mercoledì 29 dicembre 2021

Il Patriarcato Ecumenico: Storia di un titolo

Presentiamo un articolo del giornalista Pavel Kuzenkov, apparso sul sito del Dipartimento per le Relazioni Esterne del Patriarcato di Mosca. Il testo è di alcuni anni fa, ma ancora attualissimo, e la stesura e i dati presentati risultano particolarmente interessanti.

Il Patriarca di Costantinopoli Geremia II (Tranos), regnante tra il 1572 e il 1595.
Si tratta di una figura molto controversa, salita tre volte sul trono patriarcale dopo esser stata costretta a discenderne; diplomatico, grande benefattore della "Nazion Greca", ma considerato vicino all'Occidente e unionista nelle sue posizioni religiose, intessendo egli relazioni sia col Papato (intendeva adottare il calendario gregoriano), sia con i protestanti di Tubinga (benché abbia poi condannò le loro tesi, scrivendo una lettera di riassunto della dommatica ortodossa nei punti di distacco dall'eresia luterana). Nell'articolo è presentato come uno degli artefici dell'idea del patriarcato ecumenico come "capo dell'ortodossia mondiale". (disegno di D. Kamporoglou) [N.G.]

Conosciamo molto bene il titolo completo del Primate della prima Chiesa ortodossa autocefala secondo il dittico: “Arcivescovo di Costantinopoli – Nuova Roma e Patriarca Ecumenico”. Sembra che tutti capiscano che la parola “Ecumenico” qui non è che un fiorito titolo bizantino, un omaggio alla tradizione antica. Perché la dottrina ortodossa non ammette nessuna – oltre a quella di Cristo stesso – “giurisdizione universale”: come gli apostoli, nell’unanimità fraterna, ma indipendentemente e a se stanti, fecero la loro missione affidatagli da Dio, così anche le Chiese locali fondate da loro sono sorelle unite nello Spirito Santo come parti della Chiesa – Una, Santa, Cattolica e Apostolica. Però in un modo del tutto diverso percepiscono questo titolo gli uomini lontanti dalle finezze del diritto canonico e non familiari con la storia. Nella loro comprensione, basata sul significato principale della parola “universo”, questo titolo sembra un riconoscimento ufficiale del primo dei Patriarchi come leader dell’Ortodossia universale. E questo nonostante il fatto che il suo gregge in tutto il mondo conta ca. 6 milioni di fedeli (1) — attorno al 2% del numero totale dei cristiani ortodossi (2).

Che cosa significa il titolo “Ecumenico”, da dove proviene e quale è il suo vero valore? 

L'Impero come universo

Prima di tutto, occorre capire la parola stessa “universo” — in greco οἰκουμένη. È il participio passivo dal verbo οἰκέω “vivere, abitare, popolare” con il sostantivo “terra” che di solito viene omesso, e letteralmente significa lo “spazio terreno abitato dall’uomo”. Così i greci antichi chiamavano il mondo conosciuto, a differenza dalle regioni lontane, disabitate oppure abitate dai barbari selvaggi. Solitamente, con il termine “universo” denotavano non tutto il mondo, ma solo quella parte di esso dove esisteva la civiltà. I sovrani dei grandi regni si chiamavano “re dell’universo” – come, per esempio, Ciro di Persia nella Bibbia (2 Esd. 2:2). E quando la civiltà greco-romana fu unita sotto il potere degli imperatori romani, l’Impero Romano venne chiamato “universo”. Proprio in questo senso usa la parola il santo evangelista Luca, quando scrive della natività di Cristo: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra” (πᾶσαν τὴν οἰκουμένην — Lc. 2:1). Il termine οἰκουμένην significava non tanto lo spazio abitato, quanto lo spazio culturale della civiltà antica. Le altre culture avevano i loro “universi”, e questa percezione durò per secoli. Ad esempio, quando nel 1262 il signore bulgaro Yakob Svyatoslav inviò una copia del Nomokanon al metropolita Kirill II di tutta la Rus’, scrisse: “Che l’universo russo sia illuminato dalla tua parola!” 

Quando il santo imperatore Costantino l’Uguale agli apostoli convocò nel 325 a Nicea i vescovi da tutto il suo impero per discutere di problemi ecclesiastici, questa riunione ebbe il nome di “Concilio Ecumenico”. Così nacque l’istituzione del livello panimperiale, alla quale si riunivano i vescovi da tutto l’immenso stato romano chiamati dagli imperatori nei casi particolarmente importanti, — presieduta dai vescovi più autorevoli che col tempo sono stati chiamati “capi dei padri”— Patriarchi.

L’epiteto “universale” nel senso “panimperiale, statale” ebbe una diffusione particolarmente ampia nella legislazione di Giustiniano il Grande (527–565). Nelle sue leggi sempre s’incontrano le parole “universo, universale” come denominazione di tutto il territorio dell’Impero. Nella novella 109 dell’anno 541 l’imperatore dà una spiegazione esauriente delle istituzioni ecclesiastiche maggiori – Concili Ecumenici e Patriarcati: “I padri chiamavano e chiamiamo noi eretici coloro che appartengono a diverse eresie... generalmente tutti coloro che non sono membri della Santa Cattolica ed Apostolica Chiesa di Dio in cui tutti i santissimi Patriarchi di tutto l’universo – di Roma occidentale e di questa città regnante, di Alessandria, di Teupolis (Antiochia – P.K.), di Gerusalemme e tutti i reverendissimi vescovi sottomessigli – dichiarano unanimamente la fede apostolica e la tradizione” (3).

Così, dal punto di vista della legislazione imperiale, la fede ortodossa viene concordemente professata dai cinque “Patriarchi dell’universo” e i vescovi loro sottomessi – e proprio per testimoniare questo accordo gli imperatori convocano i Concili Ecumenici. L’ordine di riverenza dei Patriarchi è definito dai canoni (2 Conc. Ec. 3; 4 Conc. Ec. 28; Trul. 36) e confermato nelle leggi dell’Impero Romano (Codex Iustiniani, I.1.7, I.2.16; Novella Iustiniani 131 e altre): Roma — Costantinopoli — Alessandria — Antiochia — Gerusalemme. È importante notare che quest’ordine delle cinque sedi patriarcali non esaurisce il numero delle Chiese ortodosse autocefale: oltre si trovano non solo le Chiese ortodosse che all’epoca erano al di fuori dell’Impero (Chiesa georgiana e quella di Aquileia), ma anche quelle all’interno dei suoi confini (Chiese di Cipro, di Cartagine, di Giustiniana Prima). La pentarchia, secondo Giustiniano, simboleggiava l’unità della Chiesa ortodossa, i cui garanti erano i Primati delle sedi episcopali più autorevoli dell’Impero. E la cosa più importante, tutti i cinque Patriarchi erano considerati “universali”. 

Dai cinque “Patriarchi dell’universo” — all’unico “Patriarca Ecumenico” 

Nelle fonti superstite l’epiteto “ecumenico” applicato ad un vescovo appare per la prima volta negli atti del così detto conciliabolo d’Efeso del 449: il vescovo Olimpio di Evaso nel suo discorso chiamò Dioscoro d’Alessandria, guida di questo conciliabolo scandaloso, “il nostro santissimo padre e l’arcivescovo ecumenico della grande città di Alessandria”. Due anni più tardi, al Concilio di Calcedonia, i legati di Papa Leone Magno firmarono a nome “del nostro signore, beatissimo ed apostolico uomo, vescovo della Chiesa Universale e della Roma antica” (5).

Solo nelle leggi di Giustiniano (dal 530) la formula “Patriarca Ecumenico” comincia ad applicarsi ufficialmente agli arcivescovi di Costantinopoli – Nuova Roma (6). Questa novità non fu subito notata al di fuori del Bisanzio, ma quando fu notata, immediatamente suscitò un adirato rimprovero da parte della Sede di Roma. Il santo Papa Gregorio I vide nella parola “Ecumenico” la pretesa di Costantinopoli al primato nella Chiesa, di cui scrisse con amarezza a Eulogio d’Alessandria (7). In risposta Eulogio e lo stesso Patrairca di Costantinopoli assicurarono il Papa che si trattava solamente di un fiorito titolo cerimoniale e che il vero leader dei cristiani di tutto il mondo certamente era lui, Primate della Sede apostolica...

La percezione di tutte le sedi patriarcali come universali si custodiva in Bisanzio lungo i secoli. Per esempio, al VII Concilio Ecumenico il rappresentante del Patriarca di Gerusalemme Giovanni chiamò i santissimi Patriarchi “pastori dell’universo” (8). San Teofane il Confessore († 818) nella prefazione alla sua famosa “Cronografia” scrive che indicherà gli anni “dei primati delle grandi ed ecumeniche sedi, cioè di Roma, di Costantinopoli, d’Alessandria, d’Antiochia e di Gerusalemme, sia quelli che pasceva la Chiesa in modo ortodosso che quelli che come ladroni guidavano in eresia” (9).

È caratteristico che nel IX secolo alla domanda diretta sul significato del titolo “Ecumenico” fatta a Costantinopoli dal legato papale Anastasio il Bibliotecario gli risposero che chiamavano il Patriarca “Ecumenico” (oecumenicus, universalis) non perché fosse il vescovo di tutto il mondo, ma perché aveva il potere su una delle parti del mondo abitato dai cristiani (10).

In seguito i canonisti bizantini Teodoro Balsamon (XI sec.) e Matteo Blastaris (XIV sec.) sottolinearono che fra i cinque Patriarchi furono distribuite le “regioni dei quattro climi dell’universo”, senza contare le “piccole Chiese” non sottomesse a nessuno dei Patriarchi: Bulgara, Cipriota e Georgiana. A nessuno dei Patriarchi è permesso di mandare una rappresentanza in un paese che è sottomesso a un altro Patriarca, né prenderne un chierico, affinché non vengano violati i diritti delle Chiese” (11).

Ciononostante, nella legislazione imperiale e nei nomokanoni bizantini comparisce l’idea delle prerogative particolari ed uniche di Costantinopoli. Per esempio, nel Nomokanon dei XIV titoli nella versione del 880 leggiamo (titolo I, cap. 5): “Della dignità dei Patriarchi... e che il capo di tutte le chiese è Costantinopoli, leggi il libro I del Codice, titolo 1, rubrica 7; titolo 2, rubriche 6, 20 e 24; e anche il titolo 1 delle Novelle, rubrica 2, e il titolo 2, rubrica 3. E la rubrica 16 del titolo 2 del libro I del [Codice] dice che Costantinopoli abbia il primato sopra di tutti” (12). Segue questo testo anche l’ “Eisagoge” dell’imperatore Basilio I (886 г.), in cui si dice: “La Sede di Costantinopoli, decorata con il regno, è dichiarata dalle decisioni conciliari la prima; seguendole, le leggi divine prescrivono di trasmettere alla sua considerazione e decisione anche le controversie che abbiano luogo in altre sedi” (13). È caratteristico che nessun testo annoverato nel Nomokanon parla di Costantinopoli come “capo di tutte le chiese” e nessuna legge impone la giurisdizione universale della Sede di Costantinopoli. Ma nel caso si parla del territorio dell’Impero stesso, le affermazioni del Nomokanon e dell’ “Eisagoge” sono giuste. Il fatto è che entro il IX secolo il Bisanzio perse tutti i suoi domini in Oriente ed in Occidente e i suoi confini effettivamente coincisero con il territorio della giurisdizione canonica del Patriarcato di Costantinopoli. Siccome la sfera di applicazione dei codici legislativi è per definizione limitata dal territorio dell’Impero, le prerogative di Costantinopoli definite in quelli sono ridotte allo stesso territorio. A ciò perfettamente corrisponde il suo titolo “Ecumenico”, in cui sotto il termine “universo”, come di solito, viene percepito l’Impero Romano (Bizantino). 

Dal “millet-pascià” al “leader dell’Ortodossia mondiale” 

Nel 1453 l’Impero bizantino cadde. Costantinopoli divenne la capitale di uno stato islamico – l'Impero ottomano. Tutti i Patriarcati ortodossi si unirono di nuovo in uno stato, ma ormai su principi giuridici diversi. Siccome la Sharia non veniva applicata ai cristiani né agli ebrei, essi furono segregati nelle corporazioni etno-religiose autonome – i millet, guidati dai leader spirituali. Uno di tali “millet-pascià” era il Patriarca di Costantinopoli trasferito dai turchi da Santa Sofia al quartiere Fanar. Secondo le leggi turche, egli aveva la giurisdizione su tutti i cristiani ortodossi che abitavano sotto il potere ottomano. Usando il loro nuovo status, i Patriarchi fanarioti cominciarono a intrommettersi negli affari di altre Chiese autocefale, però incappavano in una rigida posizione canonica dei Primati loro. In modo breve e preciso fu espressa da Melezio Pygas, Patriarca d’Alessandria, nella lettera del 1592 a Geremia II di Costantinopoli: “Nessuna sede patriarcale si sottomette a un’altra” (14).

La lettera fu scritta in occasione dei tentativi di Geremia di agire come leader dell’Ortodossia mondiale nel dialogo con i protestanti, i quali in quell’epoca attivamente cercarono alleati nella loro lotta accanita con il papato. “La Chiesa Ecumenica è la patria delle Chiese e presiede in competenza... Essa ricevette il primato nell’ortodossia ed è messa a capo”, rassicurò Geremia II i teologi di Tubinga nel 1576 (15).

Usufruendo la protezione delle autorità musulmane e prendendo gioco dei canoni ortodossi, i fanarioti cercarono di riempire il titolo di “Patriarca Ecumenico” con sostanza reale, mettendo Costantinopoli nella posizione del leader di tutto il mondo ortodosso. Nel novembre del 1872 l’ambasciatore russo presso la corte del sultano conte N. P. Ignatiev, commentando la situazione del Patriarcato di Gerusalemme, riportò al Ministero degli esteri: “L’aspirazione di sollevare la Sede di Costantinopoli sopra tutte le altre, assegnarle un primato simile a quello della Sede papale nel mondo occidentale e vedere la proprietà delle altre Chiese come sua propria si manifesta sempre di più nel partito dei greci fanarioti. Questo partito spera, diventato signore del mondo ortodosso, di prendere le ricchezze a favore dei laici-fanarioti, che guidano il Patriarcato Ecumenico” (16).

È caratteristico che allo stesso tempo i Patriarchi di Costantinopoli condannarono in una maniera rigorosa e non equivoca i tentativi della Roma papale di giustificare il suo primato su altre Chiese. Nella lettera patriarcale e sinodale del 1895 è detto chiaramente: “Ogni Chiesa autocefala in Oriente e Occidente era completamente indipendente e autonoma nei tempi dei Concili Ecumenici. Come i vescovi delle Chiese autocefale d’Oriente, così anche i vescovi d’Africa, di Spagna, di Gallia, di Germania e di Britannia guidavano le loro Chiese tramite i loro Concili locali; il vescovo di Roma, il quale doveva sottomettersi alle decisioni conciliari lui stesso, non aveva nessun diritto di intervenire. E quando si sollevarono le questioni importanti, che chiedevano le deliberazioni di tutta la Chiesa, si convocavano i Concili Ecumenici, i quali unici sempre furono e rimangono il potere supremo nella Chiesa. Questa è la costruzione ecclesiastica antica” (17).

Il crollo dell’Impero ottomano generò nel mondo greco l’illusione della realizzazione veloce della “Grande idea” della restaurazione del Bisanzio con l’aiuto della vittoriosa Triplice Intesa. Su questo sfondo all’interno del Fanar nacque l’idea: trasformare il Patriarcato Ecumenico nel centro cristiano inter-ecclesiale mondiale. L’11 febbraio (il 29 gennaio secondo il calendario giuliano) 1920 il Sinodo di Costantinopoli presieduto dal locum tenens della sede patriarcale vacante dall’autunno del 1918 si rivolse alle “Chiese di Cristo ovunque esistenti” con la proposta di fondare, secondo il modello della Lega delle nazioni, una Lega delle Chiese pancristiana (in greco Κοινωνία, che significa non solo “unione, società”, ma anche “comunione ecclesiastica”, il che dava al termine una sfumatura particolare) “per preparare e organizzare più facilmente con l’aiuto di Dio l’unione benedetta” dei cristiani di tutte le confessioni (18). Il progetto ambizioso siscitò l’approvazione di molti vescovi ortodossi e un vivo interesse da parte dell’arcivescovo luterano svedese Nathan Söderblom, uno dei fondatori del movimento ecumenico. Iniziarono le trattative di preparazione del “Concilio Ecumenico” pancristiano nel 1925, anniversario del Concilio di Nicea.

Tuttavia la politica impedì la realizzazione dei sogni. La guerra greco-turca finì con l’espulsione dell’esercito dell’Intesa da Costantinopoli e la deportazione della popolazione greca dai territori della Turchia ristabilita da Kemal Atatürk. Alla Conferenza di Losanna del 1923 i kemalisti insistettero anche sull’escusione del Patriarcato “greco”. E allora, si dovette usare il titolo di “Ecumenico” agli scopi del tutto diversi: la delegazione greca con E. Venizelos a capo dichiarò che “il Patriarcato Ecumenico ha il primato fra tutte le Chiese ortodosse... Nelle questioni di fede, morale cristiana e diritto canonico la posizione e l’autorevolezza del Patriarcato Ecumenico hanno l’importanza decisiva” (19).

Sotto la pressione dei francesi e inglesi i turchi fecero concessioni, e al Patriarca con i fanarioti fu permesso rimanere ad Istanbul, sulle condizioni della rinuncia completa alla politica. Ma bisognava dimenticare il “Concilio Ecumenico”... 

Nel secolo scorso la posizione del Patriarcato Ecumenico in Turchia non si è consolidata affatto. Al contrario, la popolazione greca del Fanar è diminuita drasticamente, e ora sul territorio canonico, che fu sottomesso a Costantinopoli dal Concilio di Calcedonia 1570 anni fa, praticamente non ci sono più i parrocchiani del Patriracto Ecumenico. La maggior parte del suo gregge si trova adesso in America e in Europa Occidentale. Tale situazione ha bisogno di un fondamento. Perciò negli studi dei canonisti costantinopolitani prima timidamente e poi sempre più francamente ha cominciato a svilupparsi l’idea che il Patriarca insignito col titolo di “Ecumenico” debba avere anche la giurisdizione “ecumenica”. Per argomentare questa tesi si cerca qualsiasi episodio del passato, gli antichi precedenti vengono tolti dal contesto, i canoni ecclesiastici da tanto tempo interpretati vengono reinterpretati male. Ma particolarmente attivo è l’uso del titolo antico.

Nel 2008, rivolgendosi all’Assemblea del Parlamento europeo, il Patriarca Bartolomeo disse: “In quanto istituzione puramente spirituale, il nostro Patriarcato Ecumenico abbraccia un ministero apostolico veramente mondiale, cercando di sollevare e ampliare la coscienza della famiglia umana, di portare la comprensione del fatto che abitiamo in una casa. Nel senso basilare, tale è il significato della parola “ecumenico” perché l’“ecumene” è il mondo abitato, la terra percepita come casa in cui abitano tutti i popoli, tribù e etnie”.

Per un’auditorio anglofano la parola ecumenical — “universale”, che fà parte del titolo patriarcale di Bartolomeo, ha una connotazione specifica legata al famoso movimento protestante per l’unità pancristiana. Se nel linguaggio ecclesiastico russo i termini “universale” e “ecumenico” sono piuttosto antipodi, in inglese e in greco nuovo sono la stessa parola. E nei testi, che escono dalla penna degli attuali apologeti della «nuova ecclesiologia», è sempre più difficile tracciare una linea tra questi significati. L’antico termine dei tempi di Giustiniano il Grande, il quale denotava il ruolo specifico dei cinque Patriarchi universali dell’Impero come colonne e garanti dell’Ortodossia, impercettibilmente si è trasformato nel “Ecumenical patriarch”, che combina le pretese per lo status di “leader del mondo ortodosso” (20) con le pretese per il ruolo del leader “sovra-confessionale” di tutto il cristianesimo. E non per caso la recente iniziativa del Patriarca Bartolomeo di un incontro dei leader ecclesiali nel 2025, in occasione di un nuovo giubileo del Primo Concilio Ecumenico, propone di elaborare a quell’incontro «a more determined ecumenical course» (21).

NOTE

1. Nelle versioni russa e inglese della Wikipedia — ca. 5,3 mln, in quella greca — ca. 6,6 mln.

2. 300 mln, secondo la Wikipedia russa (col riferimento: Juergensmeyer M., Roof W. C. (ed.). Encyclopedia of Global Religion. Los Angeles: SAGE Publications, 2012. Vol. 1. P. 319); la versione greca riporta il numero da 200 a 260 mln, quella inglese — 220 mln.

3. Corpus Iuris Civilis. T. III: Novellae. Berlin, 1963 (8 ed.). P. 518.

4. Acta Conciliorum Oecumenicorum. T. II.3.1. Berlin; Leipzig, 1935. P. 187.

5. Acta Conciliorum Oecumenicorum. T. II.1.2. Berlin; Leipzig, 1933. P. 141; T. II.3.2. 1936. P. 415–416.

6. Cf.: Codex Iustiniani, I.2.24; I.1.7.

7. Epistula 9, cap. 12.

8. Acta Conciliorum Oecumenicorum. Series 2. T. III.1. Berlin; New York, 2008. P.188–189.

9. Theophanis Chronographia / Ed. C. De Boor. Leipzig, 1883. Vol. 1. P. 3.

10. Acta Conciliorum Oecumenicorum. Series 2. T. III.1. Berlin; New York, 2008. P.1–2.

11. Σύνταγμα τῶν θείων καὶ ἱερῶν κανόνων. Ἀθῆναι, 1992. Τ. 6. Σ. 257–258.

12. Juris Ecclesiastici Graecorum historia et monumenta / Ed. I. B. Pitra. Romae, 1868. T. II. P. 462–463.

13. Collectio librorum juris Greco-Romani ineditorum / Ed. C. E. Zachariae von Lingenthal. Lipsiae, 1852. P. 66–68.

14. Μεθόδιος (Φούγιας), μητρ. Ἐπιστολαί Μελετίου Πηγᾶ, Πάπα καὶ Πατριάρχου Ἀλεξανδρείας (1590–1601). Αθῆναι, 1976. Σ. 19, 21.

15. Ἐκκλησίας. Τ. 1. Ἀθῆναι, 1960. Σ. 476.

16. Каптерев Н. Ф. Сношения Иерусалимских патриархов с русским правительством. СПб., 1898. Ч. 2. С. 804 (Kapterev N. F. Le relazioni dei Patriarchi di Gerusalemme con il governo russo, San Pietroburgo, 1898, parte II, P. 804).

17.https://azbyka.ru/otechnik/bogoslovie/okruzhnoe-patriarshee-i-sinodalnoe-poslanie-konstantinopolskoj...

18. Καρμίρης Ι. Τὰ δογματικὰ καὶ συμβολικὰ μνημεῖα… Τ. Βʹ. Ἀθῆναι, 1953. Σ. 957–960.

19. Lausanne Conference on Near Eastern Affairs (1922–1923). Records of Proceedings and Draft Terms of Peace. London, 1923. P. 324, 335.

20. Именно так, «leader of the Orthodox world», назвал Варфоломея в своём Твиттере Госсекретарь США Майкл Помпео в ноябре 2020 г. — URL: https://www.ekathimerini.com/news/259272/pompeo-hails-patriarch-as-key-partner/

21. Church Times, 19 February 2021. URL: https://www.churchtimes.co.uk/articles/2021/19-february/news/world/after-1700-years-let-s-talk-again....

martedì 28 dicembre 2021

Chi ci salverà?


originariamente pubblicato su Ecclesia Dei il 10 luglio 2020*

 Questo racconto di natura distopica ci ricorda la eccessiva stigmatizzazione dei principi teoretici e pratici che fanno dell'igiene un idolo e attendono, quasi come se fosse la parusia, l'arrivo del vaccino contro il virus che ha paralizzato il mondo e la mente dell'uomo. Ma chi salva davvero? Cristo o la scienza? Il corpo di Cristo o una soluzione creata in laboratorio?




Finalmente era arrivato.

Lo si aspettava, lo si desiderava, lo si bramava ardentemente e finalmente eccolo. Era arrivato il vaccino contro il Covid!

In una società in cui il nuovo peccato è il contagio, l'igiene il nuovo dio, non poteva che essere attesa la venuta del Salvatore, il Messia: il vaccino. Per tornare alla vita di grazia, pardon, alla vita di tutti i giorni, era necessario risorgere. La venuta del Salvatore segnava una cesura nella storia del mondo. Essendo di una così enorme importanza, i fedeli, ehm, i pazienti, venivano collocati in un ampio spazio. Il pontefice della nuova alleanza anticovid, il medico, avanzava rivestito di quei sacri paramenti che gli conferivano autorità, anzi, infallibilità: camice, mascherina, guanti. Nulla era lasciato al caso: il rito di vaccinazione era un rito solenne.

Dopo la lettura delle disposizioni del Comitato Tecnico Scientifico e dell'OMS si tenne il sermone dell'Arcimedico, nel quale si esaltava l'Uomo che era arrivato all'apice della propria esistenza con questa scoperta. Giunsero quindi in processione le sante dosi, al passaggio delle quali tutti erano tenuti a genuflettere (davanti al vaccino non esistono scuse per non farlo! Del resto, si sta in piedi quando passa il proprio dio?). L'arcimedico le incensò e le baciò per poi elevarle al cielo declamando "Venite, adoremus!". Gli astanti si avvicinarono e, devotamente, si inginocchiarono, denudarono il braccio porgendolo alla vaccinazione, accompagnata dalle parole di rito "Sanguis Domini Nostri Vaccini custodiat corpus tuum in vitam æternam, amen". In fondo, la vecchia signora Elena era perplessa: aveva ormai 91 anni e non riteneva il vaccino un problema, ma le venne un dubbio: "Ma questi gesti non erano per Dio? Non quello in fiala, ma Quello che è morto sulla Croce." E tutti risero, perché loro avevano atteso e trovato un nuovo dio.

*si noti che il raccontino fu scritto mesi prima dell'arrivo dei vaccini: tante previsioni si sono avverate.

N.B. L'autore non vuole esprimere qui considerazioni scientifiche in merito al preparato ma stigmatizzare il culto che si è creato attorno ad esso.

sabato 25 dicembre 2021

12 dicembre - in festo S. Spyridionis

xij. decembris
S. Spyridionis Tremithuntini Ep. Conf.

Corcyrensis Patroni.

Semiduplex.

Panaghiotis Doxaras, La liturgia di S. Spiridione, inizio XVIII sec.

Spyridion, Tremithuntis urbis Cypri Episcopus, unus fuit ex iis Confessoribus, qui Maximiano Imperatore, dextero oculo eruto, et sinistro poplite succiso, ad metalla relegati sunt. Hic, Constantino Imperatore, Nicæno Concilio cum interesset, philosophum Ethnicum Christianæ religioni insultantem, miro prorsus modo devicit, et ad fidem perduxit. Sardicensium Patrum consessum sua quoque præsentia, ut beatus Athanasius testatur, ornavit: Triphyllium Ledrensem Episcopum, virum omnium suæ ætatis eloquentissimum in Synodo orantem, quod simplici divinæ Scripturæ voce uti dedignatus esset, palam reprehen-dit. Interea beatus Spyridion Ecclesiam sibi commissam cum sanctissime regeret, non prophetiæ dono solum, sed miraculorum etiam virtute clarus extitit: nam charitate fervens, ut innocentem capite damnatum liberaret, viam agebat, et torrente valde exundante impediebatur; at imperio Spyridionis stetit torrens, et sibi, aliisque viatoribus patiit via. Quadam nocte, cum ad caulas ovium fures venissent (factus enim Episcopus, propter singularem animi modestiam, oves etiam pavit), et manus improbas, quo aditum educendis ovibus facerent, extendissent; invisibilibus quibusdam vinculis restricti, usque ad lucem velut traditi tortoribus prmanserunt. Cum vero oves ducturus ad pascus matutinus se ageret senior, videt juvenes absque humanis vinculis in caulis pendere districtos Cumque causam noxæ comperisset, absolvit sermone, quos meritis vinxerat; et ne eis inanis nocturna cederet occupatio: Tollite, inquit, o juvenes, unum vobis arietem, ne sine causa venisse videamini quem melius prece, quam furto quæsisse convenerat. Antiochiam jussu Constantii Imperatoris profectus, eumdem morbo laborantem solo tactu sanavit: ubi cum quidam Aulicus illius sacræ maxillæ incussisset colaphum, promptus ad Dominicam legem implendam illi præbuit et alteram.
Filiam habuit sanctus Episcopus Irenem nomine (duxerat enime ipse, dum laicus esset, uxorem, cum qua paucos annos honeste traduxit), quæ cum bene ei ministrasset, virgo defuncta est. Post ejus obitum venit quidam, dicens, se ei quoddam depositum commendasse. Rem gestam ignoraverat pater. Perquisitum in tota omo, nusquam, quod poscebatur, inventum est. Persistebat tamen ille, qui com-mendaverat, et fletu ac lacrymis perur-gebat: vitæ suæ quoque illaturum se esse exitum, nisi commendata reciperet testabatur. Permotus lacrymis ejus senex, ad sepulchrum filiæ properat, atque eam ex nomine clamitat. Tum illa de sepulchro: Quid vis (ait) pater? Commendatum, inquit, illius ubi po-suisti? At illa locum designans: Illic (aiut) invenies defossum. Regressus domum, rem, sicut filia de sepulchro responderat, repertam, tradidit reposcenti. His aliisque rebus divinitus gestis, clarus prudentia pariter et christiana simplicitate, singularique erga peregrinos et pauperes pietate admirandus, cum Ecclesiam Tremithuntinam mirifice gubernasset, plenus dierum obdormibit in Domino. Ejus cor-pus, ad quod multa miracula facta leguntur, longo post tempore ex loco, ubi primum sepulturæ traditum fuerat, Corcyram delatum, pia fidelium veneratione colitur. 

(Lezioni IV-VI del Mattutino romano, secondo l'uso veneto)

S. Spridion protettor miracoloso di Corfù
Frontespizio da N. BULGARI, Vera relatione del Thaumaturgo di Corfù Spiridione il Santo, Venezia, Mortali, 1669

Τῆς Συνόδου τῆς πρώτης ἀνεδείχθης ὑπέρμαχος, καὶ θαυματουργὸς θεοφόρε, Σπυρίδων Πατὴρ ἡμῶν· διὸ νεκρᾷ σὺ ἐν τάφῳ προσφωνεῖς, καὶ ὄφιν εἰς χρυσοῦν μετέβαλες, καὶ ἐν τῷ μέλπειν τὰς ἁγίας σου εὐχάς, Ἀγγέλους ἔσχες συλλειτουργούντάς σοι Ἱερώτατε. Δόξα τῷ σὲ δοξάσαντι Χριστῷ· δόξα τῷ σὲ στεφανώσαντι· δόξα τῷ ἐνεργούντι διὰ σοῦ, πᾶσιν ἰάματα.

Ti mostrasti combattente nel primo Concilio, e taumaturgo, o teoforo nostro padre Spiridione: perciò tu rivolgesti la parola a una defunta nella tomba, e mutasti in oro un serpente, e nel cantare le tue sante preghiere avesti gli Angeli quali tuoi concelebranti, o santissimo. Gloria a Cristo che ti ha glorificato, gloria a lui che ti ha incoronato, gloria a lui che ha operato per mezzo di te guarigioni a tutti.

(Apolytikio)



LA REDAZIONE RIVOLGE I PROPRI PIU' CORDIALI AUGURI
A TUTTI I LETTORI CHE SEGUONO IL NUOVO CALENDARIO
PER LA NATIVITA' SECONDO LA CARNE DEL NOSTRO SIGNOR GESU' CRISTO
ΧΡΙΣΤΟΣ ΓΕΝΝΑΤΑΙ, ΔΟΞΑΣΑΤΕ! CHRISTUS NASCITUR, GLORIFICATE EUM!

mercoledì 22 dicembre 2021

Ricchezze di periferia: i manoscritti della Basilica di Gozzano

 

di Luca Farina

Veduta del complesso basilicale


La storia della paleografia e dei manoscritti non può prescindere dalla cospicua produzione di testi ad uso liturgico. Dal momento che ogni chiesa doveva dotarsi di essi, è possibile rintracciare documenti di particolare pregio anche in luoghi che, secondo la definizione di Enrico Castelnuovo[1], sarebbero delle “periferie”, cioè centri di minore (o nulla) propulsione artistica poiché non dotati né di corte né di cattedrale. Tra questi luoghi rientra anche la città di Gozzano, i cui manoscritti liturgici sono oggetto di questa analisi, volta a riprendere considerazioni già espresse in uno studio[2].

Gozzano è situata in provincia di Novara, in un territorio piemontese ma ben legato alla Lombardia e a Milano e non è lontana dal lago d’Orta. Il territorio fu cristianizzato nel IV secolo dai fratelli religiosi greci Giulio e Giuliano, fondatori di numerose chiese e poi canonizzati. A Gozzano fu infatti edificata da Giuliano la chiesa di Santa Maria, in seguito intitolata a San Lorenzo e sede, fino al IX secolo, delle reliquie del santo greco. A quest’altezza storica le spoglie vennero traslate in nuova basilica che, per la sua importanza, fu dotata di un capitolo, formalmente soggetto a quello della cattedrale novarese ma spesso in contrasto con esso. La ricchezza del capitolo è testimoniata dall’inventario, redatto dal notaio Manino nel 1618. Nell’elenco troviamo messali, evangeliari, omeliari, passionari e antifonari.

Tra i documenti più interessanti troviamo dei libri de officio festivitatis de Corpore Christi: si tratta di un codice (ASDN A 10) allestito piuttosto rapidamente dopo l’istituzione della festa del Corpus Domini da parte di Papa Urbano IV con la bolla Transiturus. È stato ricopiato in sede locale, non presenta segni di particolare pregio essendo destinato ad un celere uso pratico.

Sono poi rilevanti due codici, ASDN P 1 e ASDN P 2, passionari complementari, poiché contengono ciascuno metà delle feste dell’anno liturgico. Entrambi furono redatti nel XII secolo su pergamena (per essere resistenti all’uso frequente), scritti in area novarese, probabilmente nella stessa Gozzano, in una minuscola ordinaria. Il primo codice, mutilo, parte dalla festa di Ognissanti e si conclude con quella di San Marco. Speciale rilevanza è data a San Martino, a San Gaudenzio, vescovo di Novara ed ai Santi Giulio e Giuliano. Il lato pelo è posto all’esterno, la rigatura è tracciata a secco. Le a sono presentate in scrittura onciale, le altre lettere sembrano simili alla grafia cancelleresca. È presente due volte (ff. 44r e 297v) la nota di possesso “Iste liber est ecclesie sancti Juliani de Gaudiano”, redatto da mano del XIV secolo. Le iniziali sono decorate con intrecci nastriformi, con elementi fitomorfi e zoomorfi. Il codice è dunque particolarmente curato, essendo una raccolta di lectiones sulle vite e i miracoli dei Santi sia della tradizione universale che locale.

Il passionario estivo copre il santorale dalla festa di San Lorenzo di Novara (30 aprile) a quella di Santa Margherita. È interessante notare la presenza di San Vittore martire, da sempre associato alla tradizione ambrosiana e (coincidenza?) il fatto che la sua vita si concluda, al f. 21v, con una frase pressoché identica (è solamente aggiunto un “omnia”) a quella utilizzata dai rispettivi testi liturgici ambrosiani (Regnante Domino nostro Jesu Christo, cui est honor et gloria in saecula saeculorum, amen), dei Santi Gervaso e Protaso e dei Santi Nazaro e Celso: una presenza di Santi legati a Milano sicuramente non trascurabile né casuale. La mano principale si presenta elegante, mentre la successiva grafia gotica rompe l’armonia con tratti più nervosi e spezzati. Come nel manoscritto precedente, si fa ampio uso di abbreviazioni (soprattutto per i nomina sacra e le parole con consonante nasale), sono presenti molte correzioni aggiunte a mano e rubriche in onciale rossa.

Da questa breve presentazione è possibile rendersi conto che una città come Gozzano, che ormai vive all’ombra di Novara, era dotata di manoscritti particolarmente interessanti a causa della presenza del capitolo. Allora, rispetto alla prospettiva di Castelnuovo, è possibile ampliare la definizione; per potersi fregiare delle caratteristiche proprie di un centro e superare lo stato di periferia non è necessario dotarsi di una cattedrale, ma è sufficiente la presenza di un capitolo di canonici incaricati di curare quotidianamente la liturgia.



[1] Enrico CastelnuovoCarlo Ginzburg, Centro e periferia, Roma, Officina Libraria, 2019

[2] Simona Gavinelli, I codici liturgici del capitolo di Gozzano, <<Aevum>>, LXXI, 1997, pp. 273-313

mercoledì 8 dicembre 2021

25 novembre - In festo S. Catharinae

xxv. novembris
S. Catharinae Alexandrinae virg. mart.

Duplex.

Ave virginum gemma Catharina: ave sponsa Regis regum gloriosa: ave viva Christi hostia! Tua venerantibus patrocinia, impetrata non deneges suffragia!

Ave, o Caterina, gemma delle vergini; ave, sposa gloriosa del Re dei re; ave, vivo sacrificio di Cristo! Non negare i suffragi che ti son richiesti da quanti onorano il tuo patrocinio!

(Antifona al Magnificat del II Vespro)

Versione polifonica del compositore vercellese del XVII secolo Marco Antonio Centorio

Τὴν πανεύφημον νύμφην Χριστοῦ ὑμνήσωμεν, Αἰκατερίναν τὴν θεῖαν καὶ πολιοῦχον Σινᾶ, τὴν βοήθειαν ἡμῶν καὶ ἀντίληψιν ὅτι ἐφίμωσε λαμπρῶς, τοὺς κομψοὺς τῶν ἀσεβῶν, τοῦ Πνεύματος τῇ μαχαίρᾳ, καὶ νῦν ὡς Μάρτυς στεφθεῖσα, αἰτεῖται πᾶσι τὸ μέγα ἔλεος.

Inneggiamo alla tutta lodevole sposa di Cristo, la divina Caterina e protettrice del Sinai, il nostro aiuto e la nostra scampatrice, poiché mirabilmente ridicolizzò gli artifici degli empi con la spada dello Spirito, e ora, coronata quale Martire, invoca per tutti la grande misericordia.

(Apolytikio)


Nota: nelle Chiese di tradizione slava la santa si festeggia il 24 novembre (7 dicembre)

martedì 7 dicembre 2021

Giudaica perfidia: l'orazione per gli Ebrei

Originariamente pubblicato in «Templum Domini», VIII, 2021, pp. 46-49

Una preghiera controversa, mal interpretata, mal tradotta: stiamo parlando della celebre orazione per gli Ebrei prevista dalla liturgia del venerdì santo. Non pochi sono i problemi, infatti: alcuni polemisti hanno addirittura visto qui le giustificazioni teologiche alla Shoah.

Le orazioni sono proclamate in cornu epistolae come le collette (foto di NLM)


Per capire a pieno quali siano state le questioni intorno ad essa è necessario analizzare il sostrato teologico di riferimento e la liturgia in cui essa è situata [1].

Il popolo d’Israele era l’eletto di Dio: tutto l’Antico Testamento è la storia della prima alleanza; nel nome di Jahvè gli Ebrei vincono le guerre, conquistano i territori, offrono i sacrifici, nell’attesa del Messia. Colui che i patriarchi hanno acclamato e di cui i profeti hanno parlato (cfr. antifona ambrosiana Omnes Patriarchae) è poi venuto sulla terra: Gesù Cristo Salvatore, fondatore della nuova ed eterna alleanza nel Suo sangue; la Chiesa diventa verus Israël. La precedente, quindi, è annullata: la salvezza non è più data dall’appartenenza etnologica e dal segno carnale della circoncisione, ma dall’adesione, tramite il sacramento del battesimo, alla vita di grazia nella fede trinitaria. Da ciò consegue una necessità impellente per il popolo ebraico che desidera salvarsi: andare oltre l’Antico Testamento (non rifiutare la Torah, ma giungere al suo perfetto compimento, perché la grazia ha superato la legge) e riconoscere Gesù Cristo come Messia.

Ora, queste espressioni potranno sembrare a qualcuno come esempio di antisemitismo: nulla di più falso! L’antisemitismo si basa su una visione protestante che lega intrinsecamente il comportamento di un individuo (e quindi anche la sua religione) con la sua origine etnica. Non è un caso, infatti, che il nazismo perseguitò non solo gli ebrei osservanti, ma anche coloro che avevano semplicemente origini giudaiche (si pensi al caso di Edith Stein, che nel 1942 si era già convertita ed era divenuta monaca carmelitana).

Desiderare, invece, la conversione di qualcuno non è violenza od odio, ma la più grande carità: quella della Verità. È con questo spirito che la Chiesa ha pregato e continua a pregare per la salvezza del popolo ebraico.

La preghiera è situata nel cuore dell’anno liturgico, proprio all’interno del Sacro Triduo. Illustriamo quindi la funzione secondo le rubriche del Messale di Pio V, rimaste integre fino alla nefasta riforma pacelliana di cui parleremo in seguito.

Il venerdì santo (Feria Sexta in Parasceve) è caratterizzato dall’assenza della Messa vera e propria: al suo posto si celebra, secondo la dizione più antica, la Missa Presanctificatorum. I sacri ministri giungono all’altare con tutti i paramenti, di colore nero, e si prostrano a terra davanti all’altare. Dopo le letture, hanno luogo le preci solenni, l’adorazione della Croce e la comunione del solo celebrante con le Sacre Specie consacrate il giorno precedente e portate in solenne processione.

È nel momento delle preci che va a collocarsi l’orazione incriminata. Dopo aver pregato per la pace e l’unione della Chiesa, il papa, il clero e il popolo, l’imperatore, i catecumeni, la liberazione dai mali, il ritorno di eretici e scismatici, la penultima recita così:

Oremus et pro perfidis Judaeis ut Deus et Dominus noster auferat velamen de cordibus eorum; ut et ipsi agnoscant Jesum Christum, Dominum nostrum. [senza Levate né Flectamus genua, subito si prosegue]

Omnipotens sempiterne Deus, qui etiam judaicam perfidiam a tua misericordia non repellis: exaudi preces nostras, quas pro illius populi obcaecatione deferimus; ut, agnita veritatis tuae luce, quae Christus est, a suis tenebris eruantur.

L'orazione nella formulazione tradizionale


Possiamo facilmente individuare i sintagmi che hanno creato imbarazzo: pro perfidis Judaeis e judaicam perfidiam. Dove sta il fraintendimento? Non dobbiamo farci ingannare dal significato dell’aggettivo perfidus: la filologia della parola ci spiega infatti che l’espressione perfidus ha una doppia etimologia: da un lato abbiamo foedus come bruttezza morale, e quindi perfidus è il malvagio; dall’altro lato, quello che i Padri hanno applicato qui, foedus significa patto, e il perfidus è colui che viene meno alle promesse, manca ad una fede intesa in senso teologico; in sostanza, diventa sinonimo di infidelis. In tal senso, gli Ebrei vengono così caratterizzati per essere venuti meno alle profezie bibliche che anticipavano Cristo. Del resto, così commenta S. Agostino il salmo 54:” Iniquus est qui non habet fidem; quod ergo hic ait iniquitatem, perfidiam intellige”. Questa è anche la linea espressa nella bolla Coeca et obdurata hebraeroum perfidia di Clemente VIII.

Questa preghiera è nata, secondo alcuni studiosi, nel VI secolo, attingendo al testo Περ πάσχα di Melitone di Sardi (II secolo). Secondo altri, vi fu l’esplicita volontà di rispondere, con carità cristiana, a ben altre espressioni presenti nella Birkat Ha Minin, come la seguente: “Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell'orgoglio; e periscano in un istante i nozrim [i nazareni] e i minim [gli eretici]; siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano iscritti. Benedetto sei tu che pieghi i superbi” [2]. Si capisce con quale spirito la Chiesa abbia risposto: espressioni che forse, oggi, possono sembrarci un po’ forti ma che possiamo sintetizzare con questa espressione Francesco Cancellieri, studioso delle cerimonie pontificie “rimproveri, ma paterni e affettuosi”. [3]

Appurata l’onestà dei compilatori del Messale Tridentino, dobbiamo considerare come l’orazione veniva tradotta nei messalini e nei foglietti per i fedeli. Molti, infatti, travisarono il senso originario della parola e tradussero con “perfidi”, offrendo il fianco alle critiche: così Pio Alberto Del Corona nel 1893, Edmondo Battisti nel 1921.

Altri, invece, misero in luce l’infedeltà: nel 1915 il benedettino Schuster pubblicò, per i tipi della Tipografia poliglotta vaticana, un libretto, accompagnato dalla benedizione di Benedetto XV, in cui venivano riportate e tradotte le orazioni del venerdì santo: i sintagmi erano tradotti con “infedeli giudei” e “non scacci neppure gli stessi giudei” [4].

Mentre nell’Europa laica serpeggiavano sentimenti (quelli sì) di antisemitismo, un gruppo di chierici, insieme alla convertita dall’ebraismo Francisca von Leer, fondarono l’associazione Amici Israël, dedita alla rimozione delle immagini negative sul popolo ebraico affinché essi potessero abbracciare con più facilmente la fede cristiana. Nel 1928, essi domandarono a Pio XI la revisione della prece incriminata; il pontefice girò la questione alla Sacra Congregazione dei Riti, che consultò Schuster come perito: egli rispose dicendo che era necessario eliminare tutto ciò che poteva generare inutile superstizione nel popolo (già condannata da Gregorio Magno) come la mancata genuflessione [5]. Il Sant’Uffizio si oppose però: secondo il card. Merry del Val e Padre Sales bisognava invece accettare il termine perfidus in quanto etimologicamente corretto e non aprire la strada a riforme di riti così antichi. Su quest’ultimo punto videro in modo estremamente corretto.

Un’apologia del termine venne nel 1931 dal gesuita Louis Escoula sulla Revue apologétique: erano le traduzioni in volgare a fraintendere un significato teologicamente corretto. Mentre intanto si continuavano a produrre opuscoli e sussidi; il 10 giugno 1948, interrogata in merito, la Sacra Congregazione dei Riti rispose affermativamente alla richiesta di poter tradurre perfidus/perfidia con infedeli/infedeltà.

Dopo il dramma della persecuzione nazista, alcuni studiosi ebrei chiesero a Pio XII di cambiare o di sopprimere l’orazione perché, secondo alcuni, addirittura correa dello sterminio. Molto più cauta la posizione del sacerdote convertito dall’ebraismo John Oesterreicher, che sosteneva la necessità di adeguate traduzioni e spiegazioni, anche in merito alla mancata genuflessione.

La riforma pacelliana del 1955, a cui Padre Bugnini e Padre Braga stavano già lavorando da alcuni anni per ordine di Pio XII portò a scardinare la Messa dei Presantificati e a reintrodurre, soprattutto su pressione del card. Bea, la genuflessione, uniformandosi alle altre otto orazioni.

L'orazione con le modifiche pacelliane


Nel giro di pochi anni, a questo punto, mutarono molte cose: nel 1959 Giovanni XXIII soppresse i termini perfidi/perfidia: ciò fu apprezzato (e, per certi versi, desiderato) da Jules Isaac, che avrà poi un grande impatto su Nostra Aetate. Ma il grande cambiamento avvenne col messale montiniano: l’orazione del 1970 è molto diversa dalla precedente, e così recita:

Oremus et pro Iudaeis, ut, ad quos prius locutus est Dominus Deus noster, eis tribuat in sui nominis amore et in sui foederis fidelitate proficere. Omnipotens sempiterne Deus, qui promissiones tuas Abrahae et semini eius contulisti, Ecclesiae tuae preces clementer exaudi, ut populus acquisitionis prioris ad redemptionis mereatur plenitudinem pervenire.

Quest’orazione riflette un cambio d’atteggiamento: se è giusto evitare forme di discriminazione e di violenza, è altrettanto giusto e doveroso avere il dovere di predicare la verità. Se fioriscono momenti di preghiera comune cristiano-ebraica, come si può annunciare che Gesù Cristo è la vera via?

La Chiesa ha quindi pregato nel modo corretto: non per la rovina e la perdizione dei Giudei, ma per la loro salvezza; la giudaica perfidia non consiste in riproporre stereotipi di cui facciamo volentieri a meno, ma nell’indicare con franchezza che l’antica alleanza è venuta meno, e Cristo è l’unico, necessario e universale Salvatore.

Bibliografia di riferimento

G. Menozzi, Giudaica perfidia. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia, Bologna, Il Mulino, 2014 [il testo è stato utilizzato per attingere alla vasta mole documentaria; se ne ricusa l’ottica relativistica e indifferentista sul piano religioso]

Note:

1: il presente è voluto: diverse comunità (non necessariamente sedevacantiste) usano ancora questo antico formulario.

2: tratto da J. Maier, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, Paideia, 1994; brano presente in un frammento, in originale ebraico, della Geniza del Cairo.

3: tratto da F. Cancellieri, Descrizione delle funzioni della settimana santa nella cappella pontificia, Roma, Luigi Perego Salvioni, 1789.

4: tratto da I. Schuster, Le sacre stazioni quaresimali secondo l’ordine del messale romano, Roma, Tipografia poliglotta vaticana, 1915.

5: già citata prima, diamo qui spiegazione: per motivi non chiariti (indagati soprattutto da Canet e da Peterson) quest’orazione non presenta il flectamus genua col relativo gesto; ciò è stato interpretato come una risposta alle finte adorazioni rivolte a Cristo durante la Passione, compiute però dai soldati romani (cfr. Mt XXVII 27-29)