dottore delle Genti invita i fedeli in Cristo a deporre le opere della carne, i vizi e le concupiscenze dell'umanità caduta e irredenta, poiché siamo stati redenti e liberati da Gesù Cristo, per vivere secondo lo spirito: e pertanto ci è comandato di spogliarci dell’uomo vecchio e del suo modo di agire e rivestirci del nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, a immagine del suo Creatore.
Il Vangelo è tratto invece da S. Luca 14,16-24, ossia la parabola del banchetto. I Padri della Chiesa videro in questo racconto l'immagine della vocazione dei Cristiani ad essere il popolo di Dio: gli invitati al Banchetto del Re, cioè a godere del Regno di Dio, sono i Giudei, il popolo dell'Antica Alleanza, per i quali Gesù Cristo (raffigurato dal servo nella parabola) è venuto nel mondo a offrire la Salvezza (cfr. Mt 15,24), i quali hanno però rifiutato e addirittura messo a morte il Redentore; allora il Re, Dio Padre, ha ordinato di chiamare le genti nelle piazze, nelle vie, ai crocicchi delle strade e presso le siepi, cioè i Gentili, cioè anche noi, che siamo diventati il suo nuovo popolo eletto, il popolo della Nuova Alleanza, spiritualmente uni e indistinti in Cristo e nel Battesimo che abbiamo ricevuto (cfr. Col 3,11). La pericope evangelica si chiude con un versetto tratto dalla medesima parabola, nella però più estesa narrazione del sinottico S. Matteo, la famosa sententia: Πολλοὶ γάρ εἰσι κλητοί, ὀλίγοι δὲ εκλεκτοί (molti sono infatti i chiamati, pochi invero gli eletti). In questa domenica in cui commemoriamo i più eminenti eletti tra coloro che furono antenati secondo la carne del Nostro Divin Redentore, tutti noi Cristiani siamo chiamati ad esercitare le virtù cristiane, la carità, a imitare il Salvatore per confermare la chiamata che abbiamo ricevuto, per divenire noi pure eletti e giungere al gaudio perfetto del Regno dei Cieli.

Nato nella terra dei Caldei idolatri, il patriarca Abramo non esitò un'istante a lasciare il suo paese, la sua casa, la sua famiglia e i suoi beni, all'appello di Dio, per andare verso la terra di Canaan che il Signore gli dava in eredità, promettendogli una gloriosa posterità e un'alleanza eterna. Il frutto di questo atto di fede fu Isacco, che Dio gli accordò nella sua vecchiaia. Poi da Isacco nacque Giacobbe e da Giacobbe uscirono i dodici Patriarchi, Padri delle dodici tribù di Israele. E fu finalmente dalla tribù di Giuda che, conformemente alle Scritture, doveva nascere il Cristo, il compimento delle promesse, la pienezza dell'alleanza e dell'unione tra Dio e gli uomini. Attraverso l'intermediazione dei santi Antenati e Patriarchi, il nostro Signore Gesù Cristo è dunque anch'egli il frutto della fede di Abramo. Perciò, quando dentro ognuno di noi, Dio fa sentire la sua voce, mentre siamo ancora nella terra straniera delle passioni e delle vanità di questo mondo, bisogna come Abramo, abbandonare senza esitazione ciò che è nostro e seguire con fede l'appello divino fino alla Terra promessa, dove potremo a nostra volta dare nascita, in maniera spirituale, al Cristo. Perché piantato in noi dalla fede e dal Battesimo, Egli deve crescere e svilupparsi attraverso le sante virtù, per risplendere nella luce della contemplazione.

Divenuti "Figli di Dio" attraverso il dono del Santo Spirito, noi dobbiamo dunque vedere il Cristo formarsi in noi discendenti di Abramo: "Tutti in effetti, siete figli di Dio attraverso la fede in Cristo Gesù, poiché voi siete stati immersi in Cristo, avete rivestito il Cristo (...). Voi tutti, in effetti, siete uno nel Cristo Gesù. Ma se appartenete al Cristo, siete dunque discendenti di Abramo, eredi della promessa" (Galati 3,26-29). Diveniamo dunque a nostra volta antenati di Cristo perseverando nella fede, per celebrare la sua Natività dicendo: "Non sono più io che vivo, è il Cristo che vive in me!"(Gal. 2,20).

Ἐν πίστει τοὺς Προπάτορας ἐδικαίωσας,
τὴν ἐξ Ἐθνῶν δι’ αὐτῶν προμνηστευσάμενος Ἐκκλησίαν.
Καυχῶνται ἐν δόξῃ οἱ Ἅγιοι, τι ἐκ σπέρματος αὐτῶν,
ὑπάρχει καρπός εὐκλεής, ἡ ἀσπόρως τεκοῦσά σε.
Ταῖς αὐτῶν ἱκεσίαις, Χριστὲ ὁ Θεός, σῶσον τὰς ψυχὰς ἡμῶν.

Hai giustificato nella fede i Progenitori,
attirando a te dalle Genti, per mezzo loro, la Chiesa.
Hanno vanto nella gloria i Santi, imperocché dal loro seme
procede un frutto insigne, colei che senza seme ti ha partorito.
Per le loro preghiere, o Cristo Dio, salva le nostre anime.

(Apolytikio della Domenica dei Progenitori)

lunedì 10 dicembre 2018

Pellegrinaggio a Madonna del Monte (Aviano, PN) il 22 dicembre

Informiamo che la Compagnia di S. Antonio e Una Voce Pordenone organizzano un

Pellegrinaggio al Santuario
di Madonna del Monte
in Aviano (Pordenone)
sabato 22 dicembre

Programma:

13.45 Ritrovo dei pellegrini nella chiesetta di S. Valentino in Masure
14.00 Partenza del pellegrinaggio verso il Santuario di Madonna del Monte
14.20 Arrivo al Santuario
14.30 Recita del S. Rosario
15.00 S. Messa cantata in Rito Romano antico

Il Circolo Traditio Marciana prenderà parte all'iniziativa.
Di seguito il comunicato ufficiale della Compagnia di S. Antonio.


****

Beatus vir, cuius est auxilium abs te:
ascensiones in corde suo disposuit,
in valle lacrimarum in loco quem posuit.
Etenim benedictionem dabit legislator,
ibunt de virtute in virtutem:
videbitur Deus deorum in Sion.
(Sal 83,6)

Beato il pellegrino che, sollecitato da una voce misteriosa che nasce nel suo cuore di credente, inizia con i suoi compagni quell’instancabile cammino, quel viaggio santo, alla ricerca del volto del Signore, del luogo della sua Rivelazione, accompagnato nella preghiera dalla Vergine Santa.

E’ con questo anelito che la Compagnia di Sant’Antonio, insieme agli amici di UNA VOCE Pordenone, proseguirà il proprio itinerario di Fede con una nuova stagione di pellegrinaggi locali che, dall’Agro Concordiense, attraversando il fiume Tagliamento, ci porterà ad Aquileia per il “III Pellegrinaggio della Tradizione Marciana” alla fine di settembre del prossimo anno.

In questo peregrinare lungo percorsi antichi, che testimoniano la profondità della Fede e della pietà popolare delle nostre terre venete e friulane, porteremo il nostro amore per la Santa Messa celebrata nel sublime Rito Romano Antico, che trova le sue radici nella devozione e nell’attaccamento alla Tradizione e alla cultura cattolica. La geografia sacra del nostro territorio, ricco di santuari e chiese dedicate alla Madonna, straordinaria eredità storico-culturale della sua tradizione cattolica, ci offre un prezioso aiuto. E’ in questi luoghi di grande spiritualità, talvolta dimenticati o nascosti, che possiamo gustare il silenzio e metterci all’ascolto e alla sequela di Maria, e realizzare quel detto popolare forte e oggi ancor più attuale ed urgente che ci invita “ad Jesum per Mariam”.

Vogliamo celebrare l’inizio del nuovo anno liturgico, questo santo periodo di Avvento, partendo dal Santuario di Madonna del Monte di Aviano. Qui ci recheremo in pellegrinaggio sabato 22 dicembre prossimo, con ritrovo nel primo pomeriggio presso la chiesetta intitolata a San Valentino in località Costa di Marsure. Il pellegrinaggio è aperto a tutti e partirà alle ore 14 dalla chiesetta di San Valentino. Coloro che non potranno percorrere il breve ma impegnativo cammino a piedi lungo la via del Santuario potranno attendere i pellegrini direttamente a Madonna del Monte. Arrivati al Santuario si proseguirà con la recita del Santo Rosario, alle ore 14:30, seguito dalla Santa Messa in Vetus Ordo alle ore 15.
Al termine della Messa ci sarà un breve incontro conviviale per il tradizionale scambio degli auguri natalizi. Vi attendiamo numerosi.

In corde Matris,

Compagnia di Sant’Antonio - UNA VOCE Pordenone

Translatio almae domus BMV

Deus, qui beátæ Maríæ Vírginis domum per incarnáti Verbi mystérium misericórditer consecrásti, eámque in sinu Ecclésiæ tuæ mirabíliter collocásti: concéde; ut, segregáti a tabernáculis peccatórum, digni efficiámur habitatóres domus sanctæ tuæ. Per eúndem Dóminum.

O Dio, che per mezzo del mistero del Verbo Incarnato consacrasti misericordiosamente la casa della beata Vergine Maria, e la collocasti miracolosamente nel seno della tua Chiesa: concedi che noi, allontanati dalle tende dei peccatori, diveniamo degni abitanti della tua santa casa. Per lo stesso Signore.
(Orazione della festa della Traslazione della Santa Casa, 10 dicembre) 

Saturnino Gatti, Traslazione della Santa Casa, 1510

Oggi ricorre la festa della Traslazione miracolosa della Santa Casa della Vergine da Nazareth a Loreto. A Venezia questa festa doveva avere una certa importanza, almeno nella devozione popolare, visto che non solo la festa entrò nel calendario patriarcale, ma financo, nel 1744, il parroco di S. Pantalon fece costruire, in una cappella laterale della sua chiesa, una copia perfetta della Santa Casa custodita nella basilica lauretana. Sopra l'altare, in una nicchia, si trova una piccola statua della Vergine Maria in legno dipinto, come quella che c'è a Loreto. Sulle pareti vi sono resti di affreschi del pittore veneziano Pietro Longhi, che rappresentano la Vergine, la Sacra Famiglia, Santi e Angeli. Si tratta decisamente di un'opera straordinaria anche da un punto di vista storico-artistico, in quanto è l'unica di argomento religioso realizzata dal Longhi, famoso per i suoi piccoli quadretti di vita quotidiana a Venezia. Benché oggi sia pressoché dimenticata, la cappella della Santa Casa in S. Pantalon v'è ancora, e su richiesta è perfettamente accessibile per la preghiera.

La cappella della Santa Casa in S. Pantalon (Venezia)

Nella ricorrenza, rilanciamo questo articolo, tratto da "La voce cattolica", nel quale, oltre a raccontarsi la storia della miracolosa Traslazione, vengono fornite numerose prove e testimonianze della soprannaturalità del fatto. Anche le riflessioni finali, concernenti il razionalismo imperante e purtroppo sfregiante anche questo santo miracolo, sono degne di nota.

STORIA DELLA TRASLAZIONE

Siamo all’inizio di maggio del 1291. I Turchi hanno preso totale possesso della Terra Santa, dove a Nazareth si trovano le vestigia di quella piccola costruzione che la tradizione, dai primi secoli dell’era cristiana, indicava quale dimora della Vergine Santa, dove nacque, dove ebbe luogo l’Annuncio dell’Arcangelo Gabriele e dove visse il Signore nella Sacra Famiglia.

Dopo la Risurrezione, gli Apostoli si sarebbero riuniti in questa Casa, dove San Pietro avrebbe eretto un altare e avrebbe celebrato l'Eucaristia conforme all’insegnamento di Gesù Cristo.

In quello stesso inizio di maggio (10 maggio 1291) a duemila chilometri di distanza, sulla collina di Tersatto, non lontano da Fiume, dei boscaioli trovano una piccola casa che non avevano mai visto prima in quel luogo. Il fatto impressiona molto perché su quella collina che scende verso il mare non esistevano né capanne né tanto meno case. La piccola costruzione, posata sul terreno, ha una lunghezza di m 9,52, una larghezza di m 4,10 e un’altezza (all’interno) di m 4,30.

Di fronte all’entrata c’è un altare di pietra e, al di sopra, sul muro, una Croce greca. Su questa la figura del Cristo e un’iscrizione: “Gesù di Nazareth, Re dei Giudei”. Sull’altare una statua in legno della Madonna con il Bambino in braccio: la mano destra di Cristo è levata per benedire.

Oltre l’altare, un focolare nero di fumo, che ne comprova un lungo uso. Non lontano da questo atrio, un armadio scavato nel muro e degli utensili da tavola: “Sembra una Cappella che sia stata abitata”, dicono i boscaioli.

Il curato di Tersatto, don Alessandro De Giorgio, viene informato del fatto, ma, molto ammalato, non può muoversi. Gli appare la Madonna che gli attesta essere quella la sua Casa di Nazareth dove nacque, dove avvenne l’Annuncio dell’Arcangelo Gabriele e dove visse con Gesù Cristo. Sull’altare, l’Apostolo Pietro celebrò la prima Frazione del Pane, e la statua di legno di cedro è opera di San Luca. Quale sigillo dell’Apparizione, don Alessandro viene improvvisamente guarito della sua infermità (Notizie provenienti da un pregevole studio del 1893 di Guillaume Garratt, dell’Università di Cambridge).

E’ in quegli anni signore di Tersatto il conte Nicolò Frangipani, governatore delle tre province di Dalmazia, Croazia e Illiria. Costui invia a Nazareth una commissione di tre persone, tra cui il curato, che può constatare come realmente la Casa di Nazareth, con grande stupore dei Turchi, fosse improvvisamente sparita. Tale notizia, prima ancora che la spedizione sia di ritorno (un viaggio di duemila chilometri per via mare), si ha da parte dei pellegrini che tornano dalla Terra Santa. Si viene a sapere altresì che i musulmani ricavano da tempo cospicui profitti dalle visite dei pellegrini alla Santa Casa.

Il 10 dicembre 1294 (tre anni e sette mesi esatti dalla miracolosa Traslazione), la casa sparisce e si ritrova dall’altra parte dell’Adriatico in boschi non lontani da Recanati di proprietà di una certa signora Lauretta. Dei pastori della regione vedono quel mattino una luce abbagliante uscire dalle nubi… Molta gente accorre e dei briganti ne approfittano per derubare i pellegrini.

Passano otto mesi e la Casa di Nazareth, una notte, ancora sparisce e si ritrova a un chilometro e mezzo di distanza, in un campo che appartiene a due fratelli, i conti Stefano e Simone Rinaldi di Antici. Anche questi vorrebbero trarre profitto personale dalle offerte dei pellegrini giungendo per questo a fare una petizione al papa Bonifacio VIII per ottenere il titolo di proprietà.

Ma ecco che una notte di dicembre del 1295, la Santa Casa si sposta ancora su una strada che va da Recanati a Porto Recanati, fuori cioè di ogni proprietà, e come le altre volte si posa sul terreno senza fondamenta alcuna. I magistrati di Recanati sono obbligati a fare una deviazione della strada. Anche costoro formano una missione di 16 nobili e notabili del luogo che inviano dall’altra parte dell’Adriatico per verificare i fatti.

Il Conte Frangipani, al corrente di quanto era avvenuto, mostra a detta commissione una Cappella da lui edificata in ricordo con l’iscrizione (ancora esistente): “La Santa Casa della Beatissima Vergine Maria venne da Nazareth a Tersatto il 10 maggio 1291 e si ritirò il 10 dicembre 1294”.

Le stesse 16 persone raggiungono poi la Galilea, confermando i risultati della prima spedizione: eguali le dimensioni, eguali le pietre della costruzione e ancora si constata che “la data di partenza della Casa per l’Illiria coincide con quella dell’arrivo sulla collina di Tersatto”.

STORIA RECENTE

Oggi, a fine XX secolo, una grande Basilica in marmo bianco, concepita nel XVI secolo dal Bramante, riveste degnamente la piccola-grande Casa. Migliaia di pellegrini in tutti questi anni hanno lasciato la loro testimonianza in questo Santuario dove si verificarono molti e grandiosi miracoli. Tanti uomini illustri hanno scritto su Loreto. Tra gli altri Montaigne, che lo visitò nel suo “Journal de Voyage en Italie par la Suisse e l’Allemagne”, ricordando i fatti sopra riportati e descrivendo miracoli e riferimenti importanti con i Re di Francia (nascita di Luigi XIV) (Cfr. A. Colin-Simard, Les Apparitions de la Vierge, Fayard-Mame, 1981, pp.32ss.). [...]

LE PROVE SCIENTIFICHE

L’iter delle traslazioni sopra descritte nei loro modi e nei loro tempi non lascia dubbi che, se veridiche, si riferiscano ad avvenimenti scientificamente non spiegabili.

Invero:

Anche oggi, con le tecnologie più avanzate, la rimozione “in toto” di una casa, pur delle dimensioni di quella di Loreto, presenterebbe enorme difficoltà e questo quindi appare tanto più impossibile per l’epoca in cui è avvenuta.

Si pensi a quale lavoro di preparazione e di avanzata tecnologia ha comportato il “taglio a fettine” e successiva ricostruzione di alcuni monumenti dell’antico Egitto, per salvarli dall’invaso della grande diga di Assuan, per avere un’idea delle grandi difficoltà di queste operazioni.

Si deve quindi dedurre che anche l’ipotesi di una scomposizione dei muri della Casa nei singoli blocchi di pietra effettuata a Nazareth e ricomposta prima in Dalmazia (e poi ripetutamente sulla costa adriatica), dopo duemila chilometri di peregrinazione per terra e per mare, è molto difficilmente accettabile ed urta contro i fatti sopra riportati, quali la simultaneità delle date di partenza e di arrivo e la lapide tuttora esistente in Dalmazia.

L’analisi della malta, inoltre, come diremo qui di seguito, nei punti dove attualmente tiene unite le pietre, presenta caratteristiche chimiche particolari non riconoscibili dalle persone che, nel 1294, avrebbero rimesso insieme i singoli blocchi portati da Nazareth.

Recenti scavi archeologici “in loco” hanno confermato che la Casa risulta posata sul terreno senza fondamenta come voleva la tradizione. Il Grimaldi (cfr. Storia e Arte del Santuario Lauretano, p.24, in Pellegrini a Loreto, ed. Paoline, 1992) conferma in dette indagini archeologiche il ritrovamento di un antico tipo di malta e l’omogeneità della tessitura muraria, e come l’edificio originale risultasse posato su una strada. Venne constatata dal basso l’esistenza di resti di una necropoli romana del III secolo d. C. e sovrapposta a quanto rimaneva di un abitato tardo piceno attraversato in senso Nord-Est da una fossa di scolo, tipico delle strade, riempito di detriti, ossicini di topo e conchiglie di chiocciole di terra.

Tale recente constatazione trova appunto preciso riferimento a documenti del 1531, 1672 e 1751 che attestano come ogni volta che per lavori di manutenzione si dovettero rimuovere le lastre del suolo o il rivestimento esterno, ci si accorse sempre con grande meraviglia, che i muri erano posati sulla terra nuda.

Un cespuglio spinoso che si trovava sul bordo della strada al momento che la Casa “si posava” vi rimase imprigionato.

Si trovarono così, e furono raccolti, dei piccoli sassi identici a quelli della strada, residui di ghiande, gusci di lumache, una noce disseccata, della terra polverosa: tutto ciò che era presente al momento dell’impatto (cfr. Colin-Simard, op. cit.).

Ora appare ovvio che per semplici e sprovveduti che fossero i muratori di quell’epoca non avrebbero certo sistemate le pietre trasportate da Nazareth, a parte la scelta sulla strada, senza pulire almeno il fondo e strappare il cespuglio spinoso.

Il materiale dei muri, di notevole spessore (37,5 cm), venne ripetutamente verificato, e dopo la metà del secolo scorso, come sopra ricordato, analizzato con cura (Analisi chimiche eseguite a Roma. Cfr. Colin-Simard, op. cit.). Si tratta di due tipi di calcare, l’uno duro, l’altro tenero, di un colore che non si trova in Italia mentre è comune in Palestina e in particolare a Nazareth. Si è proceduto per questo a confronti accurati fatti direttamente in Palestina su piccoli campioni provenienti da Loreto, e trovando sempre una stupefacente identità.

I risultati delle indagini analitiche, permisero appunto di accertare come la malta che tiene unite le pietre fosse uniforme in tutti i punti e risultasse costituita da solfato di calcio idrato (gesso) impastato con polvere di carbone di legna secondo una tecnica dell’epoca, nota in Palestina, ma mai impiegata in Italia.

Qualora fosse avvenuta una nuova rimessa in opera dei singoli blocchi di pietra, si sarebbe dovuta evidenziare per la differenza della composizione chimica della malta in questione.

Sono questi controlli scientifici che, ci sembra, dovrebbero in modo definitivo porre fine alla dibattuta questione sulla traslazione della Casa di Loreto al di sopra di ogni ricerca documentaria sempre legata alla veridicità di chi scrive.

CONCLUSIONI

Se si consulta la letteratura recente sulla Casa di Loreto si riscontra una quasi unanimità nell’affermare che le pietre originarie provengano sicuramente da Nazareth, ma sarebbero state trasportate da uomini, anche se non esistono documenti che lo comprovino. La “traslazione soprannaturale”, secondo tale letteratura, non sarebbe che leggenda e favola.

Le prove scientifiche sopra ricordate vengono ignorate per incompetenza o volutamente trascurate.

Un fatto è comunque evidente: due secoli, dalla proclamazione dei diritti dell’uomo, del vecchio Adamo che ha ribattuto il suo “Sì” a Satana e il suo “No” a Dio, hanno consentito la diffusione capillare di questi principj ad ogni ceto e livello sociale (illuminismo, razionalismo, modernismo, emancipazione dal dogma e dai tabù…). Secondo tali principj, tutto ciò che non può essere spiegato dalla mente umana non può essere vero, non è che favola da raccontare ai pargoli. Se Dio interviene in qualche miracolo, è sempre, se mai, nell’ordine del razionale. Gli stessi grandi miracoli del Vangelo vengono taciuti, sminuiti, non creduti se non si spiegano razionalmente.

Gli studiosi della “questione lauretana”, ritenendo razionalmente impossibile che una casa venga traslata in modo soprannaturale, come la montagna del Vangelo, preferiscono la tesi del trasporto materiale, anche se manca ogni documentazione al riguardo.

Non è forse la peggiore forma di apostasia e un comportamento opposto a quello che Cristo vorrebbe da noi, limitare col nostro razionalismo le possibilità di Dio? L’orgoglio dell’uomo decaduto nel suo nuovo attacco a Dio non ammette che il soprannaturale vada oltre quello che egli giudica possibile! E’ un peccato mostruoso nei riguardi della Divinità!

venerdì 7 dicembre 2018

Considerazioni sull'Immacolata Concezione

Il dogma dell'Immacolata Concezione è indubbiamente uno dei più difficili da affrontare, anche semplicemente da un punto di vista accademico, tant'è vero che tra gli stessi fedeli cattolici viene abbondantemente frainteso, dando luogo ora ad atteggiamenti sentimentali lontani dall'essenza del Cristianesimo, in cui non mancano ossimori e contrapposizioni, con la figura della Madre di Dio che viene esaltata e pressoché divinizzata e al contempo svilita nelle interpretazioni di taluni... Per alcuni, poi, è diventata genericamente la festa dell'Immacolata, titolo pur spettante con ogni diritto alla madonna (la tradizione greca conosce una molteplicità di termini simili per esprimere questo stesso concetto: ἄσπιλος, ἀμόλυντος, ἄχραντος, ἀμώμητος...), dimenticando però che il fatto storico che si commemora in detta festa è la Concezione della Madonna, nata miracolosamente da Sant'Anna ch'era sterile!
Per non parlare del fatto veramente estremo e ridicolo che molti (e, dalla mia esperienza, soprattutto i cattolici praticanti ma non avvezzi a disquisizioni teologiche, mentre i "laici" paiono paradossalmente più avveduti in materia) intendono il termine Immacolata Concezione come la Concezione di Gesù Cristo da parte della Madonna! (forse perché siamo vicini al Natale?), fraintendendo completamente l'intera questione teologica che vi sta dietro, e pure dimostrando di trascurare semplici questioni biologiche come i nove mesi necessari alla gestazione (Gesù Cristo fu annunziato, ed ergo concepito, il 25 marzo, e partorito nove mesi dopo, il 25 dicembre; Sua Madre fu concepita l'8 [il 9 secondo la tradizione orientale] dicembre e fu partorita nove mesi dopo, l'8 settembre).

La confusione è generata parzialmente anche dalla definizione stessa del dogma, che non è per nulla chiara né esauriente. Questa è una caratteristica che si ritrova in tutti i tre dogmi "moderni", cioè l'Immacolata Concezione, l'Infallibilità Papale e l'Assunzione della Madonna, e può essere ragionevolmente spiegata: storicamente sono state proclamate dommaticamente e solennemente soltanto quelle verità di Fede ch'erano minacciate da una pressante eresia che le negava. Così fu per i dogmi cristologici dei primi concili, così anche per i dogmi sacramentali di Trento.
Ora, nel Cattolicesimo del XIX secolo, a differenza di quanto era accaduto in passato, ve n'erano ben pochi che negassero il concepimento immacolato della Beata Vergine, e certo non lo facevano in modo aggressivo, polemico e nemmeno palese. Allora, la proclamazione dommatica del 1854 da parte di Papa Pio IX (un Pontefice che, nonostante venga esaltato dai tradizionalisti, soggiaceva in realtà a una mentalità completamente antitradizionale frutto del suo passato liberale, che applicava anche da Papa nonostante avesse assunto posizioni conservatrici, e contribuì non poco al decadimento della Chiesa Romana che portò poi ai tristi accadimenti della seconda metà del XX secolo), non avendo come scopo quello di definire in modo fisso una verità che già si credeva, necessariamente risulta poco preciso dal punto di vista teologico, e conseguentemente poco utile e poco chiarificatore per coloro che si accostano in seguito allo studio di questi argomenti. Tale proclamazione, infatti, aveva principalmente altre finalità: affermare la supremazia papale proclamando un dogma ex cathedra e senza Concilio (benché una sana prudenza convinse Pio IX a soggiungere che tale dogma era proclamato col consenso della Chiesa, iv'intendendo i molti vescovi che avea consultati, pur senza Concilio); creare un dogma che potesse essere una bandiera contro il liberalismo avanzante, e che di lì a poco avrebbe definitivamente trionfato nella penisola italiana, proprio come, exempli gratia, il culto del Sacro Cuore era stato bandiera degli antirivoluzionari ai tempi della rivoluzione giacobina. Questo può spiegare forse anche l'eccessiva importanza che viene data alla festa dell'Immacolata Concezione a partire dalla metà dell'Ottocento, che divenendo doppia di I classe con ottava comune e vigilia risulta veramente ingombrante nel Santorale Romano e soprattutto sproporzionata rispetto a feste ben più importanti (Natività della Vergine o Trasfigurazione di Nostro Signore) che le restano così sottoposte; la stessa precettività di detta festa, mantenuta anche dopo la decurtazione della quasi totalità delle feste di precetto, può pensarsi in tal senso.

Dare una trattazione completa delle questioni che sorgono attorno alla definizione del dogma sarebbe impossibile: gli stessi testi di teologia cattolica sono restii ad addentrarsi troppo in questa materia, imperocché risulta molto ardua e problematica (per esempio, la stessa Catholic Encyclopedia del 1914, ch'è a parer mio la raccolta più chiara, esaustiva e precisa che possa trovarsi, glissa l'argomento restando nel vago). Mi occuperò qui pertanto di sole due questioni, trattandole peraltro in maniera superficiale e scolastica: le diverse posizioni occorse nel mondo cattolico circa questo dogma e il problema della dottrina agostiniana.

Diverse posizioni nella Storia Cattolica

E' curioso vedere come, esulando dalla stereotipata e fasulla rappresentazione di un Occidente immacolatista contrapposto all'Oriente macolatista, i più fieri avversari della tesi immacolatista furono tutti occidentali, e non certo eretici o personaggi sconosciuti, ma grandi Santi e Dottori della Chiesa latina! La tesi della "redenzione anticipata", che cioè sosteneva la purificazione dal peccato originale della Vergine nel momento in cui Ella ricevette la visita dell'Arcangelo Gabriele, fu sistematizzata da S. Alberto Magno. S. Bernardo di Chiaravalle, conosciuto per la sua profondissima devozione alla Vergine Maria, nella lettera 174 esprime le sue preoccupazioni per la diffusione a livello popolare delle tesi immacolatiste, da lui ritenute eretiche.
Dall'altra parte, vi era Duns Scoto, il Doctor subtilis, che per primo inizia a parlare di Immacolata Concezione, scrivendo nella sua Ordinatio: ""Cristo esercitò il più perfetto grado possibile di mediazione relativamente a una persona per la quale era mediatore. Ora, per nessuna persona esercitò un grado più eccellente che per Maria [...]. Ma ciò non sarebbe avvenuto se non avesse meritato di preservarla dal peccato originale". Le tesi scotiane furono accolte subito dai francescani, particolarmente Giovanni Vidal e Andrea di Novocastro, che le propugnarono e predicarono, mentre furono avversate dai domenicani: S. Tommaso d'Aquino stesso ebbe più volte a scrivere contro l'Immacolata Concezione, e persino Papi come Clemente VI intervennero contro gli scotiani. Anche i carmelitani (come il Baconthorp) erano fortemente contrari; i teologi parigini esprimevano posizioni moderate, mentre persino i mistici erano divisi tra loro, con una S. Brigida di Svezia immacolatista e una S. Caterina da Siena macolatista. Nonostante una crescente devozione popolare verso l'Immacolata Concezione (animata dalla predicazione francescana ch'era molto forte), il giudizio della Chiesa fu sempre prudente: Sisto IV, alla fine del Quattrocento, proibì che ambo le tesi venissero definite eretiche, cercando così una mediazione che si rendeva allora quantomai necessaria.
Col tempo, però, le tesi immacolatiste prevalsero nella pietà popolare, influenzando anche teologi e dottori; dal Settecento, la festa della Concezione iniziò a esser preceduta in tutto l'orbe dall'aggettivo Immacolata (in alcuni usi locali si era introdotto ciò nel medioevo, ma Pio V, da buon domenicano, si era opposto a tutto ciò e durante la riforma tridentina cancellò la parola "immacolata" da ogni pagina del Breviario e del Messale), e in alcuni paesi divenne di precetto. Ciò che accadde in seguito è cosa nota.

Il problema agostiniano del peccato

Alla base delle incomprensioni tra Oriente e Occidente sull'Immacolata Concezione non vi è la stessa diatriba macolatista-immacolatista che colpì l'Occidente. Abbiamo visto che la Chiesa Greca chiama la Madonna "immacolata" con gran varietà di termini, e i Padri d'Oriente lodano la sua immacolatezza. Cionondimeno, la definizione di "Immacolata Concezione" così come proclamata nella Chiesa Romana in Oriente non sarebbe sbagliata, semplicemente non avrebbe senso!

Cerco di spiegare meglio: le posizioni scotiane, ma anche quelle di taluni macolatisti occidentali, presuppongono una concezione del peccato originale molto particolare, che viene direttamente da S. Agostino d'Ippona, e solo da lui. Il peccato originale viene interpretato come una macchia, qualcosa di fisicamente legato all'anima, che si trasmette attraverso la riproduzione. E' il cosiddetto traducianismo spirituale. Ora, il traducianismo venne ideato da Tertulliano, che lo interpretava addirittura in senso biologico e materialista, sostenendo che i figli vengano generati totalmente, corpo e anima, dall'unione fisica dei semi maschile e femminile, onde si può parlare di "corporeità dell'anima". S. Agostino, più moderatamente, si limita a una forma spirituale di traducianismo (detta anche generazionismo), argomentando che l'anima proceda immediatamente dall'unione delle anime dei genitori, sicché una parte della sostanza dell'anima dei genitori, insieme col loro seme biologico, genererebbe il figlio. Questa parte comporterebbe anche il peccato originale, ereditato dai protogenitori che furono gli unici le cui anime vennero create direttamente da Dio.
Il traducianismo fu condannato nel Concilio di Roma del 498-99, affermandosi così che l'unica tesi corretta in tal materia fosse il puro creazionismo, come di seguito è ben spiegato teologicamente.

“[L’anima umana]  non può derivare da una materia preesistente né corporea, perché sarebbe allora di natura corporea, né spirituale, perché in tal caso le sostanze spirituali si trasmuterebbero le une nelle altre. [...] E' necessario concludere che l’anima umana viene prodotta solo per creazione. [...] Alcuni pensarono che gli angeli, operando per delegazione divina, producono le anime umane. Ma questo è assolutamente impossibile e contrario alla fede. Infatti abbiamo visto che l’anima umana non può essere prodotta che per creazione.
Ora, Dio solo può creare.
Infatti è prerogativa del solo primo agente operare senza presupposto alcuno: invece la causa seconda presuppone sempre qualche cosa dovuta al primo agente…
Ma chi produce un effetto presupponendo qualche cosa compie una trasmutazione; mentre soltanto Dio può compiere una creazione. E poiché l’anima intellettiva non può derivare per trasmutazione da una qualsiasi materia, non potrà essere prodotta che immediatamente da Dio” (S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I, 90, 2-3)

Poiché però Dio non può, creando l'anima, creare anche il peccato in essa (altrimenti si scadrebbe nello gnosticismo, in opposizione al quale furono difatti partorite l'eccessive tesi traducianiste), è necessario rifarsi a un altro concetto, quello del debitum che l'umanità deve scontare per il peccato dei progenitori, cioè la nostra condizione decaduta, il chaos derivato dalla disobbedienza dei primi parenti (morte, malattia, dolore, fatica, e soprattutto la tendenza al peccato attuale). I Padri della Chiesa (fuorché appunto Agostino) intendono tutti unanimemente il peccato originale come questa condizione caotica in cui si trova a vivere l'umanità, dalla quale Maria è stata nondimeno preservata in modo da essere degno talamo per il Signore fattosi uomo.

Il dogma ottocentesco, restando vago, non fa esplicito riferimento alla tesi di S. Agostino, ma possiamo presumere che gli estensori avessero in mente proprio quella, vista la mentalità allora diffusa nella Cristianità latina. Nondimeno, essendo così vaga appunto la proclamazione, e in un certo senso fortunatamente, è assolutamente da esso concesso, e anzi forse raccomandabile, seguire l'interpretazione tradizionale della patristica circa la questione del peccato originale (centrale ovviamente nella questione dell'Immacolata Concezione), evitando così tutte le spiacevoli conseguenze cui potrebbe portare la lettura agostiniana (il rischio di predestinazione è dietro l'angolo!).