mercoledì 30 settembre 2020

N. Ghigi, N. Vadori, "I Santi e le loro feste"

Al presente link è possibile scaricare gratuitamente un opuscolo divulgativo sui Santi più importanti della tradizione cristiana occidentale (gli Apostoli, i Santi del Canone, i Santi delle Litanie e i Santi Ausiliatori). Pur trattandosi di una pubblicazione divulgativa, che tratta argomenti che dovrebbero essere noti a tutti i Cristiani, sappiamo bene che di questi tempi nulla è più certo, e dunque anche pubblicazioni le più semplici possono rivestire una certa qual utilità nella formazione. Alcune curiosità storiche, liturgiche, oppure inerenti al culto popolare e ai proverbi che ne derivano, possono poi costituire novità interessante e appassionante anche per la persona più formata e dotta. L'opera è stata redatta dal prof. Natale Vadori e dal presidente del Circolo Traditio Marciana Nicolò Ghigi, che ne ha curato particolarmente le note storiche e liturgiche e ha provveduto all'edizione.

Si legga di seguito la prefazione-presentazione curata dagli autori medesimi.

Chi frequenta una liturgia tradizionale e ha la grazia di vivere in luoghi che permettano una frequentazione quotidiana delle sacre cerimonie, ha l’opportunità di scoprire che pressoché ogni giorno ha una sua ricorrenza specifica, in cui è ricordato un certo santo o un mistero della vita di Nostro Signore Gesù Cristo o della Beata Vergine Maria. I santi vengono ricordati all’altare perché hanno avuto vite straordinarie, esemplari nel conseguimento della grazia divina, e per questo degne di essere perpetrate nella memoria e prese ad esempio.

Nel rito romano tradizionale, a differenza di quello riformato costruito con un antistorico ciclo pluriennale di lezioni volte a conseguire l'irrealizzato obbiettivo di offrire una panoramica dell'intera Scrittura al fedele, non vi sono letture proprie per ogni giorno dell'anno, bensì l'alternanza delle letture è data dalle celebrazione delle messe (proprie o dai Comuni) delle ricorrenze che quotidianamente si susseguono. Un fedele assiduo ha modo quindi di assimilare quasi senza accorgersi i brani evangelici più importanti e le ricorrenze dei santi, ripetuto tutto allo stesso modo, ogni anno, nello stesso giorno, con evidenti vantaggi per la memorizzazione e, dunque, l'interiorizzazione dei concetti. Come recita infatti l’adagio “Hai capito l’antifona?”, perché dall’incipit dell’antifona dell’introito si capisce subito a che messa ci si trovi.

È logico quindi che i giorni in cui siano commemorati i santi più importanti siano impressi nella memoria collettiva, i nomi dei santi siano divenuti quelli più comuni nei battesimi, almeno fino a tempi recenti, e così abbiano pure ispirato tutta una serie di proverbi popolari, perché il procedere delle stagioni era scandito dalle loro ricorrenze. I santi in questione non possono non essere che gli Apostoli e gli Evangelisti, i Santi invocati nel Canone della Messa, quelli delle Litanie dei Santi, solenni preci rogazionali e penitenziali cantate in occasioni particolari, e i Santi Ausiliatori, da invocare in caso di malanni specifici.

Acquisita quindi una certa padronanza del calendario liturgico tradizionale, ci si accorge però che oramai ha poco a che fare con quello moderno, perché nel Novus Ordo si sono aggiunti moltissimi santi, ben 482 proclamati dal solo Giovanni Paolo II, per giunta spostando o eliminando santi precedenti; si diventa però anche consapevoli che il calendario del 1962, adottato dalla maggior parte delle comunità che celebrano il cosiddetto Vetus Ordo, in realtà … è proprio del 1962. Solo pochi anni prima la sua composizione era abbastanza differente, e fu fortemente riformata tra il 1955 e il 1962; altri cambiamenti erano avvenuti agli inizi del secolo. Com'è noto, in alcuni luoghi si sta cercando di diffondere la conoscenza dei riti e del calendario anteriori alle riforme del secolo XX, e in ogni caso l’interesse ed il dibattito in merito è crescente. A questo punto, cercare semplicemente di avere, e offrire, contezza dei cambiamenti avvenuti, e delle differenze esistenti, non è cosa sciocca e peregrina, bensì un’esigenza pratica. Per tal motivo ci siamo dedicati alla presente compilazione, che volentieri mettiamo a disposizione di tutti nell'odierna festa di S. Girolamo, dottore della Chiesa, monaco, biblista e traduttore. Fu lui infatti a tradurre la Bibbia in latino, la Vulgata, e per questo divenne il protettore dei bibliotecari e dei traduttori. San Girolamo, inoltre, era Dalmata, e quindi c’è particolarmente caro provenendo anche noi dall’area veneta e friulana.

A breve il presente opuscolo verrà reso disponibile anche in ceco, francese e neogreco. Se qualcuno volesse poi provvedere a tradurre il vademecum in altre lingue, sarebbe certamente il benvenuto.

Ad majorem Dei gloriam!

Venezia - Praga,

li 30 settembre 2020,
S. Girolamo presbitero e dottore della Chiesa d'Occidente

Nicolò Ghigi e Natale Vadori

sabato 26 settembre 2020

Esaltazione della Santa Croce (calendario giuliano)

 

Salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici la tua eredità,
dona vittoria ai sovrani e per mezzo della tua Croce
custodisci il tuo popolo.

(Apolytikio della festa)


Δεῦτε Πιστοί, τὸ ζωοποιὸν ξύλον προσκυνήσωμεν, ἐν ᾧ Χριστὸς ὁ Βασιλεὺς τῆς δόξης, ἑκουσίως χεῖρας ἐκτείνας, ὕψωσεν ἡμᾶς εἰς τὴν ἀρχαίαν μακαριότητα, οὕς πρὶν ὁ ἐχθρός, δι᾿ ἡδονῆς συλήσας, ἐξορίστους Θεοῦ πεποίηκε. Δεῦτε Πιστοί, ξύλον προσκυνήσωμεν, δι᾿ οὗ ἠξιώθημεν, τῶν  ἀοράτων ἐχθρῶν συντρίβειν τὰς κάρας. Δεῦτε πᾶσαι αἱ πατριαὶ τῶν ἐθνῶν, τὸν Σταυρὸν τοῦ Κυρίου ὕμνοις τιμήσωμεν. Χαίροις Σταυρὲ τοῦ πεσόντος Ἀδὰμ ἡ τελεία λύτρωσις. Ἐν σοὶ οἱ πιστότατοι Βασιλεῖς ἡμῶν καυχῶνται, ὡς τῇ σῇ δυνάμει, Ἰσμαηλίτην λαὸν κραταιῶς ὑποτάττοντες. Σὲ νῦν μετὰ φόβου Χριστιανοὶ ἀσπαζόμενοι, τὸν ἐν σοὶ προσπαγέντα Θεὸν δοξάζομεν λέγοντες· Κύριε, ὁ ἐν αὐτῷ σταυρωθείς, ἐλέησον ἡμᾶς, ὡς ἀγαθὸς καὶ φιλάνθρωπος.

Venite fedeli, adoriamo il legno vivificante in cui Cristo, il Re della gloria, volontariamente stendendo le sue mani, ci ha innalzato all'antica beatitudine, noi che un tempo il nemico, depredandoci con il piacere, aveva resi estranei a Dio. Venite fedeli, adoriamo il legno mediante il quale siamo stati fatti degni di calpestare le teste dei nemici invisibili. Venite, famiglie tutte delle genti, onoriamo con inni la Croce del Signore. Ave o Croce, perfetto riscatto di Adamo caduto! In te i fedelissimi sovrani nostri hanno il loro vanto, poiché per la tua potenza sottomettono con forza il popolo ismaelita. Te ora con timore baciando, noi Cristiani glorifichiamo Iddio in te confitto, dicendo: Signore, che fosti crocifisso in essa, abbi misericordia di noi, poiché tu sei buono e filantropo.

(Poema dell'Imperatore Leone cantato durante la venerazione della Santa Croce)


La venerazione della Santa Croce al termine della Veglia di tutta la notte (Vespro e Mattutino)
Chiesa di S. Zan Degolà, Venezia, 13 (26) settembre 2020

С праздником!
Καλὴ ἐορτή!
Buona festa!

giovedì 24 settembre 2020

Riforma della liturgia e μετάνοια liturgica

 Quando si parla di storia della riforma liturgica degli anni '60-'70, si possono sempre rilevare posizioni molto diverse. Ci sono gli intransigenti che reputano che quella riforma fosse totalmente inutile, e che spesso pensano antistoricamente che fino al giorno prima del Concilio tutto andasse liturgicamente bene in ogni chiesa cattolica del mondo, quelli che riconoscono un certo grado di bontà in alcune istanze della riforma, e i conservatori che sostengono che le indicazioni di Sacrosanctum Concilium fossero in massima parte corrette e al più il messale di Paolo VI e la prassi liturgica attuale ne sarebbero esiti imperfetti, e che non di rado professano la loro ammirazione per il messale del '65.

All'occhio dello storico, tutte queste posizioni appaiono inadatte a dare un resoconto preciso delle vicende dell'ultima fase di un lungo processo di riforma iniziato negli anni Quaranta del secolo e sulla scorta di un movimentismo liturgico attivo già da diversi decenni, le cui istanze peggiori non erano diverse da quelle che poi si applicheranno negli anni '60. I conservatori non di rado affermano che la prassi, del tutto antistorica e archeologicamente infondata, di celebrare la liturgia versus populum sia una corruzione della prassi che non ha rispondenza nei documenti conciliari (e non di rado ciò si traduce in un apprezzamento della messa nuova celebrata ad Deum); gli intransigenti viceversa accuseranno di questo ribaltamento inaudito il Concilio. Ma cosa risponderanno al vedere questa foto, tratta dal volume di Gerard Eller Men at Work at Worship pubblicato nel 1940, e dunque relativa agli ultimi anni '30?

E, come si potrà vedere all'articolo della St. Lawrence Press qui citato come fonte dell'immagine, non si tratta certo di un caso isolato. Ma, insisteranno a questo punto gli intransigenti, si trattava di deviazioni contenute, non certo la comune pratica delle parrocchie in quegli anni. E infatti qual era la comune pratica delle parrocchie in quegli anni? Penso purtroppo che ben pochi in quegli anni abbiano fatto l'esperienza di mia nonna, che ebbe per circa vent'anni la grazia di assistere a una messa conventuale domenicale cantata come comanda Iddio nella Basilica dei Frari. I più faranno un racconto simile a quello che compare nelle prime pagine di questo scritto di Enzo Bianchi che, al netto di una certa ideologia con cui si disprezza preventivamente il rito "tridentino" in quanto tale, fornisce un quadro non irrealistico della desolante situazione liturgica di quegli anni. E, non c'è che dire, i progressisti han vita facile a dipingere a tinte fosche la messa tridentina, se effettivamente quel desolante quadretto è quanto i "tradizionalisti" nostrani ritengono confacente a tradizione. Le vecchiette che sgranano il rosario mentre il prete bisbiglia una messa da morto (quasi certamente in un giorno in cui la messa da morto quotidiana era proibita, ma purtroppo il vizio è ancor ben vivo nel clero "tradizionalista" odierno, e - a quanto pare - nemmeno la tendenza ottocentesca a intersecare liturgia e morale minacciando di peccato mortale i preti che infrangessero le rubriche servì a evitare che questi le disattendessero [1]), gli uomini che escono alla predica e rientrano all'offertorio per "prendere messa" validamente... è questo ciò che piace ai "tradizionalisti"? Probabilmente sì: e probabilmente essi si compiacciono nel vedere le signore con gonne e veli perché ricorda loro nostalgicamente gli anni '50 (o qualche decennio prima), da costoro mitizzati fino a esclamare con le parole del coro dell'Aminta: "Oh bella età dell'oro!". Non si capisce bene cosa li attiri particolarmente di quegli anni: la lotta tra comunisti e democristiani dei libri di Guareschi (autore invero interessante dal punto di vista letterario, ma non penso che i "tradizionalisti" solitamente lo esaltino per questo motivo)? La parvenza di "società cattolica" dove trionfava la "dottrina sociale" e vagavano nell'etere i radiomessaggi di Papa Pacelli? Questo  grave abuso della celebrazione sincronizzata di ventuno messe, tuttavia lodato dai commentatori tradizionalisti come perché è bene avere tanti preti e tante messe (clericalismo e interpretazione della messa come produttore automatico di grazie si sprecano)? Io personalmente preferirei di gran lunga vivere nel Seicento, almeno c'era la Repubblica, un centinaio di messe conventuali più o meno ben fatte, il rito proprio in Basilica, e avrei persino potuto ascoltare Monteverdi dirigere la cappella marciana. Ma in ogni caso sarebbe una follia nostalgica pretendere di ricostruire un pezzo di Seicento (come un pezzo di anni '50) oggi, ancor più se fintamente e nel limitato contesto di una messa. Eh già, perché cosa c'è di più "tradizionale" di una bella messa bassa vespertina dialogata in latino? Se qualcuno andasse lì a celebrargli la messa nuova in latino e ad Deum probabilmente se ne accorgerebbero solo perché mancano le preghiere ai piedi dell'altare, che "fanno molto da film" ma che è del tutto insensato che il popolo senta e ancor più risponda essendo preparazione personale del celebrante e i ministri [2].

Chi ama la tradizione, il vero tradizionalista senza virgolette, dovrebbe avere un solo scopo: quello di ricercare l'illuminazione della grazia divina increata mediante il culto liturgico a Dio reso nel modo in cui i Padri lo hanno reso per secoli. Nel XX secolo (e qui si torna al discorso d'inizio, mi si perdoni la lunga divagazione) ciò era tutt'altro che chiaro. Le riforme del Breviario volte ad alleggerire l'onus della preghiera quando Nostro Signore ci comanda di pregare incessantemente, e in generale tutte le riforme a tavolino o d'imperio della liturgia sono il segno di una comprensione del tutto umana di ciò che è invece un tesoro divino e apostolico.

E qui torniamo alla nostra fatidica e innominabile riforma liturgica di Paolo VI. Dove, effettivamente, qualcuno si rende conto che qualcosa non quadra nel modo in cui si sta praticando la liturgia negli ultimi decenni. E che occorre una riforma. Alcuni principi, alcune analisi che si leggono nei documenti preparatori e nella Sacrosanctum Concilium possono essere anche punti interessanti di riflessione sullo stato decadente dell'epoca: il problema è la soluzione che propongono, il senso di riforma (non nel genuino etimo di recuperare la forma, ma nel senso rivoluzionario di creare una nuova forma). Ma del resto, questa gente che aveva visto un Papa distruggere da cima a fondo l'unico salterio che la Chiesa di Roma avesse mai usato, come poteva rapportarsi alla liturgia se non con le armi del piccone e della reinvenzione di sana pianta? Questa gente che aveva visto pressoché solo messe basse - con pochissime eccezioni e non è dato sapere quanto ben fatte - come poteva non realizzare un messale come quello di Paolo VI che di fatto prevede solo la messa bassa con cantici? Questa gente che per anni era stata (mal)educata a rendere la liturgia essenzialmente una consacrazione preceduta da una predica, come poteva produrre qualcosa di liturgico nel pieno senso della parola? Questa gente che per anni aveva visto nella liturgia un peso, un mero obbligo, al massimo un terreno di scontro dottrinale con protestanti o talaltri, come poteva non pretendere di modificare gli impianti patristici in un modo del tutto razionalista?

C'è stata una riforma liturgica, ma quella che ci voleva era una μετάνοια liturgica. Mετάνοια è un bellissimo termine greco, solo parzialmente reso dall'italiano 'conversione', e che contiene, accanto al prefisso μετά (idea di mutamento), la radice del νοῦς, che per il cristiano è quell'unione indissolubile di mente e di cuore che costituisce il senso spirituale dell'uomo. La vita del cristiano è una continua μετάνοια, secondo il comando del Battista: Μετανοεῖτε, ἤγγικε γάρ ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν. Purtroppo la superbia degli uomini rende molto difficile mettere in dubbio le proprie convinzioni, le proprie passioni, per convertire il proprio cuore e seguire la via stretta del Signore: certamente lo rende molto difficile in ambito liturgico. Se dovessi indugiare in considerazioni personali, potrei raccontare di quante μετάνοιαι ho dovuto attraversare per giungere ad avvicinarmi a comprendere (non razionalmente, chiaramente) il grande mistero della liturgia. La desolazione liturgica del Novecento avrebbe richiesto un simile atteggiamento, che però non ci fu: e con la stessa mentalità si andò avanti nel processo dei decenni precedenti, giungendo a creare un rito a tavolino dove ogni prete potesse sbizzarrire la propria antitradizionale individualità.

Questo è, essenzialmente, il motivo per cui, volendo essere realmente tradizionali, critichiamo la riforma e le riforme liturgiche del Novecento, e in generale ogni moto di decadenza rispetto alla visione dei Padri, alla quale aderiamo con la mente e il cuore nella volontà di deificazione in Cristo e nella sua grazia. Amen.

_______________________________
NOTE

[1] Ci si potrebbe a questo punto domandare, nell'ottica di comprenderne storicamente la soppressione, se tutti i preti aggiungessero tutte le commemorazioni prescritte e leggessero diligentemente le orazioni del tempo quando di dovere. Del resto, quasi sempre il cambiamento della legge si adegua a quello della prassi; e sopra si è visto che con la messa versus populum così è stato.

[2] Riferimenti a fatti, situazioni e persone reali sono puramente casuali. O forse no?

mercoledì 16 settembre 2020

Il rito del faro nella tradizione ambrosiana

L'Arciprete mons. Manganini celebra il rito del faro in Duomo. Il diacono è l'attuale Arcivescovo di Milano, mons. Delpini.
L'Arciprete mons. Manganini
celebra il rito del faro in
Duomo. Curiosamente, il
diacono è l'attuale
Arcivescovo di Milano,
mons. Delpini.

di Luca Farina

Un rito caratteristico della Chiesa ambrosiana è quello del cosiddetto faro, celebrazione assai nota anche a motivo della propria spettacolarità.

Per celebrare il rito, molto semplice, è necessario preparare un pallone di bambagia con anima metallica, se possibile sormontato da una corona e da una palma. Il globo, così composto, viene ancorato al soffitto e posto all’inizio del presbiterio. All’inizio della Messa, la processione introitale si ferma prima delle balaustre e vengono cantati i 12 Kyrie  in groemio Ecclesiae, seguiti dalla sallenda propria, il Gloria Patri e la ripetizione della stessa a mo’ di antifona. Mentre vengono nominate le tre Persone Divine tutti fanno inchino alla croce astile posta in testa alla processione e rivolta al celebrante [1], al Sicut erat tutti fanno inchino al celebrante e riprendono il cammino verso l’altare. A questo punto viene portato al celebrante un bastone sufficientemente lungo (è sufficiente un bastone per i ceri, non è necessario l’arundine) con cui incendiare il pallone di cotone. Avverte il Borgonovo che aggiungere parole come Sic transit gloria mundi è un arbitrio tratto dalla Messa d’incoronazione papale senza alcuna attinenza. Una volta consumato, la Messa ha inizio.

Il rito si svolge in occasione delle feste dei Santi Martiri titolari della chiesa. Il significato è espresso dal fuoco: il pallone si consuma e si distrugge, così come i Martiri che hanno vinto “grazie alla testimonianza del loro martirio;poiché hanno disprezzato la vitafino a morire.” (Ap XII 11). Nelle terre ambrosiane, i Martiri più venerati e famosi sono i Santi Nazaro e Celso, Protasio e Gervasio, Vittore, Nabore e Felice, Stefano, Sebastiano, Tecla, Agnese: ad essi sono intitolate le chiese più antiche dell’arcidiocesi, a partire dalla città di Milano. Non è raro, nelle parrocchie più zelanti, che questo rito sia ancora praticato in occasione delle feste patronali.

Secondo lo studioso Archdale King il rito potrebbe essere nato nelle catacombe illuminando le tombe dei martiri. La prima menzione, però, si ha, secondo le ricerche di Monsignor Navoni, nel VII secolo, in cui un documento cremonese cita “corona et pharum” da incendiarsi per la festa di San Sisinio martire. Le cronache liturgico del quasi sconosciuto chierico Beroldo ci raccontano che, nel XII secolo, la croce astile era sormontata da una candela [2], con la quale, giungendo in prossimità del presbiterio, il chierico dava fuoco ad un pharus, corona di candele che si accendevano l’un l’altra grazie ad un anello di bambagia.

L’entusiasmo popolare per questo rito è descritto nei versi di Padre Carlo da Milano OFM Cap., al secolo Domenico Varischi (1903-1990), assistente spirituale dell’Università Cattolica. Proponiamo un breve estratto da Ricord de foeugh a Milan ambientato nel 1914 e intitolato El balon de la festa:

Serom semper tucc denanz, nun bagaj,
visin la balaustra de l’altar
de la mia gesa de la Trinità
(quella veggia che adess han buttàa giò)
per vedè brusà el balon bianc coi stell.
Tutt i fest pussèe grand, el Prevòst vecc,
Corengia (che’l m’aveva battezzàa)
el rivava in corteo, el se fermava
in mezzo al presbiteri, el ceregòt Vago
(grass e bon como el pan) el ghe dava
la canna col candirin pizzàa in cima,
ma prima anmò de tocall, quel balon
el ciappava foeugh, e una gran fiamma
l’andava sù per aria, e poeu fiammell
vegniven anca giò, e chi diseva:
“L’è come el Spirit Sant a Pentecòst”.
E nun, col nas per aria, a bocca averta,
vedevom domà el fil de fer negher
de l’anima del balon tutt brusàa.

Eravamo sempre tutti davanti, noi ragazzi,
vicino alla balaustra dell'altare
della mia chiesa della Trinità
(quella vecchia che adesso hanno buttato giù)
per vedere bruciare il pallone bianco con le stelle.
A tutte le feste maggiori, il vecchio Prevosto,
Corengia (che mi aveva battezzato),
arrivava in corteo, si fermava
in mezzo al presbiterio, e il chierichettone Vago
(grosso e buono come il pane)
gli dava il bastone con il candelotto acceso in cima,
ma prima ancora di toccarlo quel pallone
prendeva fuoco e una grande fiamma
andava su, in aria, e poi venivano giù
anche le fiammelle e c'era chi diceva
"È come lo Spirito Santo a Pentecoste".
E noi, col naso per aria, a bocca aperta,
vedevamo solamente il filo di ferro nero
dell'anima del pallone tutto bruciato.
L'Arcivescovo e Abate Schuster compie il rito del faro nel civico tempio di S. Sebastiano

Notiamo come l’autore parli al plurale di feste maggiori: in molte parrocchie il rito era compiuto non solo in del patrono martire, ma anche di altri martiri cari alla devozione popolare (per esempio San Sebastiano è assai caro agli agricoltori). Il testo menziona poi l’arrivo del prevosto alle soglie del presbiterio e l’incendio del globo, sebbene il significato del fuoco sia oggetto di altre riflessioni rispetto a quella originale del martirio.

__________________________________________
NOTE
 
[1] Precisazione necessaria perché spesso, erroneamente, si afferma che la croce astile sia portata, in rito ambrosiano, “all’indietro”. In realtà essa è sempre rivolta al celebrante e, pertanto, sarà rivolta all’indietro durante la processione ma, nel momento in cui essa si ferma guardando il celebrante, sarà rivolta ad esso.
[2] Da cui, forse, l’uso di porre, alla Messa pontificale, il settimo cero sopra la croce d’altare.

Bibliografia:

G. BORGONOVO, Manuale di Liturgia Ambrosiana, Varese, Tipografia Arcivescovile dell’Addolorata, 1953;
A. A. KING, Liturgies of the primatial sees, Milwaukee, Bruce Pub. Co, 1957;
M. NAVONI, Dizionario di Liturgia Ambrosiana, Milano, NED, 1996;
C VARISCHI, Ricord de foeugh a Milan, Milano, Università Cattolica, 2019.


il faro acceso a Corneno, frazione di Eupilio, (CO) per la festa di San Giorgio

festa del titolare nella parrocchia di Santo Stefano Ticino (MI)

festa di Santa Tecla, titolare della parrocchia del Duomo di Milano

martedì 15 settembre 2020

Publicatio Temporum Septembris

 
Maestro Venceslao, Allegoria di Settembre, 1397 c.a,
Trento, Castello del Buonconsiglio

Mercoledì 16 settembre 2020
Tempora d'Autunno

Quanti seguono l'antica liturgia latina, nell'odierna festa dei santi ieromartiri Cornelio e Cipriano, commemorano il mercoledì delle Tempora di Settembre, leggendone il Vangelo e l'omelia propria a Mattutino come nona lezione, la commemorazione alle Lodi e alla Messa e l'Ultimo Vangelo, nonché osservandone lo stretto digiuno: nelle chiese con obbligo di coro, una messa delle Tempora è cantata in paramenti viola e con le pianete piegate dopo Nona, mentre la messa dei santi è cantata dopo Terza. L'ufficio pieno della feria delle Tempora, con le preci e la liturgia penitenziale in viola e le pianete piegate, sarà celebrato questo venerdì e questo sabato (assumendo S. Gennaro come festa semplice; se la si assume doppia come sarà poi in seguito resa, si dovrebbe fare l'ufficio dei martiri con memoria delle Tempora come sopra).

Il digiuno delle Tempora di settembre, oltre ad adempiere al precetto biblico del digiuno del settimo mese citato dal profeta Ezechiele, è legato alla festa dell'Esaltazione della Santa Croce, che ha sempre avuto un carattere penitenziale e digiunale unito alla sua precipua natura festiva: infatti, la rubrica anticamente prescriveva che si osservasse "il mercoledì, il venerdì e il sabato che seguono la festa della Santa Croce". Di fatto, questo fa sì che tali tre giorni coincidano sempre con la III settimana di settembre (come poi è in effetti codificato dalle rubriche), in cui si legge il libro di Tobia a Mattutino: infatti, il computo ecclesiastico delle settimane di un mese inizia dalla domenica più vicina alle calende, cioè al primo giorno, del mese stesso. Quest'anno, dunque, la prima domenica di settembre è stata domenica 30 agosto, decisamente più vicina al 1° settembre rispetto alla successiva domenica 6.

Nel 1960 il modo di contare le domeniche di un mese è stato arbitrariamente cambiato, venendo a coincidere con il computo civile. Perciò, per quanti seguono la "forma straordinaria (del nuovo rito)" la scorsa domenica 13 settembre sarebbe stata la II di settembre, e la III sarà la prossima domenica 20: le Tempora dunque per costoro cadranno mercoledì 23, giovedì 25 e sabato 26, una settimana dopo la data in cui le celebra il Rito Romano, perdendo ogni correlazione con la Santa Croce.

Ciononostante, buon digiuno delle Tempora!

P.S.: Come opera di misericordia spirituale, fate gli stessi auguri a un vostro amico 62ista e aiutatelo a redimersi.

giovedì 10 settembre 2020

11 settembre - S. Pulcheria Imperatrice e Vergine

La festa di S. Pulcheria è una festa doppia maggiore, e il suo colore liturgico è bianco. Oggi è anche il quarto giorno fra l'Ottava della Natività della Beata Vergine Maria. Figlia dell'Imperatore della pars Orientis Arcadio e sorella di Teodosio II, alla cui conversione al Cristianesimo ella stessa contribuì, Elia Pulcheria (399-453) difendette strenuamente l'Ortodossia contro le eresie di Nestorio ed Eutiche, ispirando la convocazione del Quarto Concilio Ecumenico a Calcedonia nel 451. Amata dal popolo della Nuova Roma e liberale verso i poveri e gl'indigenti, a lei si deve la fondazione di tre chiese di Costantinopoli dedicate alla Deipara: il monastero dell'Odigitria, la chiesa della Beata Vergine delle Blacherne nel quartiere del palazzo imperiale, e la basilica della Beata Vergine τῶν χαλκοπρατείων ("dei ramai") nel quartiere delle fonderie di rame. Il giorno del suo transito è incerto, anche se secondo la maggior parte delle fonti è avvenuto in luglio: in molti luoghi infatti la sua festa era celebrata il 7 luglio; a Costantinopoli invece il suo solenne ricordo avveniva il 10 settembre di ogni anno, e per influsso di questa data la festa è stata fissata all'11 del mese nel Calendario Veneziano. La Ducale Basilica di S. Marco celebra invece la festa della santa la seconda domenica di luglio.

Ieri sera, ai Primi Vespri, si sono cantate le antifone Haec est virgo etc., duplicate, con i salmi 109, 112, 121, 126 e 147, come nel Comune delle Vergini. Quindi, sempre dal Comune, si cantano il capitolo Fratres: Qui gloriatur (2Corinti 10) e l'inno di S. Ambrogio Jesu corona virginum, con la dossologia della Beata Vergine a motivo dell'Ottava. Dopo l'antifona al Magnificat Veni Sponsa Christi, è cantata la colletta propria della festa. Quindi si cantano le commemorazioni dell'Ottava della Natività della Beata Vergine, con l'antifona Nativitas tua, e della seguente festa dei Ss. Proto e Giacinto martiri. A Compieta la dossologia dell'inno è quella della Deipara, e si omettono le preci domenicali.

Al Mattutino l'Invitatorio è Regem virginum e l'inno è Virginis proles. Nel primo notturno si cantano dal Comune le antifone O quam pulchra etc. con i salmi 8, 18 e 23. Le lezioni sono anch'esse dal Comune, tratte dal cap. 7 della prima lettera di S. Paolo ai Corinti; il primo responsorio, trattandosi di una santa non martire, è Veni electa mea etc. Nel secondo notturno si cantano dal Comune le antifone Specie tua etc. con i salmi 44, 45 e 47. Le tre lunghe lezioni agiografiche sono proprie, mentre i responsori sono tratti dal Comune. Nel terzo notturno si cantano sempre dal Comune le antifone Nigra sum etc.con i salmi 95, 96 e 97. L'omelia sul Vangelo proprio è tratta dallo scritto di S. Cirillo d'Alessandria De fide ad Pulcheriam et Sorores Reginas, con i responsori del Comune. Come nona lezione si legge invece l'agiografia dei Ss. Proto e Giacinto contenuta nel Breviario Romano; quindi si canta il Te Deum. Alle Laudi si cantano le antifone Haec est virgo etc. con i salmi della domenica (92, 99, 62-66, Benedicite, 148-149-150) e il capitolo e l'inno come al Vespro. Dopo il Benedictus con la sua antifona Simile est regnum etc., si canta la colletta propria. Seguono le commemorazioni dell'Ottava della Natività della Beata Vergine e dei Ss. Proto e Giacinto.

A Prima si cantano i salmi festivi (53, 118i e 118ii) sotto l'antifona Haec est Virgo. Nell'inno, così come in quello delle altre ore minori, la dossologia è quella della vergine in ragione dell'Ottava. Le preci domenicali si omettono, celebrandosi una festa di rito doppio. Il verso del responsorio è Qui natus es de Virgine a motivo dell'Ottava; la lezione breve prima della benedizione è Domine Deus meus (Siracide 51), ovvero il capitolo di Nona.

La Messa è cantata dopo Terza. La Messa è propria, Vultum tuum, e si cantano il Gloria, la seconda colletta dell'Ottava e la terza dei Ss. Proto e Giacinto. L'epistola corrisponde alla prima lezione del Matuttino; il Vangelo proprio invece è Giovanni 17,3-6. Si cantano il Credo e il prefazio della Beata Vergine (et te in Nativitate) in ragione dell'Ottava.

Ai secondi Vespri tutto è come ai primi. Dopo la colletta della festa, si cantano le commemorazioni dell'Ottava della Beata Vergine, sempre con l'antifona Nativitas tua, e quella della seguente festa di S. Niceta di Nicomedia martire, il cui corpo si custodisce a un altare laterale della chiesa del Anzolo Rafaèl (dell'Arcangelo Raffaele) nel sestiere di Dorsoduro.

***

Nel Proprium pro Venetiarum Patriarchatu del 1915, curato dal Patriarca La Fontaine che fu uno dei protagonisti della commissione piana per la riforma del Breviario, la festa di S. Pulcheria non è più presente, in obbedienza al principio di severo snellimento dei propri locali. Essendo stata ridotta a semplice l'Ottava della Natività della Beata Vergine, oggi è la festa semplice dei santi Proto e Giacinto, di colore rosso, e della Beata Vergine non si fa nessuna commemorazione, né si prendono le parti proprie dell'ufficio. I salmi sono quelli feriali, e il Mattutino ha un solo notturno; non  essendo una festa doppia, a Prima di oggi si cantano le preci domenicali, così come il suffragio dei santi a Lodi. Alla Messa, dal Comune dei Martiri, si canta il Gloria, la seconda orazione per chiedere i suffragi dei santi, la terza ad libitum; non c'è il Credo e il prefazio è comune. I vespri di ieri sono stati i secondi della festa doppia di S. Nicola da Tolentino; i vespri di oggi sono invece della seguente festa doppia maggiore del Santo Nome della Madonna, che dalla domenica fra l'Ottava della Natività della Deipara è stata portata in data fissa al 12 settembre, con la commemorazione di S. Niceta di Nicomedia.

In seguito alle norme stabilite dal motu proprio Rubricarum Instructum di Giovanni XXIII, oggi è una feria della XIV settimana dopo Pentecoste, di colore verde. L'ufficio è feriale con la sola commemorazione dei Ss. Proto e Giacinto, ma ovviamente senza preci e suffragi che sono stati aboliti; si ripete la messa della domenica precedente senza Gloria e Credo e con il prefazio comune, con la sola commemorazione dei Ss. Proto e Giacinto. L'Ottava della Natività della Beata Vergine è interamente soppressa, anche se ai fini pratici non si nota la differenza rispetto alla sua semplificazione compiuta nel 1911-13, che già faceva sì che se ne omettesse ogni memoria. Il vespro è della feria, poiché la festa del Santo Nome della Madonna, come la maggioranza delle feste, è privata dei primi vespri; la festa di S. Niceta di Nicomedia è del tutto omessa dal nuovo proprio stilato in obbedienza alle rubriche del 1960. Per comparazione, si può notare che pure nel calendario del 1969 oggi è una semplice feria, come coerente evoluzione di un processo di depauperamento non certo iniziato in quell'anno.

mercoledì 9 settembre 2020

Il cinghiale calidonio della Chiesa

Κουρῆτές τ᾽ ἐμάχοντο καὶ Αἰτωλοὶ μενεχάρμαι
ἀμφὶ πόλιν Καλυδῶνα καὶ ἀλλήλους ἐνάριζον,
Αἰτωλοὶ μὲν ἀμυνόμενοι Καλυδῶνος ἐραννῆς,
Κουρῆτες δὲ διαπραθέειν μεμαῶτες Ἄρηϊ.
καὶ γὰρ τοῖσι κακὸν χρυσόθρονος Ἄρτεμις ὦρσε
χωσαμένη ὅ οἱ οὔ τι θαλύσια γουνῷ ἀλωῆς
Οἰνεὺς ῥέξ᾽· ἄλλοι δὲ θεοὶ δαίνυνθ᾽ ἑκατόμβας,
οἴῃ δ᾽ οὐκ ἔρρεξε Διὸς κούρῃ μεγάλοιο.
ἢ λάθετ᾽ ἢ οὐκ ἐνόησεν· ἀάσατο δὲ μέγα θυμῷ.
ἣ δὲ χολωσαμένη δῖον γένος ἰοχέαιρα
ὦρσεν ἔπι χλούνην σῦν ἄγριον ἀργιόδοντα,
ὃς κακὰ πόλλ᾽ ἕρδεσκεν ἔθων Οἰνῆος ἀλωήν·
πολλὰ δ᾽ ὅ γε προθέλυμνα χαμαὶ βάλε δένδρεα μακρὰ
αὐτῇσιν ῥίζῃσι καὶ αὐτοῖς ἄνθεσι μήλων.
τὸν δ᾽ υἱὸς Οἰνῆος ἀπέκτεινεν Μελέαγρος
πολλέων ἐκ πολίων θηρήτορας ἄνδρας ἀγείρας
καὶ κύνας· οὐ μὲν γάρ κε δάμη παύροισι βροτοῖσι·
τόσσος ἔην, πολλοὺς δὲ πυρῆς ἐπέβησ᾽ ἀλεγεινῆς.
ἣ δ᾽ ἀμφ᾽ αὐτῷ θῆκε πολὺν κέλαδον καὶ ἀϋτὴν
ἀμφὶ συὸς κεφαλῇ καὶ δέρματι λαχνήεντι,
Κουρήτων τε μεσηγὺ καὶ Αἰτωλῶν μεγαθύμων.

I Cureti e gli Etòli furia di guerra combattevano
attorno alla città di Calidone, e si uccidevano tra loro,
gli Etòli difendendo Calidone amabile,
e i Cureti invece bramando di distruggerla in guerra.
Contro questi infatti una sciagura fe' sorgere Artemide dal trono d'oro,
irata poiché Oineo non le offerse primizie sul colle della vigna:
gli altri dei ebbero parte all'ecatombe,
a lei sola, figlia del grande Zeus, ei non sacrificò.
Forse se ne scordò, oppure non ci pensò: ma grandemente errò nel suo cuore.
Ella dunque, stirpe divina, l'urlatrice, adirata
mandò contro di loro un feroce cinghiale dalle candide zanne.
che molti danni faceva alla vigna di Oineo:
molti e grandi alberi gettava a terra capovolti
con le loro radici e coi fiori dei loro frutti.
L'uccise Meleagro, il figlio di Oineo,
avendo condotti con sé da molte città cacciatori
e cani: non l'avrebbe infatti vinto con pochi mortali,
tanto possente era, che molti avea mandato sulla pira dolorosa.
Ma ella [Artemide] fe' sorgere attorno ad esso gran lotta ed urla,
attorno alla testa del cinghiale e alla sua pelle irsuta,
tra i Cureti e i coraggiosi Etòli.

(Hom., Il., IX 529-549)

Questi versi dell'Iliade, contenuti nella narrazione del mito di Meleagro che Fenice rivolge ad Achille durante l'ambasceria alla di lui tenda per convincerlo ad accettare i doni promessi da Agamennone e tornare in battaglia contro i Troiani, non possono che essere subito messi in correlazione con i versetti del salmo 79.

ἄμπελον ἐξ Αἰγύπτου μετῇρας, ἐξέβαλες ἔθνη καὶ κατεφύτευσας αὐτήν· ὡδοποίησας ἔμπροσθεν αὐτῆς καὶ κατεφύτευσας τὰς ῥίζας αὐτῆς, καὶ ἐπλήρωσε τὴν γῆν. ἐκάλυψεν ὄρη ἡ σκιὰ αὐτῆς καὶ αἱ ἀναδενδράδες αὐτῆς τὰς κέδρους τοῦ Θεοῦ· ἐξέτεινε τὰ κλήματα αὐτῆς ἕως θαλάσσης καὶ ἕως ποταμῶν τὰς παραφυάδας αὐτῆς. ἱνατί καθεῖλες τὸν φραγμὸν αὐτῆς καὶ τρυγῶσιν αὐτὴν πάντες οἱ παραπορευόμενοι τὴν ὁδόν; ἐλυμήνατο αὐτὴν ὗς ἐκ δρυμοῦ, καὶ μονιὸς ἄγριος κατενεμήσατο αὐτήν. ὁ Θεὸς τῶν δυνάμεων, ἐπίστρεψον δή, καὶ ἐπίβλεψον ἐξ οὐρανοῦ καὶ ἴδε καὶ ἐπίσκεψαι τὴν ἄμπελον ταύτην καὶ κατάρτισαι αὐτήν, ἣν ἐφύτευσεν ἡ δεξιά σου, καὶ ἐπὶ υἱὸν ἀνθρώπου, ὃν ἐκραταίωσας σεαυτῷ.

Trasferisti una vigna dall'Egitto, scacciasti i gentili e la piantasti, hai liberato la strada avanti ad essa e hai piantato le sue radici, e ne fu ripiena la terra. La sua ombra oscurò i monti, e i suoi rami i cedri di Dio. Estendé i suoi tralci fino al mare, e fino ai fiumi le sue propaggini. Perché hai distrutto il suo steccato, e la vendemmiano tutti quelli che passano per la via? L'ha devastata un cinghiale dal bosco, e una sola fiera l'ha divorata. O Dio delle potenze, volgi dunque il tuo sguardo, volgiti dal cielo e vedi e visita questa vigna, e proteggi la vigna che ha piantato la tua destra, e sul figlio dell'uomo, che hai fortificato per te.

(Psal. 79, 9-15)

Il tema del cinghiale che distrugge la vigna è molto antico, e ricco di simbolismo. La vigna, nella rappresentazione biblica, rappresenta il popolo d'Israele, e dunque la Chiesa in senso cristiano. Ma anche nel mito antico la vigna ha un significato simbolico, identificando l'intero popolo (non solo in quanto fonte di sostentamento dello stesso, ma anche per la correlazione semantica tra [Ϝ]Οἰνεὺς, re di Calidone, e [F]οἶνος, il vino, frutto della vite). Il cinghiale assurge a rappresentazione del κακὸν, del male che affligge la vigna, distruggendola e recandole danni.

Tuttavia, tra l'allegoria del salmo e il mito pagano vediamo molte sostanziali differenze: l'ira di Artemide è vendicativa, frutto di un sentimento puramente umano di offesa, e volta unicamente a punire la mancanza di Oineo, senza volontà del suo riscatto. L'ira del Signore è invece correttiva, affinché i figli d'Israele si pentano delle loro mancanze e iniquità (secondo i biblisti la data di composizione del salmo è di poco successiva alla presa della Samaria da parte di Sargon II nel 721 e alla conquista della Giudea da parte di Sennacherib nel 701, quando apparve compiutamente la debolezza che la divisione tra le tribù del Nord e del Sud aveva portato), e ritornino a Dio (Gerusalemme fu l'unica città della Giudea rimasta intatta durante l'assedio, segno col quale Dio manifestò la sua potenza).

Differenza grande la vediamo anche nel modo in cui si cerca di risolvere il problema. Oineo ci prova con mezzi umani, convocando i più grandi eroi del tempo (le liste, tramandate da Ovidio nell'ottavo libro delle Metamorfosi, e da Pausania nel settimo della Periegesi, tramandano nomi del calibro di Teseo, il giovane Nestore, Peleo, Ida, Laerte, i Dioscuri, e molti altri): alfine suo figlio Meleagro riesce nell'impresa di ammazzare il cinghiale, ma questo non porta certo la pace a Calidone, che viene sconvolta dalla guerra tra Cureti ed Etòli per la carcassa della fiera, che Artemide stessa fa sorgere, per compiere la propria vendetta. Le vicende di Meleagro precipiteranno sempre più nell'oscurità, con l'uccisione dello zio Tosseo, l'intervento delle Erinni e infine - nella versione più arcaica del mito tramandata dall'Epinicio V di Bacchilide, omessa dall'Iliade perché non funzionale alla ῥῆσις di Fenice - la madre Altea che dà la morte a Meleagro bruciando il tizzone cui era legata la sua vita. Nella visione pagana, nonostante il κλέος, la gloria conquistata tra gli uomini e che Meleagro ottiene, rappresenti il massimo ideale, le genti umane sono sottoposte all'imperscrutabile volere del Fato e ai capricci delle divinità, senza giustizia e senza pace.

Il salmista, invece, sa bene donde viene la giustizia e la pace: da Dio onnipotente. Ed egli lo invita dunque a volgere il suo sguardo sulla vigna, su Israele, e sul figlio dell'uomo che ha fortificato, cioè Cristo, acciocché egli lo mandi a salvare il suo popolo.

Peter Paul Rubens, La caccia al cinghiale calidonio, 1641

La figura del cinghiale che distrugge la vigna della Chiesa è di grande attualità: oggi la Chiesa è sconvolta da scandali, scismi, apostasie e tentativi di distruzione dall'interno. A questo si aggiungono anche le disgrazie dall'esterno, la scristianizzazione della società, le recenti trasformazioni in moschee di luoghi costruiti per il culto cristiano, le pestilenze... Dio ha permesso che sorgessero questi problemi per punire i peccati del suo popolo, come ebbero a rendersi conto coloro che videro piombare i crociati in preda alla furia saccheggiatrice su Costantinopoli nel 1204, o i giannizzeri turchi nel 1453, e probabilmente le sofferenze che oggi si patiscono sono di gran lunga superiori di quelle di altri tempi. Ma la via e la soluzione resta quella invocata dal salmista, pregare Dio e invocarlo, affinché volga il suo sguardo sulla sua vigna: non a caso queste parole vengono ripetute a ogni liturgia pontificale, dopo il Trisagio, quando il vescovo benedice il popolo con il dichirio e il trichirio, perché allora come oggi solo Dio può salvarci. I problemi umani ci sono dappertutto, e chi è rimasto sconvolto dall'atteggiamento dei vescovi italiani durante gli arresti domiciliari degli scorsi mesi probabilmente lo sarebbe stato anche di quello dei vescovi di Romania che hanno decretato l'uso di cucchiaini multipli di plastica per evitare la trasmissione del contagio durante la Comunione. Ma finché vivono la fede apostolica, la mentalità tradizionale e soprattutto la fiducia incondizionata in Dio e nella sua sterminata potenza, ci possono essere tutti gli anticorpi perché si dissipino le forze avversarie che tormentano la Chiesa.

Purtroppo, in molti ambienti, questo non appare chiaro e gli anticorpi paiono perduti: sembra che con un intervento umano, con qualche politicante di volta in volta identificato come il salvatore della "società cristiana occidentale", oggi con tanto di endorsement di qualche vescovo extra chorum che ama molto i riflettori mediatici, si possa restaurare tutto, salvo poi tutto concludersi con un nulla di fatto se non con un peggioramento delle cose. Un po' come Isocrate cercò per tutta la vita indarno il salvatore della grecità, prima in Evagora e Nicocle di Cipro, poi in Archidamo di Sparta e infine in Filippo di Macedonia, venendo da tutti via via immancabilmente deluse le sue aspirazioni. Almeno Isocrate era un po' più realista di Demostene, e capiva che restaurare la grecità non avrebbe mai significato riportare Atene agli splendori dell'età periclea, ormai irrimediabilmente passati: sembra che in questi ambienti invece si sogni che qualcuno possa di punto in bianco portare le lancette della società indietro agli anni '50. E se qualcuno spera in Dio, nella preghiera e nel monachesimo, viene da questi accusato di essere un pavido che rifiuta la lotta. Ritorna l'errore pagano, e soprattutto l'errore dei giudei che non compresero che Gesù Cristo era il Messia, perché si aspettavano un re del mondo e non un re della pace quale Cristo era (questo un simpatico gioco di parole che ricordo dalla predica della domenica delle Palme di un parroco moscovita, dacché in russo "pace" e "mondo" sono omonimi, realizzandosi entrambi мир), la salvezza militare dai nemici e non la salvezza eterna dell'anima. Purtroppo, da molto tempo e non certo da sessant'anni la mentalità generale di molti cattolici è virata verso una forma religiosizzata e conservatrice di umanesimo, di fiducia nell'azione dell'uomo più che nella mano di Dio, di preoccupazione per questo mondo più che per l'altro, quell'altro che i santi cristiani hanno sempre avuto tanto forte impresso in cuore da ritirarsi in romitaggio nel deserto, farsi condurre al martirio o risultare stolti per questo mondo, i folli in Cristo, come la Croce stessa di Cristo era stoltezza per i pagani e scandalo per i giudei, perché "chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna".

mercoledì 2 settembre 2020

Un canto epicletico "infra Actionem" dalla consuetudine bobbiense

 Fondandosi sugli scritti di san Nicola Cabasila, nel suo scritto sull'Ortodossia del Canone Romano il prof. Nikolaj Dimitrevic Uspenskij spiega molto bene come l'Anafora che la tradizione attribuisce a San Gregorio Magno ed è contenuta nei libri liturgici romani abbia nella sua interezza un "carattere epicletico" consacratorio, che trova la sua akmè (ma non necessariamente il suo completamento) nel Supplices te rogamus.

Dalla consuetudine altomedievale dell'Abbazia di San Colombano a Bobbio traiamo l'interessante informazione che, dopo le parole dell'Istituzione, il coro accompagnava il proseguimento dell'Anafora con un canto infra Actionem dal chiaro significato epicletico.

Emitte Spiritum Sanctum tuum, Domine, ut dignetur sanctificare corpus et sanguinem tuum. Nos frangimus Domine, tu dignare retribuere, ut inmaculatis manibus illud tractemus. O quam beatus venter ille qui Christi corpus meruerit digne percipere. O quam preciosa escae commestio, quam lucis mundi illustrat gracia. O quam beati pedes illi qui Christum meruerunt sustinere, cui Angeli et Archangeli offerunt munera sempiterno et excelso Regi, alleluja.

Manda il tuo Santo Spirito, o Signore, perché si degni di santificare il tuo corpo e il tuo sangue. Νοi compiamo la frazione, o Signore, tu degnati di donarci in cambio di toccarlo con mani immacolate. O quanto beato fu il ventre che meritò di ricevere degnamente il corpo di Cristo. O quanto prezioso è il cibarsi del nutrimento, illuminato dalla grazia della luce del mondo. O quanto beati son quei piedi che meritarono di portare Cristo, al quale, sempiterno ed altissimo Re, gli Angeli e gli Arcangeli offrono i loro doni, alleluia.

In alcune recensioni le parole "Spiritum Sanctum tuum" sono sostituite da "Angelum sanctum tuum", mettendolo così in esplicita relazione con le parole del Supplices te rogamus. L'identificazione di questo Angelo è discussa dai vari commentatori: san Pascasio Radberto vede in esso Cristo stesso che officia il Sacrificio del suo medesimo Corpo, mentre il Cabasila vi nota esattamente lo Spirito Santo come nelle epiclesi orientali, interpretando "Angelum" come un grecismo nel senso di "inviato". Sicuramente è il passo più manifestamente epicletico del Canone Romano, seppur - come detto - questo intendimento pervade tutta l'Anafora, senza che i Padri abbiano in essa voluto identificare un momento preciso di consacrazione come più tardi pretenderanno di fare gli scolastici.

Questa testimonianza, oltre a inserire nuovi tasselli nella ricostruzione della concezione patristica della consacrazione dei Santi Doni, ci offre lo spunto per recuperare un'antica consuetudine liturgica, quella del canto epicletico infra Actionem, purtroppo smarrita nei secoli. Storicamente in ogni caso l'anafora segreta è sempre stata accompagnata dal canto del coro: in età bassomedievale saranno introdotti i cosiddetti "canti per l'Elevazione" (O salutaris hostia ad esempio), e in età tridentina avranno la meglio le toccate d'organo o la ripresa dell'ultimo verso del Sanctus polifonico di una certa lunghezza. La prassi del silenzio durante la seconda parte dell'anafora, o ancor peggio del silenzio durante le sole parole dell'Istituzione come voluto dalle rubriche del 1960 per sottolineare tomisticamente questo momento come quello della consacrazione, benché ampiamente praticata dai "tradizionalisti" odierni, è del tutto antistorica.

Offriamo di seguito l'esecuzione musicale del canto sopraddetto, secondo la notazione contenuta in un codice bobbiense di XII secolo, curata dal prof. Luca Ricossa, docente presso l'Haute école de musique di Ginevra. Sotto si trova la trascrizione in notazione quadrata, ad opera del medesimo prof. Ricossa.



martedì 1 settembre 2020

2 settembre - Dedicazione di S. Pietro di Castello

In dedicatione templi decantabat populus laudem: et in ore eorum dulcis resonabat sonus: fundata est domus Domini supra verticem montium, et ad eam venient omnes gentes.

Alla dedicazione del tempio il popolo cantava di lode: e nella loro bocca risuonava un dolce suono: la casa del Signore è stata costruita sulla sommità dei monti, e ad essa verranno tutti i popoli.


ij. Septembris.
Dedicatio Basilicæ Cathedralis
S. PETRI DE CASTELLO

quae sedes fuit Antistitis Olivoli, deinde Castelli, dein Patriarchae Venetiarum
ab anno 822 usque ad annum 1806

DUPLEX.
Cum commemoratione Translationis corporis S. Cosmae Heremitae.

Orantibus in loco isto, dimitte peccata populi tui, Deus, et ostende eis viam bonam, per quam ambulent, et da gloriam in loco isto. Qui regis Israel intende, qui deducis velut ovem Joseph, qui sedes super Cherubim.

Per coloro che pregano in questo luogo, rimetti i peccati del tuo popolo, o Signore, e mostra a loro la buona strada, nella quale essi camminino, e dà gloria in questo luogo. Tu che governi Israele, volgi lo sguardo, tu che conduci come agnello Giuseppe e siedi sui Cherubini.