giovedì 9 agosto 2018

Inno in onore della passione del beatissimo martire Lorenzo

Riportiamo di seguito i due brani più significativi del secondo libro del Peristephanon di Prudenzio, dedicato alla passione di San Lorenzo di cui oggi ricorre la festa (qui l'articolo dello scorso anno con l'agiografia). La prima parte (vv. 1-44) costituisce l'introduzione del carme, in cui si accenna alle virtù del generoso e devoto Lorenzo e si anticipa il suo martirio, mentre la seconda (vv. 413-484) è la preghiera che il santo diacono pronuncia sulla città di Roma poco prima di subire il martirio.
Traduzione di Nicolò Ghigi.

Tiziano Vecellio, Martirio di S. Lorenzo, metà del XVI secolo,
Chiesa dei Gesuiti (Venezia)


Aurelio Prudenzio Clemente
PERISTEPHANON
II, 1-44 et 413-484

Inno in onore della passione del beatissimo martire Lorenzo

Antiqua fanorum parens,
iam Roma Christo dedita,
Laurentio victrix duce
ritum triumphas barbarum.

Reges superbos viceras
populosque frenis presseras
nunc monstruosis idolis
inponis imperii iugum.

Haec sola derat gloria
togatae insignibus,
feritate capta gentium
domaret ut spurcum Iovem,

non turbulentis viribus
Cossi, Camilli aut Caesaris,
sed martyris Laurentii
non incruento proelio.

Armata pugnavit Fides
proprii cruoris prodiga;
nam morte mortem diruit
ac semet inpendit sibi.

Fore hoc sacerdos dixerat
iam Xystus adfixus cruci
Laurentium flentem videns
crucis sub ipso stipite:

‘Desiste discessu meo
fletum dolenter fundere!
praecedo, frater; tu quoque
post hoc sequeris triduum.’

Extrema vox episcopi,
praenuntiatrix gloriae,
nihil fefellit; nam dies
praedicta palmare praetulit.

Qua voce, quantis laudibus
celebrabo mortis ordinem,
quo passionem carmine
digne retexens concinam?

Hic primus e septem viris,
qui stant ad aram proximi,
levuita sublimis gradu
et ceteris praestantior,

claustris sacrorum praeerat
caelestis arcanum domus
fidis gubernans clavibus
votasque dispensans opes.

[…]

Haec ludibundus dixerat,
caelum deinde suspicit
et congemescens obsecrat
miseratus urbem Romulam:

'O Christe, nomen unicum,
O splendor, O virtus patris,
O factor orbis et poli
atque auctor horum moenium,

qui sceptra Romae in vertice
rerum locasti, sanciens
mundum Quirinali togae
servire et armis cedere,

ut discrepantum gentium
mores et obseruantiam
linguasque et ingenia et sacra
unis domares legibus!

En omne sub regnum Remi
mortale concessit genus,
idem loquuntur dissoni
ritus, id ipsum sentiunt.

Hoc destinatum, quo magis
ius christiani nominis,
quodcumque terrarum iacet,
uno inligaret vinculo.

Da, Christe, Romanis tuis,
sit christiana ut ciuitas,
per quam dedisti, ut ceteris
mens una sacrorum foret!

Confoederantur omnia
hinc inde membra in symbolum,
mansuescit orbis subditus,
mansuescat et summum caput.

Advertat abiunctas plagas
coire in unam gratiam,
fiat fidelis Romulus
et ipse iam credat Numa.

Confundit error Troicus
adhuc Catonum curiam
veneratus occultis focis
Frygum penates exules.

Ianum bifrontem et Sterculum
colit senatus, horreo
tot monstra patrum dicere
et festa Saturni senis.

Absterge, Christe, hoc dedecus!
Emitte Gabriel tuum,
agnoscat ut verum deum
errans Iuli caecitas!

Et iam tenemus obsides
fidissimos huius spei,
hic nempe iam regnant duo
apostolorum principes,

alter vocator gentium,
alter cathedram possidens
primam recludit creditas
aeternitatis ianuas.

Discede, adulter Iuppiter,
stupro sororis oblite,
relinque Romam liberam
plebemque iam Christi fuge!

Te Paulus hinc exterminat,
te sanguis exturbat Petri,
tibi id, quod ipse armaveras,
factum Neronis, officit.

Video futurum principem
quandoque, qui servus dei
taetris sacrorum sordibus
servire Romam non sinat,

qui templa claudat vectibus,
valvas eburnas obstruat,
nefasta damnet limina
obdens aenos pessulos.

Tunc plura ab omni sanguine
tandem nitebunt marmora,
stabunt et aera innoxia,
quae nunc habentur idola.'
O antica genitrice di templi,
Roma, già a Cristo votata,
sotto la guida di Lorenzo, vincitrice
trionfi sul barbaro costume.

Avevi sconfitti re superbi,
e oppresso in catene popoli,
ora sugli orridi idoli
imponi il giogo del tuo potere.

Sol questa gloria mancava
agl’insigni trionfi della città ove si porta la toga,
vinta i costumi selvaggi delle genti,
superare finalmente Giove infame, 

non con le forze sediziose
di Cosso, di Camillo o di Cesare,
ma con la non incruenta battaglia
del martire Lorenzo.

La Fede combatté armata,
prodiga del proprio sangue;
la morte infatti distrusse con la morte,
e con sé riscattò se stessa.

Il sacerdote Sisto, appeso alla croce,
già avea detto che ciò sarebbe successo,
vedendo Lorenzo che piangeva,
sotto al legno stesso della croce:

‘Smettete di piangere amaramente
per la mia dipartita!
Ti precedo, fratello; tu pure
mi seguirai dopo tre giorni.’

Le ultime parole del vescovo,
che preannunciavano la gloria,
affatto non sbagliavano; infatti, il giorno
prestabilito, portò seco la palma della vittoria.

Con qual voce, con quali lodi,
celebrerò l’esito della morte,
con quale canto degnamente
potrò cantare la passione?

Egli, primo dei sette uomini
che stanno presso all’altare,
levita di grado eccelso
e ben al di sopra degli altri,

s’occupava del santuario ascoso,
ministrando fidatamente le chiavi
dell’arcano della casa celeste,
e donando ricche offerte.

[…]

Queste parole aveva detto canzonando,
dipoi guardò il cielo,
e sospirando pregò,
commiserando la città di Romolo:

‘O Cristo, unico nome,
o splendore, o virtù del Padre,
o creatore della terra e del cielo,
e fondatore di queste mura,

tu che hai collocato lo scettro di Roma
sopra ogni altro potere, decretando
che il mondo si sottomettesse alla toga di Quirino, e cedesse alle sue armi,

affinché, tra popoli diversi
per costumi, indole,
lingua e culti, tu imponessi
di sottostare a un’unica legge!

Ecco che tutto il genere umano
è venuto sotto il regno di Remo,
la stessa lingua parlano popoli di diverso
costume, e han gli stessi sentimenti.

Fu pure ciò destinato, che la legge
del nome cristiano ancor più
legasse in un sol vincolo
tutto ciò che si trova sulla terra.

Da, o Cristo, ai tuoi Romani,
che sia cristiana la città
per mezzo della quale donasti
alle altre un’unica fede.

Tutte le membra, d’ogni dove,
si riuniscono nel simbolo,
si ammansisce l’orbe sottomesso,
si ammansisca pure la sua suprema capitale.

Guidi i territori a lei legati
a riunirsi in una sola grazia,
sia fedele Romolo,
e pur Numa stesso già creda.

L’error troiano ancor offusca
la curia dei Catoni,
venerando ad altari ascosi
gli esuli penati dei Frigi.

Il senato è devoto a Stercolo
e a Giano Bifronte, provo ribrezzo
nel raccontar gli orrori dei padri
e le feste del vecchio Saturno.

Lava, o Cristo, questa vergogna!
Manda il tuo Gabriele,
perché la cecità di Giulio, ch’è nell’errore,
riconosca il vero Dio.

E già abbiam prove certissime
di questa speranza,
qui infatti già regnano i due
principi degli apostoli,

uno detto delle genti,
l’altro possiede il trono primaziale,
e chiude le porte dell’eternità,
che gli sono affidate.

Vattene, o Giove adultero,
sozzato dallo stupro della sorella,
e lascia libera Roma,
già fuggi dal popolo di Cristo!

Da qui Paolo ti scaccia,
ti bandisce il sangue di Pietro,
ti nuoce ciò che tu stesso hai disposto,
il crimine di Nerone.

Vedo il principe che verrà
un giorno, servitore di Dio,
il qual non permetterà che Roma
si sottometta alle fosche sordidezze del culto,

che serrerà colla spranga i templi,
sprangherà le porte d’avorio,
ripudierà quei nefasti ingressi,
chiuderà i catenacci di bronzo.

Alfine allora i molti marmi
saran splendenti d’ogni sangue,
e pur le statue bronzee, che ora son tenute per idoli, saranno innocue’.

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