sabato 25 maggio 2019

Cronaca e immagini del pellegrinaggio a Concordia

Sabato 25 maggio la Compagnia di S. Antonio, insieme alla sezione pordenonese di Una Voce Italia e al Circolo Traditio Marciana, si è recata in pio pellegrinaggio alla Cattedrale di S. Stefano Protomartire in Concordia, per venerare le reliquie dei santi protomartiri concordiesi Donato, Romolo, Secondiano e compagni.

Dopo un breve cammino devozionale e la recita del Santo Rosario da parte dei pellegrini convenuti, alle 15.30, presso l'Altare dei Martiri, il rev. don Claudio Gecchele PSDP, cappellano dell'ospedale di Negrar (VR), ha cantato una messa votiva in onore della Beata Vergine Maria secondo l'antico messale romano. Al termine della Divina Liturgia, le reliquie dei santi Martiri sono state debitamente incensate e venerate al canto del Rex gloriose martyrum.

La sacra liturgia è stata animata dalla Corale Concordiese, che ha eseguito l'ordinario gregoriano della messa Cum jubilo. Il servizio liturgico è stato curato da Traditio Marciana e Una Voce Pordenone.












sabato 18 maggio 2019

II Pellegrinaggio della Tradizione delle Venezie "alla Salute" - sabato 15 giugno


Il prossimo sabato 15 giugno si terrà in Venezia, presso la Basilica Santuario di S. Maria della Salute, il II Pellegrinaggio della Tradizione delle Venezie, organizzato dal Circolo Traditio Marciana in collaborazione col Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum.

Alle ore 11, all'altar maggiore del seicentesco Santuario Basilicale, il m. rev. mons. Marco Agostini, del clero veronese, officiale della segreteria di stato vaticana e cerimoniere papale, canterà la S. Messa solenne "in terzo" del Sabato delle Tempora di Pentecoste. Al termine della Divina Liturgia, saranno supplichevolmente intonate, ai piedi dell'icona della Madonna Mesopanditissa (Mediatrice di Pace), le Litanie della Beata Vergine secondo la consuetudine della Ducale Basilica di S. Marco.

Per chi lo desiderasse, è organizzato un pranzo in un ristorante nei pressi della Basilica. Essendo i posti limitati, è necessaria la prenotazione, da effettuarsi per email (traditiomarciana@gmail.com) oppure telefonicamente (+39 348 803 5141, Alessandra).

mercoledì 15 maggio 2019

San Giovanni Nepomuceno, ieromartire

IN SANCTA PATRIARCHALI PRIMATIALI
METROPOLITANA ARCHIDIOECESI VENETIARVM

16 maji
S. Joannis Nepomuceni
presbyteris et martyris
Cleri et Civitatis Venetiarum patroni 


duplex majus - paramenta rubra - missa propria "Dedit mihi" 
2a oratio de S. Ubaldo Ep. et Conf. - Gloria - praef. paschalis

***

Giovanni di Nepomuk, secondo le cronache, nel 1393 era vicario generale dell'arcidiocesi di Praga e che il 20 marzo dello stesso anno, su ordine di re Venceslao IV di Boemia, fu gettato nella Moldava e vi affogò.

Giovanni era il figlio di Velflin, un cittadino di Pomuke. Compiuti studi in utroque jure prima  Praga e poi a Padova, divenne canonico a Sant’Egidio di Praga nel 1389 e poi parroco della Chiesa di San Gallo, canonico della cattedrale di San Vito e arcidiacono di Saaz. Dopodiché, l’arcivescovo di Praga lo volle come vicario generale, e in questa qualità egli si oppose a re Venceslao IV di Boemia, Imperatore del Sacro Romano Impero, il quale aveva vietato di nominare un novo abate per il monastero di Kladruby, dopo la morte del precedente, per installarvi un proprio favorito. Venceslao rispose ordinando l'imprigionamento del vicario generale, del vicario della cattedrale, il prevosto Venceslao di Meissen, dell'assistente dell'arcivescovo e successivamente anche del decano dei canonici della cattedrale. I quattro furono anche torturati il 4 marzo e tre di loro furono indotti a cedere alle richieste del re; Giovanni tuttavia resistette fino all'ultimo. Gli fu fatto subire ogni tipo di tortura, inclusa la bruciatura dei fianchi con torce, ma neppure questo lo indusse all'obbedienza. Alla fine, il 20 marzo 1393, il re ordinò di metterlo in catene, condurlo attraverso la città e gettarlo nel fiume Moldava. Tale vicenda è rinovellata nel documento di accusa contro il re, presentato a papa Bonifacio IX il 23 aprile 1393 dall'arcivescovo Giovanni di Jenštejn, che andò a Roma con il nuovo abate di Kladruby. Il luogo della sua esecuzione, sul Ponte Carlo, è luogo di venerazione e viene ricordato da una lapide. Secondo la credenza popolare toccando la lapide con la mano sinistra si avrà fortuna per i successivi 10 anni.

Alcuni annali storici scritti 60-80 anni dopo la sua morte attribuiscono il martirio a cause molto diverse. Secondo questa tradizione Giovanni Nepomuceno sarebbe anche stato confessore della regina Giovanna di Baviera ed il re, avendo dei dubbi sulla fedeltà della stessa, gli aveva chiesto di rivelare quanto detto in confessione dalla regina. Giovanni non aveva accettato di violare il segreto delle confessioni e perciò venne fatto gettare nella Moldava, dove annegò. Il mattino seguente il corpo venne ritrovato sulle rive del fiume circondato da una strana luce; ciò sarebbe accaduto il 16 maggio del 1383. Questa versione divenne di gran lunga la più popolare, e S. Giovanni Nepomuceno fu eletto a speciale patrono del clero di molte città (tra cui quella di Venezia), e venerato quale martire del sigillo sacramentale della Confessione. Questo condizionò anche la sua rappresentazione iconografica: è spesso raffigurato con l'abito dei canonici (veste talare, cotta, almuzia e berretta), la palma del martirio e, talvolta, il crocifisso; porta un'aureola con cinque stelle in ricordo di quelle che, secondo la leggenda, apparvero quando venne gettato nella Moldava; in genere è raffigurato con il dito sulle labbra, a ricordare il sigillo sacramentale, ed è accompagnato da un angelo nel medesimo atteggiamento.

Sono stati rinvenuti quattro documenti contemporanei che concernono il martirio del Nepomuceno.
  • Il documento di accusa contro il re, presentato a papa Bonifacio IX il 23 aprile 1393 dall'arcivescovo Giovanni di Jenštejn che andò a Roma con il nuovo abate di Kladruby.
  • Pochi anni più tardi l'abate Ludolf di Sagan lo elenca sia nel catalogo degli Abati di Żagań (Sagan)[4] completato nel 1398, che nel trattato De longævo schismate, lib. VII, c. xix.
  • Un quarto riscontro documentario è fornito dal Chronik des Deutschordens, una cronaca dei Cavalieri dell'Ordine Teutonico che fu compilata da Giovanni di Posilge, che morì nel 1405.
  • L'arcivescovo Giovanni di Jenštejn, nella sua accusa summenzionata (all'art. 26), chiama Giovanni di Nepomuk, "santo martire"; nella biografia di Jenštejn, scritta dal suo cappellano, Giovanni di Nepomuk è descritto come gloriosum Christi martyrem miraculisque coruscum.

È chiaro che i suoi contemporanei già avevano cominciato a onorare come martire e santo il vicario generale messo a morte dal monarca per aver difeso la legge e l'autonomia della Chiesa cattolica. Ciò, inoltre, rende verosimile il fatto che il corpo di Giovanni Nepomuceno sia stato recuperato sulle rive della Moldava e seppellito nella cattedrale di Praga, dove infatti, com'è provato da documenti più tardivi, veniva venerato. Nella sua Chronica regum Romanorum, completata nel 1459, Tommaso Ebendorfer (d. 1464) riferisce che il re Venceslao aveva affogato nella Moldava il sacerdote confessore di sua moglie, indicato come Magister Jan, perché aveva affermato che «...solamente colui che governa bene è degno del nome di Re» e si era rifiutato di violare il segreto della confessione. Questa è la prima fonte che indica come motivo della condanna a morte il rifiuto della violazione del segreto confessionale. Il cronista che parla di un solo Giovanni, affogato su ordine del re Venceslao, evidentemente si riferisce al Giovanni di Pomuk messo a morte nel 1393. Nelle altre cronache scritte nella seconda metà del XV secolo troviamo regolarmente, come motivo dell'esecuzione di Giovanni, l'aver rifiutato di riferire al re quello che la regina aveva detto in confessione.

Il testo Istruzioni per il Re di Paolo Žídek (sc. Giorgio di Podebrady), completato nel 1471, contiene ancora maggiori dettagli. Vi si afferma che il re Venceslao sospettava di sua moglie, che era solita confessarsi da Magister Jan, e aveva fatto appello a quest'ultimo per ottenere il nome del suo amante. Il re ordinò che Giovanni fosse affogato per il suo rifiuto di parlare.

In queste antiche cronache non viene indicato il nome della regina o alcuna data dell'avvenimento. Nel 1483 il decano della cattedrale di San Vito, Giovanni di Krumlov, indica come data della morte del santo il 1383, anno in cui era ancora in vita la prima moglie di Venceslao, Giovanna (che morì nel 1389). Potrebbe trattarsi di un errore di trascrizione.

Nel suo Annales Bohemorum lo storico boemo V. Hájek di Libočany (morto nel 1553), è il primo a parlare di due Jan di Nepomuk, che furono messi a morte per ordine del re Venceslao: uno, il confessore della regina martirizzato per essersi rifiutato di violare il segreto confessionale, fu gettato nella Moldava nel 1383; l'altro, ausiliare Vescovile di Praga, venne affogato nel 1393 perché aver confermato l'elezione del monaco Albert come Abate di Kladruby.

Gli storici del sedicesimo e diciassettesimo secolo danno dettagli più leggendari del martirio universalmente accettato di Giovanni perché si rifiutò di violare il segreto confessionale. Bohuslav Balbinus, S.J., nel suo Vita b. Joannis Nepomuceni martyris fornisce il resoconto più completo. Vi si riferisce con molti dettagli come il 16 maggio 1383 (questa data già era stata riportata in cronache più antiche) Giovanni di Nepomuk, poiché si rifiutò di rivelare al re le confessioni della Regina Giovanna, fu gettato nella Moldava per ordine del sovrano ed affogò.

Secondo Venceslao Hajek di Libocany, storico boemo del Cinquecento, esistettero due personaggi distinti con lo stesso nome, il predicatore di corte che venne ucciso nel 1383 per non aver rivelato le confessioni della regina e l'ausiliario vescovile di Praga, che venne fatto uccidere nel 1393 per aver confermato l'elezione dell'Abate di Kladruby Alberto, in contrasto con il volere del monarca. In tempi successivi gli storici hanno ritenuto più probabile l'esistenza di un unico personaggio storico, il vicario-generale assassinato nel 1393 e che la controversia sia nata per un errore del decano della cattedrale di San Vito, Giovanni di Krumlov, che nel 1483 trascrisse per errore il 1383 come data della morte del santo.

Dopo la canonizzazione del Nepomuceno il suo culto si diffuse rapidamente anche a Venezia: come detto, fu eletto patrono del clero della città, e anche i gondolieri lo venerano come proprio patrono. Una statua, attribuita a Giovanni Marchiori è presente sul Canal Grande all'imbocco del canale di Cannaregio: molte statue dedicate al Santo erano infatti erette in prossimità dei fiumi, a ricordare il suo martirio.
Nel sestiere di San Polo, nella chiesa omonima, sopra l'entrata, vi è un lunettone ad affresco (purtroppo mutilo) raffigurante San Giovanni Nepomuceno; nella stessa chiesa è conservata nella cappella dedicata al santo la pala d'altare di Giambattista Tiepolo raffigurante san Giovanni Nepomuceno in adorazione della Madonna col Bambino ed un'altra tela del figlio Giandomenico raffigurante il martirio del santo (quella riportata in cima all'articolo). È da annotare che in questo sestiere fino agli anni cinquanta del Novecento vi era, nel giorno della ricorrenza del santo, una fiera lungo le calli adiacenti la Chiesa di San Polo e nel campo antistante. Restando a Venezia la presenza del santo boemo è capillare in molti edifici di culto: Santi Apostoli, Santo Stefano, San Niccolò dei Mendicoli, San Geremia, San Martino, ecc. 

 Statua di S. Giovanni Nepomuceno a Venezia (Canale di Cannaregio)

Statua di S. Giovanni Nepomuceno a Praga (Ponte Carlo)

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Deus, qui ob invictum beati Joannis sacramentale silentium nova Ecclesiam tuam martyrii corona decorasti: da, ut ejus exemplo et intercessione, ori nostro custodiam ponentes, beatis, qui lingua non sunt lapsi, annumeremur. Per Dominum.

O Dio, che per via dell'invitto silenzio sacramentale del beato Giovanni hai decorato la tua Chiesa con una nuova corona del martirio: concedi che, in virtù del suo esempio e della sua intercessione, custodendo la nostra bocca, siamo annoverati tra quei beati che non commisero peccati di lingua. Per il Signor nostro...

(Colletta di S. Giovanni Nepomuceno)

martedì 14 maggio 2019

Pellegrinaggio a Concordia Sagittaria sabato 25 maggio

La Compagnia di S. Antonio, insieme alla sezione pordenonese di Una Voce Italia, si recherà il prossimo sabato 25 maggio in pellegrinaggio a Concordia Sagittaria (sede vescovile fino al 1970, nonché residenza fino al 1586, della diocesi oggi rinominata di Concordia-Pordenone dopo il trasferimento dell'Ordinario in quest'ultima città occorso negli anni '70) per la venerazione dei Santi Martiri Concordiesi Donato, Secondiano, Romolo e compagni.

Concordia è infatti figlia di Aquileja nella Fede, e, negl'intenti della Compagnia, questo secondo pellegrinaggio si pone come una nuova tappa di avvicinamento proprio ad Aquileja, dove ci si ritroverà il 21 settembre per il III° Pellegrinaggio della Tradizione Marciana.

Il pellegrinaggio si svolgerà con il seguente programma:

14.30  Ritrovo sul sagrato della Cattedrale (di fronte all'edicola della Madonna), benedizione dei pellegrini, breve cammino devozionale e recita del S. Rosario in Cattedrale

15.30  S. Messa in rito romano antico presso l'altare dei Ss. Martiri Concordiesi e venerazione delle reliquie degli stessi

Al termine ci si potrà intrattenere nella casa canonica per un sobrio momento conviviale.

Il Circolo Traditio Marciana aderirà all'iniziativa, collaborando al servizio all'altare.

Di seguito il comunicato ufficiale degli organizzatori.

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Rex gloriose Martyrum,
corona confitentium,
qui respuentes terrea
perducis ad celestia.


Cari pellegrini,

la Compagnia di SantAntonio, insieme agli amici di UNA VOCE -Pordenone, si prepara a raggiungere la seconda tappa del proprio itinerario di Fede, passando per i luoghi più significativi per la devozione e pietà cristiane tra Veneto orientale e il Friuli, e che ci porterà ad Aquileia sabato 21 settembre, per il III Pellegrinaggio della Tradizione Marciana.

Dopo il pellegrinaggio al Santuario di Madonna del Monte di Aviano, del 22 dicembre scorso, ci avvicineremo alla nostra meta fermandoci in preghiera a Concordia Sagittaria, a fine mese, il prossimo sabato 25 maggio.

Nellantica città romana Iulia Concordia, fondata nel 42 a. C. sullincrocio tra Via Annia e Via Postumia e diventata sede di unimportante fabbrica di sagittae (frecce) per lesercito romano, la Fede attecchì fin dai primi secoli dellera cristiana grazie al messaggio evangelico che rapidamente si propagò in quella zona dalla vicina Aquileia. La Fede si diffuse soprattutto tra i soldati della guarnigione di stanza, come dimostrano i simboli cristiani apposti in numerose arche funerarie del sepolcreto delle milizie.

Nel 304 Concordia subì le persecuzioni anti cristiane dellimperatore Diocleziano ed ebbe i suoi martiri: la tradizione vuole che il loro numero fosse di 72 e che il luogo del martirio fosse al limite della città romana sulla sponda destra del Lemene, presso la porta orientale, dove ora sorge un sacello. Essi appartenevano per la maggior parte allesercito. Di alcuni si è tramandato il nome: Donato, Romolo, Secondiano, Giusto, Silvano. I loro corpi furono raccolti da alcuni uomini religiosi e le ossa, in seguito, furono custodite, fino ad oggi, nella cattedrale, nella cappella attuale: cappella che fu poi ampliata e dotata di una Confessio come nelle basiliche romane, dal parroco don Celso Costantini. Nel 1904 le ossa furono racchiuse in unurna preziosa. Nel 1450 la festa fu fissata al 17 febbraio.

La comunità cristiana poté godere finalmente della pace con leditto di tolleranza dellimperatore Costantino del 313 e fiorì rapidamente. Tra i Cristiani spiccano i nomi di Paolo monaco, che fu segretario di san Cipriano vescovo di Cartagine ( 258), e Rufino della gens Tyrannia, teologo e scrittore ecclesiastico, sodale di san Gerolamo e poi suo avversario nella disputa su Origene.

Nel 389 Cromazio, vescovo di Aquileia, consacrò la nuova Basilica Apostolorum, che accolse le reliquie di Giovanni il Battista, di San Giovanni Evangelista, SantAndrea, San Tommaso e di San Luca, che provenivano da Costantinopoli. La costruzione della chiesa coincise con lerezione della nuova diocesi concordiense, che fu posta sotto il patronato di santo Stefano protomartire.
Questanno ricorre dunque lanniversario dei 1630 anni della consacrazione della cattedrale e della costituzione della diocesi.

La cattedrale, che subì le conseguenze della devastazione attilana nel 452, continuò ad essere officiata fino a grande colluvium aquae del 587, che annientò quasi totalmente lassetto demico della regione.

Una nuova chiesa sorse nellVIII secolo e infine con il X secolo fu eretta la cattedrale che in qualche misura è sopravvissuta fino ad oggi. Nel 1168 il vescovo Regimpoto fece edificare il Battistero, affrescato con un ciclo di pitture di notevole importanza iconografica e storica.

Allinterno dellattuale Cattedrale, proclamata Santuario diocesano il 17 febbraio 2018 dal Vescovo di Concordia - Pordenone Giuseppe Pellegrini, si trova la cappella dedicata ai Santi Martiri Concordiesi, che costituisce il transetto sinistro delledificio. Nella cappella è conservato il tesoro della Chiesa concordiense, cioè numerose reliquie di santi e di martiri, oltre allampolla con il liquido che venne effuso dalle ossa dei Martiri nel 1870.

Ai piedi dellaltare dei Martiri ci metteremo in preghiera supplicandoli, affinché il Signore ci conceda il coraggio e la forza di testimoniare sempre la Fede e di tramandarla incorrotta alle future generazioni.

Come di consueto il pellegrinaggio è aperto a tutti e inizierà alle ore 14.30 dal sagrato della Cattedrale, di fronte alledicola dedicata alla Beata Vergine Maria posta allangolo tra Via Claudia e Via Carneo.

Percorso un breve tratto a piedi ci recheremo in Cattedrale per la recita del Santo Rosario e alle 15.30 inizierà la Santa Messa in Rito Romano Antico, alla quale seguirà la venerazione dei santi Martiri.

Al termine ci ritroveremo presso la Casa Canonica per un momento conviviale.
Vi attendiamo numerosi.

In corde Matris,

Compagnia di SantAntonio - UNA VOCE Pordenone

giovedì 2 maggio 2019

La sodomia era accettata dagli antichi Greci?

Il tema presentato nel titolo ricopre indubbiamente un certo interesse, in quanto la narrazione generica che viene evulgata sul mondo antico tende, negli ultimi due secoli, a presentare la sodomia come atto comune presso gli Antichi; taluni hanno poi naturalmente usato questa supposizione per screditare i principi morali della Religione Cristiana che vieterebbero qualcosa di naturale.

La risposta a questa questione è decisamente complessa, e deve partire sicuramente dalla definizione di "naturale". In senso filosofico, "naturale" è ciò che è conforme alla legge eterna: nella quadripartizione tomistica del diritto, lo jus naturale è difatti la partecipatio legis aeternae in rationali creatura. Già nella formulazione aristotelica, il "naturale" dunque riguarda solo la "creatura razionale", cioè l'uomo, nella misura in cui egli è l'unica creatura in grado di pensare in modo complesso, cioè di elaborare e attuare la lex aeterna, costituita da principi assoluti (Kierkegaard li definirebbe "scandali") non rispondenti necessariamente (anzi, quasi mai) all'istinto. In teologia classica, infatti, quando l'istinto, che è distintivo dell'anima sensitiva, per Aristotele propria degli animali, prevale sulla ratio della legge eterna, l'uomo in tal guisa umilia la sua dignità razionale e regredisce a bestia: è questa una delle conseguenze più notevoli del peccato originale. In questo significato, la parola "naturale" implica un giudizio, perché non si limita ad osservare una realtà, ma la elabora intellettualmente, conferendole un senso e un posto all'interno di una costruzione più ampia e razionale.
In senso biologico, "naturale" è banalmente qualcosa che si manifesta nella natura: è un criterio cioè puramente osservativo, descrittivo, che non implica un giudizio.
In questo modo, tuttavia, diventa assolutamente insensata la pretesa di certuni paladini dei "diritti moderni" di giustificare alcuni atti perché "naturali": essi confondono ripetutamente i piani, poiché parlano di qualcosa di naturale in senso biologico (dicono infatti ad esempio che gli atti "omosessuali" sono diffusi tra gli animali...) e subito poi lo traslano in un senso pseudo-filosofico (...e quindi sono giusti). Ma la trasposizione risulta chiaramente falsa e illogica. La summenzionata posizione è facilmente smentibile nel momento in cui si espongono tutti quegli atti che sono biologicamente naturali, praticati da animali, ma finanche da taluni consorzi umani (verbigrazia, il cannibalismo), che nemmeno il corrotto giudizio dei contemporanei si sognerebbe di classificare come giusti.

Venuto meno il criterio di naturalità, si potrebbe chiudere la questione; in realtà è interessante analizzare la parte più prettamente storica: era la sodomia accettata presso gli Antichi Greci? Se parlando delle tribù indigene delle Antille (le quali appunto praticavano il cannibalismo) si può banalmente premettere che il loro stato d'irredenzione permetteva lo svilupparsi delle pratiche più turbi, è maggiormente difficile applicare questo ragionamento agli Antichi Greci, nella misura in cui essi erano -giusta i Padri d'Occidente- i depositarj dei Semina Verbi, nonché la cui cultura costituisce ineluttabilmente il fondamento della Cristianità (da Lisbona a Vladivostok, e da Amburgo ad Alessandria d'Egitto). Tuttavia, possiamo affermare che la società della Grecia classica non accettava in alcun modo la sodomia. Si deve infatti nettamente distinguere il fatto che fosse praticata (come lo è sempre stato, anche nei secoli più moralisti; ma del resto anche l'omicidio si è sempre praticato) da quello che fosse socialmente e culturalmente accettata. Il carattere morale della società non dipende dalla moralità dei suoi singoli individui.

In soluzione dei predetti dubbj, mi permetto di tradurre un intervento in merito del prof. Dimitrios Michmizos, docente presso l'Università della Tessaglia, nonché apprezzato filosofo e cultore di Storia Greca. Un intervento simile potrebbe farsi anche per quanto riguarda l'Antica Roma, basta vedere, per esempio, cosa ne pensano Marziale e Giovenale dei sodomiti.

Contrariamente a quanto potreste aver sentito, l'omosessualità non fu mai accettata dalle culture antiche. Il caso più emblematico è la Grecia classica.

I Greci erano consci del fatto che l'omosessualità esistesse, e riconoscevano che potesse essere un'inclinazione transitoria, ma certamente non un modo di vivere in società. La nozione che i Greci classici accettassero l'omosessualità tra adulti [questo è fondamentale: la pederastia, costume che anche gli omosessualisti odierni rifiutano, era praticata all'interno di ristrette cerchie aristocratiche, ma l'omosessualità tra adulti, cioè come condotta sessuale ordinaria, era inconcepibile, ndt] è un mito, generato e propagato soprattutto dall'aristocrazia britannica, che, tra XVIII e XIX secolo, si dedicava agli "studi classici": essendo nobili oziosi, tuttavia, la maggior parte si avvicinava ai testi a casaccio, in isolamento culturale e con occhiali in stile vittoriano, pervenendo così, il più delle volte, a risultati erronei.

Nel V secolo a.C. ad Atene, per esempio, era costume che un uomo di potere attraesse numerosi seguaci, sia femmine che maschi, tutti sgomitanti per il suo favore e, in cambio, offerenti ogni tipo di favore fisico per assicurarselo. Nondimeno, la società Greca trattava questi pedissequi con il peggior disprezzo, come immorali arrampicatori sociali.

Questo è il motivo per cui Aristofane, il famoso commediografo, quando voleva insultare Socrate nella sua commedia "Nuvole", lo chiama "evriproctos", che si può tradurre "dal largo sfintere", intendendo così ch'egli fosse un μαλακός, cioè un omosessuale effeminato e passivo. [è importante notare che la distinzione di sesso, nella cultura greco antica, è molto marcata, e nell'atto sessuale l'uomo è sempre la parte attiva, la donna la parte passiva; quale immoralità più grande per un maschio prendere parte passivamente all'atto?, ndt]

Durante la sua breve egemonia sulla Grecia, la città-stato di Tebe aveva uno speciale distaccamento, il Battaglione Sacro, formato da 150 coppie di amasi. Questi erano forti guerrieri, famosi per essere una delle poche unità a esser riuscite a vincere gli Spartani un aperta battaglia. Nel 338 a.C., Tebe si scontrò con l'esercito di Filippo di Macedonia e suo figlio Alessandro III (che fu poi chiamato il Grande) a Chronea. L'armata oplitica tradizionale tebana non durò a lungo, e cadde sotto i colpi della nuova falange macedone. Nondimeno, il Sacro Battaglione resisté sul campo e combatté eroicamente fino all'ultimo uomo, guadagnando il rispetto di Filippo. Per onorare i suoi avversari caduti, il re macedone fece costruire un monumento al loro sacrificio, dichiarando, secondo lo storico Plutarco: "Che muoia chiunque sospetti che questi uomini abbiano mai fatto o subito qualcosa di sconveniente". S'intenda: morire in battaglia difendendo i propri altari e le proprie case è la morte più onorevole per un greco. Quindi, la necessità di un tale chiarimento, anche dopo una morte così onorevole, rivela quanto negativamente l'omosessualità fosse considerata in tutta la Grecia in quel momento.

E alla comune obiezione, che porta il Simposio e le relazioni amorose ivi descritte, come esempio contrario, si consideri che nella lingua greca vi sono quattro livelli di amore, non tutti fisici. Non certo fisico era l'amore platonico, dove l'amore rappresenta la forza vitale che muove il pensiero, costituendo un tramite tra la dimensione terrena e quella sovrasensibile delle idee nell'Iperuranio. Talora ci possono essere dei fraintendimenti dovuti a errori di troduzioni: ce ne sono persino in alcune versioni della Bibbia, figurarsi in un testo filosofico di difficile accesso.

Si pensi anche al fatto che, in tutta la letteratura greca classica, dall'Iliade e l'Odissea alla lirica, alla prosa e ai testi scientifici di età ellenistica, non c'è una singola descrizione, esplicita o implicita, di un atto omosessuale, quando invece vi sono abbondanti descrizioni di atti eterosessuali.