venerdì 20 ottobre 2017

La Santa Messa XII - Dal Pater Noster alla Comunione

Pubblicazione precedente: http://traditiomarciana.blogspot.com/2017/09/la-santa-messa-xi-dallunde-et-memores.html

XLIII. L'Orazione Domenicale


Introducendola con delle magnifiche parole, che ci ricordano che abbiamo ricevuto questa preghiera direttamente dalle labbra di Nostro Signore, la Chiesa a questo punto prescrive di recitare il Pater Noster, detto per l'appunto anche Orazione Domenicale, perché dettata da Gesù Cristo medesimo. La posizione di questa preghiera nel rito romano è sempre stata la medesima, perché la ritroviamo in tutti i documenti; in origine, così come ancora oggi in tutti gli altri riti orientali e occidentali, essa seguiva la frazione del pane, che avveniva subito dopo la fine del Canone. S. Gregorio Magno, tuttavia, ritenendo che la Preghiera del Signore facesse parte del Canone, spostò la Frazione dopo di essa, invertendo l'ordine più antico.
La preghiera del Signore, in tal modo, quasi congiunge la parte precedente, nella quale la ragione primaria del Sacrificio è Sanctificetur nomen tuum, con la parte susseguente nella quale s’intende principalmente la santificazione dell’uomo tramite la SS. Eucaristia, Panem nostrum quotidianum. La preghiera del Signore, “sommario di tutto il Vangelo” (Tertulliano), secondo S. Girolamo è recitata nella Liturgia per istituzione dello stesso Signore: “Così insegnò ai suoi discepoli, perché quotidianamente nel Sacrificio del suo Corpo osino dire: Pater noster, qui es in coelis, etc.”.

Nell'Orazione Domenicale noi facciamo sette petizioni a Dio, tre per la sua gloria e quattro per le nostre necessità:
  1. Sanctificetur nomen tuum: chiediamo che a Dio e al suo Santo Nome siano rese la gloria e l'onore che gli si addicono
  2. Adveniat regnum tuum: chiediamo che sia instaurato al più presto il suo Regno, nel quale egli manifesterà la sua regalità su tutto e su tutti
  3. Fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra: chiediamo che le azioni degli uomini siano conformi alla volontà divina, così come lo sono quelle degli angeli nei cieli
  4. Panem nostrum quotidianum da nobis hodie: chiediamo di cibarci del nostro pane quotidiano, intendendo sì quello materiale, il nostro sostentamento, cui Dio provvede perché "sa di cosa abbiamo bisogno", ma soprattutto quello spirituale, la SS. Eucaristia, il corpo di Nostro Signore, il pegno per la vita eterna, che abbiamo davanti sull'altare.
  5. Dimitte nobis debita nostra: chiediamo la remissione dei nostri peccati, impegnandoci al contempo a rimettere egualmente ai nostri fratelli i torti che avessimo subito, siccome Iddio ci comandò: "dimittite et dimittimini".
  6. Ne nos inducas in tentationem: chiediamo a Dio di preservarci dalla tentazione demoniaca, alla quale egli talvolta acconsente d'esporci affinché possiamo esser provati e meritare le celesti ricompense, ma che è sempre una facile occasione di peccato contro la sua Maestà
  7. Libera nos a malo: chiediamo a Dio di liberarci dall'azione del Maligno, del Demonio che continuamente ci tenta e ci spinge al male, e indirettamente anche dal male che avessimo commesso su suo proditorio consiglio.
Alla fine il Sacerdote risponde in segreto Amen, del quale il Catechismo Romano: “La Chiesa nel Sacrificio della Messa, quando si recita la preghiera domenicale, non attribuì l’incarico di dire Amen ai ministri inferiori ai quali tocca di dire sed libera nos a malo, ma la riservò allo stesso Sacerdote, il quale, come interprete tra Dio e gli uomini, risponde al popolo che Dio è placato”.

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutione formati audemus dicere:

Pater noster, qui es in caelis, Sanctificetur nomen tuum. Adveniat regnum tuum. Fiat voluntas tua, sicut in coelo et in terra. Panem nostrum quotidianum da nobis hodie. Et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris. Et ne nos inducas in tentationem: 
R. Sed libera nos a malo. 
V. Amen.

Preghiamo: istruiti ai salutari precetti e formati alla divina istituzione, osiamo dire:

Padre nostro, che siete nei cieli, sia santificato il nome vostro. Venga il vostro regno. Sia fatta la vostra volontà, siccome in cielo pure in terra. Dateci oggi il pane nostro quotidiano. E rimetteteci i nostri debiti, siccome noi pure li rimettiamo ai nostri debitori. E non induceteci in tentazione:
R. Ma liberateci dal male. 
V. Amen.

XLIV. Embolismo

Subito dopo, il sacerdote prosegue segretamente la preghiera, sviluppandone la settima petizione, con la formula detta embolismo (letteralmente, "intercalazione"). In essa si chiede precisamente la liberazione:
  • Dai mali passati, di cui permangono gli effetti nelle cose sensibili, nella macchia della coscienza, nell'obbligo della pena da scontare o nella debolezza al bene. Benedetto XIV legge dunque quest'espressione come sinonimo di "peccati".
  • Dai mali presenti, da quelli che noi soffriamo presentemente, che Benedetto XIV rettamente identifica nelle tentazioni.
  • Dai mali futuri, da quelli imminenti in qualche pericolo futuro, che Dio potrebbe risparmiarci per la sua clemenza. Benedetto XIV particolarmente vede in ciò le pene che l'anima avrà da subire, siano esse temporali o eterne.
Nella preghiera poi il sacerdote, chiedendo l'intercessione della Beata Vergine e dei Santi Apostoli Pietro, Paolo e Andrea (inusuale aggiunta alla coppia di Apostoli che compare nella maggior parte delle preci latine), supplica Dio di concederci benignamente la pace, intendendo sia quella interna (il peccato), sia quella esterna (il turbamento). Intanto, si fa un segno di Croce con la patena, la quale, secondo la bella lettura del Quarti, significa la pietra posta sul sepolcro, e dunque [in questo momento] risveglia la memoria alla Morte di Cristo, dalla quale, redenti dai nemici, abbiamo ottenuta la pace. Il prete bacia poi la patena, per comunicare ad essa, ma soprattutto per la venerazione dello strumento ch'è atto a contenere il Corpo Sacratissimo di Nostro Signore Gesù Cristo.

XLV. Fractio panis e Commixtio

A questo punto, si compie un gesto estremamente importante nell'economia liturgica, perché riproduce esattamente ciò che fece Cristo durante l'Ultima Cena, la frazione del pane. Con il nome di Fractio panis, un tempo, si designava l'intera liturgia eucaristica. Il sacerdote mette la patena sotto l'Ostia, scopre il calice, prende l'Ostia e, tenendola al di sopra del calice, la rompe nel mezzo, dicendo intanto la conclusione dell'orazione precedente (Per eundem Dominum). Ripone allora sulla patena la parte che tiene nella mano destra; rompe una particella dell'altra metà che tiene nella mano sinistra, allora pone ugualmente sulla patena la parte dell'Ostia che aveva nella mano sinistra, e, tenendo al di sopra del calice la piccola particella che ha staccata, dice a voce alta: Per omnia sacula saeculorum. Il popolo, approvando la sua domanda e aderendo ad essa, risponde Amen. Allora, facendo tre volte il segno di croce sul calice con la particella che tiene sempre tra le dita, augura la pace di Cristo al popolo: la Chiesa non perde di vista la pace che ha domandato, e approfitta di quest'occasione per riparlarne.

La frazione dell'Ostia, secondo la mistica tradizionale, rappresenta la morte di Nostro Signore Gesù Cristo, mentre la sua commistione nel Calice ricorda la sua Risurrezione, quando Corpo e Sangue, un tempo lacerati della ferita, si riunirono nel Dio eternamente vivo. Si spezza sul Calice, perché, come argomenta il teologo Gabriel Biel, nel ferimento del Corpo di Cristo, il Sangue subito si versò dal Corpo. La Santa Ostia, poi, si divide in tre parti in onore della SS. Trinità, oppure, secondo i più, a imitazione della tripartizione del Corpo mistico di Cristo (militante, purgante e trionfante). L'Aquinate infatti: “La frazione dell’Ostia significa tre cose: primo ovviamente la stessa divisione del Corpo di Cristo fatta nella Passione; secondo la distinzione del Corpo Mistico secondo i diversi stati [Chiesa Militante, Purgante e Trionfante]; terzo la distribuzione delle grazie che provengono dalla Passione di Cristo”

Infine, la Commixtio, che è detta anche Consecratio, da non intendersi, secondo i più recenti liturgisti, nel senso di Consacrazione sacramentale; qui questa parola significa semplicemente "ricongiungimento di cose sacre" (Gueranger). Tuttavia, la scuola tridentina, e il Bellarmino tra i primi, sono di parere opposto: "Questa consacrazione null’altro è che una nuova significazione sacramentale: come infatti si dice esser consacrato ciò che acquista significazione sacramentale, così anche si dice essere di nuovo consacrato ciò che acquista un’altra significazione sacramentale. Infatti per quella commistione è significata la Risurrezione del Signore… infatti nella Risurrezione la Carne del Signore si congiunse nuovamente col suo Sangue. E così in quella commistione si fa una consacrazione, quando quelle specie, che divise rappresentano la Morte di Cristo, ora congiunte tra sé rappresentano la Risurrezione del Signore" (De Missa II).
La commixtio è detta anche dai vari teologi "Sacra Unione" o "Sigillo dei Misteri". Si è detto che questa raffigura la Risurrezione di Cristo, e dunque giustamente poi il sacerdote dà la pace al popolo, siccome il Risorto salutò i discepoli dando la pace; S. Tommaso aggiunge che anche i tre segni di Croce sul Calice sono una figura dei tre giorni che intercorrono tra la Morte e la Risurrezione.

Interessante è notare che la Chiesa Greca ha una doppia commistione: da una parte il Corpo che viene gittato nel Sangue, donde non verrà più levato perché sarà così somministrato ai comunicandi; dall'altra, dell'acqua bollente (detta ζέον), tenuta a riscaldare su un braciere nel Santuario, viene ministrata in quantità minima all'interno del Sangue di Cristo. Quest'uso bizzarro simboleggerebbe l'ardore dello Spirito Santo comunicato ai fedeli con la partecipazione al banchetto eucaristico, ma non fu introdotto prima del XIV secolo, ed è guardato con sospetto dai liturgisti romani, perché si rischia di corrompere il Sangue di Nostro Signore con vile sostanza.

XLVI. Agnus Dei e Pace



L'Agnus Dei è la speciale triplice invocazione con cui il sacerdote saluta la Vittima prima di prepararsi ad accostarvisi: questa è contemporaneamente cantata dal coro, perché anche i fedeli salutino solennemente la Vittima alla quale presto comunicheranno. L’Agnello indica il Salvator nostro, tramite Isaia, Giovanni Battista, e più spesso Giovanni Evangelista nell’Apocalisse; “Agnello” per l’innocenza, la mansuetudine, l’obbedienza e l’immolazione. Pare che questa litania, in cui si supplica l'Agnello di Dio condotto al macello di avere pietà della nostra miseria, sia di origine orientale, e sia stata introdotta a Roma nel VIII secolo da Papa Sergio I. L'ultima invocazione fu cambiata in dona nobis pacem, probabilmente per la vicinanza dello scambio di pace (vide infra), anche se alcuni videro in ciò un simbolismo, come S. Isidoro ("introduce l’orazione per il bacio della pace, perché tutti, con carità riconciliati tra loro, comunichino degnamente al Sacramento del Corpo e Sangue di Cristo"), o i liturgisti moderni come il Gueranger ("la terza volta aggiunge: Dona nobis pacem, perché l'Eucaristia, come abbiamo già detto, è il Sacramento della pace, per il quale tutti i fedeli si trovano riuniti").
Nelle Messe dei defunti, invece di miserere nobis, si dice: dona eis requiem, e la terza volta si aggiunge sempiternam, per esprimere chiaramente il carattere di quanto si dimanda per le anime dei fedeli trapassati: non già l'unione nella pace, ma il riposo nella pace eterna.

A questo punto, il Sacerdote, dopo aver recitato l'Orazione della Pace, bacia l’altare, che è la fonte della pace fra cielo e terra, frutto del Sacrificio, e con un abbraccio rituale, dà il bacio di pace al diacono, che la trasmette al suddiacono, il quale la trasmette agli altri membri del clero.
È uno dei riti più antichi della Messa, e un tempo la pace veniva trasmessa anche ai fedeli; poi, per ragioni di decenza, la pace si trasmise ai fedeli con uno strumento, cioè si dava da baciare una tavoletta con un’immagine sacra, cosa che si fa ancora in alcune circostanze. Una volta secondo l’esempio di Cristo e degli Apostoli (“salutatevi con un santo bacio”) la pace si dava con un bacio, dal XIII sec. soltanto con un abbraccio oppure con l’ “osculatorium” o “strumento della pace”, cioè per una piccola tavola sulla quale era scolpita o dipinta l’immagine del Crocifisso o della B. M. V. o di qualche Santo. Con questo rito la Chiesa intende unire i fedeli sia a Dio sia tra loro nel vincolo della carità e della pace, perché ricevano con frutto la Comunione sacramentale o spirituale. “Il popolo è preparato con la pace etc. Infatti questo è il Sacramento dell’unità e della pace. Ma nelle Messe dei defunti, nelle quali il Sacrificio è offerto non per la presente pace ma per il riposo dei morti, la Pace è omessa” (S. Tommaso)
Abbiamo già fatto notare che non si da la pace nelle Messe dei defunti: la medesima cosa si osserva il Giovedì Santo per protestare contro il bacio di Giuda, col quale Nostro Signore fu tradito e consegnato ai suoi nemici. Tale cerimonia si omette ugualmente il Sabato Santo, mantenendo così l'antico costume che si praticava quando la Messa si celebrava di notte: il gran numero dei neofiti avrebbe potuto esser occasione di confusione. E poi il Signore non rivolse ai suoi discepoli riuniti le parole Pax vobis, se non alla sera della Risurrezione. Per questo la Chiesa, volendo rispettare le più piccole circostanze della vita del suo celeste Sposo, omette nella Messa del Sabato Santo il canto dell'Agnus Dei, che richiederebbe il dona nobis pacem, e tralascia anche la cerimonia del bacio di pace, che non si riprende se non alla Messa del giorno di Pasqua. (Gueranger)

XLVIII. Orazioni preparatorie alla Comunione e Comunione del Sacerdote

Poi, il celebrante legge dal Messale altre due preghiere, di origine medievale (X secolo circa) per prepararsi alla ricezione del SS. Sacramento. In queste orazioni commemora tutta la missione salvifica di Nostro Signore Gesù Cristo, e benché indegno di comunicare al Suo Corpo Sacratissimo e al Suo Sangue Preziosissimo, lo supplica affinché le Sacre Specie non gli tornino a condanna (siccome ammonisce San Paolo nella lettera ai Corinzi: Qui enim manducat et bibit indigne, judicium sibi manducat et bibit), ma gli siano al contrario di giovamento per la vita sempiterna.


Dette queste orazioni, il Sacerdote genuflettendo adora il Sacramento. “L’adorazione qui è segnatamente prescritta come atto che dispone in maniera prossima alla Comunione. Poi, alzandosi dice: Panem cœlestem accipiam etc. per esprimere la fame e il fervente desiderio di questo Pane Celeste, con ciò dispone meravigliosamente l’anima a ricevere da esso una perfetta nutrizione e abbondanza dello spirito… e non aspetta di proferire eretto quelle parole, ma le pronunzia mentre si alza perché esprima un desiderio più fervente" (Quarti) Quindi, profondamente inchinato, tenendo la S. Ostia sulla patena, si batte tre volte il petto, proferendo con grande fede e umiltà le parole del Centurione del Vangelo, che Gesù Cristo stesso lodò: Domine non sum dignus! Inizia queste invocazioni ad alta voce e le prosegue segretamente, per richiamare l'attenzione del popolo; nell'uso francese, anche il campanello suonato tre volte richiama l'attenzione dei fedeli in questo momento. Poi, tracciando un segno di Croce con la S. Ostia e pregando perché la Comunione al Corpo di Nostro Signore gli sia di custodia all'anima nel viaggio verso la vita eterna, assume con reverenza la Specie. Dionigi Cartusiano insegna che il Sacerdote "deve ricevere [la S. Comunione] con grande affetto e somma riverenza, senza aver fretta ma ripensando ardentissimamente ai benefici di Cristo, specialmente l’Incarnazione, Passione, il suo amore per noi, tanta degnazione e liberalità per la quale si è degnato essere con noi e di farsi manducare da noi”. Per questo le rubriche del Messale prescrivono al prete di restare un poco nella meditazione del Santissimo Sacramento ricevuto, il quale ringraziamento si accompagna all'atto di grazie per eccellenza che ci è tramandato dalla Scrittura, il salmo CXV, in cui si rendono le dovute grazie a Dio per tutti i benefici che nel suo Corpo ci ha comunicati.
"Prendendo poi il Sacro Calice, quasi si risponde dopo essersi interrogato: dice Calicem salutaris accipiam etc., cioè il Calice della salvezza o di Cristo Salvatore. E poiché con questo Sangue ha ricevuto gli stessi beni, per entrambi dice nomen Domini invocabo. Laudans invocabo Dominum et ab inimicis meis salvus ero. È infatti il singolare potere di questo Sangue, che fa fuggire lontano i demoni e gli altri nemici spirituali, perché la Redenzione è stata fatta “col Prezioso Sangue di Cristo, dell’Agnello immacolato e incontaminato”; è il Sangue adombrato nel sangue dell’agnello pasquale, del quale unti gli stipiti, l’angelo sterminatore passava oltre". (Commentatori varj)
Il Papa, secondo gli usi antichi, dà una parte dell’Ostia al diacono e una al suddiacono; ugualmente, dopo aver comunicato al Preziosissimo Sangue tramite la fistula (una cannuccia d’oro), ne lascia una parte ai medesimi ministri.

XLIX. La Comunione dei fedeli


Subito dopo la sua Comunione, il Sacerdote l’amministra ai fedeli che lo desiderassero, la qual cosa era per verità divenuta sempre più rara nel corso dei secoli, tanto che i Padri Tridentini vollero inserire nei decreti questa frase: “Il Sacrosanto Sinodo desidererebbe certo che in ogni Messa i fedeli presenti si comunicassero non solo spiritualmente, mediante il desiderio, ma anche col ricevere sacramentalmente l’Eucarestia” (canone XXII, Concilio di Trento). In ogni caso, solo a partire dal Pontificato di S. Pio X i fedeli iniziarono a ricevere frequentemente (settimanalmente o taluni quotidianamente) la S. Eucaristia, mentre molti Cattolici Orientali si attengono ancor oggi al costume medievale di comunicarsi una-due, massime tre, volte all'anno.
Il rito della Comunione dei fedeli di per sé non fa parte della Messa, ma è un rito a sé stante contenuto nel Rituale Romanum, che può dunque esser officiato a questo punto della Santa Liturgia, ma anche al di fuori di essa, in qualsiasi momento ve ne fosse la necessità. Indubbiamente, però, il momento più opportuno per la distribuzione della S. Eucaristia è proprio il culmine della Divina Liturgia, durante la quale alla Consacrazione di questo stesso Santo Corpo si è assistiti con devozione.

Poiché la purità dell’anima, l’umiltà con la fiducia è un’ottima disposizione per ricevere il Dio tre volte Santo (“cor contritum et humiliatum, Deus, non despicis”), alla S. Comunione viene premesso il Confiteor, seguito come sempre da Misereatur e Indulgentiam, ovverosia dall'assoluzione intercessoria che agisce ex opere operantis, col segno di Croce, per la cui potenza è data la remissione dei peccati. Intanto, se il SS. Sacramento è custodito nel Tabernacolo, il sacerdote apre quest'ultimo e, con copia di venerazioni e genuflessioni, estrae il Santissimo e lo pone sull'altare.
Indi, voltosi al popolo tenendo in mano la pisside e mostrando la S. Ostia, pronuncia le parole con cui il Battista additò per la prima volta il Salvatore, additando così ai fedeli il cibo salutare, il Corpo di Nostro Signore. I ministri, dunque, ripetono tre volte la preghiera del Centurione (vide supra) battendosi altrettante volte il petto; anche il sacerdote dice questa preghiera, e lo fa a nome di tutti i fedeli comunicandi che, per ignoranza o altro, non potessero dire almeno sottovoce questa invocazione preparatoria per la S. Comunione.
Avviene dunque la distribuzione della S. Ostia  ai fedeli, devotamente inginocchiati alla balaustra, le donne col capo velato. Sulla balaustra è stata stesa una tovaglia, poiché diventa la mensa cui i fedeli ricevono la Divina Eucaristia, e sotto di essi il diacono o un ministrante regge un piattino, affinché, se l'Ostia dovesse cadere, non venga profanata. Così il De Carpo descrive questo santo momento: "Porgendo a ciascuno il SS. Sacramento [il Sacerdote] fa con Esso un segno di Croce sulla pisside, per benedire il comunicante, o per indicare che questo è lo stesso Corpo di Cristo che fu affisso sulla Croce. Una volta prima della Comunione, era gridato ad alta voce: Sancta Sanctis (che si fa ancora oggi nella Chiesa Greca), e il popolo acclamava: Unus Sanctus, unus Dominus Jesus ; allora il Sacerdote dando la S. Eucaristia ai singoli diceva: Corpus Christi, ed i singoli rispondevano: Amen. La formula odierna, notevolmente più lunga, è di origine relativamente tarda, ma meglio esprime il salutare valore della S. Comunione Sacramentale. Un tempo c’era un triplice modo con cui i laici comunicavano alla specie del vino: o il Diacono accostava il Calice alla loro bocca, o suggevano la sacra specie dal Calice con una canna o “fistula” (la quale oggi spetta solo al Papa, vide supra, ndr), o infine, dopo il XII sec., il Corpo del Signore era cominciò a essere universalmente dato ai fedeli intinto nel Vino consacrato. A partire dal secolo successivo, però, per evitare profanazioni, si preferì evitare di somministrare il Prezioso Sangue ai laici, facendoli comunicare alla sola Ostia. I Concili di Costanza (1425) e di Trento (nel 1562), essendo l’intero Cristo presente sotto ciascuna Specie, hanno dichiarato la non necessità della Comunione sub utraque specie ed anzi hanno evidenziato la possibilità di scandali o sacrilegi. Essa, ciononostante, non è vietata, e previa speciale autorizzazione episcopale può essere somministrata ai fedeli. Presso i Greci vige invece tuttora l'uso antico di comunicare al Corpo intinto del Sangue, distribuito mediante un cucchiaino, secondo un uso che in Oriente raccomandava già S. Giovanni Crisostomo (IV secolo).

2 commenti:

  1. Resta de facto che Papa Giovanni XXIII ha abolito la recita del secondo confiteor, si veda § 503 Rubricae generales Missalis romani anno 1962.
    503. Quando si distribuisce la santa Comunione durante la Messa, il celebrante, dopo aver consumato il preziosissimo Sangue, omesse la confessione e l’assoluzione, dice Ecce Agnus Dei e tre volte Dómine, non sum dignus, e procede immediatamente alla distribuzione della santa Eucaristia.

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    1. Vero, ma noi stiamo qui parlando del Rito Romano tradizionale, per il quale possiamo fare riferimento solo alle rubriche del 1952 (ed. VI post typicam 1921), ultime a conservare pienamente l'ortodossia del Rito Romano, in quanto le riforme del '55 e del '62 contengono già le tracce di quella "mentalità moderna" su cui poi sarà costruito il rito nuovo.

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