mercoledì 30 agosto 2017

La Santa Messa X - La Consacrazione

Continuasi quivi l'analisi del Canone Romano, donde si era interrotta, ossia dall'Hanc igitur, sino alla Consacrazione compresa.

Pubblicazione precedente: http://traditiomarciana.blogspot.com/2017/08/la-santa-messa-ix-dal-prefazio-allhanc.html

XXXIV. Hanc igitur



Il gesto che il sacerdote compie al momento di iniziare questa antichissima preghiera (nonostante sia l'ultima a inserirsi nel Canone Romano, secondo lo Jungmann) è quello antichissimo, presente persino nel rito sacrificale giudaico, di stendere la mano sulle oblate. L'imposizione delle mani, conservata nella maggior parte delle consecrazioni cristiane, aveva duplice valenza: è il gesto dedicativo per eccellenza, poiché consacrava definitivamente l'offerta a Dio impedendone qualsiasi uso profano (cosa che nella Divina Liturgia Eucaristica già in realtà è stato fatto nell'Offertorio nel rito romano e nella proscomidia nel rito greco, ma su cui è sempre utile ritornare, a pochi istanti dalla consacrazione e dalla Transustanziazione). E' anche però il gesto con cui il sommo sacerdote in Israele trasferiva sul capro espiatorio i peccati di tutto il popolo (cfr. Levitico IV), e identicamente è qui il gesto con cui i peccati di tutto il mondo vengono portati da Nostro Signore Gesù Cristo incarnato e crocifisso, e lavati nel suo Sangue Preziosissimo. Quest'orazione riassume tutte le preghiere del sacerdote: per sé medesimo, per i presenti, per chi è offerto il sacrificio e per chi gli è unito nella preghiera. Chiede anche la pace in questo mondo, la liberazione dalla dannazione infernale, e il poter godere della gloria celeste insieme agli eletti. Tre beni dunque, richiedendo i quali, secondo il Clicht, la Chiesa professa che Dio è il Signore dell’universo, e che il suo supremo principato si estende nella triplice struttura del mondo, sulla terra, negli inferi e nei cieli.
Il Gueranger fa notare che le parole diesque nostros in tua pace disponas non compaiono nelle versioni di quest'orazione antecedenti al VI secolo, e pertanto le riconduce a S. Gregorio Magno, allorché l'Urbe era gravemente minacciata dall'assedio longobardo. Questa nota, ispirata dallo Spirito Santo al Santo Papa (cui appariva spesso, come è noto dalle croniche del suo segretario Giovanni, sottoforma di colomba, che gli suggeriva ciò che dovesse fare o dire, fu saggiamente mantenuta nei secoli successivi.
S. Roberto Bellarmino così descrive, con asciutte e chiare parole, quest'orazione: "Il Sacerdote prega Dio, perché accetti quest’oblazione di pane e divino come materia del futuro Sacrificio, e la benedica e santifichi veramente".
Il sacerdote conclude questa preghiera dicendo Amen a mani giunte, e subito dopo inizia a compiere i riti della consacrazione. Il chierichetto suona una volta il campanello durante questa preghiera, per avvisare il popolo che è imminente la transustanziazione delle Sacre Specie, e si avvicina al sacerdote per il gran momento.









Hanc ígitur oblatiónem servitútis nostræ, sed et cunctæ famíliæ tuæ,  quǽsumus, Dómine, ut placátus accípias: diésque nostros in tua pace dispónas, atque ab ætérna damnatióne nos éripi, et in electórum tuórum iúbeas grege numerári. Per Christum Dóminum nostrum. Amen.
Quest’oblazione dunque della nostra servitù, ma anche dell’intera pletora dei vostri servi, vi preghiamo, o Signore, affinché l’accettiate placato: e perché disponiate i nostri giorni nella vostra pace, e ci liberiate dall’eterna dannazione, e ordinate che siamo annoverati nel gregge dei vostri eletti. Per Cristo Signore nostro. Amen.

XXXV. Quam oblationem



Anche se non è ancora il momento effettivo della consacrazione, si può dire che la preghiera consecratoria sia già iniziata, dal momento che, nella collazione di preghiere diverse che è il Canone Romano, dal Quam oblationem al Supplices te rogamus compresi si ha un unico blocco logico, contenente anche il sublime mistero della Transustanziazione. Invoca dunque il Signore perché doti delle seguenti cinque caratteristiche l'oblazione, accompagnando queste richieste con tre segni di croce. Le parole usate sono tolte dal linguaggio giuridico del diritto romano, e ora le andiamo a spiegare secondo il Gueranger e secondo il Righetti:

  • Benedictam: l'oblazione sia santificata, e in tal modo accetta a nostro Signore; il Righetti infatti traduce con "consacrata", piuttosto che "benedetta". Riferisce invece il Suarez che il termine "benedizione" è spiegabile con la consuetudine dei Padri di chiamare così la Consacrazione, intendendo la benedizione per eccellenza.
  • Adscriptam: letteralmente "registrata", il Gueranger interpreta che bisogni ben considerarla, mentre il Righetti propende perché essa debba essere "registrata a merito degli offerenti".
  • Ratam: dev'essere dunque ratificata, approvata e confermata in cielo come cosa buona e conveniente, riconosciuta valida davanti a Dio.
  • Rationabilem: questa parola ha lo stesso valore di λογικήν all'interno dell'anafora di S. Giovanni Crisostomo (che definisce ripetutamente il Sacrificio ripresentato nella Messa come λογικήν καὶ αναίμακτον λατρείαν, "spirituale ed incruento sacrificio"). Il Gueranger propone giustamente di andare a considerare il sacrificio cruento dei Giudei, il quale era una prefigurazione imperfetta e del Sacrificio cruento e unico di Nostro Signore e della ripresentazione incruenta di quel medesimo sacrificio durante la Santa Messa. Ora, la Vecchia Legge e il sacrificio cruento son cessanti, soppiantati dall'oblazione spirituale che è di estremamente maggior valore. S. Paolo infatti nella lettera ai Romani invita i cristiani a offrire se stessi a Dio come ostia interiore e veramente spirituale: Obsecro vos, fratres, per misericordiam Dei, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium vestrum ("Vi prego, o fratelli, per la misericordia di Dio, acciocché offriate i corpi vostri quale ostia vivente, santa, gradita a Dio, il vostro sacrificio spirituale", Romani XII, 1). "Così, dunque - conclude dom Prosper - il cristiano deve offrire a Dio persino il suo corpo, facendolo partecipar alla preghiera, praticando il digiuno e la penitenza, per impedire che segua continuamente le tendenze della materia; in una parola, deve far in modo che la parte inferiore del suo essere s'innalzi sino ad unirsi senza ostacolo alla parte superiore."
    Anche il Righetti fa riferimento alle antiche oblazioni cruente, ma preferisce passare per la filosofia neoplatonica ed aristotelica, e concisamente argomenta: "rationabilem, cioè spirituale, secondo l'elevato concetto del sacrificio che i filosofi greci dichiaravano essere l'unica forma di culto degna di Dio, in opposizione ai sacrifici carnali, cruenti, ormai aboliti".
    E' opinione minoritaria e poco probabile che rationabilem abbia tutt'altro significato,  nel senso di "canonica", secondo le debite forme.
  • Acceptabilem: l'oblazione dev'essere soddisfacente a Dio cui è offerta.
Altre note autorevoli riguardano l'interpretazione dell'in omnibus (Righetti, "sotto ogni rapporto") e di oblationem (Müller, "non solo il Corpo fisico, ma anche il Corpo mistico di Nostro Signore (la sua Chiesa, ndr)").
Il Sacerdote termina l'orazione tracciando un segno sull'ostia e sul calice, invocando Iddio perché essi realmente si trasformino nel Corpo e nel Sangue del Signore, perché sian messi a nostra salutare disposizione e divengano nostro celeste nutrimento.

Quam oblatiónem tu, Deus, in ómnibus, quǽsumus,  bene + díctam, adscríp + tam, ra + tam, rationábilem, acceptabilémque fácere dignéris ut nobis Cor + pus et San + guis fiat dilectíssimi Filii tui Dómini nostri Iesu Christi.
La quale oblazione voi, o Dio, ve ne preghiamo, degnatevi di farla in tutto  benedetta, registrata, approvata, spirituale, ed accettabile, acciocché per noi diventi il Corpo e il Sangue del vostro dilettissimo Figlio, il Signor nostro Gesù Cristo.

XXXVI. La Consacrazione

Ecco la parte essenziale della Messa, le Sante Parole già pronunziate da Nostro Signore durante l'Ultima Cena, che ora il Sacerdote, che agisce in persona Christi (quasi fosse Cristo egli stesso, legge il Sylvius), rinnova applicandole alla materia presente davanti a sé, che debbono giocoforza dirsi "recitativamente e formalmente o assertivamente", perché si possa realmente parlare di una Divina Liturgia Eucaristica.


Ciò che avvenne magnificamente nel Natale di Nostro Signore, in quella Santa Notte a Betlemme, ciò che avvenne a quella Santa Cena "per prefigurazione" nella notte del giovedì di Pasqua, ogni giorno, molteplici volte, accade nuovamente sull'altare: Gesù Cristo, il Figlio di Dio Unigenito, la Seconda Persona della Santissima Trinità, s'incarna su questa terra; non già il pane e il vino che avevamo oblato, ma carne e sangue, il Corpo fisico di Nostro Signore Gesù Cristo. Di cosa si vogliono privare con la loro incredulità i protestanti, parlando di "consustanzione" (eresia luterana) o di "simbolismo" (eresia calvinista), quando la nostra fede ci insegna che totalmente, nel mistero più grande della liturgia, le vili sostanze presentate sull'altare, pur manendo della propria specie, vengono completamente trasmutate in Nostro Signore Gesù Cristo, che diventa realmente presente in mezzo a noi con il suo Corpo e il suo Sangue, la sua Anima e la sua Divinità! Alcuni mistici, descrivendo la liturgia, han detto che "alle parole Qui pridie, si apre il Cielo, e un coro di Angeli accompagna il Figlio di Dio che discende sull'altare". Insegna il Concilio di Trento: Si quis negaverit, in sanctissime Eucharistiae sacramento conteneri vere, realiter, et substantialiter Corpus et Samguinem una cum Anima er Divinitate Domini nostri Jesu Christi, ac proinde totum Christum; sed dixerit tantummodo esse in eo ut in signo, vel figura, aut virtute: Anathema sit. (SSCT, S. XIII, can. 1)
Veramente qui si offre la Vittima reale e sostanziale; la Consacrazione, secondo l'opinione più comune tra i teologi, è un atto veramente sacrificativo, perché mediante essa, dalla forza delle parole, si separano (almeno per quanto riguarda gli accidenti) il Corpo e il Sangue, ancorché esistano ambedue in concomitanza, insieme all'Anima e alla Divinità, sotto ciascheduna specie. S. Gregorio Teologo dice che "il Sacerdote usa le parole come una spada mistica" e pone Cristo sull’altare come Vittima uccisa e sacrificata.

Con queste parole consacra il Corpo di Cristo:

  • Qui pridie quam pateretur. Queste parole furono aggiunte dal papa Alessandro I, sesto successore di san Pietro. Egli volle aggiungere queste parole per ricordare la Passione; per esser il Sacrificio della Messa il medesimo Sacrificio della croce; perché lo stesso Signore, che era stato immolato la sera nel Cenacolo, doveva esser immolato il giorno dopo sul Calvario. (Gueranger)
  • Accepit panem in sanctas ac venerabiles manus suas. Il sacerdote prende nelle sue pure mani (“O quanto debbono essere monde quelle mani!” dice Tommaso da Kempis, tanto che una rubrica prescrive, se necessario, di astergere le mani sul corporale) il pane ed alza gli occhi al cielo - et elevatis oculis in caelum -, facendo ciò che fece lo stesso Gesù Cristo.
  • Ad te Deum Patrem suum omnipotentem, tibi gratias agens (china il capo), benedixit (dicendo questa parola il sacerdote fa il segno di croce sull'ostia). Questa è l'Eucaristia o "rendimento di grazie", e la Chiesa ha cura speciale di ricordarlo, e questo perché noi siamo sempre restii nel testimoniar a Dio la nostra gratitudine per i suoi innumerevoli benefici, mentre dovremmo aver sempre il ringraziamento nel cuore e sulle labbra. "Con questa benedizione Cristo chiedeva la santificazione del pane e la trasformazione, prossima entro breve; donde, sebbene gli Evangelisti la nominino ora benedizione ora rendimento di grazie perché Cristo le ha congiunte (gratias agens benedixit), in realtà sono diverse, tra loro e dalla Consacrazione. La benedizione infatti è rivolta al simbolo, l’azione di grazie a Dio". (Sylvius)
  • Fregit deditque discipulis suis, dicens: Accipite, et manducate ex hoc omnes:
  • HOC EST ENIM CORPUS MEUM (questi sono i verba consecratoria vera e propria, indispensabili all'azione)
    II sacerdote, con i gomiti sull'altare che rappresentano la sua unione a Cristo, tiene allora l'ostia col pollice e l'indice di ambedue le mani, pronunzia a voce bassa, ma chiaramente e distintamente, le parole della consacrazione tenendo gli occhi sull'ostia che vuole consacrare. Pronunziate le parole della Consacrazione, il sacerdote, genuflettendo, adora l'Ostia santa. Subito (statim dice la rubrica) il Sacerdote genuflesso adora il Dio nascosto, ed eleva l’Ostia perché sia adorata dal popolo. “Deve adorare questo Signore con tanta profonda venerazione da umiliare il suo cuore sino allo stesso abisso, quasi desiderando discendere nelle profondità della terra per la riverenza di tanta maestà. E memore che gli Angeli discendono dal cielo per stare qui innanzi al Signore nel Sacrificio, come dicono S. Gregorio e S. Giovanni Crisostomo, deve pensare in quel momento di essere circondato dall’esercito degli Angeli, ed insieme con essi adorare e lodare il Signore e Creatore comune a tutti” (L. Da Ponte). Fatta la sua adorazione, il sacerdote si alza ed eleva l'Ostia al di sopra del suo capo per farla veder al popolo, affinchè esso pure l'adori. Questa elevazione, assente nella consuetudine antica, fu introdotta a partire dal XII secolo, per contrastare efficacemente l'eresia propugnata da Berengario arcidiacono d'Angers, che negava la Presenza Reale. Le Chiese d'Oriente mantengono l'antico uso di elevare l'Ostia solo alla fine del Canone, facendo quest'elevazione con grande solennità: il sacerdote prende il Corpo e il Sangue del Signore e, voltandosi verso il popolo come all'Orate fratres, li presenta all'adorazione dell'assemblea. Nella Chiesa latina, invece, quell'elevazione ha perso importanza e si è ridotta a un piccolo gesto simbolico, mentre l'elevazione principale è quella che avviene subito dopo la Consacrazione, accompagnata dal suono triplice del campanello, da sei (o nove, in alcuni luoghi, per moltiplicazione) colpi di turibolo e dal suggestivo gesto (che in origine, con le ingombranti casule medievali, aveva funzione pratica) di sollevare leggermente la pianeta del celebrante.
    "Dopo aver elevato l'Ostia, il sacerdote la mette sul corporale e l'adora di nuovo. [...] Dopo queste prime parole della Consacrazione, il Corpo di Nostro Signore è sull'altare, ma poiché, dopo la Risurrezione, il Corpo, il Sangue, l'Anima e la Divinità del Salvatore non possono essere separati, Nostro Signore è vivo sull'altare come in cielo, ossia glorioso, come dopo la sua Ascensione". (Gueranger).


D'ora innanzi ogni volta che toccherà l'Ostia, il sacerdote farà una genuflessione prima e dopo; prima, perché sta per toccare con le sue mani il Signore, e dopo, per rendergli omaggio. Inoltre, non disgiungerà più i pollici e gli indici fin dopo l'abluzione delle dita, perché queste dita sono consacrate, hanno toccato il Signore, e non possono esser macchiate da nulla di profano.

Qui pridie quam paterétur accépit panem in sanctas ac venerábiles manus suas et elevátis óculis in coélum, ad te Deum Patrem suum omnipoténtem, tibi grátias ágens, bene + díxit, fregit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite, et manducáte ex hoc ómnes.
HOC EST ENIM
CORPUS MEUM.
Il quale, prima di patire i tormenti, prese il pane nelle sante e venerabili mani sue, ed elevati al cielo gli occhi, a voi, Dio Padre suo onnipotente, rendendovi grazie, lo benedisse, lo spezzò, lo diede ai discepoli suoi, dicendo: Pigliate, e mangiatene tutti.
QUESTO E’ INFATTI IL MIO CORPO.


Prosegue poi consecrando il vino; discoperto il calice, pronunzia queste parole

  • Simili modo postquam coenatum est. Poi, prendendo il calice tra le mani, prosegue: accipiens et hunc praeclarum Calicem in sanctas ac venerabiles manus suas. "Quanto la santa Chiesa nobilita questo calice che ha contenuto il Sangue del Signore e che ora pone nelle mani del sacerdote! Nel salmo ascoltiamo il Profeta che dice: Et calix meus inebrians quam praeclarus est! (Ps XII,5). La santa Chiesa trovò questa lode così appropriata per il calice consacrato, destinato a contener il Sangue di Gesù Cristo, che ad essa rivolge il suo ricordo in questo momento." (Gueranger)
  • Item tibi gratias agens, benedixit. Prosegue dunque il rendimento di grazie e la benedizione di cui si è parlato sopra.
  • Deditque discipulis suis, dicens: Accipite, et bibite ex eo omnes.
  • Allora il sacerdote, tenendo il calice un poco alzato, pronunzia sopra di esso le parole della consacrazione del vino: HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI, NOVI ET AETERNI TESTAMENTI: MYSTERIUM FIDEI: QUI PRO VOBIS ET PRO MULTIS EFFUNDETUR IN REMISSIONEM PECCATORUM.Le parole della consacrazione, tutte fondamentali, differiscono leggermente da quelle che si leggono nei Vangeli o in San Paolo, ma secondo la tradizione furono fissate da San Pietro proprio per l'uso liturgico, e sulla loro verità e necessarietà si esprimono favorevolmente Cornelio a Lapide e il Suarez.
    Sì, questo è veramente il mysterium fidei, uno degli elementi essenziali della nostra fede, il più incomprensibile e il più grato, forse! Appare qui il sangue di Cristo, il sangue del Nuovo ed Eterno Testamento, non più il sangue dei tori e dei capri che sigillava l'Antica Alleanza, cessata in Cristo, ma il sacrificio di Cristo e la sua ripresentazione eterna ed incruenta, canonizzata nella Nuova Legge, istituita da Nostro Signore fatto uomo e morto per noi, la quale vigerà sino alla fine dei tempi. Sì, questo è il Sangue effuso per la remissione dei peccati, effuso pro multis, perché Cristo è morto per tutti, ma non tutti accettano il Sacrificio Redentore di Nostro Signore, e come tale non tutti godranno della remissione dei peccati in questo sacrificio. "Mai, in nessun sacrificio - argomenta il Gueranger -, vi fu vittima più realmente immolata e sacrificata di quanto lo sia, dopo la Consacrazione, Colui che è lo splendore di Dio e del quale tuttavia la gloria, la bellezza e la vita, non hanno ormai più altro fine e altra destinazione che di entrar in noi e in noi perdersi e consumarsi.". Sì, questo è realmente l'unico sacrificio, quello di Gesù, l'"unico e accettabile olocausto" gradito al Padre (cfr. Paolo III), che il Sacerdote ripresenta in persona Christi offrendo il Corpo e il Sangue di Cristo. Stessa vittima, Cristo, stesso sacerdote, Cristo, stesso sacrificio, l'eterno sacrificio di Cristo.
  • Alle parole della Consacrazione il sacerdote, posando il calice sul corporale, aggiunge subito: Haec quotiescumque feceritis, in mei memoriam facietis. Con queste parole, Nostro Signore ha dato ai suoi Apostoli, e in essi a tutti i sacerdoti, il potere di far ciò che Egli stesso aveva fatto, ossia il potere d'immolarlo. Dunque, non è più l'uomo che parla nel momento solenne della Consacrazione, ma lo stesso Gesù Cristo, servendosi dell'uomo (Gueranger). Ancora poi il sacerdote genuflette adorante, si rialza per elevare l'ostia al suono del campanello e allo spargersi dell'incenso, e genuflette nuovamente.

A questo punto le Chiese Orientali aggiungono l'epiclesi, l'invocazione allo Spirito Santo, con la quale dicono che è veramente completa la Transustanziazione. A nostro parere, l'aggiunta di una così forte preghiera allo Spirito in questo punto, già presente anticamente ma non interpretata come fondamentale alla Consacrazione, fu il risultato delle dispute trinitarie dei secoli VIII-IX; secondo il Gueranger, invece, siccome nel rito bizantino il coro risponde Amen alle parole consacratorie, l'aggiunta di una preghiera tutta sacerdotale (senza risposta) serviva a chiarire il momento dell'avvenuta consacrazione. In ogni caso, come si è già detto in precedenza, l'epiclesi romana, che si trova all'Offertorio, il Veni Sanctificator (non il Quam oblationem come alcuni, meno bene, sostengono), anche se meno forte e in un luogo diverso (ma più opportuno), ha medesimo valore.





Símili modo póstquam cenátum est accípiens et hunc præclárum cálicem in sanctas ac venerábiles manus suas: item, tibi grátias ágens bene + díxit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite et bibíte ex eo ómnes.

HIC EST ENIM CALIX SÁNGUINIS MEI,
NOVI ET ÆTÉRNI
TESTAMÉNTI 
MYSTÉRIUM FÍDEI 
QUI PRO VOBIS ET PRO MULTIS EFFUNDÉTUR IN REMISSIÓNEM PECCATÓRUM.

Hæc quotiescúmque fecéritis, in mei memóriam faciétis.
Similmente, dopo che si fu cenato, prese anche questo gloriosissimo calice nelle sante e venerabili mani sue: parimenti, rendendovi grazie, lo benedisse e lo diede ai discepoli suoi, dicendo: Pigliate, e bevetene tutti.

QUESTI E’ INFATTI IL CALICE DEL MIO SANGUE,
DEL NUOVO ED ETERNOTESTAMENTO: MISTERO DELLA FEDE:
C
HE PER VOI E PER MOLTI  S’EFFONDE PER LA REMISSIONE DE’ PECCATI.

Ogniqualvolta farete queste cose, le farete in memoria di me.




Fonti: sono indicati volta per volta gli autori da cui sono state prese delle parti
Prossima pubblicazione (inizio settembre): La Santa Messa XI - Dall'Unde et memores alla fine del Canone

martedì 29 agosto 2017

In decollatione S. Johannis Baptistae

Della vita di S. Giovanni Battista abbiamo già scritto qui.

Si festeggia il 29 agosto la festa della Decollazione, o Martirio, di San Giovanni Battista, precursore di Nostro Signore Gesù Cristo.

Caravaggio, Decollazione di S. Giovanni Battista, olio su tela, 1608, Concattedrale di S. Giovanni a La Valletta

La vicenda è sostanzialmente la seguente: il martirio del Pròdromos avviene circa nell'anno 32, dopo che egli aveva rimproverato il concubinaggio di Erode e della cognata Erodiade, isposa del fratello del re, Filippo. Per tal motivo il Santo fu incarcerato nella fortezza di Macheronte, ma non si spense l'odio di Erodiade nei suoi confronti, tanto che, avendo la sua figliuola Salomè ballato meravigliosamente ad un banchetto, ed essendole stato promesso un premio da Erode, la donna ordinò alla figlia di chiedere la testa di Giovanni Battista. A malincuore, Erode fece decapitare il Santo e consegnò macabramente ad Erodiade (per mezzo di Salomè) la testa di lui su di un piatto. Tutto ciò ci è narrato nel Vangelo di S. Marco, al capitolo VI:

In illo témpore: Misit Heródes, ac ténuit Joánnem, et vinxit eum in cárcere propter Herodíadem, uxorem Philíppi fratris sui, quia dúxerat eam. Dicebat enim Joánnes Heródi: Non licet tibi habére uxórem fratris tui. Heródias autem insidiabátur illi, et volébat occídere eum, nec póterat. Heródes enim metuébat Joánnem, sciens eum virum justum et sanctum: et custodiébat eum, et audíto eo multa faciébat, et libénter eum audiébat. Et cum dies opportúnus accidísset, Heródes natális sui coenam fecit princípibus et tribúnis et primis Galilaeæ. Cumque introísset fília ipsíus Herodíadis, et saltásset, et placuísset Heródi simúlque recumbéntibus; rex ait puéllæ: Pete a me, quod vis, et dabo tibi. Et jurávit illi: Quia quidquid petiéris dabo tibi, licet dimídium regni mei. Quæ cum exiísset, dixit matri suæ: Quid petam? At illa dixit: Caput Joánnis Baptístæ. Cumque introísset statim cum festinatióne ad regem, petívit dicens: Volo, ut protínus des mihi in disco caput Joánnis Baptístæ. Et contristátus est rex: propter jusjurándum et propter simul discumbéntes nóluit eam contristáre: sed misso spiculatóre, præcépit afférri caput ejus in disco. Et decollávit eum in cárcere. Et áttulit caput ejus in disco: et dedit illud puéllæ, et puella dedit matri suæ. Quo audíto, discípuli ejus venérunt et tulérunt corpus ejus: et posueérunt illud in monuménto.

In quel tempo, Erode avea mandato a pigliare Giovanni, e lo tenne legato in prigione per causa di Erodiade moglie di Filippo suo fratello, perché egli se l'era presa per moglie. Imperocchè Giovanni diceva ad Erode: Non è lecito a te di ritenere la moglie di tuo fratello. Ed Erodiade gli tendeva insidie: e bramava di farlo morire; ma non le riusciva. Imperocchè Erode temeva Giovanni, sapendo che era uomo giusto, e santo: e lo difendeva, e a persuasione di lui faceva molte cose, e lo sentiva volentieri. Ma venuto un giorno favorevole, Erode fece una cena il suo dì natalizio ai grandi della corte, e ai tribuni, e ai principali della Galilea: ed essendo entrata la figliuola della stessa Erodiade a ballare, ed essendo piaciuta ad Erode, e ai convitati, il re disse alla fanciulla: Chiedimi quello che vuoi, e te lo darò; e le giurò: Qualunque cosa mi chiederai, te la darò, abbenché sia la metà del mi regno. Ed ella uscita che fu, disse a sua madre: Che dimanderò? Ed ella dissele: La testa di Giovanni Battista. E ritornata subito frettolosamente dal re, gli fece domanda, dicendo: Voglio che tu mi dia subito in un bacile la testa di Giovanni Battista. E rattristatosi il re per risguardo al giuramento, e a' convitati, non volle disgustarla: ma spedì il carnefice e ordinò che fosse portata la testa di lui in un bacile. E questi lo decollò in prigione. E portò in un bacile la testa di lui: e la dette alla fanciulla, e la fanciulla la dette alla madre sua. Il che risaputosi da' suoi discepoli, andarono a prendere il suo corpo, e gli diedero sepoltura.


La fissazione della festa odierna alla data del 29 settembre ha probabilmente la sua origine nel giorno della dedicazione della Basilica di S. Giovanni a Sebaste di Samaria, luogo in cui si presume sia stato reciso il capo del Precursore. Essa è tuttavia, secondo i libri liturgici, la data in cui si rinvenne la reliquia del capo di S. Giovanni (della quale nel Medioevo si produrranno nell'ambiente di chi viaggiava in Oriente numerosi falsi, alcuni dei quali, custoditi ad Amiens e ad Istanbul, pretendono ancor oggi una qualche immeritata veridicità), subito portata e tuttora custodita nella Basilica di S. Silvestro in Capite, in Campo Marzio a Roma (tranne la mandibola, che si trova nella Cattedrale di S. Lorenzo a Viterbo). Il piatto su cui la testa fu poi offerta ad Erodiade si trova a Genova, in S. Lorenzo, anche se un pezzo è custodito a Loano. Il resto del corpo e il sangue sono custoditi principalmente in Italia (Siena, Firenze, Napoli, Rapagnano, Chiaramonte Gulfi, etc.), anche se ne sono conservate alcune nella moschea omayyade di Damasco e altre nel monastero copto di S. Macario in Egitto.
La festa è inscritta nei Sacramentari Gallicani dal V secolo, e in quelli Romani dal VI, alternativamente coi nomi di Passio, Martyrium o Decollatio

Una popolare tradizione confortata da alcuni testi salmici dei primi secoli sostiene che il Battista fosse risorto al momento della Risurrezione di Nostro Signore e ch'egli fosse stato assunto in Cielo dopo l'Ascensione di Cristo, basandosi su quanto afferma S. Matteo: Et monumenta aperta sunt: et multa corpora sanctorum, qui dormierant, surrexerunt. Et exeuntes de monumentis post resurrectionem ejus, venerunt in sanctam civitatem, et apparuerunt multis. "E s'aprirono i sepolcri: e molti corpi di santi, che erano morti, risorsero. E uscendo dalle tombe dopo la sua Risurrezione, vennero nella città santa, e apparvero a molti". A tale credenza aderì prudentemente anche un Papa, Giovanni XXIII, durante la canonizzazione di Gregorio Barbarigo. Questa teoria non fa però assolutamente parte della Tradizione Cattolica intesa come insegnamento vincolante della fede.

A Venezia esiste una chiesa dedicata alla Decollazione di S. Giovanni Battista, che abbiamo descritto qui.

venerdì 25 agosto 2017

In festo S. Ludovici Regis et Confessoris

Nella festa di S. Ludovico (o Luigi) IX Re di Francia e Confessore, pubblichiamo un piccolo estratto di un saggio scritto tempo addietro da un membro della nostra redazione, nel quale si riassumono brevemente le imprese del Santo Sovrano in terra maomettana.
Ricordiamo che la figura di S. Ludovico, che oltre al Re Crociato è appellato anche il Re Devoto (basti pensare la sua dedizione straordinaria al ritrovamento e alla raccolta delle reliquie), e in generale il Re Cristiano per eccellenza (dato il suo impegno nella difesa della Fede Cattolica, contro i nemici interni ed esterni, gli eretici e i bestemmiatori e i musulmani e i giudei, il più grande sostenitore della predicazione dei neonati ordini mendicanti) è una delle più ispiranti per il governante veramente cristiano. Re a solo quattro anni (e pertanto detto "Re Fanciullo"), ebbe una vita che non si esiterebbe a definire sfortunata, ma ciononostante rimase sempre fedelissimo alla causa di Nostro Signore Gesù Cristo, per il quale forse non ottenne il successo personale, ma fece godere alla Francia uno dei periodi di maggior splendore di tutto il medioevo.
Egli ci si presenta inoltre come il modello perfetto del Crociato: ai modernisti che tentano di demolire il principio d'infallibilità della Chiesa presentando le Crociate come uno dei suoi errori, è da presentare il modello di San Ludovico, il quale mostra veramente come la Crociata era in sé una guerra giusta da combattersi solo per la maggior gloria di Dio (non che in essa non vi siano stati peccatori, che abbiano approfittato di essa per compiere stragi e sterminj inutili, ma la Chiesa non può aver fallato indicendo le Sante Crociate, le quali sono cose buone e meritorie nel loro intento originario, di cui S. Ludovico è incarnazione perfetta).
Quanto ci sarebbe bisogno di una nuova crociata, con degli emuli del Santo Re di Francia, contro l'islam odierno, ma soprattutto contro l'ateismo e il laicismo che stanno distruggendo la società occidentale introducendo in essa le più gravi bestialità contro le leggi di Nostro Signore Gesù Cristo! Guardiamo e invochiamo dunque la figura di S. Ludovico, che un trovatore definiva “leale e integro, esempio di saggezza e di rettitudine” che conduce “una vita santa, linda, pura, senza peccato e senza macchia", e che considerava un suo dovere, in qualità di reggente cristiano, combattere e dare tutta la propria vita per la maggior gloria di Nostro Signore sulla terra: "La Crociata - diceva - è il coronamento della retta condotta di un principe cristiano".


Nicolas-Guy Brenet, S. Luigi IX riceve il vecchio della montagna, 1773, Musée Carnavalet, Parigi

Dal saggio breve "Le Crociate"

(VII Crociata). A complicare la situazione vicino-orientale, rimasta pacifica per una ventina d’anni, s’aggiunge l’avanzata dei mongoli, che nel 1219 avevano distrutto il pur potentissimo impero di Corasmia. Il figlio dell’ultimo imperatore corasmio, nel tentativo di ridar luce al suo impero, prese a guidare bande di disordinati briganti che compivano razzie nei territori musulmani. Al-Salih, figlio cadetto di al-Malik, aveva cominciato a comprare schiavi-soldati (i cosiddetti mamelucchi) e a trattare con questi gruppi corasmi. Il padre allora lo allontanò, nominandolo governatore di Siria. Questi, alla morte del padre, destituì l’erede al-Adil e divenne nuovo Sultano. Nel 1244 il sultano fece fuori anche gli ultimi rimasti della famiglia reale, non rendendosi conto però dello spropositato potere che stavano ottenendo le sue guardie sbandate che operavano in tutto il Sultanato. Nel 1245, gli ultimi Ayyubidi rimasti, con il voltafaccia della guardia mamelucca, depredano Gerusalemme massacrando 30.000 cristiani. Durante il Concilio di Lione, tutto ciò spaventò la cristianità, e si decise di indire una nuova crociata per calmare la situazione mediorientale, guidata stavolta da Luigi IX (San Luigi o Ludovico) re di Francia, anziché del nuovamente scomunicato Federico II. Luigi, pur malato, organizzò la crociata, ma non trovò appoggi da nessuno: il Papa e l’Imperatore erano in forte conflitto, e solo Enrico III d’Inghilterra fornì 200 cavalieri. Così, il 12 giugno 1248, Luigi va a Saint Denis a prendere l’orifiamma, la tracolla e il bordone dalle mani del cardinale legato, segni della sua intima convinzione dell’identità tra crociata e pellegrinaggio. Recatosi a piedi nudi eall’abbazia reale di Saint Antoin de Champs e, prima di partire, nominata sua madre reggente del regno, Luigi organizzò la crociata in modo impeccabile: concesse vantaggi anche economici a chi partecipava alla crociata e si curò di evitare conflitti interni o stragi inutili. Il rigoroso Luigi rispettò e fece rispettare quelle prescrizioni che riguardavano la modestia nel vestire propria dei Crociati, ma Luigi, per quanto riguarda la sua persona, non si accontentò di applicare rigorosamente le prescrizioni della Chiesa e, secondo la sua abitudine, ma conservò tale austerità anche al ritorno dalla crociata fino alla morte. Questa rinuncia è il segno di una svolta nella vita di san Luigi, il passaggio da un genere di vita e di governo semplicemente conformi alle raccomandazioni della Chiesa a una condotta personale e politica autenticamente religiosa, da un semplice conformismo ad un vero ordine morale. Il 25 agosto 1248, accompagnato dai fratelli (Roberto I, Carlo d’Angiò e Alfonso III) e 15.000 uomini, re Luigi partì da Aigues-Mortes verso l’Egitto. Nel 1249, la flotta sbarcò senza problemi a Damietta, e si diresse verso al-Mansura, guidata dal capitano mamelucco Baybars, il quale fece anche ai francesi un accordo, rifiutato: restituire Damietta per Gerusalemme (la città santa non era poi importantissima per i musulmani, mentre il porto sì: l’Egitto era diventato il vero cuore dell’impero, e non le travagliate Siria e Palestina). Così Luigi attaccò al-Mansura, scontrandosi con le difese del capitano, che riuscì a resistere fino all’arrivo dell’Emiro, che aveva intanto massacrato l’Ordine Ospitaliero che aveva tentato una sortita ad Ascalona. Inutile fu la resistenza dei cristiani, anche perché moltissime vittime fecero il tifo e lo scorbuto. Luigi fu catturato (e tra l’altro guarito da un medico arabo) e restituito dietro il pagamento di 800.000 bisanti pagati dai Templari. Luigi IX restò altri quattro anni in Terra Santa, senza ottenere risultati.

Un generale cambiamento della situazione internazionale, l’arrivo dell’impero mongolo in Armenia e la guerra tra genovesi e veneziani, favorì la campagna di riconquista di Baybars che riprese la quasi totalità dei domini cristiani in Medio Oriente, minacciando anche Acri. Nel 1267 Clemente IV richiese a Luigi IX di Francia, spaventato da questi eventi, una nuova crociata. Egli fu inoltre convinto dal fratello Carlo d’Angiò, che gli suggerì di tentare di giungere a Tunisi per poi prorompere in Egitto. Inoltre, Muhammad Mustansir, califfo tunisino, aveva buoni contatti con i Cristiani, e sarebbe stato facilmente convertito e portato dalla parte dei Franchi. Arrivarono in Tunisia a luglio, ma il caldo, la peste, la dissenteria e la carenza d’acqua potabile mieterono migliaia di vittime, compreso Luigi IX, che lasciò il trono al figlio Filippo III e la guida della crociata al fratello. Carlo tuttavia poco dopo si ritirò, concludendo un trattato con il califfo che concedeva la creazione di comunità cristiane a Tunisi e assegnava all’Occidente Malta e Pantelleria. Intanto, Edoardo I d’Inghilterra si era recato in Siria con una parte dell’esercito di Luigi per intraprendere la IX crociata. Il Santo Re morirà di malattia in terra straniera, non vedendo mai il successo della Crociata per cui tanto ardentemente s'era battuto.

Gli ultimi istanti di vita del Santo Re 

Giovanni Tristano di Valois, figliuolo suo, racconta San Luigi continuò a preoccuparsi delle cose di Dio e dell'esaltazione della fede cristiana anche sul punto di finir la vita sua. L'ultime sue parole, proferite a fatica e sottovoce, furon: "Per l'amor d'Iddio, cerchiamo di far predicare e di portar poco a poco la fede cattolica a Tunisi. Morì invocando continuamente i Santi cui più era devoto, S. Giacomo e S. Dionigi. Il Beaulieu riferisce che morì all'ora stessa in cui era morto Nostro Signore, su un letto di ceneri sparse a mo' di croce, dopo aver mormorato nella notte: "Andremo a Gerusalemme". La sua canonizzazione è del 1297, ad opera di Bonifacio VIII. Un suo biografo moderno scrive: Ed è così che il re, nato sotto il sego del lutto e morto in terra straniera e infedele, fa il suo ingresso nella gloria eterna.

V. Non nobis, Domine, non nobis
R. Sed nomini tuo da gloriam!

News - 8 per mille alla Chiesa... Ortodossa

Interessanti riflessioni di un fedele circa le destinazioni del contributo volontario con cui i fedeli posson sovvenire alle necessità della Chiesa. Da leggere e meditare. 

Da "Messainlatino"


Abbiamo ricevuto da un nostro carissimo amico una lettera inviata all'Arcivescovo ortodosso Gennadios e - per conoscenza - alla Casa di S. Marta (residenza del S. Padre), alla CEI, al card. Bassetti, a mons. Galantino, alla Pontificia Accademia per la Vita e alla Diocesi di Modena dove risiede l'amico.
In tale comunicazione egli comunica la sua intenzione di non dare più l'8 per mille alla Chiesa cattolica - lui, fedele cattolico e praticante - spiegandone le ragioni.  
E  decide di darlo alla Chiesa Ortodossa!
Vediamo dalla sua stessa penna le ragioni.


Alla c.a. del Metropolita Gennadios Arcivescovo Ortodosso D'Italia.
P.c.         a mezzo di posta ordinaria presso Casa Santa Marta.
P.c.         a mezzo mail della Conferenza Episcopale Italiana, della Diocesi di Perugia (c.a. sua Eminenza il Cardinal Bassetti), della Diocesi di Cassano all'Ionio (c.a sua Eccellenza Mons. Galantino), dell'economato della Diocesi di Modena e Nonantola (c.a. Dott. Giorgio Garuti) e della Pontificia Accademia per la Vita.


Eminenza Rev.ma Gennadios,
   mi chiamo XXX , abito a Modena, sono sposato ed ho un figlio.
Sono cattolico praticante e, sia per interesse personale che a fini di apostolato, mi interesso da sempre di tematiche di bioetica, di Magistero, di storia della Chiesa e di filosofia.
Alla luce di questi miei approfondimenti, ho deciso che l'8 per mille della mia dichiarazione dei redditi 2016 sarà devoluto alla Chiesa Ortodossa che Lei rappresenta e non a quella Cattolica nella speranza:
1) che gli edifici di culto che costruite siano ad majorem Dei Gloriam, diversi dagli obbrobri architettonici slegati dalla tradizione e privi di rimandi teologici come la "chiesa-cubo" di San Paolo Apostolo a Foligno, costruita piuttosto per dar gloria alla forma geometrica fine a sé stessa, al razionalismo ed al discutibile estro di un architetto ateo. Sono stati seppelliti, con queste costruzioni, il senso della gerarchia, del metafisico e del bello. Sono speranzoso che non sostituiate con altri costosi cubi nemmeno i magnifici altari antichi costruiti per la Messa ad coram Deo - che altro non era, semplificando, che la versione occidentale dell'iconostasi.
2) che orniate gli edifici di culto in maniera decorosa. Penso infatti all'affresco del Duomo di Terni in cui figurano alcuni transessuali che nell'atto di uno scambio di effusioni (certo, non con un Libro delle Ore in mano) sono accolti nelle reti di Nostro Signore.
3) che gli indumenti acquistati per il vostro clero siano diversi dalle tute, le braghette corte, le magliette e le ciabatte da piscina che hanno il vizio di indossare in pubblico i nostri preti.
4) che non agevoliate l'immigrazione islamica che imporrà la sharia ai miei figli. Gli ex-seminari cattolici, spesso svuotati del messaggio di Cristo prima ancora che si svuotassero da sé di seminaristi, sono oggi utilizzati per agevolare l'invasione mussulmana e negati alle nuove e fiorenti fraternità di preti, ree di "tradizionalismo" (o più semplicemente, di essere "cattoliche"), che spesso traboccano di giovani vocazioni.
5) di far cosa gradita al Santo Romano Pontefice, che anela a una Chiesa povera.
Avrei voluto scrivere questa mail ai miei pastori (in Cc) prima ancora che a Lei. Ma, come più volte è successo, sarei andato incontro a due ostacoli:
a) molti di loro danno sempre meno segni di vita. Addirittura, se attaccati in relazione al Vangelo, non reagiscono. Se la vita di un europeo è minacciata, languono (come nel caso del piccolo Charlie). Sembra quasi che gli ultimi timidi cenni che ancora manifestano siano volti solo a rendere omaggio ai figli delle tenebre; "Marco ispiratore di una vita più bella non solo per l'Italia, ma per questo nostro mondo, che ha bisogno più che mai di uomini che sappiano parlare come lui", così parlava poco tempo fa il presidente della Pontificia accademia per la vita riferendosi al leader radicale Marco Pannella. Mi auguro invece che le invocazioni e le giaculatorie in uso presso la Vostra Chiesa siano ancora rivolte alla Beata Vergine.
b) sospetto che molti di loro abbiano poco interesse a risolvere le perplessità di alcuni cattolici che (come me) mettono in discussione la loro adesione al nuovo verbo del "politicamente corretto" di impronta laicista. Temo che il loro dialogo segua altrove i suoi binari preferenziali. Cosa che sarebbe di certo molto lodevole se non fosse che non specificano mai dove siano diretti i loro "ponti di dialogo", probabilmente perché nemmeno a loro è noto.
I sacerdoti cattolici che ho interpellato a riguardo e che mi hanno elargito il loro consiglio, hanno invece caldeggiato questa mia decisione, appoggiandola.
Vogliate quindi gradire, Eminenza, il modesto 8 per mille che offro alla Chiesa Ortodossa per aiutarla nel condurre la buona battaglia e per proclamare e far conoscere Cristo; sono infatti certo che ne riuscirete a fare un uso di gran lunga migliore rispetto a quello che potrebbe fare la Conferenza Episcopale Italiana, ormai rassegnata (ne prendo atto con immenso dolore ma non per questo voglio rinunciare ad essere cattolico) ad un mero compito di "curatore fallimentare".
Chiedo scusa se, nonostante le numerose revisioni a questa email, non sono riuscito a ripulirla da una certa amarezza che purtroppo trasuda da un cuore afflitto e non sufficientemente rassegnato in Cristo come invece, forse, dovrebbe essere. Spero però che il tempo che vi ho dedicato per scriverla, possa servire ed essere utile a dare un segnale sia a Voi che, soprattutto, alla mia amata Chiesa Cattolica. Questo, tranquillizzato dall'invito secondo cui: "ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce" (Sua Santità Papa Francesco, 1 ottobre 2013, La Repubblica).
Vogliate volgere per me e la mia famiglia la Vostra preziosa e graditissima preghiera.
Deferenti saluti.

(Lettera firmata) 


Nostra riflessione: Pur pienamente conscj della situazione scismatica degli Ortodossi, come si può dar torto onestamente? E purtroppo questo è il fatto minimo: conosco personalmente un prete ortodosso che entrò in seminario cattolico alla fine degli anni '70 e disgustato dalle innovazioni dei modernisti, così contrarie a quella fede che gli avevano trasmesso i genitori, si convertì all'Ortodossia ove fu ordinato sacerdote (all'interno della quale è uno dei più conservatori; nemico delle gerarchie romane moderniste ma per nulla ostile al movimento cattolico tradizionale). È una situazione tragica, ma la colpa del suo scisma ricadrà tutta sull'anima sua, o anche su quella di preti e vescovi che con la loro eresia lo han portato ad allontanarsi dai salutari lidi di quella Chiesa Cattolica ch'egli non vedeva più tale?

giovedì 24 agosto 2017

S. Bartolomeo Apostolo

Di "Hortus liliorum"

Carlo Crivelli, San Bartolomeo, 1472, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano


A mio parere è l'apostolo Bartolomeo di Cana, identificato nella Bibbia come Natanaele, il santo a cui viene attribuito il martirio più atroce e, secondo le fonti, il luogo di predicazione più estremo: la Mesopotamia o addirittura l'India.
Ma partiamo con calma.
Bartolomeo, Natanaele, compare per la prima volta nel Vangelo di Giovanni come amico di Filippo; il santo lo trova a riposare sotto un fico e gli racconta entusiasta delle imprese del Cristo, che riferisce come 'colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazareth'. Sprezzante, egli risponde: «Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?».
Quando poi s'incontra con il Messia, quest'ultimo lo guarda e gli dice: «Ecco un vero israelita in cui non c'è falsità.»
Alla sua reazione sconcertata Gesù afferma d'averlo notato 'prima, sotto il fico' e non appena Natanaele esprime tutta la sua meravigliata devozione, lui lo zittisce esclamando: «Perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico, tu credi? Vedrai cose ben più grandi di queste.»
Non un apostolo particolarmente attivo come gli altri, negli Atti degli Apostoli: verrà menzionato solo  tra quelli alla Pentecoste e poi basta; saranno la tradizione e i documenti apocrifi a dargli uno spessore maggiore.
La Legenda Aurea gli fornisce addirittura una precisa descrizione fisica: 'pelle bianca, capelli crespi e neri, occhi grandi, naso dritto e una folta, spessa barba con qualche pelo bianco'.

Konrad Witz, San Bartolomeo, 1434 circa, Kunstmuseum, Basilea

Ed ecco le leggende sulle mitiche predicazioni in Mesopotamia e in India: è appunto là che Bartolomeo avrebbe guarito la figlia del re Polemio e convertito tutta la famiglia reale, non prima d'aver scacciato il demone che istigavano la popolazione ad adorare i loro idoli. Questo però non garba al fratello di Polemio, il malvagio Astiage, che lo fa catturare e gli infligge il martirio scorticandolo vivo con un coltellaccio.

Scuola Giottesca, Martirio di San Bartolomeo, 1330, Chiesa dei Domenicani, Bolzano

Il santo è di norma rappresentato come un uomo di mezza età assieme al coltello usato per scuoiarlo, il diavolo incatenato, la sua pelle sul braccio e il ramo di palma, premio del martirio. Molto spesso è raffigurata la scena della sua morte, dove è disteso su una tavola o legato ad un albero. Protegge i sarti, i macellai e i conciatori, viene invocato contro le malattie.

Preghiera tradizionale per la festa di S. Bartolomeo

O grande Apostolo san Bartolomeo, per quella contentezza che ora godete nel Cielo in premio della vostra intrepidezza nel sostenere il martirio della scortificazione e poi della decapitazione, per quell'eccelso grado di gloria che raggiungeste in ricompensa dell'ossequio dimostrato quotidianamente verso l'infinità Maestà di Dio nel vostro lungo e travagliato peregrinare di quaggiù, otteneteci, o gran santo, che noi sappiamo sopportare con costanza e pazienza i dolori, i travagli e le miserie di quaggiù, senza mai venir meno di fede alla Divina Provvidenza, affinchè come voi, dopo un terreno e breve partire arriviamo all'eterno e celeste gaudio. Pater, Ave, Gloria

lunedì 21 agosto 2017

Appunti di filosofia - Il δαιμόνιον socratico

E' universalmente noto che, nell'universo logico e razionale del primo grande filosofo ateniese, suona quasi come una nota stonata la presenza di un "demonio", che Socrate stesso ammette indirettamente di avere dentro di sé. Questo aneddoto, che alcuni analisti razionalisti moderni cercano in ogni modo di dimenticare perché poco coerente col resto del pensiero socratico, merita un'approfondimento.


Occorre anzitutto partire dalle fonti più antiche. Queste sono le parole che Platone mette in bocca a Socrate nella di lui Apologia, da cui si deduce la presenza di questa creatura soprannaturale: ὅτι μοι θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον γίγνεται (Apolog. 31d), "Poiché in me vi è qualcosa di divino e demonico". Questo elemento demonico non meglio precisato ha fatto interrogare generazioni e generazioni di filosofi, a partire dagli immediati successori di Socrate, circa l'origine, la funzione e la natura di questa presenza. Già i due biografi del filosofo si occuparono di dare un'interpretazione ad esso, che può essere ricavata solo dai loro scritti, avendo Socrate rinunciato a lasciarci testimonianze scritte. Oltre alla succitata frase dell'Apologia, da Platone ci perviene una qualche indicazione anche nella Repubblica, ove però il maestro taglia corto sull'argomento dicendo: "Per quanto riguarda poi il mio segno demonico, non vale la pena di parlarne: a pochi o nessuno è capitato prima di me" (Rep. 496c). Eppure, i suoi discepoli sono convinti che questo segno abbia avuta grande influenza nella vita di Socrate, e sia alla base di alcune scelte di Socrate apparentemente inspiegabili per la società ateniese del V secolo, come quella di non dedicarsi all'attività politica. Sulla sua azione effettiva, però, essi sono divisi:
  • Nella presentazione platonica, il δαιμόνιον ha quasi sempre un ruolo negativo (deterrente) rispetto alle decisioni e alle azioni di Socrate, specialmente quelle che avrebbero un maggior peso morale, trattenendolo dunque dal compiere turpitudini, e mantenendolo nella rettitudine.
    Forniamo di seguito una piccola bibliografia di riferimenti per questa tesi (il fatto che Socrate quivi parli apparentemente in prima persona non deve ingannare, essendo sempre necessario considerare la mediazione di Platone, che quasi sempre usa la voce del maestro per proporre il proprio pensiero):
    - Apolog. 31d "quando (la voce) si fa sentire, sempre mi distoglie da ciò che sto per fare, e giammai m'incita".
    - Euthyd. 272e "E proprio mentre mi stavo alzando, mi si manifestò il consueto segno, quello demonico. Allora, mi sedetti di nuovo..."
    - Phaedr. 246b "E' accaduto che è venuto a me il segno demonico consueto - mi trattiene sempre da quello che sto per fare"
    - Theaet. 151a "E se con alcuni di loro il demone che in me è sempre presente mi impedisce di congiungermi, con altri invece lo permette"
    - Theag. 128d "Infatti è un demone, che per divina disposizione mi accompagna sin dalla fanciullezza, una voce che quando sopraggiunge mi indica sempre di non fare ciò che sto per fare, ma non mi spinge mai a far nulla" (in realtà appena una pagina dopo, a Theag. 129e, pare venir data un'indicazione in senso contrario; questo è uno dei motivi per cui alcuni critici, come l'Abbagnano, sono scettici nell'attribuzione platonica di questo dialogo)
  • Più ampio all'interno della coscienza del filosofo è il ruolo destinatogli dall'altro biografo e allievo di Socrate, purtroppo spesso dimenticato per quanto concerne la sua produzione filosofica, ossia Senofonte. Secondo questi, infatti, il demonio socratico aveva principalmente un ruolo positivo, dando indicazioni a Socrate sul modo di agire conforme al logos, e non semplicemente trattenendolo da azioni empie.
    Possiamo trarre tre riferimenti dai Memorabilia a sostegno di questa tesi:
    - I, 1.4 "Ei diceva d'avere un nume che davagli i segni"
    - IV, 3.12 "Gl'iddii per questo verso ci aiutano, [...] ci mostrano le cose future e ci insegnano come possano nel miglior modo avvenire"
    - IV, 8.1 "Socrate diceva d'avere una divinità che l'avvisava di quel che dovesse o non dovesse fare".
Con il tempo, i filosofi smisero di interrogarsi sull'azione del demone (eran discordanti quegli stessi che avevan conosciuto Socrate, figurarsi come avrebbero potuto ben congetturare quei che a loro dovevano ricorre per saperne qualcosa su di lui), e passarono piuttosto a ricercare l'origine di questo fenomeno, il quale con il suo alone di mistero e d'incoerenza apparente affascinava (e continua ad affascinare) filosofi e critici di ogni generazione. In particolare, andiamo a vedere come gli analisti cristiani cercarono di identificare e spiegare questo fenomeno. Anche qui possiamo leggere due opposte correnti di pensiero:
  • Alcuni autori (una minoranza, per verità), schierandosi dalla parte di Socrate, che essendo stato forte sostenitore dell'immortalità dell'anima (cfr. Phaedo) era visto come un precursore della dottrina cristiana, vollero vedere in questo segno divino un qualcosa inviato dal Signore Iddio. Leggiamo in particolare l'analisi di Eusebio di Cesarea, che non esita a paragonarlo alla "voce di Dio" con cui lo Spirito dell'Altissimo parlava ai profeti d'Israele, dicendo che egli "udì la voce di Dio, quando stava contemplando la disposizione del creato, così ben fatto e imperituramente combinato da Dio" (Praep. Evang. XIII, 12).
    Interessante è anche la proposta di Clemente Alessandrino, che nei suoi Stromata identifica quel δαιμόνιον con un angelo custode (cfr. Strom. V, 14).
  • La maggioranza degli autori è invece concorde nel condannare Socrate, il quale non possedeva la verità rivelata di Cristo, né aveva la fede nel Messia venturo de' Patriarchi e profeti d'Israele, e dunque non poteva essere un uomo di Dio. In questo senso parlano, tra i molti, i seguenti autori, i quali non esitano a scorgervi un demone malvagio e fuorviante, un elemento satanico che porta Socrate sempre più lontano dalla verità cristiana:
    - Tertulliano, che due volte cita il δαιμόνιον, chiamandolo prima pessimum paedagogum (De anima I, 4), e poi appellandolo come dehortatorium a bono (Apologia XXII, 1)
    - Minucio Felice, che scrive "Socrate, quel commediante ateniese, che confessò di nulla sapere, e che per l'approvazione di lui fatta dal demonio, avvegnachè menzognero, fu glorioso" (Octav. XXXVIII, 5)
    - S. Cipriano di Cartagine (cfr. Quod idola dii non sint, VI)
    - S. Agostino d'Ippona: "Anche l’amicizia di Socrate per il demone non merita lode. Apuleio stesso ha ritegno a parlare di tale amicizia al punto da intitolare il libro Il dio di Socrate, perché stando alla sua tesi con cui criticamente ed esaurientemente distingue gli dèi dai demoni non lo avrebbe dovuto denominare il dio ma il demone di Socrate. Ma preferì inserire il concetto nel contesto anziché nel titolo del libro. Infatti mediante la sana dottrina che ha gettato luce sulla cultura tutti o quasi tutti aborriscono il nome dei demoni al punto che prima della teoria di Apuleio, con cui si difende la dignità dei demoni, chiunque leggeva il titolo di un libro sul demone di Socrate pensava che egli non fosse normale. E in definitiva lo stesso Apuleio che cosa ha trovato da lodare nei demoni fuori della sottilità e impassibilità del corpo e la sfera più alta della dimora? Dei loro costumi, parlando in generale di tutti, non ha detto niente di bene ma piuttosto parecchio di male". (De Civitate Dei VIII, 14)
Fonti: Critica di M. M. Sassi all'Apologia (rielaborata in senso cristiano), testi citati dei commentatori antichi di Socrate

domenica 20 agosto 2017

Meditazione sulla Sapienza (Dominica XI post Pentecosten, IV augusti, ad Matutinum)

Letture del Mattutino della XI Domenica dopo Pentecoste (IV di agosto)

Letture bibliche (I, II e III):    Ecclesiasticus (Siracide)  I, 1-5 ; 6-10 ; 11-16
Letture patristiche (IV, V e VI) S. Gregorio Papa, Moralia, liber 1, cap. 10
Vangelo: S. Marco VII, 31-37
Omelia (VII, VIII e IX): S. Gregorio Papa, Homilía X, liber 1 in Ezech.


Vasilij Belajev, La Santa Sapienza

Meditazione

Nello scritto di S. Gregorio Papa ci vengono presentati due diversi modelli: da una parte uno positivo, di prudenza, dall'altra un modello negativo, che tutto sommato potremmo definire di superbia o noncuranza verso le cose di religione. Perché si è detto che sono due modelli contrari? Linguisticamente e logicamente il contrario di prudenza è imprudenza e il contrario di superbia è umiltà. Ma tanto l'imprudenza quanto la superbia, così come la prudenza e l'umiltà vengono da Dio, vengono da Satana, dal demonio. Particolarmente, l'imprudenza è uno degli atteggiamenti preferiti dal diavolo, perché ci fa tralasciare di meditare le nostre azioni che andrebbero differite o evitate, aumentando la probabilità che noi commettiamo un errore; ovviamente anche il primo atteggiamento, ch'abbiam definito di superbia, ma comprende anche mancanza di spiritualità, disprezzo della fede, non può venir che da Lucifero. Ma in che modo questi due atteggiamenti negativi, che si è capito provenire dal demonio, ci vengono instillati? Noi sappiamo che il demonio, benché vogliasi presentare come potente, è in realtà assolutamente impotente, e non ha dunque alcun potere su di noi dovendo addirittura chiedere a Dio il permesso per poterci "attaccare". Egli può solamente tentarci, per farci errare dalla via della salute. In che modo allora egli ci tenta per condurci all'imprudenza, alla superbia, al disprezzo delle cose di religione? Alla base di tutto ciò sovente vi è una tentazione particolare, che viene comunemente definita "sapienza", ma che sarebbe più corretto definire nozionismo. Cos'è il nozionismo, altresì detto "sapienza degli uomini"? Si tratta di quel cumulo di nozioni e conoscenze sensibili che rendono una persona colta, dotta, ma che hanno una radice in sé sbagliata, o meglio insufficiente, perché non hanno radice in Cristo. Nel Vangelo di S. Giovanni sta scritto: "Veritas vos liberabit" (VIII, 31), la verità vi farà liberi. Ebbene, questo motto, a qualcuno che non conosce il Vangelo, suonava molto illuminista o massonico, dacché questi movimenti anticristiani propugnarono proprio la conoscenza e l'istruzione come mezzi di emancipazione da quelle che loro definivano "pietre d'inciampo sulla via del progresso umano", come diabolici mezzi d'emancipazione dunque da Cristo e dalla sua Santa Chiesa. Ma l'istruzione ch'essi proponevano non può in modo veruno portare alla vera sapienza: portavano forse a una conoscenza delle cose di questo mondo, ma essa si può forse dire vera sapienza? Ma ciò che è peggio, è che questa conoscenza vana porta a ritenere di avere consapevolezza delle cose, ma non porterà mai alla vera conoscenza del Creato così come lo ha stabilito Iddio. Anzi, porta a insuperbirsi, a ritenere di avere una sapienza che in realtà non si possiede, e di conseguenza si diventa imprudenti, perché si pensa di avere i mezzi per affrontare il nostro esilio terreno, mezzi che con questa "sapienza" senza Cristo non ci sono dati.
Un esempio molto attuale, molto comune, ma molto triste: due ragazzi sui vent'anni, non isposati, decidono d'unirsi carnalmente perché "si vogliono bene e vogliono darsene prova"; e in più, poiché presumono e pretendono a mal diritto di avere consapevolezza dei loro atti, adoperano metodi anticoncezionali per "evitare che le cose vadano male". In questo caso essi credevano di conoscere, di avere consapevolezza, ma sapevano forse delle gravissime conseguenze che avrebbe avuto il loro atto, in prima istanza a livello psicologico nella vita, poiché si son depauperati del dono della riproduzione, sprecandolo con persone da sé slegate, e impedendo addirittura il fine medesimo dell'atto, e per di più le grandissime conseguenze che ciò avrà al momento del loro particolare giudizio, in cui Cristo siederà qual giudice nel terribile tribunale, al momento in cui si giudicherà della salute eterna delle loro anime, le quali a cagione di quella presunzione e quell'imprudenza che li portarono a consumare un'atto tanto impuro, qualora non ne provassero sincero pentimento, han già anzi a sé il terribile fuoco dell'eterna dannazione.
Qual'è dunque, dopo tanti esempi negativi, la Sapienza che va veramente ricercata? Ce lo spiega la lettura dell'Ecclesiastico, del Siracide, che riprendendo le parole del salmo CX ci dice: Initium sapientiae timor Domini. Non vi è sapienza che non abbia il proprio fondamento nella fede cattolica: senza la fede non vi è sapienza. Del resto tutto il prologo del libro dell'Ecclesiastico, così come quello della Sapienza di Salomone, è dedicato alla ricerca della vera sapienza e della sua origine. E sin dal primo versetto ci viene spiegato che Omnis sapientia a Domino Deo est, et cum illo fuit semper. Non vi può essere, né mai potrà esservi, vera sapienza slegata dalla vera fede. Ci potrà essere, come già detto, nozionismo, che però è sterile, che forse fa conoscere il fatto, ma non dà conoscenza né della causa né della conseguenza. Quelle vengono solo dalla vera sapienza, la cui radice insostituibile è Unus, altissimus, creator omnipotens, rex potens et metuendus nimis, sedens super thronum illius, et Dominus: Deus.
E si è detto che la sapienza viene da Dio, ma in che modo? Ciò ci viene presentato nell'Evangelo letto, che presenta di per sé dei miracoli di Nostro Signore. E' tuttavia interessante la riflessione che ne fa S. Gregorio, perché legge il doppio significato dei miracoli di Nostro Signore Gesù Cristo: da una parte vi è il segno tangibile che mostra alle genti la potenza del Figlio di Dio, del Messia: d'altra parte c'è il significato "mistico", nascosto, che S. Gregorio in questa sua omelia analizza: nel momento in cui Nostro Signore sana il sordo, non guarisce solamente la sua facoltà uditiva in senso corporale, ma digitus in auriculas mittere est per dona Spiritus Sancti mentem surdi ad oboedientiam aperire, mettere il dito nell'orecchie del sordo significa, attraverso i doni dello Spirito Santo, aprire la mente del sordo all'obbedienza. Ebbene sì, dallo Spirito Santo viene a noi uomini ogni sapienza di Cristo: la scienza e il timor di Dio, che abbiam detto essere il principio della sapienza, sono due dei doni che lo Spirito Santo ha concessi alla Chiesa, e di cui partecipiamo nel Sacramento della Cresima. Poche righe dopo S. Gregorio dice: Et lingua per salivam oris, id est per scientiam locutionis, solvi debet ad verba praedicationis, e così, come la lingua del muto si sciolse per la saliva della bocca, che rappresenta la scienza del parlare, così anche la nostra dev'esser sciolta al fine della predicazione, dell'annunciare Cristo. Lo Spirito Santo manda i suoi doni sulla Chiesa e sui suoi fedeli, e tra questi doni vi sono la scienza e l'intelletto, come tutti sappiamo, e tutti questi doni concorrono a portarci alla Sapienza di Cristo, la quale è fondata su due atteggiamenti fondamentali che ci sono appunto stati spiegati da S. Gregorio nell'omelia su questo Vangelo:

  1. Comprendere gli insegnamenti di Nostro Signore Gesù Cristo, i quali contengono in sé il modo di capire ogni concetto e nozione, e solo comprendendole in tal modo, obbedendo ai comandi di Dio; per questo si dice che lo Spirito "apre la mente all'obbedienza di Dio", perché questo significa "aprire la mente", e non aprirsi ad accettare ciò che diverge dalla verità cristiana, come vorrebbe qualche laicista: l'apertura significa capire che bisogna obbedire, a chi bisogna obbedire, cioè a Cristo, e come bisogna obbedirgli; e tramite questa obbedienza si giunge a ottenere la consapevolezza di ciò che è utile, di ciò che è necessario, delle cause celesti e delle conseguenze ultraterrene delle azioni. Basti pensare ai Comandamenti, i quali sono la legge fondamentale dataci da Dio a cui noi obbediamo, in cui vi è inscritta tutta l'utilità e la necessità morale, sia dal suo punto di vista negativo (proibizione), che positivo (comando).
  2. Utilizzare sapientemente il dono che è stato dato a molti di noi, che è quello di saperci esprimere; ma perché ci fu dato? Non certo per discutere della partita dell'altro giorno o delle vicende del vicino di casa. Tutto ciò ci è stato dato unicamente per diffondere in tutta la terra il verbo di Nostro Signore Gesù Cristo incarnato, il cui nome sia sempre benedetto.
Perché infatti, essendo tutto da Nostro Signore Gesù Cristo, per quem omnia facta sunt, tutto torna a Nostro Signore Gesù Cristo: noi tutti vi torniamo alla morte, venendo da Lui giudicati particolarmente, e tutto tornerà a Lui il giorno del giudizio, quand'egli verrà nella gloria judicare saeculum per ignem.

Sia lodato Gesù Cristo.