Insieme a San Benedetto, si può sicuramente asserire che colui che giocò il ruolo maggiore nella diffusione del monachesimo, tanto Orientale quanto Occidentale, fu San Basilio, di cui oggi ricorre la memoria.
Convinto sostenitore del monachesimo cenobitico e della necessità che il monaco fosse sacerdote, egli fondò numerosi monasteri e stese quattro regole (Morales, fusius tractatae, brevius tractatae, ad monachos), seguite poi da molti cenobi. Troviamo monasteri basiliani anche in Salento, dove s'impiantarono sfuggendo alle persecuzioni iconoclaste di Leone VII Isaurico nel VIII secolo. La presenza tutt'oggi di questo monachesimo bizantino anche in Italia è uno dei segni più evidenti dello stretto legame intercorrente tra Oriente e Occidente cristiani. Nella chiesa rupestre materana di S. Maria di Hydris, per esempio, sono raffigurati vicini santi orientali e occidentali dei primi secoli, i cui attributi però (vesti liturgiche, modo di benedire, etc.) sono sovente scambiati tra loro, fondendoli in un unico armonico contesto. Nella città dei sassi sono molte le influenze reciproche tra Oriente e Occidente che si possono notare: come l'immagine tipicamente orientale della Glykophilousa, che ricorre anche in quelle chiese rupestri che facevano parte di complessi monastici latini.
Tornando alla regola basiliana, delle quattro che egli compose, la prima è generale (indica i precetti morali per chiunque) e la quarta riassuntiva: il nucleo principale delle istruzioni per il monaco si trovano nelle Regole fusius tractatae (55 articoli di ordine morale ed etico) e nelle Regole brevius tractatae, che spiegano invece come debba comportarsi il monaco di fronte a determinate situazioni: vogliamo proporre di seguito qualche estratto dalle sue regole, senza certo alcuna pretesa di completezza (vogliamo esortare anzi a leggere questi testi veramente edificanti e fruttuosi dal punto di vista spirituale), ma inducendo a un leggero confronto con la "nuova morale", mondana e moderna.
Dalle Regulae brevius tractatae
DOMANDA 4: Se qualcuno anche per piccoli peccati mette in angustia i fratelli dicendo: «Dovete fare penitenza», non è forse egli stesso senza misericordia e non distrugge forse la carità?
RISPOSTA: Poiché il Signore ha affermato con forza: Né uno iota né un apice della legge passerà prima che tutto si compia (Mt 5,18), e ha dichiarato: Gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio di ogni parola oziosa che avranno detto (Mt 12,36), non possiamo disprezzare nulla, quasi fosse piccola cosa. È detto: Chi disprezza una cosa, sarà da essa disprezzato (Pr 13,13).
E ancora, quale peccato si oserà chiamare piccolo quando l’Apostolo ha dichiarato: Trasgredendo la legge, insulti Dio? (Rm 2,23)
Se poi il pungolo della morte è il peccato, non questo o quello, ma evidentemente in modo indeterminato ogni peccato, allora è senza misericordia chi tace, non chi riprende: così come è senza misericordia chi lascia il veleno in qualcuno che sia stato morso da una bestia velenosa, non quello che lo toglie. È questi che distrugge la carità. Sta infatti scritto: Chi risparmia il bastone, odia suo figlio; chi ama, ha cura di castigare (Pr 13,24).
DOMANDA 23: Quali parole rendono un discorso «ozioso»?
RISPOSTA: In generale, ogni parola che non contribuisca all’adempimento di ciò che è nostro dovere nel Signore, è oziosa.
E tale è il pericolo di una simile parola che, quand’anche sia bene ciò che si dice, e non sia tuttavia ordinato all’edificazione della fede, chi ha parlato non è affatto al sicuro a motivo della bontà del suo discorso, ma anzi, per non aver ordinato il suo parlare all’edificazione, egli rattrista lo Spirito Santo di Dio.
L’Apostolo ha insegnato chiaramente questo dicendo: Non esca dalla vostra bocca nessuna parola viziosa, ma piuttosto ogni parola buona per l’edificazione della fede, per dare grazia a chi ascolta (Ef 4,29); e aggiunge: E non contristate lo Spirito Santo di Dio; nel quale siete stati sigillati (Ef 4,30).
E c’è forse bisogno di dire quale grande male sia il contristare lo Spirito Santo di Dio?
DOMANDA 43: In che modo bisogna dar retta a chi sveglia per la preghiera?
RISPOSTA: Se qualcuno riconosce il danno che viene dal sonno — poiché in esso l’anima non ha neppure percezione di se stessa — e conosce invece il guadagno della veglia e soprattutto la gloria sovreminente dell’avvicinarsi a Dio per la preghiera, darà retta a chi sveglia — sia per la preghiera che per qualsiasi altra ubbidienza — come a un uomo che gli fa benefici grandi e superiori a ogni desiderio.
DOMANDA 301: E se uno dice: «La mia coscienza non mi accusa»?
RISPOSTA: Ciò accade anche per i mali del corpo. Ci sono molti mali che non vengono percepiti dai malati: e tuttavia essi credono più all’esame dei medici di quanto non badino alla propria insensibilità. Allo stesso modo avviene per i mali dell’anima, cioè per i peccati: anche se uno non si accusa da se, perché non si accorge del peccato, deve tuttavia credere a quelli che possono vedere meglio di lui ciò che lo riguarda. E questo ce lo hanno mostrato i santi apostoli quando, pur essendo pienamente certi della propria sincera disposizione d’animo nei confronti del Signore, tuttavia, nel sentir dire: Uno di voi mi tradirà (Mt 26,21), credettero piuttosto alla parola del Signore e domandavano tutti: Sono forse io, Signore? (Mt 26,22) Più chiaramente ancora ci ammaestra il santo Pietro che, con ardente umiltà, ricusava il servizio che gli rendeva il Signore e Dio e maestro, ma, pienamente certo della verità delle parole del Signore, quando si sentì dire: Se non ti lavo, non hai parte con me, disse: Signore, non i piedi soltanto, ma anche le mani e la testa (Gv 13,8-9).
DOMANDA 302: Bisogna prelevare qualcosa dalla cassa per darlo ai bisognosi di quelli «di fuori»?
RISPOSTA: Il Signore ha detto: Non sono stato mandato che per le pecore perdute della casa d’Israele (Mt 15,24), e: Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini (Mt 15,26). Dunque, non è necessario prendere ciò che è stato preparato per coloro che sono consacrati a Dio e consumarlo per chiunque.
Se si dà però la possibilità che si realizzi la parola detta dalla donna lodata per la sua fede, cioè: Sì, Signore, e infatti i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro signori (Mt 15,27), allora la cosa è lasciata al giudizio dell’economo, col comune consenso di coloro che, dopo di lui, hanno un’autorità. Questo perche, dalla sua sovrabbondanza, il sole sorga sui cattivi e sui buoni, come sta scritto (Mt 5,45).
Dalle Regulae fusius tractatae
DOMANDA 6: Della necessità di vivere nella solitudine
R.: Per aiutare l’anima a concentrarsi, occorre abitare nella solitudine.
È pericoloso, infatti, rimanere fra quelli che vivono senza alcun timore di Dio e disdegnano di osservare perfettamente i suoi comandamenti. Salomone ce lo insegna dicendo: “Non ti associare a un collerico e non praticare un uomo iracondo, per non abituarti alle sue maniere e procurarti una trappola per la tua vita” (Pr 22,24-25); ugualmente dice l'Apostolo: “Perciò uscite di mezzo a loro e separatevi, dice il Signore” (2 Cor 6,17).
Se temiamo di essere tentati dagli occhi e dagli orecchi, e di abituarci lentamente al peccato, se temiamo per la nostra anima il pericolo mortale che ci sarebbe conservando nella memoria le cose viste o le parole udite, se vogliamo inoltre perseverare nella preghiera continua, cominciamo per prendere la decisione di abitare in solitudine.
Così riusciremo, forse, a sfuggire all’abitudine presa di vivere come stranieri ai comandamenti di Cristo: e non è sufficiente un tenue lotta per vincere una pratica rafforzata dal tempo. Forse anche arriveremo a cancellare le tracce del peccato, grazie ad una preghiera instancabile e la meditazione dei comandamenti divini, preghiera e meditazione alle quali è impossibile dedicarsi in mezzo alla folla, fonte di molteplici distrazioni e di preoccupazioni temporali.
E la parola di Cristo: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso” (Lc 9,23), chi potrebbe mai osservarla pur restando fra loro? Poiché è rinunciando a noi stessi e prendendo la croce di Cristo che dobbiamo seguirlo.
Ma la rinuncia è la dimenticanza completa delle cose temporanee ed il sacrificio della propria volontà, sacrificio molto difficile, per non dire del tutto impossibile a chi vive tra gli uomini.
Prendere la propria croce e seguire Cristo è anche una cosa difficile in un mondo così confuso. Poiché prepararsi a morire per Cristo, essere mortificato, come conviene alle membra sulla terra, essere pronto a resistere agli attacchi lanciati contro di noi a causa del nome di Cristo, conservarsi distaccati della vita presente: in questo consiste prendere la propria croce, ma vi troviamo molti ostacoli, se perseveriamo nella vita ordinaria.
Tra le tante cose anche ciò: quando l’anima ha sotto gli occhi la massa dei peccatori, non trova più l'occasione di osservare i propri peccati, né di fare penitenza, nel pentimento, per le sue mancanze. Essa si paragona ai più grandi colpevoli e si immagina di avere della virtù. In seguito, sottratta dalle difficoltà e dalle preoccupazioni della vita ordinaria ad un pensiero molto più degno: quello di Dio. Ed essa così perde, con la gioia e l’allegria spirituale, la felicità di gradire le delizie del Signore e gustare la dolcezza delle sue parole. Non potrà più dire: “Mi sono ricordato del Signore e sono stato nella gioia” (Sal 76,4), e neanche: “Come sono dolci le tue parole al mio palato, sono per la mia bocca preferibili al miele” (Sal 118, 103). Infine si abitua a disprezzare completamente i giudizi divini, e, per essa, nulla di più triste né di più disastroso!
DOMANDA 8 Della rinuncia. Occorre in primo luogo rinunciare a tutto prima di dedicarsi in quel modo a Dio?
R. - Il nostro Signore Gesù Cristo ha spesso insistito vivamente: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinunci sé stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24), ed ancora: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14,33). Ci sembra dunque esigere la rinuncia più completa.
Certamente, abbiamo rinunciato soprattutto al demonio ed alle passioni della carne, noi che abbiamo respinto i peccati nascosti, le parentele di sangue, le frequentazioni umane ed ogni pratica di vita in contraddizione con la pratica perfetta e salutare del Vangelo.
E, cosa più necessaria ancora, è a sé stesso che rinuncia colui che “si è svestito dell’uomo vecchio con le sue azioni” (Col 3,9), di quell’uomo vecchio che “si corrompe seguendo le passioni ingannevoli” (Ef 4,22). Egli rifiuta dunque tutte le affezioni mondane capaci di mettere ostacolo alla perfezione che prosegue, considera come suoi genitori veri coloro che l’hanno generato in Cristo con il Vangelo (1 Cor 4,15), e come fratelli coloro che hanno ricevuto lo stesso Spirito d'adozione. Infine, considera le ricchezze come cosa estranea a lui, come in realtà lo sono.
In una parola, come potrebbe ancora entrare nelle preoccupazioni mondane colui che dice, seguendo l’Apostolo: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo”? (Gal 6,14). Poiché Cristo ha voluto fino all'estremo il disprezzo della sua vita e la rinuncia a sé, quando ha detto: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce”, aggiungendo: “e mi segua”, (Mt.16, 24) ed ancora: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26).
La rinuncia completa consiste dunque nel non tenere più alla vita, ma considerasi sempre come condannati a morte, in modo da non confidare più su di sé (2 Cor 1,9).
Si comincia con l'abbandono delle cose esteriori, come le ricchezze, la vanagloria, la compagnia degli uomini, l'attrazione delle cose inutili.
È di ciò che ci hanno dato l'esempio i santi apostoli di Cristo: Giacomo e Giovanni che lasciano loro padre Zebedeo e anche la loro barca con cui guadagnavano da vivere; Matteo, che si alza del suo banco da gabelliere per seguire Gesù, non soltanto a scapito dei suoi interessi, ma ancora a dispetto delle sanzioni che incombevano su di lui e sui suoi parenti da parte dei magistrati, perché lasciava indebitamente incompiuta la riscossione delle imposte. Quanto a Paolo, il mondo era crocifisso per lui, e lui lo era al mondo (Gal 6,14).
Così colui che è animato da un desiderio imperioso di seguire Cristo non può tenere più conto di nulla in questa vita: né degli affetti verso genitori ed amici, nel momento in cui questi si oppongono ai precetti del Signore, poiché è allora che si applicano le parole: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, ecc …” (Lc 14,26); né del timore degli uomini, quando questo lo induce a deviare dal vero bene, come l’hanno fatto eccellentemente i Santi che hanno detto: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (At 5,29); né infine delle prese in giro con i cui cattivi affliggono i buoni, poiché non occorre lasciarsi vincere dal disprezzo.
Se si vuole conoscere più esattamente e più chiaramente con quale ardore amavano Cristo coloro che lo seguirono, ci si ricordi di ciò che l'Apostolo disse parlando di sé stesso per istruirci: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo” (Fil 3,4-8).
In realtà - parlando con audacia, ma anche con verità - se è ai peggiori rifiuti del corpo, a ciò che noi rigettiamo con disprezzo e da cui ci allontaniamo con premura, che san Paolo paragona perfino i vantaggi accordati per un certo tempo alla Legge, se diventano ostacoli alla conoscenza di Cristo, alla giustizia in lui ed alla trasformazione nella sua morte, che dire di ciò che è stato stabilito dagli uomini?
Ma che bisogno c’è di appoggiarci alle nostre argomentazioni o agli esempi dei santi? Possiamo citare le affermazioni del Signore stesso e con esse confondere l’anima timorosa, poiché egli parla chiaramente e senza possibile contraddizione: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo, dice “ (Lc 14,33). Ed altrove: “Se vuoi essere perfetto …”, quindi continua: “Va’, vendi tutto quello che possiedi, dallo ai poveri …”, dopo di ché aggiunge: “e vieni! Seguimi!” (Mt 19,21).
Per chi sa comprendere, la parabola del mercante vuole ovviamente significare la stessa cosa: “Il regno dei cieli, dice Gesù, è simile ad un mercante che va in cerca di pietre preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti suoi averi e la compra” (Mt 13, 45-46).
La pietra preziosa designa indubbiamente qui il regno dei Cieli, ed il Signore ci mostra che è impossibile ottenerlo, se non abbandoniamo tutto ciò che possediamo: ricchezza, gloria, nobiltà di nascita e tutto ciò che tanti altri ricercano avidamente.
Il Signore lo ha dichiarato, è del resto impossibile occuparsi adeguatamente di ciò che si fa, quando lo spirito è sollecitato da oggetti diversi: “Nessuno può servire due padroni” (Mt 6,24), ha detto, ed ancora: “Non potete servire Dio e la ricchezza” (Mt 6,24).
È per questo che il tesoro che è nel cielo è il solo che possiamo scegliere a cui unire il nostro cuore: “Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,21) Se ci riserviamo dunque dei beni terrestri o delle ricchezze caduche, il nostro spirito vi rimane nascosto come nel fango ed il nostro cuore resta incapace di contemplare Dio; diventa insensibile ai desideri degli splendori celesti e dei beni che ci sono promessi. Ma, questi beni, possiamo ottenerli soltanto se un'ardente aspirazione ci porta a richiederli incessantemente e ci rende leggero lo sforzo per raggiungerli.
Praticare la rinuncia è dunque, lo abbiamo mostrato, affrancarsi dei legami di questa vita terrestre e momentanea, e liberarsi dagli eventi umani, per essere più in grado di andare nella via che conduce a Dio. È liberarsi dagli ostacoli per potere possedere ed utilizzare di questi beni più pregevoli di cui è detto: “più preziosi dell’oro, di molto oro fino” (Sal 18,11).
Riassumendo, significa trasportare il cuore umano nella vita del cielo, in modo che si possa dire: “La nostra cittadinanza infatti è nei cieli” (Fil 3,20), e soprattutto è iniziare ad assimilarci a Cristo, che si è fatto povero per noi, da “ricco” che era (2 Co 8,9), ed a cui dobbiamo somigliare se vogliamo vivere conformemente al Vangelo.
Quando dunque potremo avere la contrizione del cuore e l'umiltà dello spirito, o affrancarci dalla collera, dalla tristezza, delle preoccupazioni e, insomma, da tutte le dannose passioni del cuore, se restiamo nell'ambito delle ricchezze e delle preoccupazioni della vita che sono in relazione con le antecedenti passioni?
In breve, perché colui che non vuole neppure mettersi in pena per il necessario, come gli alimenti e l'abito, si lascerebbe trattenere dalle maligne preoccupazioni della ricchezza, come spine che verrebbero ad ostacolare la produttività del seme che il seminatore divino getta nelle nostre anime? Poiché il Signore ha detto: “(Il seme) caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione” (Lc 8,14).
DOMANDA 17: Occorre moderarsi anche nel ridere
R. - Ecco un punto molto trascurato e tuttavia ben degno di una speciale attenzione da parte di quelli che praticano l'ascetismo.
Consegnarsi al riso rumoroso e smodato è un segno d'intemperanza e prova che non si è capaci di controllare se stessi, né di reprimere la frivolezza del cuore con la santa ragione. Non è sconveniente mostrare l'illuminarsi di gioia dell’anima con un allegro sorriso, come indica questo proverbio della Scrittura: “Un cuore lieto dà serenità al volto” (Pr 15,13), ma scoppiare dalle risa e scuotere il corpo suo malgrado, non è di chi ha un cuore tranquillo, sicuro o padrone di sé stesso.
Questo genere di riso, L’Ecclesiaste lo rifiuta anche come se fosse il grande avversario della stabilità dell’anima: “Del riso ho detto: «Follia!»” (Qo 2,2), e: “perché quale il crepitio dei pruni (che ardono) sotto la pentola tale è il riso degli stolti.” (Qo 7,6).
Il Signore stesso ha voluto provare tutte le sensazioni inseparabili dalla natura umana e mostrare la sua virtù quale esempio nella fatica o nella compassione verso gli infelici ma, come la attestano i resoconti evangelici, non ha mai ceduto al riso; invece egli deplora quelli che ridono. (Lc 6,25).
Non lasciamoci tuttavia fuorviare dall'equivoco, poiché la Scrittura chiama spesso ridere la gioia del cuore ed il piacere causato da diverse specie di beni; così esclama Sara: “Motivo di lieto riso mi ha dato Dio” (Gn 21,6), di stesso Gesù detto: “Beati voi, che ora piangete, perché riderete” (Lc 6,21), e Giobbe: “Colmerà di nuovo la tua bocca di sorriso” (Gb 8,21). Tutte queste espressioni riguardano la gioia che si fonda sulla contentezza dell’anima.
Se qualcuno è dunque al di sopra delle passioni, non subisce l'attrazione del piacere, o almeno non gli cede, ma si domina con fermezza in presenza di ogni piacere nocivo, costui si controlla perfettamente, ed è evidente che comportandosi così si allontanerà da ogni peccato. Vi sono delle circostanze in cui occorre astenersi dalle cose permesse e necessarie alla vita, ed è così quando l'interesse di un fratello lo richiede, come dice l'Apostolo: “Se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne (Ndt: qui sta parlando della carne consacrata agli idoli)” (1 Cor 8,13). Egli aveva la facoltà di vivere del Vangelo (Ndt: ovvero delle ricompense dovute a chi predica il Vangelo), ma non ne fece uso per la paura di ostacolare questo stesso Vangelo di Cristo. (1 Cor 9,12).
La temperanza è la distruzione del peccato, l’annullamento delle passioni, la mortificazione del corpo, fino nelle sue voglie ed nei suoi desideri, il principio della vita spirituale e l'impegno verso i beni eterni, poiché spezza in sé stessa lo stimolo del piacere. Il piacere è, infatti, la grande esca del male che rende noi uomini così propensi al peccato e dal quale ogni anima è attirata verso la morte come da un amo. Non facendosi indebolire da esso, né curvare sotto il suo giogo si sfugge, grazie alla temperanza, ad ogni peccato. Tuttavia se, dopo essergli sfuggiti nella maggior parte delle occasioni, gli si cede, fosse anche per una sola volta, non si è temperanti, così come non è in buona salute colui che è colpito da una sola malattia e così come non è libero colui che è dominato da un solo padrone ed anche per una sola volta.
Le altre virtù, perché si esercitano nel segreto dell’anima, appaiono poco agli occhi degli uomini, mentre chi possiede la temperanza è riconosciuto subito da quelli che incontra. Così come la corpulenza ed i bei colori caratterizzano l'atleta, così la magrezza ed il pallore che derivano dalle privazioni fanno riconoscere il cristiano poiché, essendo atleta di Cristo, è nell'indebolimento del corpo che vince il suo nemico e mostra fin dove può sostenere i combattimenti spirituali, secondo queste parole: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12,10).
Quanto è utile il solo vedere la condotta del temperante! Non appena usufruisce, ed in piccole dosi, di ciò che è necessario, si alza rapidamente da tavola per affrettarsi al lavoro, come per rendere alla natura un servizio che gli pesa e crucciandosi del troppo tempo che vi occorre dedicare. Credo proprio che nessun discorso potrebbe toccare il cuore di chi è schiavo del suo ventre e portarlo a convertirsi, quanto un solo incontro con chi è temperante.
Ecco, mi sembra, ciò che vuole dire mangiare e bere per la gloria di Dio: significa fare in modo che, anche a tavola, le nostre buone azioni risplendano per glorificare nostro Padre, che è nei cieli.
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