sabato 31 marzo 2018

Sabbato Sancto in vigilia Paschali

Sabbato Sancto in Vigilia Paschali
Ἡ Πρώτη Ἀνάστασις
MMXVIII


Ἀνάστα, ὁ Θεός, κρίνον τὴν γήν, ὅτι σὺ κατακληρονομήσεις ἐν πᾶσι τοῖς ἔθνεσι

Sorgete, o Dio, giudicate la terra, poiché voi avrete eredità in tutte le nazioni.

(Inno della Divina Liturgia della Prima Risurrezione, secondo il rito bizantino)

Piero della Francesca, Risurrezione, 1450-1463

Véspere autem sábbati, quæ lucéscit in prima sábbati, venit María Magdaléne, et áltera María, vidére sepúlchrum, allelúja.

La sera del sabato, quando già albeggiava il primo giorno della settimana, vennero Maria Maddalena e l'altra Maria a vedere il sepolcro, alleluia.

(Antifona al Magnificat del Vespro, secondo il rito romano)

Il cero pasquale e la Santa Luce di Gerusalemme

Il cero pasquale

L’origine del cero pasquale è incerta. Alcuni la misero in rapporto con i lumi di gioia che si accendevano nella gran notte di Pasqua, in chiesa e fuori; simbolo vivo della illuminatio spirituale ricevuta dai neofiti mediante il Battesimo. Eusebio racconta, che l’imperatore Costantino ad diurnam usque lucem continuavit cereas candelas sublimissimas per totam civitatem accendentibus illis, qui ad id erat deputati. Erant autem lampades igneae totum locum ilustrantes, ita ut mysticas vigilias clara die splendidiores redderent. E’ curioso a questo proposito quanto racconta lo stesso Eusebio, di Narciso, vescovo di Gerusalemme (intorno al 200), il quale, avendo troppo tardi avvertito che, nella notte di Pasqua, i ministri non avevano preparato olio sufficiente per alimentare le numerose lampade della Chiesa, per cui i fedeli erano costernati, fattele riempire d’acqua, questa, prodigiosamente, si tramutò in olio.

Altri, invece, con maggior fondamento, derivano l’origine del Cero dal Lucernarium (λυχνικὸν), l’Ufficio vespertino con cui, fin dalla più remota antichità, si iniziava in quasi tutte le Chiese la vigilia della domenica e quella solennissima della Pasqua; e nella quale si offriva e si consacrava a Cristo, splendore del Padre e luce indefettibile, il lume (lucerna) destinato a diradare le tenebre della notte.

Egeria, ad esempio, descrivendo l’ufficio serale nell’Anastasi di Gerusalemme, ricorda il lume che si traeva dall’interno della cappella del S. Sepolcro da una lampada che vi ardeva di continuo, e con cui incenduntur omnes candelae et cerei et fit lumen infinitum. Si può ben presumere che quanto si faceva ogni sera, venisse tanto più ripetuto all’inizio della solenne veglia pasquale. E’ appunto quanto ci riferisce un Ordo di Gerusalemme del V sec.: Vespere sabbathi cereus in sancta Anastasi accenditur. Episcopus primo ps. 112 recitat; deinde tres cereos accendit; post eum diaconi et universus denique coetus fidelium. Post haec ecclesiam repetitur ad vigiliam paschalem incipiendam. Si rende con ciò sufficientemente spiegato come mai il diacono, il quale era incaricato del servizio di illuminazione della chiesa, venisse ad assumere l’alto compito di benedire il Cero alla presenza del vescovo e del presbiterio. A lui infatti spettava preparare il formulario relativo, secondo uno schema tradizionale ben conosciuto, o, qualora se ne sentisse incapace, procurarsi da persone competenti un testo degno di figurar bene in una sì solenne circostanza.

Questo ad ogni modo è certo, che la benedizione del Cero nella notte di Pasqua, di probabile provenienza orientale, rimonta assai addietro nella storia liturgica, non dopo certamente la seconda metà del IV secolo. Abbiamo una lettera di san Girolamo, scritta nel 384 a un certo Presidio, diacono di Piacenza, che gli aveva chiesto un carmen cerei, nella quale il santo dottore, pur dandogli con qualche ironia un rifiuto, lascia comprendere che tale usanza non era nuova, né propria della sola chiesa di Piacenza. S. Agostino ricorda di aver composto alcuni versi in laude quidam cerei, e s. Ambrogio, secondo le ricerche del Mercati, sembra essere autore di un Praeconium paschale in versi contenuto nell’Antifonario di Bangor e di quello ancora in uso presso il rito ambrosiano. Inoltre dal concilio IV di Toledo (633) si rileva che a quell’epoca erano scarse le chiese in Occidente le quali non avessero ancora introdotto il rito della benedizione della lucerna e del cereus in pervigiliis Paschae.

Fra queste era Roma. S. Gregorio M., in una lettera del 601 all’arcivescovo Mariniano di Ravenna, menziona la consacrazione del Cero pasquale come un rito particolare di quella città: a vigiliis quoque temperandum (Mariniano era infermo) et preces quae super cereum in Ravennate civitate dici solent, vel expositiones Evangelii, quae circa paschale solemnitate a sacerdotibus fiunt, per alium dicantur. Perciò nonostante che il Liber Pontificalis attribuisca a papa Zosimo (c. 417) d’aver concesso ai diaconi delle chiese suburbicarie (parreciae) licenza di benedire il Cero (e la notizia non è del tutto sicura), in realtà il rito non fu introdotto propriamente parlando, nell’uso locale di Roma prima del sec. VIII.

Il sacramentario gelasiano è il primo a darcene notizia con una formula di benedizione, inquadrata in un rituale semplicissimo. Verso l’ora ottava del sabato santo, l’arcidiacono, alla presenza di tutti i ministri sacri e del clero, si presenta all’altare con il Cero, e, fatta su questo una croce, lo accende con la fiamma d’una candela desunta da tre lampade accese il giovedì santo e tenute nascoste, giacché nella parasceve tutto doveva essere tenebra e squallore; in seguito lo benedice con solenne Preconio pasquale e il rito ha fine.

Senonché, dopo la riforma liturgica carolingia, che introdusse elementi gallicani e germanici con le conseguenti elaborazioni rituali del sec. X-XI, la cerimonia iniziale di questo giorni ne risultò confusa e restò tale ancora nelle rubriche sanzionate dal Messale di Pio V.

Un più logico assetto rituale era presentato da un Ordo dell’alta Italia, che rimonta alla fine del sec. X. Il diacono, innanzitutto, accende il Cero con una fiamma ricavata dal nuovo fuoco, poi lo segna con la croce, quindi lo addita ai fedeli, salutandolo tre volte Lumen Christi; da ultimo ne fa con il canto dell’ Exultet la solenne oblazione a Dio.

Da Mario Righetti, Storia liturgica, vol. II


Il miracolo della Santa Luce a Gerusalemme

Ogni Sabato Santo (Sabato della Santa e Grande Settimana) a mezzogiorno nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme si rinnova il grande miracolo della Luce Santa che si accende spontaneamente, interessando, gioendo e infondendo esultanza e fede in coloro che hanno l'onore e la benedizione d'essere presenti per la cerimonia nella quale essa appare.

La mattina del Sabato Santo, prima che avvenga la cerimonia della Luce Santa, ha luogo un controllo scrupoloso e completo della tomba terminato il quale essa viene sigillata con una mistura di miele e cera preparata lungo il mattino. Tale controllo avviene per escludere categoricamente la presenza di qualche oggetto nel Santo Sepolcro in grado di causare del fuoco. Dopo che la tomba viene sigillata, le autorità vi fanno aderire la cera con dei sigilli.

La cerimonia della Santa Luce avviene alle ore 12 ed è costituita da tre fasi:

a) Il canto della Litania d'Intercessione;
b) L'entrata del Patriarca di Gerusalemme nel Santo Sepolcro;
c) Le invocazioni del Patriarca affinché appaia la Luce Santa.

Seguendo la tradizione, a mezzogiorno del Sabato Santo, il Patriarca Greco-Ortodosso accompagnato dal suo seguito (archipresbiteri, presbiteri e diaconi) e dal Patriarca Armeno entra nel Santo Sepolcro mentre le campane suonano a lutto. Prima che il Patriarca entri nel Tempio, il custode della Sacrestia del Santo Tempio ne fa uscire la lampada che arde perennemente. In questo giorno la lampada che arde perennemente viene estromessa per accendere le candele solo con la Luce Santa. Provenendo dall'interno del Tempio dell'Apostolo Giacomo, il Patriarca entra nel santuario e siede sul suo trono patriarcale. Quindi i rappresentanti di Armeni, Arabi, Copti e altri, passando dinnanzi al Patriarca, lo salutano baciandogli la mano in modo d'aver diritto a ricevere la Luce Santa. Secondo le consuetudini, infatti, se essi non ossequiano il Patriarca Ortodosso, non hanno diritto a ricevere la Santa Luce dalle sue mani. Immediatamente dopo, inizia la Santa Litania d'intercessione che viene cantata per tre volte attorno al Santo Sepolcro e termina davanti ad esso. Da questo momento, gli officianti si levano in piedi.

Dopo la Litania, il Santo Sepolcro viene dissigillato, il Patriarca smette i suoi paramenti pontificali e rimane solo con la tunica bianca. Il Governatore di Gerusalemme e l'Ispettore di Polizia esaminano il Patriarca davanti a tutti in modo da assicurare i presenti che egli non abbia qualsiasi oggetto atto a trasmettere fuoco. Dopo questo controllo, Sua Beatitudine, il Patriarca di Gerusalemme prende delle torce spente ed entra nel Santo Ciborio con i dignitari Armeni. Ogni lampada è spenta e non vi è nulla di acceso nel Santo Tempio e nel Santo Sepolcro.

All'interno del Santo Sepolcro il Patriarca prega inginocchiato chiedendo a Nostro Signore Gesù Cristo di trasmettere la sua Luce Santa come dono che santifichi le persone. Al momento in cui egli prega c'è un assoluto silenzio fintanto che non si avverte un sibilìo accompagnato quasi simultaneamente da lampi blu e bianchi di Luce Santa che invadono tutto il luogo, come se milioni di flash fotografici lampeggiassero tutto attorno illuminando le pareti circostanti. Allora le lampade s'illuminano miracolosamente. Contemporaneamente, all'interno del Santo Sepolcro, le torce tenute dal Patriarca, che continua a pregare, s'accendono spontaneamente con la Santa Luce. La folla scoppia in forti acclamazioni mentre lacrime di gioia e di fede cadono dagli occhi dei presenti.
Per diversi minuti la Santa Luce non ha le caratteristiche del fuoco. Questo succede per il tempo in cui il Patriarca esce dal Santo Sepolcro e dona la Luce al popolo. Chiunque può toccare il fuoco delle 33 candele e non viene scottato. Dopo 33 minuti la fiamma torna ad avere caratteristiche normali.

Solo il Patriarca Greco-Ortodosso ha il privilegio, l'onore e la possibilità di fare questa cerimonia. Nel corso del tempo sono stati fatti dei tentativi da altri ma il miracolo non si è mai realizzato. Ad esempio nel 1549, secondo le cronache storiche, gli Armeni corruppero il sultano Mourat per ottenere il permesso di recarsi nella Chiesa del Santo Sepolcro per presenziare la cerimonia. Immediatamente il sultano glielo concesse. Gli Armeni, entrando nel Tempio, ne estromessero i Greci. Il Patriarca greco fu pieno di tristezza quando vide gli Armeni raccolti nella chiesa e pregò fuori all'entrata, accanto alle colonne della porta. Improvvisamente, la colonna centrale si squarciò con una profonda fenditura e da essa si emanò la luce propagandosi lungo la via e dando fuoco alle torce del Patriarca. Nel frattempo, l'Emiro di Agarino dal minareto dirigeva il suo sguardo verso la strada. Quando vide questi eventi gridò: "La fede dei Cristiani è grande! Il vero Dio è solo Uno, il Dio dei Cristiani! Credo a Cristo risuscitato dai morti. Mi inginocchio a Lui come mio Dio!". Dopo di ciò cadde dal minareto e ne rimase incolume. I musulmani lo catturarono e lo decapitarono. La sua reliquia è tenuta fino a quest'oggi nel Monastero della Grande Vergine di Gerusalemme.

La Luce Santa simboleggia in modo miracoloso la Risurrezione di Cristo. È un miracoloso dono del Cielo che si è sempre ripetuto da secoli, un dono della Luce del mondo che è Cristo. La scienza non può spiegare questo grande miracolo e, in questo tempo di trionfo scientifico, non è stata tentata neppure una spiegazione teorica. D'altronde come può essere spiegato un autentico miracolo?

Testimonianza di un pellegrino (da internet)

Breve documentario sul miracolo della Santa Luce

venerdì 30 marzo 2018

Sabbato Sancto

Sabbato Sancto
Ἁγίῳ καὶ μεγάλῳ Σαββάτῳ
MMXVIII

Mosaico gerosolimitano della Sepoltura di Cristo

Ἡ ζωὴ ἐν τάφῳ,
κατετέθης Χριστέ,
καὶ Ἀγγέλων στρατιαὶ ἐξεπλήττοντο
συγκατάβασιν δοξάζουσαι τὴν σήν.

Ἡ ζωὴ πῶς θνῄσκεις;
πῶς καὶ τάφῳ οἰκεῖς;
τοῦ θανάτου τὸ βασίλειον λύεις δέ,
καὶ τοῦ ᾅδου τοὺς νεκροὺς ἐξανιστᾶς.

O Cristo, voi che siete la Vita,
foste posto nel sepolcro,
e le schiere degli angeli si meravigliarono,
glorificando la vostra discesa agl'Inferi.

Come può morire la Vita?
Come può abitare in un sepolcro?
Voi già sciogliete il regno della morte
e fate risorgere i morti dall'Ade.

(Lamento dell'Epitafio, secondo il rito bizantino)

Sisto Baldocchi, Deposizione di Cristo nel sepolcro, 1610

De manu mortis liberabo eos;
de morte redimam eos.
O mors, ero mors tua,
morsus tuus ero, inférne.

Li libererò dalla mano della morte,
li ricondurrò dalla morte.
O morte, io sarò la tua morte;
sarò la tua distruzione, o inferno

(X Antifona dell'Ufficio delle Tenebre, secondo il rito romano)

Il lamento funebre sulla tomba di Cristo

La cerimonia forse più suggestiva di tutta la Settimana Santa secondo il rito bizantino è il Mattutino della Santa Sepoltura di Nostro Signore Gesù Cristo, propriamente l'orthros del Sabato Santo, che però viene anticipato al venerdì sera, secondo una tradizione consolidata e comune a Oriente e Occidente.

La sera di Giovedì Santo, al termine del lunghissimo ufficio del Mattutino delle Sante Sofferenze e della Passione di Nostro Signore, conosciuto anche come "Ufficio dei 12 Vangeli" (il più lungo di tutto il rito bizantino), i fedeli portano fiori e candele per decorare l'arca dell'Epitafio (Ἐπιτάφιος). Quest'ultimo trattasi di una icona, o lignea o dipinta su un panno riccamente ricamato, raffigurante il cosiddetto Compianto su Cristo morto, e spesso decorato con il tropario Ὁ εὐσχήμων Ἰωσήφ, ἀπὸ τοῦ ξύλου καθελὼν τὸ ἄχραντόν σου Σῶμα, σινδόνι καθαρᾷ, εἱλήσας καὶ ἀρώμασιν, ἐν μνήματι καινῷ κηδεύσας ἀπέθετο (Il pio Giuseppe, deposto il vostro intemerato Corpo dalla croce, lo avvolto in una sindone pura, e cosparsolo di aromi lo depose in un sepolcro nuovo). Quest'icona viene tenuta nel Santuario, sopra la Sacra Mensa.

Epitafios dipinto da Viktor Vasnetsov (1896)

Nella tarda mattinata del Venerdì Santo, cantato il Vespero della Deposizione (Ἐσπερινὸς τῆς Ἀποκαθηλώσεως), il Sacerdote prende l'Epitafio dall'altare, giunge a un arca preparata nell'aula della chiesa, la quale è stata appunto ornata con fiori e candele dai fedeli il giorno prima, vi gira tre volte attorno e infine depone l'Epitafio su di essa. Quindi, fatte tre prostrazioni grandi, lo cosparge di fiori e lo incensa, mentre il coro canta quattro stichirà dedicate a Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, i due pii uomini che si presero cura del corpo morto di Gesù e lo seppellirono.

Come prescrive il typikòn costantinopolitano attuale (in quelli più antichi si iniziava a mezzanotte, secondo l'uso monastico), all'ora prima della notte (cioè le 19 circa), inizia a officiarsi il Mattutino della Sepoltura.

Iniziato come di consueto il Mattutino con la benedizione, la litania, l'Esapsalmo (recita dei salmi 3, 37, 62, 87, 102 e 142), la colletta e il Θεὸς Κύριος, si cantano i tropari del giorno (a Giuseppe d'Arimatea, al Santo Sepolcro, alle donne mirofore), e dipoi il Canone del Grande Sabato, che si compone di tre odi composte da Marco, vescovo di Idra, e tre composte da Cosma monaco. In questo poema, cantandosi la sepoltura del Signore, si esalta l'opera redentrice di Gesù, il distruttore della morte e il restauratore della stirpe d'Adamo: discendendo agl'Inferi, Cristo ha già dato inizio alla risurrezione, e dopo il dolore di cui siamo stati colmati al vederlo morire sulla Croce, ora il Santo Sabato ci apre alla speranza e all'attesa silenziosa e fiduciosa della Risurrezione e della sconfitta della morte. Infatti, "l'Ade è ferito al cuore, accogliendo Colui che ha avuto il fianco ferito dalla lancia, e consumato dal fuoco divino geme, per la salvezza di noi che cantiamo: O Dio redentore, benedetto siete!".

L'epitafios posto sull'arca ornata

In questo momento, terminato il Canone, il sacerdote, rivestito di tutti i paramenti (generalmente neri, ma sussistono molti usi locali diversi), esce dal Santuario e inizia a cantare il Lamento Funebre, uno dei poemi più commoventi di tutta la liturgia. Mentre il coro lo prosegue, il celebrante incensa a forma di croce l'Epitafios, e poi tutta la chiesa e il popolo. Gli Ἐγκόμια (questo il nome greco del lamento) descrivono l'antinomia della Vita che muore, e proclamano i sentimenti dei fedeli, stupiti di fronte a questo evento terribile. Cionondimeno, anche in questo poema sono presenti numerosi accenni alla futura Risurrezione, avvertita come molto vicina. Il lamento è diviso in tre parti, al termine di ciascuna delle quali vi è una litania diaconale, e all'inizio di ognuna si ripete l'incensazione. Terminato questo lamentoso e meraviglioso canto, s'intonano gli Εὐλογητάρια resurrezionali, segno evidentissimo della vicinanza dell'evento atteso.

Seguono come di consueto le Lodi, i cui stichirà preannunziano la vittoria ("Oggi una tomba racchiude colui che tiene in sua mano il creato, una pietra ricopre Colui che copre i cieli colla sua virtù. Dorme la vita, trema l'inferno, e Adamo è sciolto dalle catene. Gloria alla tua economia! Per essa, dopo aver tutto compiuto, ci donaste il sabato eterno colla vostra santissima Risurrezione dai morti [...] A Lui gridiamo: Risorgete o Dio, giudicate la terra [...] Giacete e dormite come un leone, chi vi risveglierà o Re? Risorgete dunque per vostro potere, Voi che per noi vi siete consegnato alla morte. Signore, gloria a Voi"). Le Lodi terminano, more solito, con la Grande Dossologia (Gloria in excelsis), che viene cantata con i versicoli festivi, che terminano dunque con il Trisagio.

Mentre il coro appunto canta il Trisagio al termine della Dossologia, il clero prende sulle spalle l'arca dell'Epitafios, e tutti escono dalla chiesa, procedendo in processione al lento canto del Trisagio. In questo momento, si canta un altro poema meraviglioso, il Τὸν ἥλιον κρύψαντα, che racconta con un lirismo straordinario la supplica di Giuseppe a Pilato per ricevere il corpo del Salvatore.

Indi la processione ritorna in chiesa, di nuovo s'incensa l'Epitafios, si cantano nuovamente i tropari del giorno, e poi si leggono, precedute dai consueti prokimena, due letture, da Ezechiele (37,1-14), in cui il Signore profetizza la risurrezione dei corpi, e dalla lettera ai Galati (5,6-8), in cui San Paolo fa il noto paragone del lievito per invitare le comunità galate a festeggiare la Pasqua della nuova Legge, il riscatto dell'antica maledizione. Cantato l'Alleluia, il diacono proclama poi il Vangelo, breve brano tratto da San Matteo (27,62-66), in cui gli ebrei chiedono a Pilato di mettere una guardia dinnanzi al sepolcro di Cristo, per evitare che i discepoli ne portino via il corpo per simularne la risurrezione. Terminata la lettura evangelica, viene cantata una litania, indi il sacerdote congeda il popolo.

I fedeli tornano a casa con il pianto per la morte del Redentore, e al contempo la speranza della sua Risurrezione; il mattino del Sabato, sarà proclamata con gioia la sua discesa agl'Inferi, nella gaudiosa Divina Liturgia della Prima Risurrezione, che prepara direttamente all'incommensurabile gioia della gloriosa Risurrezione che si celebrerà nella notte tra sabato e domenica, della Santa Pasqua di Cristo.
Mettiamo a disposizione il testo greco dell'intero ufficio con traduzione italiana QUI.

Qui sotto invece riportiamo alcuni video: la celebrazione dell'intero ufficio, il canto del Lamento funebre e il canto del Τὸν ἥλιον κρύψαντα secondo un ricco e suggestivo tono medievale.
(nei video delle celebrazioni si noti l'uso dei paramenti aurei, costume tipico della chiesa di Grecia, in segno della gioia per la prossima risurrezione)



Mattutino del Santo Sabato presieduto dal vescovo Christodoulos nella Cattedrale di Atene


Enkomia (I stasi) celebrati nella chiesa greco-cattolica di S. Atanasio a Roma


Enkomia (tutte e tre le stasi)

Τὸν ἥλιον κρύψαντα (tono medievali; video diviso in due parti)

Feria VI in Parasceve

Feria VI in Parasceve
Ἁγία καὶ Mεγάλη Παρασκευὴ
MMXVIII


Σήμερον κρεμᾶται ἐπὶ ξύλου ὁ ἐν ὕδασι τὴν γῆν κρεμάσας. Στέφανον ἐξ ἀκανθῶν περιτίθεται ὁ τῶν ἀγγέλων Βασιλεύς. Ψευδῆ πορφύραν περιβάλλεται ὁ περιβάλλων τὸν οὐρανὸν ἐν Νεφέλαις. Ῥάπισμα κατεδέξατο ὁ ἐν Ἰορδάνῃ ἐλευθερώσας τὸν Ἀδάμ. Ἥλοις προσηλώθη ὁ Νυμφίος τῆς Ἐκκλησίας. Λόγχῃ ἐκεντήθη ὁ Υἱὸς τῆς Παρθένου. Προσκυνοῦμεν σου τὰ πάθη, Χριστέ. Δεῖξον ἡμῖν καὶ τὴν ἔνδοξόν σου ἀνάστασιν

Oggi è sospeso a un legno, Colui che ha sospeso la terra sopra le acque. E' coronato di spine, Colui che regna sugli angeli. E' rivestito di porpora mendace, Colui che riveste il cielo di nubi. Riceve percosse, Colui che nel Giordano ha liberato Adamo. E' inchiodato con chiodi lo Sposo della Chiesa. E' trafitto da una lancia il Figlio della Vergine. Adoriamo i vostri patimenti, o Cristo. Mostrateci pure la vostra gloriosa risurrezione.

(Antifona dell'Ora Nona del Grande e Santo Venerdì, secondo il rito bizantino)

Simone Martini, Crocifissione, 1333

Pópule meus, quid feci tibi? aut in quo contristávi te? respónde mihi. Quia edúxi te de terra Ægýpti: parásti Crucem Salvatóri tuo.
Agios o Theós. Agios ischyrós. Agios athánatos, eléison imas!
Quia edúxi te per desértum quadragínta annis, et manna cibávi te, et introdúxi te in terram satis bonam: parásti Crucem Salvatóri tuo.
Agios o Theós. Agios ischyrós. Agios athánatos, eléison imas!
Quid ultra débui fácere tibi, et non feci? Ego quidem plantávi te víneam meam speciosíssimam: et tu facta es mihi nimis amára: acéto namque sitim meam potásti: et láncea perforásti latus Salvatóri tuo.
Agios o Theós. Agios ischyrós. Agios athánatos, eléison imas!

Popolo mio, che male ti ho fatto? In cosa ti ho rattristato? Rispondimi. Io ti ho condotto fuori dal paese d'Egitto: e tu hai preparato una Croce per il tuo Salvatore.
Santo Iddio, Santo forte, Santo immortale, abbiate misericordia di noi!
Io ti ho guidato nel deserto per quarant'anni, e ti ho saziato con la manna, e ti ho condotto in un'ottima terra: e tu hai preparato una Croce per il tuo salvatore.
Santo Iddio, Santo forte, Santo immortale, abbiate misericordia di noi!
Cos'altro dovevo fare per te, e non ho fatto? Io ti ho piantato quale mia splendida vigna: e tu invece sei diventata amara nei miei confronti, e hai placato con l'aceto la mia sete, e con la lancia hai trafitto il fianco del tuo Salvatore.
Santo Iddio, Santo forte, Santo immortale, abbiate misericordia di noi!

(Stichi dell'Adorazione della Santa Croce, secondo il rito romano)

giovedì 29 marzo 2018

La liturgia "vespertina" del Giovedì Santo: storia e significato

Il Grande e Santo Giovedì tutta la Chiesa commemora l'Ultima Cena di Nostro Signore Gesù Cristo, durante la quali Egli donò se stesso, per anticipazione (dovendo ancora patire il sacrificio), ai suoi discepoli, il Corpo sotto specie di pane e il Sangue sotto specie di vino, istituendo così per la nostra salute il gran Sacramento dell'Eucaristia.

Volgendo il dramma divino al suo compimento, il Signore, dirigendosi volontariamente verso la Passione per la nostra salvezza, pronto a subire il tradimento di Giuda, l'arresto, l'umiliazione, la condanna e la morte in Croce, in segno d'amore vero e sincero, come servo lava i piedi ai suoi discepoli, dando un esempio mirabile di carità e umiltà alla sua Chiesa. Difatti, Egli, Dio, aveva annientato sé stesso assumendo forma di servo nella sua incarnazione, per restituire all'uomo quella sua partecipazione della divinità perduta in Adamo: e la restituisce mediante la Passione e l'Eucaristia. La celebrazione dunque dei misteri del Giovedì Santo (la lavanda, la Cena, il tradimento) è in fondo il primo ufficio della Passione: la lavanda è una purificazione indispensabile per l'Eucaristia, la nuova Pasqua, e nell'Eucaristia è già sotteso e anticipato il Sacrificio redentore. Così, anche i fedeli che purificati nel cuore ricevono l'Eucaristia, beneficiando dei meriti di quell'incommensurabile sacrificio, partecipando, quali membri del Corpo mistico di Cristo, anche alla comunione del suo Corpo fisico, troveranno il compimento della salute che nella Passione Nostro Signore ci ha procurata.

Tale mistero trova dunque la sua speciale esaltazione liturgica in questo giorno, che apre il Sacro Triduo di Passione, Morte e Risurrezione di Cristo. Poiché, poi, l'Ultima Cena fu un pasto serale, tale liturgia ha sempre avuto un carattere "vespertino". Ma cosa significa questa parola, se consideriamo che la possibilità di celebrare la Messa nel pomeriggio fu concessa solo da Pio XII nel 1953 (peraltro operando una forzatura del significato simbolico della Messa, e alterando pure le norme del digiuno eucaristico), e la prescrizione di celebrare la liturgia del Giovedì Santo in serata compare solo nella Settimana Santa riformata da Bugnini nel 1955, e non nel rito romano tradizionale?

Anzitutto, occorre analizzare storicamente il rito. A Roma, questo veniva celebrato nella Basilica del Laterano, ove i Sommi Pontefici presero residenza a partire dal V secolo. E' provato che nell'VIII secolo, in questo giorno, si celebrassero tre liturgie: due al mattino, una celebrata dal Pontefice per la benedizione degli olii santi (che nel Medioevo divenne una semplice benedizione priva di Eucaristia) e una per la riconciliazione dei pubblici penitenti (presto sparita, insieme alla pubblica penitenza); alla sera, infine, si celebrava l'Eucaristia per commemorare la Cena di Nostro Signore. E per accorciare i riti di una giornata liturgicamente molto intensa, e per avvicinare il più possibile la celebrazione al suo modello (l'Ultima Cena), i succitati sacramentari dell'VIII secolo ci attestano che quest'ultima Messa iniziava direttamente dalla Prefazio, omessi tutti i riti introduttivi e la parte dei catecumeni. Terminata questa liturgia, veniva riposto il Santissimo Sacramento per la liturgia dei Presantificati del giorno successivo. Indi, il Papa si recava in processione alla Basilica di S. Lorenzo, ove, facendo memoria del comandamento dell'amore, lavava i piedi a dodici suddiaconi, mentre i cardinali cantavano il Vespero.
Nel Medioevo, con la scomparsa delle due liturgie mattutine, l'anomalia di un'Eucaristia serale venne presto sanata, spostando la commemorazione della Cena del Signore al mattino, e dotandola di una struttura completa. L'introito fu tolto dal martedì precedente, così come il Vangelo, quello della Lavanda (nel tardo medioevo, poi, al martedì passò la lettura della Passione di S. Marco); la colletta è la stessa del Venerdì Santo; la lettura dell'Apostolo è un pezzo della lunga pericope della lettera ai Corinti già letta durante l'ufficio vigiliare delle Tenebre. La liturgia è celebrata in paramenti bianchi, in onore di festa, ma non mancano gli accenni penitenziali (come già detto, Eucaristia e Passione sono inscindibili), per esempio l'omissione del salmo Introibo come in tutte le messe del tempo di Passione.
Dopo questa parte collazionata, segue il Canone, oggi con alcune particolari e speciali memorie della Mistica Cena, che già i papi Vigilio e Innocenzo I attestano in uso a Roma, in alcune lettere. Infine, si distribuisce l'Eucaristia, che un tempo era obbligatoria in questo giorno (così aveva prescritto Papa Sotero, decimo pontefice romano, ma la prescrizione cadde dopo non molto; cionondimeno, i messali del Concilio di Trento solo in questo giorno contenevano le istruzioni per la comunione al popolo, normalmente non considerata parte del rito della Messa); non tutta l'Eucaristia viene però consumata, ma una minima parte viene custodita per i riti dei Presantificati del giorno successivo. Essa verrà custodita in un sacello denominato "Sepolcro", cui è portata in solenne processione, continuamente incensata e onorata con l'inno Pange lingua. A questo punto, subito in coro si cantano i Vespri, che fanno parte della medesima liturgia (nulla di strano che si cantino al mattino, poiché per questioni relative al digiuno in tutti i monasteri, conventi e capitoli, da diversi secoli, i Vespri si cantano prima del mezzogiorno durante la Quaresima), al termine dei quali il Sacerdote e gli accoliti provvedono alla spoliazione degli altari, mentre si canta il salmo XXI, contenente il noto e appropriato versetto Diviserunt sibi vestimenta mea, et super vestem meam miserunt sortem.
Il carattere "vespertino" di questa liturgia è dunque non tanto reale, ma simbolico, poiché viene celebrata insieme ai Vespri. Durante tutto il Triduo, l'Ufficio Divino (ad eccezione dell'ufficio vigiliare "delle Tenebre", ossia il Mattutino e le Lodi) è officiato sine cantu, la qual cosa non significa che non venga cantato, ma che non si usano le melodie dell'ochtoechos per i salmi, ma tutto è intonato recto tono.
Nel tardo pomeriggio di questo Santo Giovedì, poi, si sarebbe tenuto il rito del Mandatum, ovverosia la lavanda dei piedi. Scesa la notte, sarebbero iniziati i riti del Venerdì Santo con l'ufficio vigiliare "delle Tenebre".

Una cosa molto simile avviene nel rito greco: il Sacerdote, al mattino del Giovedì Santo, rivestito dei paramenti viola, inizia il Vespero con le preghiere serali, le letture quaresimali, l'Apostolo e il Vangelo (come nelle grandi feste). Terminato il Vangelo (che in realtà è una collazione di tutti e quattro i Vangeli canonici, e quanto a contenuto è paragonabile al Passio che si legge la domenica delle Palme nel rito romano), il Sacerdote prosegue celebrando la Divina Liturgia con l'anafora di San Basilio, iniziando dal grande introito (durante il quale, però, non si canta come al solito l'inno cherubico, ma eccezionalmente il tropario Τοῦ Δείπνου σου τοῦ μυστικοῦ). Anche nel rito bizantino viene consacrata e custodita dell'Eucaristia in avanzo rispetto a quella distribuita durante la Comunione, non tanto per i Presantificati (che non sono previsti dal rito greco al Venerdì Santo), ma per le necessità di tutto l'anno (Comunione agl'infermi, ad esempio). Anche qui, secondo un uso assai consolidato nella pratica greca, i Vespri e la Liturgia si celebrano insieme al mattino, mentre in serata (il typikòn costantinopolitano dice "all'ora prima della notte", cioè circa le 19) viene cantato il Mattutino delle Sante Sofferenze del Signore, conosciuto anche come "Ufficio dei 12 Vangeli", il primo rito del Santo Venerdì.

Una cosa pressoché identica al rito greco avviene in quello ambrosiano, dove si celebrano i Vespri al mattino, iniziando con il lucernarium come sempre, e poi, dopo le letture vigiliari, si prosegue con la celebrazione della Messa iniziando dal Vangelo, in cui si legge la Passione secondo S. Matteo e, al termine, la reposizione del Sacramento in un sacello. Dal rito romano è mutuato il rito della lavanda dei piedi (che nell'uso bizantino, invece, è una consuetudine episcopale, non celebrata pubblicamente), che viene effettuato nel pomeriggio, in paramenti viola (mentre sono rossi alla Messa).

Duole constatare che in una prospettiva difficilmente definibile e logicamente ingiustificabile, coloro che hanno tentato di scardinare il rito romano nel 1955 hanno preteso di ripristinare la "veritas horarum" delle liturgie della Settimana Santa, con gravissime conseguenze sulla pietà popolare (per esempio, sul tempo di adorazione del Sacramento riposto nel sacello) e sull'ordine dei riti, gravemente turbato. Spostando alla sera la liturgia della Cena del Signore, per esempio, è venuto meno il tempo per il rito del Mandatum, e dunque questo è stato inserito alla bell'e meglio in mezzo alla Messa, creando uno scompenso liturgico inaudito e antitradizionale. Dipoi - cosa più assurda - si è tanto insistito per avere una liturgia pienamente vespertina, sovvertendo qualsiasi ordine simbolico (Cristo è il sole di giustizia che sorge: che senso ha celebrare l'Eucaristia mentre il sole tramonta?), e poi si è abolito (sia dai riti della liturgia della Cena del Signore, che in toto dall'ufficio del Giovedì Santo) il canto del Vespero, ossia l'elemento che precipuamente conferiva carattere serotino alla celebrazione, facendola calzare sia simbolicamente che storicamente coll'evento commemorato. Incoerenze purtroppo non isolate nel pessimo tentativo di riforma (o meglio, perfettamente riuscito tentativo di distruzione) dei riti centrali della vita di un cristiano, dei riti del cuore di tutto l'anno liturgico, dei riti dell'istituzione della nostra salvezza...

Feria V in Coena Domini

Feria V in Coena Domini
Ἁγία καὶ Mεγάλη Πέμπτη
MMXVIII


Τοῦ Δείπνου σου τοῦ μυστικοῦ σήμερον, Υἱὲ Θεοῦ, κοινωνόν με παράλαβε· οὐ μὴ γὰρ τοῖς ἐχθροῖς σου τὸ μυστήριον εἴπω·  οὐ φίλημά σοι δώσω, καθάπερ ὁ Ἰούδας·  ἀλλ᾿ ὡς ὁ Λῃστὴς ὁμολογῶ σοι·  Μνήσθητί μου, Κύριε, ἐν τῇ βασιλείᾳ σου.

Della vostra mistica cena, o Figlio di Dio, accoglietemi oggi partecipe: non rivelerò infatti il mistero ai vostri nemici, né vi darò un bacio come Giuda; ma come il Ladrone vi prego: "Ricordatevi di me, o Signore, nel vostro regno".

(Tropario del Grande e Santo Giovedì, secondo il rito bizantino)

Juan de Juanes, Ultima Cena, 1562

In suprémæ nocte cœnae
Recúmbens cum frátribus,
Observáta lege plene
Cibis in legálibus,
Cibum turbæ duodénæ
Se dat suis mánibus. 

Verbum caro, panem verum
Verbo carnem éfficit;
Fitque sanguis Christi merum:
Et si sensus déficit,
Ad firmándum cor sincérum
Sola fides súfficit.

Nella notte dell'ultima cena,
trovandosi insieme ai fratelli,
osservata scrupolosamente la legge,
con i cibi prescritti,
quale cibo alla turba dei dodici
Egli si dà con le sue stesse mani.

Il Verbo fatto carne, con una parola
rende pane vero la sua carne;
e diventa vino il sangue di Cristo:
e, se i sensi non lo comprendono,
a persuadere un cuore sincero
basta la sola fede.

(Inno della Processione del Sacramento al Sepolcro, secondo il rito romano)

mercoledì 28 marzo 2018

Feria IV Majoris Hebdomadæ

Feria IV Majoris Hebdomadæ
Ἁγία καὶ Mεγάλη Τετάρτη
MMXVIII


Ὑπὲρ τὴν Πόρνην Ἀγαθὲ ἀνομήσας, δακρύων ὄμβρους οὐδαμῶς σοι προσῆξα, ἀλλὰ σιγῇ δεόμενος προσπίπτω σοι, πόθῳ ἀσπαζόμενος, τοὺς ἀχράντους σου πόδας, ὅπως μοι τὴν ἄφεσιν, ὡς Δεσπότης παράσχῃς, τῶν ὀφλημάτων κράζοντι Σωτήρ. Ἐκ τοῦ βορβόρου τῶν ἔργων μου ῥῦσαί με.

Più della meretrice, o Buono, io ho peccato, né affatto v'offersi piogge di lacrime; ma pregandovi in silenzio mi prostro a voi, abbracciando con amore i vostri piedi immacolati, acciocché concediate, come Sovrano, la remissione dei peccati a me, che vi invoco, o Salvatore. Salvatemi dal fango delle mie opere.

(Kontakion del Canone del Mattutino, secondo il rito bizantino)

Andrea Mantegna, Orazione nell'orto, 1455

Simon, dormis? Non potuísti una hora vigiláre mecum? Vigilate et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro vero infírma.

Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare meco una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito certo è pronto, ma la carne è debole.

(Antifona al Cantico di Zaccaria delle Laudi, secondo il rito romano)

martedì 27 marzo 2018

7000 russi veneziani: "Vogliamo un posto dove pregare"

Pubblichiamo questo servizio apparso ieri sul tg di Antenna3 riguardo la difficile situazione della comunità russo-ortodossa di Venezia.


Ovviamente, se al loro posto ci fossero dei musulmani o dei protestanti, vogliamo scommettere che fioccherebbero i posti disponibili da parte del Comune o della Curia?

La cronologia della Pasqua

Pubblichiamo di seguito e in esclusiva un breve scritto del biblista fr. Brendan Gerard, FSSP, riguardo una discordanza assai evidente tra la cronologia della Passione di Nostro Signore nei sinottici e in San Giovanni, e specialmente sulla datazione della pasqua ebraica. Se San Giovanni ci riferisce che Cristo è stato crocifisso "la vigilia di Pasqua", perché allora Egli mangiò la pasqua coi discepoli il giovedì, quando non sarebbero stati ancora sacrificati gli agnelli, poiché solo i sacerdoti del Tempio, secondo la riforma salomonica del rito di Mosè, potevano sacrificarli? La questione, che ha generato una serie di ipotesi più o meno verisimili e di affascinanti supposizioni, può essere rigorosamente analizzata come segue.
Traduzione a cura di Traditio Marciana.

Jan van Eyck, Polittico dell'Agnello mistico (dettaglio), 1426-32

LA CRONOLOGIA DELLA PASQUA
di fr. Brendan Gerard, FSSP

1) La soluzione sinottica

Se l'immagine offerta dai Vangeli sinottici dell'ultima cena come un pasto pasquale ebraico è storicamente vera, la Pasqua nell'anno della Crocifissione iniziò il giovedì sera e terminò il sabato sera. In questo caso, Giovanni avrebbe alterato la cronologia, in modo da far morire Gesù la vigilia di Pasqua, quando venivano sacrificati gli agnelli, imperocché Egli è "l'Agnello di Dio".

Alcuni studiosi appoggiano questa tesi, basandosi sul fatto che trattasi della spiegazione più semplice e lineare sia degli eventi sinottici che di quelli giovannei.

2) La soluzione giovannea

Ma se la cronologia di Giovanni (letta obvio sensu) è storicamente vera, la Pasqua nell'anno della Crocifissione coincise con il sabato. Gli agnelli dunque sarebbero stati sacrificati il venerdì pomeriggio, all'ora della Crocifissione. In questo caso, l'immagine dell'ultima cena come pasto pasquale ebraico offerta dai sinottici è antistorica, ancorché l'ultima cena potrebbe esser stata celebrata con alcune caratteristiche tipiche del pasto pasquale (ma certamente senza l'agnello).

La soluzione è accettata da molti esegeti e storici. E' ampiamente provato che nell'anno 30, in cui probabilmente avvenne la Crocifissione, la Pasqua coincise con il sabato. La stessa cosa si suppone sia avvenuta nel 33, che viene comunemente indicato come anno alternativo rispetto al 30. Comunque, qualcuno mette in dubbio la nostra capacità di sapere ciò con sicurezza, dal momento che il calcolo del calendario avveniva ad occhio nudo (dunque con svariate possibilità di errore, ndr).

Vi è anche una tradizione rabbinica, la quale tramanda che "nella vigilia di Pasqua, Jeshua fu catturato". Se questa si riferisce a Nostro Signore (come probabilmente fa, nonostante alcuni sostengano il contrario), sarebbe un forte e indipendente sostegno alla tesi della cronologia giovannea. Comunque, non è impossibile che la polemica giudaica si basasse sulle affermazioni di Cristiani che facevano riferimento alla tradizione giovannea. Infatti, le chiese che seguivano il sistema pasquale quartodecimano si basavano sì su una tradizione orale, ma questa tradizione ancora una volta fu assai probabilmente tratta da Giovanni.

3) Soluzioni minori

(a) La cronologia giovannea della Pasqua è corretta, ma i Galilei avevano il permesso di celebrare la festa un giorno prima (M. J. Lagrange). Questa è una pura congettura.

(b) Gesù seguiva un calendario differente, come facevano i membri della setta di Qumran. Questo è però implausibile, dacché i Vangeli (e specialmente Giovanni) mostrano che Gesù celebrava le feste insieme alla maggioranza dei Giudei.

(c) L'ultima cena non si tenne affatto di giovedì, ma un giorno precedente della settimana (A. Jaubert). Questa è l'interpretazione di alcune sentenze patristiche, ma è generalmente considerata implausibile.

(d) Giovanni e i sinottici sono ambedue storici, poiché i sinottici non descrivono un pasto pasquale. Poco convincente.

(e) Giovanni e i sinottici sono ambedue storici, poiché l'ultima cena di Giovanni è anch'essa un pasto pasquale: la παρασκευὴ τοῦ πάσχα di Giovanni non significa "giorno di preparazione alla Pasqua", ma semplicemente "venerdì della settimana di Pasqua", mentre la "Pasqua" che secondo Giovanni i Giudei dovevano ancora mangiare era un pasto sacrificale consumato durante la settimana (B. Pitre). Questo esula però dal sensus obvius dei dati forniti da Giovanni. Se la tesi di Pitre fosse in qualche modo esatta, si dovrebbe dire che Giovanni è volutamente ambiguo, in modo da far credere al lettore che la Crocifissione sia avvenuta la vigilia di Pasqua, sicché questi possa immaginare Gesù che viene ucciso nello stesso momento del sacrificio dell'agnello.

Feria III Majoris Hebdomadae

Feria III Majoris Hebdomadæ
Ἁγία καὶ μεγάλη Τρίτη
MMXVIII


Τῇ ἁγίᾳ καὶ Μεγάλῃ Τρίτῃ τῆς τῶν δέκα παρθένων παραβολῆς, τῆς ὲκ τοῦ ἱεροῦ Εὐαγγελίου, μνείαν ποιούμεθα.
Ἰδού ὁ Νυμφίος ἔρχεται ἐν τῷ μέσῳ τῆς νυκτός καί μακάριος ὁ δοῦλος, ὅν εὑρήσει γρηγοροῦντα,  ἀνάξιος δέ πάλιν, ὅν εὑρήσει ῥαθυμοῦντα. Βλέπε οὖν ψυχή μου, μή τῷ ὕπνῳ κατενεχθῇς,  ἵνα μή τῷ θανάτῳ παραδοθῇς, καί τῆς Βασιλείας ἔξω κλεισθῇς,  ἀλλά ἀνάνηψον κράζουσα, Ἅγιος, ἅγιος, ἅγιος εἶ ὁ Θεός ἡμῶν, διὰ τῆς Θεοτόκου, ἐλέησον ἡμᾶς.

Il Grande e Santo Martedì facciamo memoria della parabola delle dieci vergini, contenuta nel sacro Vangelo.
Ecco, lo Sposo viene nel cuore della notte, e beato è il servo ch'Egli troverà vigilante, e invero indegno quegli che troverà indolente. Bada dunque, anima mia, di non abbandonarti al sonno, in modo di non esser consegnata alla morte ed esser chiusa fuori dal Regno, ma piuttosto sorgi, e proclama: "Santo, santo, santo siete o Dio nostro; per mezzo della Madre di Dio, abbiate misericordia di noi".

(Tropario dell'Ufficio dello Sposo, secondo il rito bizantino)

Antonio Vassillacchi, Flagellazione di Cristo, XVI secolo

Deus Israël, propter te sustínui impropérium, opéruit reveréntia fáciem meam, extraneus factus sum frátribus meis, et hospes fíliis matris meæ: Quóniam zelus domus tuæ comédit me. Inténde ánimæ meæ, et líbera eam, propter inimícos meos éripe me. Quóniam zelus domus tuæ comédit me.


O Dio d'Israele, per voi ho sopportato l'ingiuria, e la vergogna ha ricoperto la mia faccia; son fatto estraneo per i miei fratelli, e straniero per i figli di mia madre: poiché lo zelo per la vostra casa mi divora. Venite in soccorso dell'anima mia, e liberatela, salvatemi a motivo dei miei nemici. Poiché lo zelo per la vostra casa mi divora.



(III Responsorio del Mattutino, secondo il rito romano)

lunedì 26 marzo 2018

Feria II Majoris Hebdomadae MMXVIII

Feria II Majoris Hebdomadæ
Ἁγία καὶ μεγάλη Δεύτερα
MMXVIII

Theodoros Poulakis, Giacobbe lamenta la morte del figlio Giuseppe, XVII secolo

Τῇ ἁγίᾳ καὶ μεγάλῃ Δεύτερᾳ μνήμην ποιούμεθα τοῦ μακαρίου Ἰωσὴφ τοῦ παγκάλου.
Ἐπὶ τῷ ὀδυρμῷ νῦν προσθήσωμεν ὀδυρμόν, καὶ ἐκχέωμεν δάκρυα, μετὰ τοῦ Ἰακὼβ συγκοπτόμενοι, Ἰωσὴφ τὸν ἀοίδιμον καὶ σώφρονα, τὸν δουλωθέντα μὲν τῷ σώματι, τὴν ψυχὴν δὲ ἀδούλωτον συντηροῦντα, καὶ Αἰγύπτου παντὸς κυριεύσαντα. Ὁ Θεὸς γὰρ παρέχει τοῖς δούλοις αὐτοῦ, στέφος ἄφθαρτον.

Il Grande e Santo Lunedì facciamo memoria del beato e ottimo Giuseppe.
A lamento or soggiungiamo lamento, e versiamo lacrime, battendoci il petto insieme a Giacobbe, per il celebrato e casto Giuseppe, il quale è stato fatto schiavo nel corpo, ma ha preservato l'anima dalla schiavitù, ed è divenuto signore di tutto l'Egitto. Dio infatti dona ai suoi servi un'incorruttibile corona.

(Ikos del Canone del Mattutino del Grande Lunedì secondo il rito bizantino)

Jacopo Pontormo, Giuseppe venduto a Putifarre, 1515

Appendérunt mercedem meam trigínta argenteis: quibus appretiátus sum ab eis.

Fissarono la mia mercede a trenta denari d'argento: a tal cifra io son stato prezzolato da loro.

(III Antifona dell'Ufficio delle Laudi secondo il rito romano)

domenica 25 marzo 2018

Dominica in Palmis MMXVIII

Dominica in palmis
Κυριακὴ τῶν βαΐων
MMXVIII

Giotto, Ingresso in Gerusalemme, 1303-05

Ἐπειδὴ ᾍδην ἔδησας ἀθάνατε, καὶ θάνατον ἐνέκρωσας, καὶ Κόσμον ἀνέστησας, βαΐοις τὰ νήπια ἀνευφήμουν σε Χριστέ, ὡς νικητὴν κραυγάζοντά σοι σήμερον, Ὡσαννὰ τῷ Υἱῷ Δαυΐδ, οὐκέτι γὰρ φησι, σφαγήσονται βρέφη διὰ τὸ βρέφος Μαριάμ, ἀλλ’ ὑπὲρ πάντων νηπίων καὶ πρεσβυτῶν, μόνος σταυροῦσαι, οὐκέτι καθ’ ἡμῶν χωρήσει τὸ ξίφος, ἡ σὴ γὰρ πλευρὰ νυγήσεται λόγχῃ, ὅθεν ἀγαλλόμενοι φαμέν, Εὐλογημένος εἶ ὁ ἐρχόμενος, τὸν Ἀδὰμ ἀνακαλέσασθαι.

Poiché avete legato l'Ade, o immortale, distrutta la morte e risollevato il cosmo, con palme vi inneggiano i fanciulli, o Cristo, come vincitore, gridandovi oggi: "Osanna al Figlio di Davide! Non più infatti - dicono - saran sgozzati i bimbi, grazie al bimbo di Maria: per tutti, giovani e vecchi, voi solo sarete crocifisso; non più contro di noi si leverà la spada, poiché il vostro fianco sarà trafitto dalla lancia; onde esultanti proclamiamo: Benedetto siete, voi che venite a richiamare Adamo dal suo esilio!"

(Ikos del Canone della Domenica delle Palme secondo il rito bizantino)

Icona russa del XV secolo dell'Ingresso in Gerusalemme

Ante sex dies sollémnis Paschæ, quando venit Dóminus in civitátem Jerúsalem, occurrérunt ei pueri: et in mánibus portábant ramos palmárum, et clamábant voce magna, dicéntes: Hosánna in excélsis: benedíctus, qui venísti in multitúdine misericórdiæ tuae: Hosánna in excélsis.  Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: Hosánna in excélsis. Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis.

Sei giorni prima della solenne Pasqua, quando venne il Signore nella città di Gerusalemme, gli si fecero incontro i fanciulli: e nelle mani portavano dei rami di palma, e gridavano a gran voce dicendo: "Osanna negli eccelsi! Benedetto siete voi che veniste nella vostra grande misericordia: Osanna negli eccelsi!" I fedeli sian trovati insieme agli Angeli e ai fanciulli, a inneggiare a colui che ha trionfato sulla morte: "Osanna negli eccelsi!" Una gran turba, che s'era adunata per il dì di festa, gridava al Signore: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore: Osanna negli eccelsi!"

(Antifone processionali della Domenica delle Palme secondo il rito romano)

Duccio di Buoninsegna, Ingresso in Gerusalmme
(retro della Maestà del duomo di Siena), 1308-11