giovedì 9 agosto 2018

Inno in onore della passione del beatissimo martire Lorenzo

Riportiamo di seguito i due brani più significativi del secondo libro del Peristephanon di Prudenzio, dedicato alla passione di San Lorenzo di cui oggi ricorre la festa (qui l'articolo dello scorso anno con l'agiografia). La prima parte (vv. 1-44) costituisce l'introduzione del carme, in cui si accenna alle virtù del generoso e devoto Lorenzo e si anticipa il suo martirio, mentre la seconda (vv. 413-484) è la preghiera che il santo diacono pronuncia sulla città di Roma poco prima di subire il martirio.
Traduzione di Nicolò Ghigi.

Tiziano Vecellio, Martirio di S. Lorenzo, metà del XVI secolo,
Chiesa dei Gesuiti (Venezia)


Aurelio Prudenzio Clemente
PERISTEPHANON
II, 1-44 et 413-484

Inno in onore della passione del beatissimo martire Lorenzo

Antiqua fanorum parens,
iam Roma Christo dedita,
Laurentio victrix duce
ritum triumphas barbarum.

Reges superbos viceras
populosque frenis presseras
nunc monstruosis idolis
inponis imperii iugum.

Haec sola derat gloria
togatae insignibus,
feritate capta gentium
domaret ut spurcum Iovem,

non turbulentis viribus
Cossi, Camilli aut Caesaris,
sed martyris Laurentii
non incruento proelio.

Armata pugnavit Fides
proprii cruoris prodiga;
nam morte mortem diruit
ac semet inpendit sibi.

Fore hoc sacerdos dixerat
iam Xystus adfixus cruci
Laurentium flentem videns
crucis sub ipso stipite:

‘Desiste discessu meo
fletum dolenter fundere!
praecedo, frater; tu quoque
post hoc sequeris triduum.’

Extrema vox episcopi,
praenuntiatrix gloriae,
nihil fefellit; nam dies
praedicta palmare praetulit.

Qua voce, quantis laudibus
celebrabo mortis ordinem,
quo passionem carmine
digne retexens concinam?

Hic primus e septem viris,
qui stant ad aram proximi,
levuita sublimis gradu
et ceteris praestantior,

claustris sacrorum praeerat
caelestis arcanum domus
fidis gubernans clavibus
votasque dispensans opes.

[…]

Haec ludibundus dixerat,
caelum deinde suspicit
et congemescens obsecrat
miseratus urbem Romulam:

'O Christe, nomen unicum,
O splendor, O virtus patris,
O factor orbis et poli
atque auctor horum moenium,

qui sceptra Romae in vertice
rerum locasti, sanciens
mundum Quirinali togae
servire et armis cedere,

ut discrepantum gentium
mores et obseruantiam
linguasque et ingenia et sacra
unis domares legibus!

En omne sub regnum Remi
mortale concessit genus,
idem loquuntur dissoni
ritus, id ipsum sentiunt.

Hoc destinatum, quo magis
ius christiani nominis,
quodcumque terrarum iacet,
uno inligaret vinculo.

Da, Christe, Romanis tuis,
sit christiana ut ciuitas,
per quam dedisti, ut ceteris
mens una sacrorum foret!

Confoederantur omnia
hinc inde membra in symbolum,
mansuescit orbis subditus,
mansuescat et summum caput.

Advertat abiunctas plagas
coire in unam gratiam,
fiat fidelis Romulus
et ipse iam credat Numa.

Confundit error Troicus
adhuc Catonum curiam
veneratus occultis focis
Frygum penates exules.

Ianum bifrontem et Sterculum
colit senatus, horreo
tot monstra patrum dicere
et festa Saturni senis.

Absterge, Christe, hoc dedecus!
Emitte Gabriel tuum,
agnoscat ut verum deum
errans Iuli caecitas!

Et iam tenemus obsides
fidissimos huius spei,
hic nempe iam regnant duo
apostolorum principes,

alter vocator gentium,
alter cathedram possidens
primam recludit creditas
aeternitatis ianuas.

Discede, adulter Iuppiter,
stupro sororis oblite,
relinque Romam liberam
plebemque iam Christi fuge!

Te Paulus hinc exterminat,
te sanguis exturbat Petri,
tibi id, quod ipse armaveras,
factum Neronis, officit.

Video futurum principem
quandoque, qui servus dei
taetris sacrorum sordibus
servire Romam non sinat,

qui templa claudat vectibus,
valvas eburnas obstruat,
nefasta damnet limina
obdens aenos pessulos.

Tunc plura ab omni sanguine
tandem nitebunt marmora,
stabunt et aera innoxia,
quae nunc habentur idola.'
O antica genitrice di templi,
Roma, già a Cristo votata,
sotto la guida di Lorenzo, vincitrice
trionfi sul barbaro costume.

Avevi sconfitti re superbi,
e oppresso in catene popoli,
ora sugli orridi idoli
imponi il giogo del tuo potere.

Sol questa gloria mancava
agl’insigni trionfi della città ove si porta la toga,
vinta i costumi selvaggi delle genti,
superare finalmente Giove infame, 

non con le forze sediziose
di Cosso, di Camillo o di Cesare,
ma con la non incruenta battaglia
del martire Lorenzo.

La Fede combatté armata,
prodiga del proprio sangue;
la morte infatti distrusse con la morte,
e con sé riscattò se stessa.

Il sacerdote Sisto, appeso alla croce,
già avea detto che ciò sarebbe successo,
vedendo Lorenzo che piangeva,
sotto al legno stesso della croce:

‘Smettete di piangere amaramente
per la mia dipartita!
Ti precedo, fratello; tu pure
mi seguirai dopo tre giorni.’

Le ultime parole del vescovo,
che preannunciavano la gloria,
affatto non sbagliavano; infatti, il giorno
prestabilito, portò seco la palma della vittoria.

Con qual voce, con quali lodi,
celebrerò l’esito della morte,
con quale canto degnamente
potrò cantare la passione?

Egli, primo dei sette uomini
che stanno presso all’altare,
levita di grado eccelso
e ben al di sopra degli altri,

s’occupava del santuario ascoso,
ministrando fidatamente le chiavi
dell’arcano della casa celeste,
e donando ricche offerte.

[…]

Queste parole aveva detto canzonando,
dipoi guardò il cielo,
e sospirando pregò,
commiserando la città di Romolo:

‘O Cristo, unico nome,
o splendore, o virtù del Padre,
o creatore della terra e del cielo,
e fondatore di queste mura,

tu che hai collocato lo scettro di Roma
sopra ogni altro potere, decretando
che il mondo si sottomettesse alla toga di Quirino, e cedesse alle sue armi,

affinché, tra popoli diversi
per costumi, indole,
lingua e culti, tu imponessi
di sottostare a un’unica legge!

Ecco che tutto il genere umano
è venuto sotto il regno di Remo,
la stessa lingua parlano popoli di diverso
costume, e han gli stessi sentimenti.

Fu pure ciò destinato, che la legge
del nome cristiano ancor più
legasse in un sol vincolo
tutto ciò che si trova sulla terra.

Da, o Cristo, ai tuoi Romani,
che sia cristiana la città
per mezzo della quale donasti
alle altre un’unica fede.

Tutte le membra, d’ogni dove,
si riuniscono nel simbolo,
si ammansisce l’orbe sottomesso,
si ammansisca pure la sua suprema capitale.

Guidi i territori a lei legati
a riunirsi in una sola grazia,
sia fedele Romolo,
e pur Numa stesso già creda.

L’error troiano ancor offusca
la curia dei Catoni,
venerando ad altari ascosi
gli esuli penati dei Frigi.

Il senato è devoto a Stercolo
e a Giano Bifronte, provo ribrezzo
nel raccontar gli orrori dei padri
e le feste del vecchio Saturno.

Lava, o Cristo, questa vergogna!
Manda il tuo Gabriele,
perché la cecità di Giulio, ch’è nell’errore,
riconosca il vero Dio.

E già abbiam prove certissime
di questa speranza,
qui infatti già regnano i due
principi degli apostoli,

uno detto delle genti,
l’altro possiede il trono primaziale,
e chiude le porte dell’eternità,
che gli sono affidate.

Vattene, o Giove adultero,
sozzato dallo stupro della sorella,
e lascia libera Roma,
già fuggi dal popolo di Cristo!

Da qui Paolo ti scaccia,
ti bandisce il sangue di Pietro,
ti nuoce ciò che tu stesso hai disposto,
il crimine di Nerone.

Vedo il principe che verrà
un giorno, servitore di Dio,
il qual non permetterà che Roma
si sottometta alle fosche sordidezze del culto,

che serrerà colla spranga i templi,
sprangherà le porte d’avorio,
ripudierà quei nefasti ingressi,
chiuderà i catenacci di bronzo.

Alfine allora i molti marmi
saran splendenti d’ogni sangue,
e pur le statue bronzee, che ora son tenute per idoli, saranno innocue’.

martedì 7 agosto 2018

La liturgia romana attraverso il XX secolo – parte I


Introduzione

La presente serie di articoli propone l’analisi storica della liturgia romana nel XX secolo, con opportuni commenti e confronti: il fine è dimostrare che una certa azione di distruzione sistematica della liturgia occidentale ha avuto inizio scientemente e ben prima del 1965, checché molti sprechino fiato nel dire. Prima che i lettori affrontino tale studio, è mia intenzione fare due premesse:
  1. Lo studio delle riforme liturgiche del XX secolo non esaurisce certamente lo studio delle modifiche arbitrarie alla Tradizione occorse in Occidente, perché non affronta quelle problematiche che si erano presentate già prima di tal secolo (la riscrittura poetica degl’Inni del Breviario nel 1638 ad opera di Urbano VIII; la proliferazione di riti votivi degli strumenti e dei momenti della Passione, come conseguenza delle devozioni doloristiche, che ha avuto origine in ambito francescano nel Quattrocento; il disuso dei vetusti riti locali, mai auspicato da Pio V, ma comunque avvenuto alla fine del XVI secolo; l’introduzione di alcune pratiche canoniche pienamente lecite ma contestabili, come l’abolizione della Comunione sotto due specie o l’uso di ‘vestire’ dei preti da diaconi o suddiaconi...)
  2. Nel momento in cui si criticano delle riforme agli usi tradizionali (se lo si fa non per un mero giuoco intellettuale, ma con la volontà di pregare e seguire la liturgia nel modo più fedele a quanto è stato tràdito dalla Chiesa), è necessario coniugare uno zelante attaccamento alla tradizione più antica con la comprensione e il ‘sentire cum Ecclesia’. Certamente l’ideale sarebbe far tornare l’intera chiesa agli usi pre-tridentini, ma occorre trovare un compromesso basato su una seria considerazione della gravità delle riforme e sull’attenzione a non isolarsi troppo. Personalmente, tanto nella recita personale del Breviario, quanto nelle liturgie pubbliche che organizzo o coordino, seguo di preferenza i libri liturgici del 1939, non certo perché ritengo che rappresentino la Tradizione, ma perché riconosco che costituiscono l’ultima forma liturgica romana ancora in continuità con la Tradizione. Utilizzare il Breviario pre-piano o usi liturgici pre-tridentini è a parer mio attualmente impraticabile, poiché la Chiesa (anche quella ‘sana’) da troppo tempo se n’è distaccata perché possiamo impiegarli noi personalmente, a meno che la Chiesa Romana (intendendo la sua piccola parte oggi viva e fedele, ma comunque non pochi singoli) decida di tornarvi. Questo anche perché bisogna contestare TUTTE le riforme, ma, per non scadere nel formalismo e tenere al centro la sostanza, occorre riconoscere quali siano parzialmente accettabili (quelle fino al ’39, o al ’52 al massimo), e quali assolutamente inaccettabili (come quelle del ’55 e del ’62, per non parlare delle successive). Nondimeno, è necessario opporsi fermamente a queste ultime, anche contro certi “tradizionalisti” che si contentano di cose dall’aspetto tradizionale ma sostanzialmente molto lontane dalla Tradizione…

1900-1910: il rito romano della Tradizione mostra le sue crepe

Nel primo decennio del XX secolo siamo sostanzialmente davanti al rito della Tradizione, con poche modifiche non sostanziali, che abbiamo accennato nell’introduzione e che qui non tratteremo. Il rito romano inizia cionondimeno a mostrare alcune crepe, le quali malauguratamente spingeranno gli ‘architetti’, piuttosto che a ripararle, a demolire un pezzo alla volta e ricostruire malamente l’intero edificio liturgico. La scusante che darà origine alle picconate dei demolitori è qualcosa sorto negli ultimi due secoli, particolarmente l’Ottocento, ossia le problematiche di calendario.

E’ necessario premettere che il calendario tradizionale non distingue le solo in modo gerarchico (esiste una distinzione tra doppie di I e II classe, maggiori e minori), ma soprattutto in modo rituale (rito doppio, semidoppio e semplice). Si parla di ‘rito’ perché costituiscono un modo diverso di ordinare la liturgia: le feste semplici hanno solo il I Vespro e tutte le antifone non duplicate; le feste semidoppie hanno I e II Vespro (intero o commemorato) e tutte le antifone non duplicate; le feste doppie hanno i due Vespri e le antifone delle Ore maggiori duplicate.
Nell’uso romano tradizionale, inoltre, tutte le feste doppie e semidoppie hanno nove letture e la salmodia festiva (nove salmi al Mattutino), mentre le feste semplici seguono lo schema feriale, con tre letture e la salmodia del giorno della settimana (dodici salmi al Mattutino). Per di più, qualora siano impedite (cioè ostacolate da un’altra festa), tutte le feste doppie devono essere traslate al giorno libero più vicino.

Anticamente, la scienza liturgica era in grado di scegliere con attenzione quali feste dovessero avere l’onore di essere inserite nel calendario: in massima parte si trattava di martiri, soprattutto romani (testimonianza del carattere urbano del rito), e le feste semplici e semidoppie erano molto più numerose di quelle doppie. Persino santi assai popolari, ma non martiri e relativamente recenti, come S. Antonio da Padova, nel 1570 (anno dell’estensione del Messale secundum consuetudinem Romanæ curiæ all’intero orbe cattolico) non erano inclusi nel calendario romano. La maggior parte dei giorni era caratterizzata dall’ufficio feriale: presto le diocesi però iniziarono a creare i propri calendari, con i santi particolari del territorio, e a riempire alcuni di questi. Si noterà che talune diocesi, specialmente quelle con una tradizione liturgica più viva nel passato (per restare nelle zone di mia competenza, l’Arcidiocesi di Gorizia e il Patriarcato di Venezia, che custodivano l’eredità del rito patriarchino e dei costumi aquilejesi, gradesi e marciani), possedevano dei propri alquanto corposi, tant’è che dovettero più volte essere snelliti.
Col tempo tale scienza venne a mancare, sicché si crearono dei veri e propri ingolfamenti del calendario. La devozione popolare insisteva per aggiungere nuovi santi al calendario: i Papi all’inizio mantenevano l’ideale di una riduzione delle feste (già San Pio V ne eliminò molte), ma la risposta pareva inefficace, soprattutto perché queste puntualmente, come se ne toglieva qualcuna, a furor di popolo essa veniva rimessa da un successore. Sicché, ben presto, s’inizia a inserire una festa nel calendario anche poco dopo la canonizzazione di un santo, giusto per pietà personale del Papa o per la gran devozione popolare. Ma in questo processo si nota la crescente incomprensione tra i liturgisti e la Tradizione
Guardando, ad esempio, i testi del Breviario, si possono riconoscere abbastanza facilmente le feste o gli uffici introdotti dalla seconda metà del XIX secolo in poi, per almeno due caratteristiche:
  • La prima è indubbiamente la prolissità ridondante dei testi. Un’orazione scritta in tempi recenti si nota subito, perché rispetto a quelle più antiche risulterà decisamente più lunga, poco fluida, stilisticamente meno efficace. Al di là dell’impiego sapiente della retorica, che risulta difficile a una società che lentamente abbandona il latino come propria lingua (1), ciò che possiedono le antiche orazioni e che manca alle nuove è la capacità di sintetizzare i molti concetti richiesti dalla festa o dal mistero in poche parole, dense di significato: chiunque abbia dimestichezza con le traduzioni liturgiche, avrà visto che le orazioni più antiche si capiscono al volo, ma stentano a tradursi, proprio per la chiara concisione con cui sono armonicamente scritte. A chi canta la liturgia risulta poi evidente e sgradevole la scarsa musicalità delle nuove orazioni.Discorso pressoché identico avviene per le letture agiografiche del Breviario: le vite dei santi vissuti dopo il Seicento risultano mediamente due-tre volte più lunghe di quelle scritte in passato. Oltre alla scarsa qualità letteraria, viene meno la capacità di fornire un ritratto semplice e icastico, tale da fissarsi nella mente del lettore, e si aggiungono invece sempre più dettagli, spesso secondari. Risulta poi una ridicola autocelebrazione il fatto che il Papa che inserisce una festa nel calendario pretenda che nell’agiografia letta durante il Mattutino s’inserisca la menzione del proprio nome, non diversamente da quanto presero a fare taluni Papi nei sinassari del Martirologio.
  • La seconda è che sarà quasi sicuramente una festa doppia. Infatti, la malaugurata incomprensione dei criteri con cui nei secoli erano stati assegnati i riti alle singole feste, fece sì che praticamente a tutte le nuove feste inserite venisse assegnato il rito doppio. Questo era sicuramente conveniente per la proverbiale pigrizia dei preti (rito doppio significa tre salmi in meno al Mattutino, non dire le preci a Prima e Compieta, non dire i suffragi a Lodi e Vespro, non dire le orazioni del tempo alla Messa, etc.), ma provocò un vero e proprio ingolfamento del calendario, in cui le feste non solo andavano a occupare tutti gli spazi possibili, ma financo si sovrapponevano, causando la traslazione di alcune che potevano andare spostate addirittura di un mese o più.

Stante ciò che si è appena detto, facilmente possiamo comprendere l’origine di due affermazioni del grande liturgista Leon Gromier:
  1. Il rito romano è dominato dal santorale, a danno del temporale. L’esistenza di tutte queste feste doppie faceva sì che l’ufficio feriale scomparisse quasi completamente dalla vita di preghiera del chierico, e con esso i due terzi del salterio. Alcuni salmi, come il 4 (che sta sia nella Compieta quotidiana che nel Mattutino dei confessori), finivano per essere recitati anche due volte al giorno: la maggior parte, invece, che si trovavano nel Mattutino e nei Vespri dell’ufficio feriale, venendo soppiantati dai salmi festivi, finivano per esser detti un paio di volte all’anno, vanificando la concezione antica di recitare l’intero salterio nello spazio di una settimana. Persino le peculiarità liturgiche della Quaresima rischiavano di scomparire, assorbite dall’ingombrante presenza di nuove feste, quasi tutte di rito doppio o semidoppio (e dunque prevalente sulle ferie quaresimali), tra marzo e aprile. Ma indubbiamente ciò che più di ogni altro ne risentiva era il giorno del Signore, ovverosia la domenica, che aveva assegnato dalla tradizione più antica il rito semidoppio (vedi punto 2), ma veniva così puntualmente soppiantata dalle nuove molte feste di rito doppio.
  2. Nel rito romano il rito semidoppio è distribuito più o meno casualmente nelle feste dei santi. Sicuramente guardando un Breviario del 1910 sarà così: santi importanti e venerati da sempre (S. Marta, S. Maria Maddalena, i Quaranta Martiri, ma anche le stesse domeniche dell’anno etc.) risultano di grado semidoppio, mentre i santi degli ultimi due secoli, anche secondari o poco conosciuti, risultano tutti di rito doppio. Questo accade perché i primi mantengono la sapiente classificazione antica, che, come ci risulta evidente studiando i Messali medievali, riservava il rito doppio alle feste più importanti dell’anno (Apostoli, Beata Vergine e precipui santi locali), mentre i secondi risentono della scriteriata “duplicazione selvaggia” dei secoli più recenti.

E’ proprio con questi pesanti problemi da risolvere che si presenta il rito romano nelle mani di Leone XIII, il quale applica una timida riforma, che tuttavia dà inizio al processo di revisione generale delle rubriche del Breviario. Si tratta semplicemente di modificare il sistema della traslazione: d’ora in avanti le feste doppie impedite saranno semplicemente commemorate, e non traslate. Sicuramente questo cambiamento fa bene al calendario, che si snellisce e si semplifica, ma al contempo non risolve i problemi principali (le feste doppie, pur non traslandosi più, restano al loro posto, danneggiando il temporale). Studiando questa riforma possiamo tuttavia comprendere in buona sostanza il metodo profondamente sbagliato e dannoso che sarà applicato d’ora in poi da tutti i Pontefici e i riformatori liturgici, più o meno in buona fede: quando si manifesta un problema (in questo caso, la sovrabbondanza di feste doppie), anziché risolverlo con un ritorno alle pristine usanze (soppressione di alcune feste meno significative; ridistribuzione dei riti secondo l’importanza delle feste, portando la maggior parte dei ‘nuovi doppi’ a semidoppi o spesso anche a semplici), si preferisce demolire e ricostruire daccapo in modo originale un pezzo dell’edificio liturgico tradizionale (in questo caso, solo la tabella delle precedenze, ma presto si toccherà ben altro).
La prevalente logica dei demolitori-ricostruttori sarà la fonte dei danni più gravi alla tradizione latina, che in molti punti può dirsi veramente riscritta da zero in questo secolo infausto.

(1) Si riesce a distinguere facilmente un testo ecclesiastico che impiega una prosa latina paragonabile ai modelli classici e medievali, da quelli che risultano invece grumosi concentrati di traduzioni dalla propria lingua in latino (chiunque può pensare un’espressione in volgare e tradurla parola per parola in latino, ma questo non significa affatto conoscere la lingua, perché pregiudica l’uso delle strutture e dello stile proprio di essa). Attorno alla metà del XVIII secolo, la produzione latina ecclesiastica smette per la sua quasi totalità di potersi ascrivere alla prima categoria.

domenica 5 agosto 2018

La benedizione dei frutti nella festa della Trasfigurazione

Nei primi secoli della cristianità, i fedeli solevano portare al tempio i frutti del loro lavoro e del raccolto: pane, vino, olio, incenso, cera e miele. Di tutte queste offerte, solo il pane, il vino, l'incenso, l'olio e la cera venivano portati all'altare, mentre il resto veniva utilizzato per le esigenze del clero e dei poveri che la Chiesa aveva in cura. Queste offerte esprimevano la gratitudine a Dio per tutte le sue grazie, ma servivano anche ad aiutare i servi di Dio e le persone in stato di bisogno.
Per la festa della Trasfigurazione vengono benedetti i grappoli d'uva, e in quei luoghi come la Russia dove l'uva non cresce vengono benedette le mele. L'usanza di offrire frutti in certi periodi è indubbiamente antica nella Chiesa cristiana ed è in continuità con quanto accadeva nell'Antico Testamento (Genesi 4,2-4; Esodo 13,23; Numeri 15,19-21; Deuteronomio 8,14). E’ attestato anche come prassi apostolica (1 Cor 16,27). L'offerta dei frutti è anche menzionata nel canone 3° dei Canoni Apostolici (cfr. il canone 46 di Cartagine e il canone 28 del sesto Concilio Ecumenico).
L'usanza di offrire i frutti, e nello specifico i grappoli d'uva, il 6 Agosto nasce in Grecia dove proprio in questo periodo i frutti maturano, in particolare le nuove spighe di grano e l'uva, che sono per questo offerti per la benedizione come segno di ringraziamento. San Giovanni Crisostomo insegna: “L'agricoltore riceve i frutti della terra non tanto per il suo lavoro e la sua diligenza, ma soprattutto per la grazia di Dio, infatti non è il coltivatore, né l'irrigatore che nutre, ma Dio”.
Si noti, che presso gli Armeni vige invece la consuetudine di benedire l'uve il 15 agosto, dopo la Divina Liturgia della Dormizione della Vergine, a cagione della differente tempistica di maturazione dei frutti.
I grappoli d'uva vengono portati in chiesa per la benedizione, perché direttamente collegati al Mistero dell'Eucaristia. Secondo il Pedalion [Libro dei Canoni], "i grappoli d'uva più di qualsiasi altro ortaggio sono i più adatti per la chiesa, poiché da loro proviene il vino , per il sacrificio incruento”. Similmente nella preghiera "Per raccogliere i grappoli d'uva”, il sacerdote prega: “Benedici, o Signore, questo nuovo frutto della vite, attraverso la salubrità dell'aria, la pioggia e il clima temperato, Tu ti compiaci che essi raggiungano la maturazione in questo tempo. Possa la nostra partecipazione a questa nascita della vite essere gioia offerta a te e dono per la purificazione dei peccati per mezzo del Corpo sacro e santo del tuo Cristo”.
Le Mele, che si sono l'alternativa all'uva in alcuni paesi (soprattutto quelli slavi), sono benedette con un'altra preghiera in quanto primizie. Un significato particolare della benedizione dei frutti il giorno 6 del mese di Agosto può essere dedotto dalla teologia della Chiesa sull'evento della Trasfigurazione del Signore, per cui si mostra la nuova situazione in cui la carne umana entra nella Risurrezione del Signore. La natura e l'uomo aspettano insieme il rinnovamento attraverso la benedizione di Dio. La benedizione in chiesa della frutta rende dunque l'uomo degno di fede in questa speranza.
Vige tale usanza pure presso i Latini. Questa benedizione si compie durante il santo Sacrificio della Messa, al termine del Nobis quoque peccatoribus: anticamente tutte le benedizioni di frutta e oggetti si compivano in questo momento, sicchè il Canone Romano ha mantenuto in tal punto la formula 'Hæc omnia bona creas, sanctificas, vivificas et præstas nobis' coi segni do croce, il che tradisce la sua origine di formula di benedizione per qualcosa che stava sull'altare ma non erano certo le Sacre Specie già consecrate. I Liturgisti, insieme con Sicardo di Cremona, ci hanno spiegato la ragione di tale benedizione in un simile giorno: “Siccome la Trasfigurazione si riferisce allo stato che dev’essere quello dei fedeli dopo la resurrezione, si consacra il sangue del Signore con vino nuovo, se è possibile averne, onde significare quanto è detto nel Vangelo: Non berrò più di questo frutto della vite, fino a quando non ne beva del nuovo insieme con voi nel regno del Padre mio” (Mt 26,29).
Autori: Sergej Vasiljevic Bulgakov, Dom Prosper Gueranger

mercoledì 1 agosto 2018

Il Canone Paracletico alla Madre di Dio

Se negli ultimi secoli nel mondo latino sono stati identificati come “mesi della Madonna” ottobre, a cagion del Santo Rosario, e maggio, per via delle molte devozioni mariane sviluppatesi, non si deve ignorare che la Tradizione più antica, comune a Oriente e Occidente, vedeva come “mese di Maria” per eccellenza il mese di agosto, culminante nella sua esatta metà con la grande festa della Dormizione (Assunzione) della Madre di Dio, che con la sua ottava e (nel mondo bizantino) con la piccola “quaresima” di due settimane che la precede, conferisce il peculiare carattere mariano a tutto il mese.

Nei primi 14 giorni di agosto, durante appunto il digiuno della Dormizione (che peraltro è il più rigoroso dopo quello quaresimale), il Typikòn greco prescrive di cantarsi ogni sera, unitamente al Vespero, il Canone Paracletico (Παράκλησις, “intercessione”) alla Santissima Vergine, toccante poema d’intercessione per i vivi, in cui si chiede alla Madonna d’intercedere presso il suo Figlio e Dio nostro per la salute del corpo e dello spirito di chi si trova in condizioni di prova, per la nostra salvezza e per il sollievo dai pesi e dalle sofferenze che su di noi gravano. I figli, feriti, si rivolgono alla Madre compassionevole, loro ultima speme, protettrice, e aiuto, a cui “tutti ricorrono dopo Dio”.
La tradizione slava non possiede questa officiatura, anche se ha una celebrazione equivalente alla Paraklisis, il cosiddetto Moleben, che tuttavia manca della parte poetica precipua, ovverosia del Canone.

Esistono due differenti Canoni paracletici, il piccolo e il grande. Il primo, composto nel IX secolo dal monaco Theosteriktos (o, secondo altri, Teofane), si può cantare durante tutto l’anno, in situazioni di particolare turbamento dell’animo, mentre il secondo, che si canta solo in questo periodo, è concordemente attribuito a Teodoro  II Ducas Lascaris, Imperatore di Nicea dal 1254 al 1258.

Pur essendo così distinti, i Canoni in realtà contano del medesimo numero di tropari (trentadue, suddivisi equamente in otto odi); piuttosto, sono più lunghe nel secondo caso le cerimonie liturgiche che si accompagnano ad esso (cfr. John Fountoulis). Inoltre, la Grande Paraklisis è cantata in tono più solenne e festoso, perché parla direttamente della Dormizione, come si legge nell’exapostilarion: «Apostoli, accorrete al Gethsemani dai confini della terra, seppellite il mio corpo, e tu, Figlio mio e Dio mio, accogli l’anima mia».

Le regole per ordinare l’alternanza dell’ufficio in questa prima quindicina di agosto sono abbastanza semplici: a meno che il 1 agosto non sia domenica, si inizia con la Piccola, e indi si alternano la Piccola e la Grande Paraklisis, ricordando che tale ufficio si omette la sera del sabato e la vigilia della Trasfigurazione, mentre la domenica sera si canta sempre la Grande.

Soffermandoci un istante sul Piccolo Canone, sul quale possediamo più vasta storiografia, dicevamo che si attribuisce la sua composizione al santo monaco Theosteriktos, del IX secolo. Taluni ipotizzano che l’autore sia stato metropolita Teofane di Nicea, contemporaneo, o addirittura San Giovanni Damasceno; pare nondimeno che Teofane fosse il nome al secolo del monaco Theosteriktos. Quest’ultimo combatté strenuamente l’eresia iconoclasta, sotto l’imperatore Costantino V Copronimo, sinché la notte del Giovedì Santo del 763, mentr’egli celebrava la Divina Liturgia alla presenza di centinaia di monaci nel monastero di Pelekete (in Bitinia, terra d’origine del monaco) di cui era igumeno, fu catturato dai soldati del generale Michele Lachanodrakon, che picchiarono con violenza l’abate, scaraventando a terra il Sacro Calice, e ingiungendo ai monaci di firmare un decreto dell’imperatore col quale s’ingiungeva il ripudio dell’iconodulia. Il santo monaco rifiutò fermamente, e allora quattrocento monaci furono passati a fil di spada, e il bellissimo monastero fu dato alle fiamme. I sopravvissuti furono portati anzi all’imperatore Costantino, dove tutti i monaci ortodossi, guidati dal coraggioso monaco Sinesios, furono decapitati. Theosteriktos bramava di ricevere il martirio, ma l’imperatore volle risparmiarlo, incolpandolo nondimeno di esser stato la causa della morte di centinaia di monaci “per lo stupido capriccio di voler venerare le icone”. Egli sprezzante parlò contro l’imperatore, aizzandogli pure contro molti soldati e funzionari scandalizzati dal massacro, tra cui il soldato Emilio Teravinos, che, afferrata la spada e postosi davanti all’imperatore che fuggiva col proprio primo ufficiale, si fece il segnò di croce e scoperse l’icona di Cristo che portava al collo, sfidandolo: «Maledetto eretico, ammazzami, perché io venero le Sante Icone!». Emilio fu decapitato, mentre l’igumeno fu sottoposto alle più umilianti e dolorose torture: fu scorticato, gli furono tagliati naso ed orecchie, ma cionondimeno ei sopravvisse in carcere per nove anni, cibandosi solo ogni tanto di pane e acqua che gli passava di nascosto qualche soldato fedele. Copronimo morì nel 382, e gli succedette il misericordioso Leone IV, che liberò tutti gl’iconoduli. Theosteriktos, costruitasi una capanna sulle rovine del suo monastero, ivi visse come eremita, e rimembrando i giorni dolorosi del suo passato, compose il Canone Paracletico, così esordendo: «Oppresso da molte tentazioni presso di voi mi rifugio, implorando salvezza; o Madre del Verbo e Vergine, salvatemi dalle sventure e dai pericoli!».

E’ grande l’occasione, per chi sente qualche disagio interiore, qualche peso che grava sull’anima e che toglie la pace spirituale, di recarsi in chiesa in questi giorni, per supplicare l’intercessione potentissima della Beata Vergine, e venir grazie a lei sollevati da ogni tribolazione, cantandole incessantemente: «Santissima Genitrice di Dio, salvateci!»



martedì 31 luglio 2018

XLVI Convegno di "Instaurare" il 23 agosto


Giovedì 23 agosto 2018
Santuario di Madonna di Strada, Fanna (PN)
Il ‘68: la Chiesa e la società civile di fronte e dopo la “Contestazione”

Programma
ore 9,00 - Arrivo dei partecipanti 
ore 9,15   -  Celebrazione della santa Messa in rito romano antico e canto del «Veni Creator»
ore 10,45 -  Apertura dei lavori. Saluto di Instaurare ai partecipanti. Introduzione ai lavori.
ore 11,00 -   Prima relazione: «Politica e diritto dopo il ‘68» del prof. Miguel AYUSO, Presidente dell’Unione Internazionale Giuristi Cattolici.
ore 12,00 - Interventi e dibattito.
ore 13,00   -  Pranzo.
Ore 15,30 -  Ripresa dei lavori. Seconda relazione: «”Contestazione”, Chiesa e cristianità» del prof. Daniele MATTIUSSI, cultore di Etica sociale e di Filosofia del diritto.
ore 16,30 -  Interventi e dibattito.
Ore 17,00 -   Chiusura dei lavori.

Avvertenze

Il convegno è aperto a tutti gli «Amici di Instaurare». Non è prevista alcuna quota d’iscrizione. I partecipanti avranno a loro carico solamente le spese di viaggio e quelle del pranzo che sarà consumato al Ristorante «Al Giardino» di Fanna a prezzo convenzionato. Si prega, a questo proposito, di dare la propria adesione scrivendo all’indirizzo di posta elettronica: instaurare@instaurare.org entro il giorno 14 agosto 2017. L’adesione è necessaria al fine di favorire l’organizzazione.
Non è permessa la distribuzione di alcuna pubblicazione né la registrazione dei lavori del convegno senza la preventiva autorizzazione della Direzione del convegno.
I giornalisti devono essere accreditati. A tal fine essi debbono scrivere al seguente indirizzo di posta elettronica: instaurare@instaurare.org
Il santuario di Madonna di Strada è facilmente raggiungibile con propri mezzi: si trova sulla strada che da Spilimbergo porta a Maniago, pochi chilometri prima di quest’ultimo centro. Chi si servisse dell’autostrada deve uscire dalla stessa a Portogruaro, prendere la direzione di Pordenone e proseguire (senza uscire dall’autostrada a Pordenone) fino a Sequals. A Sequals girare a sinistra in direzione di Maniago e proseguire per una decina di chilometri: sulla sinistra, come indicato dai cartelli stradali, si trova il santuario di Madonna di Strada.
Al fine di favorire l’organizzazione del convegno è gradita la segnalazione della propria partecipazione anche da parte di chi non partecipasse all’incontro conviviale.
Per comunicazioni e informazioni si prega di scrivere al citato indirizzo di posta elettronica: instaurare@instaurare.org 

Breve nota introduttiva

La “Contestazione” del ’68 è stata definita rivoluzione anonima o senza volto (E. Morin), rivoluzione dei desideri ovvero della libertà contro il Vangelo e contro i “Vangeli”, rivoluzione sessuale (W. Reich), rivoluzione dei sorrisi (F. de Alvarado), rivoluzione necessaria (N. Simeone) anche se non è dato sapere se essa fu necessaria perché ineludibile sulla base di talune premesse o se fu necessaria semplicemente perché ritenuta opportuna. La pluralità delle definizioni evidenzia, da una parte, una difficoltà [vale a dire è reso difficile – anche per la sua apparente negatività (la rivolta contro l’autorità, contro ogni autorità, in sistemi differenti) – il compito di individuare il minimo comune denominatore dei fenomeni sociali di cinquanta anni fa e quello di cogliere la loro essenza] e, dall’altra, (la pluralità delle definizioni) sembra esser una insignificante rassegna di nomi sotto i quali si nasconde una realtà: quella di una progressiva avanzata della Rivoluzione che ha inaugurato la Modernità e l’ha accompagnata nel graduale dispiegamento delle sue opzioni di fondo, svelandola piano piano. La “Contestazione” non è stata una crisi di crescita, come taluni politici dell’epoca credettero, indotti in questa erronea “lettura” da intellettuali che videro in essa un’apertura al dibattito oppure la necessaria conseguenza dell’occidentale società industriale (H. Marcuse), la quale avrebbe attenuato tutti i problemi (R. Aron). No. La “Contestazione” è stata preparata dall’ideologia liberale e sostenuta dal comunismo libertario. In essa trovano il loro atto di nascita le ideologie nichilistiche della seconda metà del secolo XX: dal femminismo al movimento omosessuale ma anche il trionfo della società dei consumi (utilizzata per combattere il comunismo). Essa segnò una “rottura” con le vecchie ideologie di destra e di sinistra, le quali attingevano alle stesse radici della “Contestazione”. Essa segnò un’evoluzione che preparò nella mentalità e nei costumi il tempo presente. Per questo è opportuno riflettere su questo evento rivoluzionario: senza una sua adeguata comprensione non si capirebbe la stagione del radicalismo avanzato del nostro tempo, la destabilizzazione della famiglia naturale, la trasformazione delle istituzioni politiche, l’uso antiguridico del diritto e via dicendo. Non si capirebbe nemmeno la situazione in cui versa la cosiddetta cultura cattolica contemporanea. Il convegno intende portare (e porterà) un originale contributo per la “lettura” di un evento che ha segnato il nostro tempo e tuttora continua a caratterizzarlo.

sabato 28 luglio 2018

Note sui falsi pastori e sulla validità della liturgia

Non l'ho fatto per oltre un anno, ritenendo che certe chiacchiere clericali impazzite fossero destinate a svanire nel nulla, e forse sopravvalutando una parte dei tradizionalisti cattolici, gente che pare seguire acriticamente chiunque si metta a urlare e inveire contro la gerarchia modernista che occupa i palazzi romani (dimostrando non solo poca attenzione al contenuto del messaggio di chi si segue, ma financo un certo gusto per la polemica, con uno stile che si adatta a tribune politiche, piuttosto che a un ambiente ecclesiale). La recente centralità assunta dalla faccenda mi spinge tuttavia a scrivere finalmente qualche mia considerazione sull'operato di don Minutella.

Fin da quando comparve sulla scena, come una meteora in mezzo al cielo, questo sacerdote palermitano che si mette a dire "eretico" a Bergoglio, dice di avere un contatto diretto con la Madonna e predica in modo infuocato sostenendo di essere l'ultimo baluardo della fede cattolica, misi in guardia qualche parrocchiano dal seguire questi personaggi. Non diedi troppa importanza alla cosa, proprio perché sembrava un fenomeno talmente assurdo e sconclusionato da doversi estinguere in una bolla di sapone, non diversamente da molti pseudo-veggenti o qualche conclavista americano. Ora si rende però necessario chiarire alcuni punti che dimostrano l'assoluta inaffidabilità del don Minutella, sia quanto al modo in cui egli esercita il suo ministero (che non gli licerebbe più di esercitare), sia quanto ai contenuti del suo sistema ideologico (sì, in fondo di ideologia si tratta!)

Già le premesse del discorso sono preoccupanti: andiamo dal clericalismo più becero mischiato a pericolose devianze carismatiche, condite con falso misticismo, false veggenze (ho giustappunto letto, e ho intenzione di rilanciare, uno scritto sul rivelazionismo), settarismo e scisma. A questo si aggiunge un atteggiamento assai poco costruttivo cristianamente, tipico nondimeno di questi fenomeni rivelazionisti, ossia la voglia di avere pubblicità. Unendo questa tendenza alla vis polemica esagerata di certo mondo tradizionalista, ecco che proliferano i video di Radio Domina Nostra, ed ecco pellegrinaggi che appaiono sfide all'autorità ecclesiale piuttosto che momenti di vita religiosa,  tant'è che non mi risulta di svolgano in chiese o santuari, né che al centro di questi "pellegrinaggi" ci sia la lode a Dio (se c'è qualche preghiera, è solo usata in modo strumentale) ma piuttosto la contestazione fine a se stessa. Lo dico a voce alta e lo ripeterò più volte: al centro di tutto ciò c'è l'uomo, non Dio. Questa non è Religione,  è antropocentrismo (per non dire egocentrismo)!

Infine, vediamo le debolezze logiche e teologiche della predicazione di don Minutella. Non sarà un discorso troppo complesso inizialmente, proprio come non teologicamente complesso è lo stile di don Minutella, che come in ogni discorso teso a colpire nella psiche piuttosto che formare l'anima,  il cuore o l'intelletto, si serve essenzialmente di slogan, per di più triti. Mi soffermerò solo sulla questione della validità, perché è di estrema importanza.
Anzitutto, egli è in nessun senso, nemmeno nel più comune, definibile tradizionalista. Un tradizionalista che cita massivamente il Concilio Vaticano II, che celebra la liturgia moderna e anzi la usa come palco per i propri show politici, che fonda tutto il suo sistema su un Papa, preso suo malgrado come un idolo, che seppur conservatore tanto tradizionalista non fu, questi, anche se porta una bella talare nera e un tricorno, non è un tradizionalista. La sua contestazione, come detto, è nei riguardi di un Papa che è espressione veramente sensazionale di un problema radicale della Chiesa, ma tale contestazione ignora o rifiuta di criticare (e soprattutto di proporre rimedi che non siamo tranchant, ma meditati e posati) le radici, o almeno il tronco, del problema: gli incontri ecumenici di Wojtiła sono dimenticati? La distruzione sistematica della Tradizione operata da Montini? Le smanie liberali di Luciani? Il compromesso col mondo di Roncalli? E parlo solo dei problemi riconosciuti da tutti i tradizionalisti, non addentrandomi nella crisi precedente della Chiesa latina, cui ho più volte accennato. A chiunque la pensi così: la crisi non inizia nel 2013! O esiste da ben prima, o non esistite in toto!

Veniamo infine alla spinosissima questione della validità, o meglio, dell' "una cum". Sembra una storia vecchia, che rimanda a quei gruppi o singoli  sedevacantisti, ma il modo in cui viene trattato dai simpatizzanti di don Minutella (e che ha contagiato moltissimi tradizionalisti, anche personalmente da me conosciuti) è assolutamente privo di qualsiasi fondamento teologico, oltre che logico. I sedevacantisti almeno rifiutano di nominare alcun Papa, visto che non riconoscono nessun Vescovo di Roma dal 1958 e il buon Pacelli è da tempo morto; questi nuovi contestatori, che ritengono Bergoglio decaduto in quanto eretico, asseriscono che si dovrebbe celebrare una cum Benedicto. Ma Ratzinger fino a prova contraria si è dimesso, e nè l'eventuale (ribadisco, eventuale) decadenza per eresia del Pontefice, né una supposta e mai confermata costrizione all'atto rinunciatario nei confronti del Papa tedesco, sono argomenti logicamente, oltre che teologicamente, sostenibili per argomentare il fatto che egli sia ancora Vescovo di Roma. O la Sede è piena, o è vacante.

Ma ciò che ancor più gravemente è errato nella loro convinzione è che la Messa celebrata una cum Francisco sia invalida. Questa è una pura sciocchezza. Da sempre la Chiesa insegna che la validità non dipende certo dal celebrare in comunione con questo piuttosto che un altro Papa: sia che s'interna la consacrazione in modo pneumatico (ossia, per operazione dello Spirito Santo all'epiclesi) che scolastico (ossia, in virtù della potestas auctoritatis del celebrante che agisce in persona Christi e pronuncia la formula di consacrazione sopra la materia valida), la comunione con un dato vescovo, e nemmeno con la stessa Chiesa di Cristo, annulla la validità del Sacramento. Il ministro ordinato infatti non perde il potere sacerdotale, nemmeno se in scomunicato o personalmente eretico, figurarsi se semplicemente in comunione con un sospettato di eresia. Questo è il motivo per cui si trovano non solo Eucaristia, ma financo ordinazioni, nonché tutti gli altri Sacramenti validi, tanto nella Chiesa Cattolica, quanto in quella Ortodossa, nei sedevacantisti, nei nestoriani, etc. Il dire 'una cum Papa Benedicto' piuttosto che 'una cum Papa Francisco' piuttosto che 'una cum Patriarcha Bartholomæo' (peraltro conosco qualcuno che lo fa) o omettere del tutto il nome, non incide in alcun modo sulla validità, ma tutt'al più ricade sulla coscienza del celebrante.
In materia i sedevacantisti hanno posizioni piuttosto disparate, ma del resto il loro scisma, proprio come le fole di don Minutella, partono da una sovraconsiderazione del Papa, dal tenere il pontefice al centro del Mistero, anzichè Cristo, tanto da sottomettere psicologicamente alla comunione con un dato Papa la validità stessa, cioè la presenza di Dio, del Sacramento. Questo fenomeno, anche se dal verso opposto, è sostanzialmente paragonabile alla papolatria dei "cattolici" moderni nei confronti di Bergoglio (vedi QUI). Ricordo di aver letto da qualche parte che alcuni sedevacantisti traducono 'pro Ecclesia tua sancta catholica ... una cum Papa nostro N.' con 'per la vostra santa Chiesa cattolica ... una cosa sola con il nostro Papa N.': questo è un errore di latino, in quanto non solo non è la lettura immediata e più logica ('una cum' è locuzione per dire 'insieme', si consulti qualsivoglia dizionario), ma pare ingiustificabile pure come lectio difficilior. Per non parlare delle implicazioni: dire che la Chiesa è una cosa sola col Papa è far assurgere il Papa a essenza stessa della Chiesa. E Cristo?

Approfitto per fare una considerazione sulla necessità di assistere a liturgie valide e ortodosse. La liturgia, oltre che obbligo per via del terzo comandamento nonchè del primo precetto, è una necessità per la vita spirituale del cristiano. Vivere la fede senza liturgia è semplicemente impossibile, ma perchè si goda del frutto spirituale della liturgia, quest'ultima dev'essere valida e ortodossa: proprio per questo è assolutamente inutile (anche se da un punto di vista puramente legale soddisfa al precetto, ma il mero formalismo aiuta poco la vita religiosa) assistere alla liturgia riformata (novus ordo), perchè sarà de jure valida (altrimenti ci sarebbe un serio problema ecclesiologico, lo stesso in cui cade don Minutella quando negando validità alla messa cum Francisco in buona sostanza decreta la morte della Chiesa Cattolica; che poi de facto sia spesso invalidata dall'incredulità del ministro o da cose consimili, è altro affare), ma ortodossa (e cioè impostata su un impianto sano, tradizionale, e dunque giovevole allo spirito) non lo è di certo.

E qui in molti sorge un dilemma. Dove è possibile assistere a liturgie valide e ortodosse? Ebbene, come diceva un amico: da qualunque mano provenga, l'oro resta oro. La situazione canonica del celebrante - come dice don Curzio Nitoglia - riguarda la sua coscienza, non quella di chi assiste con l'intenzione di mantenere la vera Fede e al solo scopo della santificazione della propria anima (che avviene OVUNQUE ci sia grazia, ovvero una liturgia valida e ortodossa).

venerdì 27 luglio 2018

San Pantaleone, anargiro e martire


Ἐξέλαμψε σήμερον, ἡ σεβάσμιος μνήμη τοῦ Ἀναργύρου, τοὺς πιστοὺς συγκαλοῦσα πρὸς εὐωχίαν μυστικήν, καὶ πρὸς πανήγυριν ἑόρτιον ἄγουσα, τῶν φιλεόρτων τὰ συστήματα, Ἐπέστη γὰρ ἡμῖν θαυματουργὸς ἰατρός, τὰς νόσους πάντων ἰώμενος, Παντελεήμων ὁ στερρὸς ἀθλητής, καὶ πρεσβεύει ἐκτενῶς τῷ Κυρίῳ, εἰς τὸ σωθῆναι τὰς ψυχάς ἡμῶν.

(Dal Vespero di S. Pantaleone)

(Risplende oggi l’augusta memoria dell’anargiro, convocando i fedeli a un mistico banchetto e guidando le assemblee degli amici della festa a una solenne riunione festiva. È infatti presente tra noi, come medico taumaturgo che cura i mali di tutti, il forte atleta Pantaleone; e assiduamente intercede presso il Signore per la salvezza delle anime nostre)


***
Icona di S. Pantaleone, Monastero di S. Caterina sul Sinai

Il 27 luglio, celebriamo la memoria del santo e grande martire Pantaleone, in greco Pantaleimon (Πανταλεήμων), e del cieco che, guarito da lui, morì di spada.

Il santo e glorioso martire di Cristo Pantaleimon nacque a Nicomedia da un senatore pagano, Eustorgio, e da una cristiana, Eubalia, che gli diede il nome di Pantaleo. Affidato ad un illustre medico, Eufrosino, per la sua educazione, egli arrivò ben presto ad una perfetta conoscenza dell’arte medica, al punto che l’imperatore Massimiano avendo notato la sia qualità, progettava di prenderlo a palazzo come medico personale. Siccome il giovane passava quotidianamente avanti alla casa dove era nascosto San Ermolao (26 luglio nel rito greco; lo stesso 27 luglio nel calendario del Patriarcato delle Venezie), il santo prete, intuendo dalla sua andatura la qualità della sua anima, l’invitò un giorno ad entrare e si mise a spiegargli che la scienza medica non può procurare che un ben flebile sollievo alla nostra natura sofferente e soggetta alla morte, e che solo il Cristo, unico vero Medico, è venuto a portarci la Salute, senza rimedi e gratuitamente. Con il cuore esultante di gioia all’ascolto di queste parole, il giovane Pantaleo cominciò a frequentare regolarmente San Ermolao e fu istruito da lui nel grande Mistero della fede. Un giorno, di ritorno da Eufrosino, trovò sul cammino un bambino morto dopo essere stato morso da una vipera. Ritenendo che fosse venuto il momento di provare la veridicità delle promesse di Ermolao, invocò il Nome di Cristo e, subito il bambino si alzò e il rettile morì. Egli allora corse presso Ermolao e, pieno di gioia, chiese al più presto di ricevere il Santo Battesimo. Rimase successivamente vicino al santo anziano per gioire dei suoi insegnamenti ancora una settimana, ma rientrando a casa a suo padre adirato disse di essere rimasto a palazzo, occupato con la cura di un ammalato caro all’imperatore. Per tenere ancora segreta la notizia della sua conversione, egli non mostrava grande sollecitudine nel convincere Eustorgio sulla vanità del culto degli dei, finché non andò a casa sua un cieco che lo supplicò di guarirlo, avendo egli invano dilapidato tutti i suoi averi consultando numerosi altri medici. Confidando in Cristo, che dimorava ormai in lui fortemente, il giovane assicurò alla presenza di suo padre stupito, che lo avrebbe guarito per la grazia del suo Maestro. Egli segnò con il segno della croce gli occhi del cieco, invocando il Nome di Cristo, e subito l’uomo ritrovò l’uso della vista, non solamente quella degli occhi corporali, ma anche quella degli occhi spirituali e riconobbe che la potenza del Cristo lo aveva guarito.

Veronese, Conversione di S. Pantaleone, Chiesa di S. Pantalon (Venezia)

L’uomo fu successivamente battezzato da San Ermolao, in compagnia di Eustorgio, padre di Pantaleo che non tardò ad addormentarsi in pace. Alla more paterna il santo distribuì la sua eredità ai poveri, liberò i suoi schiavi, e si dedicò con uno zelo raddoppiato alla cura dei malati, ai quali non chiedeva altro come onorario, che di credere in Cristo, venuto sulla terra per guarire gli uomini da tutte le loro malattie, nel frattempo gli altri medici di Nicomedia cominciarono a nutrire nei confronti del santo sentimenti di gelosia e, poiché il cieco guarito era cristiano, torturato per ordine dell’imperatore, essi colsero l’occasione per denunciarlo a Massimiano. L’imperatore ascoltò con grande tristezza le accuse contro il suo protetto e fece convocare l’ex cieco chiedendogli spiegazioni circa il modo con cui Pantaleo gli aveva ridato la vista. Quando, allo stesso modo del cieco del Vangelo, l’uomo rispose che il santo medico lo aveva guarito invocando il Nome di cristo, e che questo miracolo gli aveva procurato la vera vista, quella della fede, furioso l’imperatore lo fece immediatamente decapitare e inviò i suoi uomini a cercare Pantaleo. Allorché il santo gli fu davanti, lo accusò di aver tradito la sua fiducia e cosa ancor più grave di recare offesa ad Esculapio ed alle altre divinità con la sia fede in Cristo, che altro non era se non un essere umano morto crocifisso. Il santo gli rispose che la fede e la pietà verso il vero Dio erano superiori a tutte le ricchezze e gli onori di questo mondo di vanità, e per avvalorare le sue parole propose a Massimiano di metterlo alla prova. Così fece portare a palazzo un paralitico, i sacerdoti pagani fecero in un primo tempo i loro incantesimi, accompagnati dalla burle del santo ma, non sortendo i loro sforzi effetto, Pantaleo alzò verso Dio la sua preghiera e prendendo il paralitico per mano, lo fece sollevare nel nome di Cristo. Numerosi pagani, vedendo l’uomo, esaltanti di gioia accorsero verso la verità, tanto che i sacerdoti pagani pressarono l’imperatore per mettere a morte il pericoloso rivale.
Quando Massimiano gli ricordò le torture inflitte qualche tempo prima a San Antimo, Pantaleo replicò che se un anziano aveva mostrato un tale coraggio, a più forte ragione, i giovani dovevano mostrarsi valorosi nella prova. Poiché né adulazioni né minacce riuscivano a convincerlo, il tiranno lo mandò alla tortura. Ordinato di attaccarlo ad un palo, pur lacerandogli i fianchi con punte di ferro, diressero poi delle torce infiammate sulle piaghe. Ma il Cristo apparve al santo martire sotto le spoglie di San Ermolao suo padre spirituale e gli disse: "Non temere niente, mio caro ragazzo, poiché io sono con te, e ti soccorrerò in tutto ciò che tu soffrirai per me". Immediatamente le torce si spensero e le pieghe del santo si trovarono guarite. Fu allora immerso nel piombo fuso e gettato in mare legato ad una pesante pietra, ma in tutte le prove, il Signore lo accompagnava, e lo lasciava indenne. Quando l’imperatore ordinò di darlo in pasto alle fiere, anche allora il Cristo lo protesse e le belve andarono ad accucciarsi ai suoi piedi leccandoglieli teneramente alla stregua di animali domestici. Restando per quanto lo riguardava, più selvaggio degli animali privi di ragione, il tiranno ordinò di legare il santo ad una ruota guarnita di lame affilate e facendo rotolare dall’alto alla presenza di tutta la città. Di nuovo il Signore intervenne miracolosamente: Egli liberò il fedele servitore dalle corde che lo legavano e la ruota travolse al suo passaggio un gran numero di infedeli. Quando Massimiano gli chiese da chi ottenesse questa potenza e come avesse fatto ad arrivare la fede cristiana, Pantaleo indicò dove si nascondeva Ermolao, poiché Dio gli aveva rivelato che il tempo era arrivato per lui ed il suo maestro, e di raggiungere la perfezione nel martirio. Dopo la gloriosa morte di San Ermolao e dei suoi compagni, il tiranno fece di nuovo chiamare Pantaleo, e, dicendo che i martiri si erano sottomessi tentò di convincerlo a sacrificare agli idoli, per tutta risposta il santo chiese di vederli. Quando il sovrano gli rispose che li aveva inviati in un’altra città, Pantaleo replicò: "Tu hai detto la verità malgrado tutto, e bugiardo, poiché essi sono già nella Gerusalemme celeste". Constatando che non poteva vincere la sua risoluzione, Massimiano ordinò allora di decapitare e gettare il suo corpo nel fuoco. Il santo andò con allegria sul luogo dell’esecuzione, fuori città, ma nel momento in cui il carnefice brandiva la sua spada, questa si fuse come la cera sotto l’azione del fuoco. Dinnanzi all’ennesimo miracolo, i soldati presenti confessarono il Nome di Cristo ma Pantaleo li esortò tuttavia a compiere il loro dovere ed elevò un ultima preghiera a Dio. Allora si udì una voce celeste dirgli: "Servitore fedele, il tuo desiderio deve essere immediatamente esaudito, le porte del cielo sono aperte, la tua corona è preparata e tu sarai d’ora in poi il rifugio dei disperati, il soccorso dei provati, il medico dei malati e il terrore dei demoni; è per questo che il tuo nome non sarà più Pantaleo ma Pantaleimon (che significa molto misericordioso)". Quando egli piegò la sua nuca e la sua testa cadde di spada, del latte colò dal suo collo, il corpo divenne bianco come la neve e l’olivo inaridito al quale era stato legato rinverdì improvvisamente donando frutti in abbondanza. I soldati a cui era stato dato l’ordina di dare fuoco alle spoglie del santo, lo diedero invece ai cristiani che lo seppellirono nelle proprietà di Amantio lo Scolastico, andando a proclamare la buona novella in altri luoghi. E da quel momento le reliquie di San Pantaleimon non cessano di procurare la guarigione e la grazia di Cristo, il solo vero Medico delle anime e dei corpi, a tutti coloro che si rivolgono con devozione.

***
Μητρὸς εὐσεβοῦς ἐπιποθήσας πίστιν, τοῦ πατρὸς διωρθώσω τὴν ἀσέβειαν· ταῖς γὰρ Ἑρμολάου στηριχθεὶς διδασκαλίαις, ἐν τούτῳ καὶ τὸ Βάπτισμα ἐτέλεσας, Παντελεῆμον Μάρτυς ἔνδοξε, τοῦ ἐλεήμονος Θεοῦ, τῶν νοσούντων θεραπευτά, καὶ τῶν παθῶν διώκτα. Πρέσβευε λυτρωθῆναι ἐκ περιστάσεως, τοὺς ἐν πίστει τελοῦντας, τὴν ἀεισέβαστον Μνήμην
σου.
(Dal Vespero di S. Pantaleone)

(Della tua pia madre avendo amato la fede, hai corretto l’empietà paterna; rafforzato dagl'insegnamenti di Ermolao, fosti da lui battezzato, Pandeleìmon, illustre martire del Dio misericordioso, che guarisce i malati e allontana i dolori. Intercedi perché siano liberati da ogni male i fedeli che celebrano la tua santa memoria)

La chiesa di S. Pantaleone a Venezia, ove si custodisce la reliquia del braccio del Santo.

Rilievo marmoreo raffigurante lo ieromartire S. Ermolao, fuori la chiesa di S. Simon Grando a Venezia, ove si custodiscono le ossa del Santo