martedì 7 agosto 2018

La liturgia romana attraverso il XX secolo – parte I


Introduzione

La presente serie di articoli propone l’analisi storica della liturgia romana nel XX secolo, con opportuni commenti e confronti: il fine è dimostrare che una certa azione di distruzione sistematica della liturgia occidentale ha avuto inizio scientemente e ben prima del 1965, checché molti sprechino fiato nel dire. Prima che i lettori affrontino tale studio, è mia intenzione fare due premesse:
  1. Lo studio delle riforme liturgiche del XX secolo non esaurisce certamente lo studio delle modifiche arbitrarie alla Tradizione occorse in Occidente, perché non affronta quelle problematiche che si erano presentate già prima di tal secolo (la riscrittura poetica degl’Inni del Breviario nel 1638 ad opera di Urbano VIII; la proliferazione di riti votivi degli strumenti e dei momenti della Passione, come conseguenza delle devozioni doloristiche, che ha avuto origine in ambito francescano nel Quattrocento; il disuso dei vetusti riti locali, mai auspicato da Pio V, ma comunque avvenuto alla fine del XVI secolo; l’introduzione di alcune pratiche canoniche pienamente lecite ma contestabili, come l’abolizione della Comunione sotto due specie o l’uso di ‘vestire’ dei preti da diaconi o suddiaconi...)
  2. Nel momento in cui si criticano delle riforme agli usi tradizionali (se lo si fa non per un mero giuoco intellettuale, ma con la volontà di pregare e seguire la liturgia nel modo più fedele a quanto è stato tràdito dalla Chiesa), è necessario coniugare uno zelante attaccamento alla tradizione più antica con la comprensione e il ‘sentire cum Ecclesia’. Certamente l’ideale sarebbe far tornare l’intera chiesa agli usi pre-tridentini, ma occorre trovare un compromesso basato su una seria considerazione della gravità delle riforme e sull’attenzione a non isolarsi troppo. Personalmente, tanto nella recita personale del Breviario, quanto nelle liturgie pubbliche che organizzo o coordino, seguo di preferenza i libri liturgici del 1939, non certo perché ritengo che rappresentino la Tradizione, ma perché riconosco che costituiscono l’ultima forma liturgica romana ancora in continuità con la Tradizione. Utilizzare il Breviario pre-piano o usi liturgici pre-tridentini è a parer mio attualmente impraticabile, poiché la Chiesa (anche quella ‘sana’) da troppo tempo se n’è distaccata perché possiamo impiegarli noi personalmente, a meno che la Chiesa Romana (intendendo la sua piccola parte oggi viva e fedele, ma comunque non pochi singoli) decida di tornarvi. Questo anche perché bisogna contestare TUTTE le riforme, ma, per non scadere nel formalismo e tenere al centro la sostanza, occorre riconoscere quali siano parzialmente accettabili (quelle fino al ’39, o al ’52 al massimo), e quali assolutamente inaccettabili (come quelle del ’55 e del ’62, per non parlare delle successive). Nondimeno, è necessario opporsi fermamente a queste ultime, anche contro certi “tradizionalisti” che si contentano di cose dall’aspetto tradizionale ma sostanzialmente molto lontane dalla Tradizione…

1900-1910: il rito romano della Tradizione mostra le sue crepe

Nel primo decennio del XX secolo siamo sostanzialmente davanti al rito della Tradizione, con poche modifiche non sostanziali, che abbiamo accennato nell’introduzione e che qui non tratteremo. Il rito romano inizia cionondimeno a mostrare alcune crepe, le quali malauguratamente spingeranno gli ‘architetti’, piuttosto che a ripararle, a demolire un pezzo alla volta e ricostruire malamente l’intero edificio liturgico. La scusante che darà origine alle picconate dei demolitori è qualcosa sorto negli ultimi due secoli, particolarmente l’Ottocento, ossia le problematiche di calendario.

E’ necessario premettere che il calendario tradizionale non distingue le solo in modo gerarchico (esiste una distinzione tra doppie di I e II classe, maggiori e minori), ma soprattutto in modo rituale (rito doppio, semidoppio e semplice). Si parla di ‘rito’ perché costituiscono un modo diverso di ordinare la liturgia: le feste semplici hanno solo il I Vespro e tutte le antifone non duplicate; le feste semidoppie hanno I e II Vespro (intero o commemorato) e tutte le antifone non duplicate; le feste doppie hanno i due Vespri e le antifone delle Ore maggiori duplicate.
Nell’uso romano tradizionale, inoltre, tutte le feste doppie e semidoppie hanno nove letture e la salmodia festiva (nove salmi al Mattutino), mentre le feste semplici seguono lo schema feriale, con tre letture e la salmodia del giorno della settimana (dodici salmi al Mattutino). Per di più, qualora siano impedite (cioè ostacolate da un’altra festa), tutte le feste doppie devono essere traslate al giorno libero più vicino.

Anticamente, la scienza liturgica era in grado di scegliere con attenzione quali feste dovessero avere l’onore di essere inserite nel calendario: in massima parte si trattava di martiri, soprattutto romani (testimonianza del carattere urbano del rito), e le feste semplici e semidoppie erano molto più numerose di quelle doppie. Persino santi assai popolari, ma non martiri e relativamente recenti, come S. Antonio da Padova, nel 1570 (anno dell’estensione del Messale secundum consuetudinem Romanæ curiæ all’intero orbe cattolico) non erano inclusi nel calendario romano. La maggior parte dei giorni era caratterizzata dall’ufficio feriale: presto le diocesi però iniziarono a creare i propri calendari, con i santi particolari del territorio, e a riempire alcuni di questi. Si noterà che talune diocesi, specialmente quelle con una tradizione liturgica più viva nel passato (per restare nelle zone di mia competenza, l’Arcidiocesi di Gorizia e il Patriarcato di Venezia, che custodivano l’eredità del rito patriarchino e dei costumi aquilejesi, gradesi e marciani), possedevano dei propri alquanto corposi, tant’è che dovettero più volte essere snelliti.
Col tempo tale scienza venne a mancare, sicché si crearono dei veri e propri ingolfamenti del calendario. La devozione popolare insisteva per aggiungere nuovi santi al calendario: i Papi all’inizio mantenevano l’ideale di una riduzione delle feste (già San Pio V ne eliminò molte), ma la risposta pareva inefficace, soprattutto perché queste puntualmente, come se ne toglieva qualcuna, a furor di popolo essa veniva rimessa da un successore. Sicché, ben presto, s’inizia a inserire una festa nel calendario anche poco dopo la canonizzazione di un santo, giusto per pietà personale del Papa o per la gran devozione popolare. Ma in questo processo si nota la crescente incomprensione tra i liturgisti e la Tradizione
Guardando, ad esempio, i testi del Breviario, si possono riconoscere abbastanza facilmente le feste o gli uffici introdotti dalla seconda metà del XIX secolo in poi, per almeno due caratteristiche:
  • La prima è indubbiamente la prolissità ridondante dei testi. Un’orazione scritta in tempi recenti si nota subito, perché rispetto a quelle più antiche risulterà decisamente più lunga, poco fluida, stilisticamente meno efficace. Al di là dell’impiego sapiente della retorica, che risulta difficile a una società che lentamente abbandona il latino come propria lingua (1), ciò che possiedono le antiche orazioni e che manca alle nuove è la capacità di sintetizzare i molti concetti richiesti dalla festa o dal mistero in poche parole, dense di significato: chiunque abbia dimestichezza con le traduzioni liturgiche, avrà visto che le orazioni più antiche si capiscono al volo, ma stentano a tradursi, proprio per la chiara concisione con cui sono armonicamente scritte. A chi canta la liturgia risulta poi evidente e sgradevole la scarsa musicalità delle nuove orazioni.Discorso pressoché identico avviene per le letture agiografiche del Breviario: le vite dei santi vissuti dopo il Seicento risultano mediamente due-tre volte più lunghe di quelle scritte in passato. Oltre alla scarsa qualità letteraria, viene meno la capacità di fornire un ritratto semplice e icastico, tale da fissarsi nella mente del lettore, e si aggiungono invece sempre più dettagli, spesso secondari. Risulta poi una ridicola autocelebrazione il fatto che il Papa che inserisce una festa nel calendario pretenda che nell’agiografia letta durante il Mattutino s’inserisca la menzione del proprio nome, non diversamente da quanto presero a fare taluni Papi nei sinassari del Martirologio.
  • La seconda è che sarà quasi sicuramente una festa doppia. Infatti, la malaugurata incomprensione dei criteri con cui nei secoli erano stati assegnati i riti alle singole feste, fece sì che praticamente a tutte le nuove feste inserite venisse assegnato il rito doppio. Questo era sicuramente conveniente per la proverbiale pigrizia dei preti (rito doppio significa tre salmi in meno al Mattutino, non dire le preci a Prima e Compieta, non dire i suffragi a Lodi e Vespro, non dire le orazioni del tempo alla Messa, etc.), ma provocò un vero e proprio ingolfamento del calendario, in cui le feste non solo andavano a occupare tutti gli spazi possibili, ma financo si sovrapponevano, causando la traslazione di alcune che potevano andare spostate addirittura di un mese o più.

Stante ciò che si è appena detto, facilmente possiamo comprendere l’origine di due affermazioni del grande liturgista Leon Gromier:
  1. Il rito romano è dominato dal santorale, a danno del temporale. L’esistenza di tutte queste feste doppie faceva sì che l’ufficio feriale scomparisse quasi completamente dalla vita di preghiera del chierico, e con esso i due terzi del salterio. Alcuni salmi, come il 4 (che sta sia nella Compieta quotidiana che nel Mattutino dei confessori), finivano per essere recitati anche due volte al giorno: la maggior parte, invece, che si trovavano nel Mattutino e nei Vespri dell’ufficio feriale, venendo soppiantati dai salmi festivi, finivano per esser detti un paio di volte all’anno, vanificando la concezione antica di recitare l’intero salterio nello spazio di una settimana. Persino le peculiarità liturgiche della Quaresima rischiavano di scomparire, assorbite dall’ingombrante presenza di nuove feste, quasi tutte di rito doppio o semidoppio (e dunque prevalente sulle ferie quaresimali), tra marzo e aprile. Ma indubbiamente ciò che più di ogni altro ne risentiva era il giorno del Signore, ovverosia la domenica, che aveva assegnato dalla tradizione più antica il rito semidoppio (vedi punto 2), ma veniva così puntualmente soppiantata dalle nuove molte feste di rito doppio.
  2. Nel rito romano il rito semidoppio è distribuito più o meno casualmente nelle feste dei santi. Sicuramente guardando un Breviario del 1910 sarà così: santi importanti e venerati da sempre (S. Marta, S. Maria Maddalena, i Quaranta Martiri, ma anche le stesse domeniche dell’anno etc.) risultano di grado semidoppio, mentre i santi degli ultimi due secoli, anche secondari o poco conosciuti, risultano tutti di rito doppio. Questo accade perché i primi mantengono la sapiente classificazione antica, che, come ci risulta evidente studiando i Messali medievali, riservava il rito doppio alle feste più importanti dell’anno (Apostoli, Beata Vergine e precipui santi locali), mentre i secondi risentono della scriteriata “duplicazione selvaggia” dei secoli più recenti.

E’ proprio con questi pesanti problemi da risolvere che si presenta il rito romano nelle mani di Leone XIII, il quale applica una timida riforma, che tuttavia dà inizio al processo di revisione generale delle rubriche del Breviario. Si tratta semplicemente di modificare il sistema della traslazione: d’ora in avanti le feste doppie impedite saranno semplicemente commemorate, e non traslate. Sicuramente questo cambiamento fa bene al calendario, che si snellisce e si semplifica, ma al contempo non risolve i problemi principali (le feste doppie, pur non traslandosi più, restano al loro posto, danneggiando il temporale). Studiando questa riforma possiamo tuttavia comprendere in buona sostanza il metodo profondamente sbagliato e dannoso che sarà applicato d’ora in poi da tutti i Pontefici e i riformatori liturgici, più o meno in buona fede: quando si manifesta un problema (in questo caso, la sovrabbondanza di feste doppie), anziché risolverlo con un ritorno alle pristine usanze (soppressione di alcune feste meno significative; ridistribuzione dei riti secondo l’importanza delle feste, portando la maggior parte dei ‘nuovi doppi’ a semidoppi o spesso anche a semplici), si preferisce demolire e ricostruire daccapo in modo originale un pezzo dell’edificio liturgico tradizionale (in questo caso, solo la tabella delle precedenze, ma presto si toccherà ben altro).
La prevalente logica dei demolitori-ricostruttori sarà la fonte dei danni più gravi alla tradizione latina, che in molti punti può dirsi veramente riscritta da zero in questo secolo infausto.

(1) Si riesce a distinguere facilmente un testo ecclesiastico che impiega una prosa latina paragonabile ai modelli classici e medievali, da quelli che risultano invece grumosi concentrati di traduzioni dalla propria lingua in latino (chiunque può pensare un’espressione in volgare e tradurla parola per parola in latino, ma questo non significa affatto conoscere la lingua, perché pregiudica l’uso delle strutture e dello stile proprio di essa). Attorno alla metà del XVIII secolo, la produzione latina ecclesiastica smette per la sua quasi totalità di potersi ascrivere alla prima categoria.

5 commenti:

  1. "L'ideale sarebbe far tornare l'intera Chiesa agli usi pre-tridentini": e perché?
    La Tradizione non è fossilizzarsi.
    Vogliamo tornare anche alle penitenze pubbliche? Ai catecumeni che stanno fuori della chiesa? Ai battesimi per immersione?
    O magari vogliamo tornare all'Impero Romano di Oriente e di Occidente?
    "Devozioni doloristiche": e perché?
    Vogliamo parlare del trionfalismo? Vogliamo criticare san Francesco (che i greci ortodossi rispettano, ma forse lei non lo sa) solo perché venerava "l'Amore che non è amato" e ha ricevuto le stimmate?
    Questo articolo sembra l'ennesima dimostrazione di come certi "cristiani" pensino più a spaccare la Chiesa credendosi perfetti che a combattere un mondo materialista e ateo. Che poi questi sedicenti "cristiani" siano "tradizionalisti" o "progressisti" poco conta. Quand'è che invece ci sottoporrà una bella polemica contro, che so, Melloni? O magari Melloni va bene perché crede che gli unici concili ecumenici siano quelli pre anno 1000?

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    1. La Tradizione è serbare quanto è stato tràdito dagli Apostoli e dalla Chiesa primitiva. Io sono favorevole personalmente alla penitenza pubblica, al non ammettere i catecumeni e gl'infedeli alla parte sacrificale della Liturgia e al battesimo per immersione.

      Sul dolorismo la rimando qui: http://traditioliturgica.blogspot.com/2015/04/approccio-psicologico-o-spirituale-cosa.html
      Per quanto riguarda San Francesco, io ne ho piena devozione (come ne hanno effettivamente i Greci che, nonostante i suoi polemici incisi, conosco probabilmente meglio di molti altri). Notare che io parlo di "ambito francescano" e del "Quattrocento", perché lì si svilupparono queste devozioni, non per colpa di San Francesco ma nonostante San Francesco, che aveva viceversa una spiritualità molto vicina a quella bizantina (la rimando qui: http://www.academia.edu/12206198/Francesco_d_Assisi_e_la_tradizione_ascetica_ortodossa_alcune_fondamentali_convergenze).

      Né mi credo perfetto (perché assolutamente non lo sono), né ho alcun desiderio di spaccare la Chiesa, e penso che anche lo stesso articolo in certuni punti lo dimostri.

      Mi sono documentato su questo Melloni (che non conoscevo), e se ci tiene tanto potrò scrivere qualcosa anche sulle sue eterodosse posizioni. Ma, la prego, se non le piace assolutamente nulla di quello che scrivo, faccia a meno di leggermi, e mi risparmi il tempo che impiego ogni volta a risponderle!

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    2. A proposito: e con le riforme del patriarca Nikon, come la mettiamo? Dobbiamo diventare tutti "vecchi credenti"? E con l'autocefalia? Va bene o no? E' apostolica o no?
      Beh,se non sa chi sia Melloni, che posso dire: mi sembra che tutta la sua erudizione sia inutile, se poi non conosce nemmeno uno dei principali storici del Cristianesimo (che poi sia un personaggio nefasto, è un altro paio di maniche). Evidentemente non frequenta studi storico-religiosi di taglio universitario: il che vanifica tutta la sua erudizione.
      Certo che deve leggere Melloni e confutarlo! Forza!
      Guardi che la pretesa di ritornare alla fase iniziale della Chiesa, oltre a essere "archeologismo" (infatti si basa su ricostruzioni libresche, non certo sulla tradizione viva), è il classico pretesto di tutti i sedicenti "riformatori" (anche i cosiddetti "evangelici", che ovviamente sono all'opposto degli Ortodossi, pretendono di essere tornati alle origini della Chiesa). E collide chiaramente con le parole di san Paolo sul capire le cose da bambini e poi da adulti (parole purtroppo sfruttate a sproposito dai cosiddetti "cattolici adulti", ma questo è un altro paio di maniche).

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  2. Sulle riforme del Patriarca Nikon il discorso è complesso. Erano un ritorno agli usi originari che si erano corrotti in Russia? Oppure erano stravolgimenti dei costumi primitivi (per le icone in rilievo, sono quasi sicuro fossero da sempre usate)? Resta il fatto che -avesse ragione Nikon o Avvakum- è una delle pagine più buie della storia dell'Ortodossia.

    Guardi che l'ho detto subito che è impensabile di ritornare ai costumi antichi (e non dico quelli di epoca apostolica, di cui abbiamo effettivamente solo letteratura, ma quelli medievali). Occorre però distinguere le riforme che mantengono lo spirito della tradizione (fino al '39/'52) da quelle che lo sovvertono.

    L'autocefalia, che secondo me è un aspetto del tutto artificiale e politico, rientra comunque nell'ambito della gerarchia e della legge canonica, su cui non mi esprimo perchè non è mio campo.

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  3. Salve,
    complimenti per lo studio molto interessante!
    Come la teologia va fatta "in ginocchio", pregando e ispirati dallo Spirito Santo, così dovrebbe essere anche per la liturgia. Forse ciò che è andato storto è stato il razionalismo e l'orgoglio di confidare nelle proprie capacità…
    Quando il futuro si riformerà il rito nuovo sulla tradizione (quando tutti i modernisti saranno tutti diventati atei, il 'resto' dei fedeli cattolici ne sentirà la necessità) non avremo certo un ritorno in 'blocco' al '39, '52 o '62… ma avremo un ritorno alla forma tradizionale (quello che è detto comunemente 'rito antico' anche se sarà datato al 2048), cioè l'insieme di canti, arte, preghiera, ecc. finalizzati alla Gloria di Dio e non alla "festa della comunità".
    Preghiamo che ciò avvenga quanto prima per la maggior Gloria di Dio e la salvezza delle anime, che è ciò che conta.

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