Traduzione di Nicolò Ghigi.
Tiziano Vecellio, Martirio di S. Lorenzo, metà del XVI secolo,
Chiesa dei Gesuiti (Venezia)
Aurelio
Prudenzio Clemente
PERISTEPHANON
II, 1-44 et 413-484
PERISTEPHANON
II, 1-44 et 413-484
Inno in onore della passione del beatissimo martire Lorenzo
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Antiqua fanorum parens, 
iam Roma Christo dedita, 
Laurentio victrix duce 
ritum triumphas barbarum. 
Reges superbos viceras 
populosque frenis presseras 
nunc monstruosis idolis 
inponis imperii iugum. 
Haec sola derat gloria 
togatae insignibus, 
feritate capta gentium 
domaret ut spurcum Iovem, 
non turbulentis
  viribus 
Cossi, Camilli aut
  Caesaris, 
sed martyris Laurentii 
non incruento proelio. 
Armata pugnavit
  Fides 
proprii cruoris
  prodiga; 
nam morte mortem
  diruit 
ac semet inpendit
  sibi. 
Fore hoc sacerdos
  dixerat 
iam Xystus adfixus
  cruci 
Laurentium flentem videns 
crucis sub ipso stipite: 
‘Desiste discessu meo 
fletum dolenter fundere! 
praecedo, frater; tu quoque 
post hoc sequeris
  triduum.’ 
Extrema vox
  episcopi, 
praenuntiatrix
  gloriae, 
nihil fefellit; nam
  dies 
praedicta palmare praetulit. 
Qua voce, quantis laudibus 
celebrabo mortis ordinem, 
quo passionem carmine 
digne retexens
  concinam? 
Hic primus e septem
  viris, 
qui stant ad aram
  proximi, 
levuita sublimis
  gradu 
et ceteris
  praestantior, 
claustris sacrorum
  praeerat 
caelestis arcanum
  domus 
fidis gubernans
  clavibus 
votasque dispensans
  opes. 
[…] 
Haec ludibundus
  dixerat, 
caelum deinde
  suspicit 
et congemescens
  obsecrat 
miseratus urbem
  Romulam: 
'O Christe, nomen unicum, 
O splendor, O virtus
  patris, 
O factor orbis et poli 
atque auctor horum
  moenium, 
qui sceptra Romae in vertice 
rerum locasti, sanciens 
mundum Quirinali togae 
servire et armis
  cedere, 
ut discrepantum
  gentium 
mores et
  obseruantiam 
linguasque et
  ingenia et sacra 
unis domares
  legibus! 
En omne sub regnum
  Remi 
mortale concessit
  genus, 
idem loquuntur
  dissoni 
ritus, id ipsum
  sentiunt. 
Hoc destinatum, quo
  magis 
ius christiani
  nominis, 
quodcumque terrarum
  iacet, 
uno inligaret vinculo. 
Da, Christe, Romanis tuis, 
sit christiana ut ciuitas, 
per quam dedisti, ut ceteris 
mens una sacrorum foret! 
Confoederantur omnia 
hinc inde membra in symbolum, 
mansuescit orbis subditus, 
mansuescat et summum caput. 
Advertat abiunctas plagas 
coire in unam gratiam, 
fiat fidelis Romulus 
et ipse iam credat
  Numa. 
Confundit error
  Troicus 
adhuc Catonum curiam 
veneratus occultis
  focis 
Frygum penates
  exules. 
Ianum bifrontem et
  Sterculum 
colit senatus,
  horreo 
tot monstra patrum
  dicere 
et festa Saturni
  senis. 
Absterge, Christe,
  hoc dedecus! 
Emitte Gabriel tuum, 
agnoscat ut verum deum 
errans Iuli
  caecitas! 
Et iam tenemus
  obsides 
fidissimos huius
  spei, 
hic nempe iam regnant
  duo 
apostolorum
  principes, 
alter vocator
  gentium, 
alter cathedram
  possidens 
primam recludit
  creditas 
aeternitatis ianuas. 
Discede, adulter Iuppiter, 
stupro sororis oblite, 
relinque Romam liberam 
plebemque iam Christi fuge! 
Te Paulus hinc exterminat, 
te sanguis exturbat
  Petri, 
tibi id, quod ipse
  armaveras, 
factum Neronis,
  officit. 
Video futurum
  principem 
quandoque, qui servus
  dei 
taetris sacrorum
  sordibus 
servire Romam non
  sinat, 
qui templa claudat vectibus, 
valvas eburnas
  obstruat, 
nefasta damnet limina 
obdens aenos pessulos. 
Tunc plura ab omni
  sanguine 
tandem nitebunt
  marmora, 
stabunt et aera
  innoxia, 
quae nunc habentur
  idola.' | 
O antica genitrice di templi, 
Roma, già a Cristo votata, 
sotto la guida di Lorenzo, vincitrice 
trionfi sul barbaro costume. 
Avevi sconfitti re superbi, 
e oppresso in catene popoli, 
ora sugli orridi idoli 
imponi il giogo del tuo potere. 
Sol questa gloria mancava 
agl’insigni trionfi della città ove si porta la toga, 
vinta i costumi selvaggi delle genti, 
superare finalmente Giove infame, 
   
non con le forze sediziose 
di Cosso, di Camillo o di Cesare, 
ma con la non incruenta battaglia 
del martire Lorenzo. 
La Fede combatté armata, 
prodiga del proprio sangue; 
la morte infatti distrusse con la morte, 
e con sé riscattò se stessa. 
Il sacerdote Sisto, appeso alla croce, 
già avea detto che ciò sarebbe successo, 
vedendo Lorenzo che piangeva, 
sotto al legno stesso della croce: 
‘Smettete di piangere amaramente 
per la mia dipartita! 
Ti precedo, fratello; tu pure 
mi seguirai dopo tre giorni.’ 
Le ultime parole del vescovo, 
che preannunciavano la gloria, 
affatto non sbagliavano; infatti, il giorno 
prestabilito, portò seco la palma della vittoria. 
Con qual voce, con quali lodi, 
celebrerò l’esito della morte, 
con quale canto degnamente 
potrò cantare la passione? 
Egli, primo dei sette uomini 
che stanno presso all’altare, 
levita di grado eccelso 
e ben al di sopra degli altri, 
s’occupava del santuario ascoso, 
ministrando fidatamente le chiavi 
dell’arcano della casa celeste, 
e donando ricche offerte. 
[…] 
Queste parole aveva detto canzonando, 
dipoi guardò il cielo, 
e sospirando pregò, 
commiserando la città di Romolo: 
‘O Cristo, unico nome, 
o splendore, o virtù del Padre, 
o creatore della terra e del cielo, 
e fondatore di queste mura, 
tu che hai collocato lo scettro di Roma 
sopra ogni altro potere, decretando 
che il mondo si sottomettesse alla toga di Quirino, e cedesse alle
  sue armi, 
affinché, tra popoli diversi 
per costumi, indole, 
lingua e culti, tu imponessi 
di sottostare a un’unica legge! 
Ecco che tutto il genere umano 
è venuto sotto il regno di Remo, 
la stessa lingua parlano popoli di diverso 
costume, e han gli stessi sentimenti. 
Fu pure ciò destinato, che la legge 
del nome cristiano ancor più 
legasse in un sol vincolo 
tutto ciò che si trova sulla terra. 
Da, o Cristo, ai tuoi Romani, 
che sia cristiana la città 
per mezzo della quale donasti 
alle altre un’unica fede. 
Tutte le membra, d’ogni dove, 
si riuniscono nel simbolo, 
si ammansisce l’orbe sottomesso, 
si ammansisca pure la sua suprema capitale. 
Guidi i territori a lei legati 
a riunirsi in una sola grazia, 
sia fedele Romolo, 
e pur Numa stesso già creda. 
L’error troiano ancor offusca 
la curia dei Catoni, 
venerando ad altari ascosi 
gli esuli penati dei Frigi. 
Il senato è devoto a Stercolo 
e a Giano Bifronte, provo ribrezzo 
nel raccontar gli orrori dei padri 
e le feste del vecchio Saturno. 
Lava, o Cristo, questa vergogna! 
Manda il tuo Gabriele, 
perché la cecità di Giulio, ch’è nell’errore, 
riconosca il vero Dio. 
E già abbiam prove certissime 
di questa speranza, 
qui infatti già regnano i due 
principi degli apostoli, 
uno detto delle genti, 
l’altro possiede il trono primaziale, 
e chiude le porte dell’eternità, 
che gli sono affidate. 
Vattene, o Giove adultero, 
sozzato dallo stupro della sorella, 
e lascia libera Roma, 
già fuggi dal popolo di Cristo! 
Da qui Paolo ti scaccia, 
ti bandisce il sangue di Pietro, 
ti nuoce ciò che tu stesso hai disposto, 
il crimine di Nerone. 
Vedo il principe che verrà 
un giorno, servitore di Dio, 
il qual non permetterà che Roma 
si sottometta alle fosche sordidezze del culto, 
che serrerà colla spranga i templi, 
sprangherà le porte d’avorio, 
ripudierà quei nefasti ingressi, 
chiuderà i catenacci di bronzo. 
Alfine allora i molti marmi 
saran splendenti d’ogni sangue, 
e pur le statue bronzee, che ora son tenute per
  idoli, saranno innocue’. | 

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