Paolo Uccello, Tebaide, 1460 circa |
Vidi a poco a poco in quelli santi cose veramente utili e degne d'essere manifestate, cioè fraternitade secondo Iddio adunata e legata in carità, nelli quali era mirabile operazione, e contemplazione, li quali così avevano cura l'uno dell'altro nelli esercizii e profitti spirituali, che quasi non abbisognavano d'essere sollicitati dal prelato, ma spontaneamente alla vigilia divina erano sollicitati l'uno dall'altro; ed era fra loro alcuni modi ed ordinamenti pensati e fermati da loro medesimi, molto a Dio piacevoli; che cominciato a dire male d'altrui, giudicare, o condannare, o fare parlari oziosi, l'altro frate gli facea segno celato col volto, e facealo cessare da quello difetto, reducendolo alla memoria per quel sgno; e se per quel segno non si risentiva, quel frate che gl'avea fatto quel segno, andava ed iginocchiavas dinanzi a lui, dicendo sua colpa, e partivasi, acciò che per questo segno s'avvedesse del suo difetto. Ed anco aveano questa usanza, che sempre parlavano di cose utili, e di cose per le quali ricordassono della morte e del giudizio eternale. E non tacer della chiara perfezione del cuoco di quel monasterio, chè io viddi, e facendo egli il servigio che a lui s'appartenea, avea continui pianti e compunzione di cuore; ed io lo pregai che mi dicesse, come questa grazia avesse ricevuta da Dio, ed essendo sforzato da me, rispose così: "Io giammai non pensai di servire a uomini, ma a Dio, e sempre mi sono chiamato e reputato indegno della quiete e del riposo; e questa visione del fuoco sempre mi fa avere memoria della fiamma dello 'nferno".
Veggiamo un'altra perfezione di quelli santi, che sedendo a mensa, non cessavano dall'operazioni mentali ma con certi modi e segni ed atti ammonivano sé medesimi secondo l'anima, riducendosi a memoria la morte; e questo non solamente faceano alla mensa, ma dovunque si scontravano o s'adunavano. Anche più: se alcuno di que' frati avesse fallato in alcuna cosa, alcuni frati lo pregavano che la sollecitudine di satisfare all'abate di quello difetto lasciasse a loro, ed eglino ne voleano ricevere la correzione dall'abate, e così si facea: e però l'abate, sapiendo questo modo de' suoi discepoli, faceva più leggieri reprensioni, sapendo che colui, il quale riprendea, non avea colpa, e non si curava di sapere il principale, che avea commessa l'offesa.
Quando tra loro fosse stato parlare ozioso, o memoria d'alcuna cosa da fare ridere, o che alcuno avesse cominciato a litigare col prossimo, veniva l'altro frate ed intrava tra loro, e inginocchiandosi in terra, dicea sua colpa, ed in questo modo dissipava l'ira e la lite; ma se alcuno v'era, che volesse pur litigare o vindicarsi delle parole ricevute, incontanente si dinunziava a colui ch'era invece in vece dell'abate, ed egli gli facea riconciliare insieme anzi che'l sole tramontasse; e se alcuno si fosse indurato, ricevea questa correzione, che egli non mangiava se prima non era riconciliato, o elli era cacciato dal monasterio; e questo modo non era vano ed inutile, anzi faceva molto frutto appo quelli santi manifestamente. Molti attivi e contemplativi ci furono trovati, e conoscitori dello stato dell'anime ed umili; ed era cosa mirabile e degna d'essere contemplata dagli angeli, vedre uomini canuti e degni d'avere in reverenzia, belli per santità, a modo di parvoli correre a fare l'obedienzia, li quali si riputavano a grande gloria la propria umilitade, cioè di fare li vili servigi.
Vidi in quello monasterio di quelli, ch'erano stati da cinquanta anni nella obedienzia, li quali pregai che mi dicesseno, che consolazioni aveano ricevuti di tante fatiche: de' quali alcuni mi dissono ch'erano entrati nell'abisso della umiltà, per la quale ogni battaglia potentemente discacciavano da sé. Alcuni altri mi dissono ch'erano posti in tanta tranquillità, che non sentivano né pena né dolore di male che a loro fosse ditto, né di contumelia che a loro fatta fosse.
Vidi alcuni di quelli santi, degni d'essere sempre avuti in memoria, che dopo quella conversazione quasi angelica e quella canutezza venerabile, furono condutti a profondissima sapienzia e simplicità ed innocenzia e deliberazione, drittamente a Dio volontaria e non infingarda, i quali non erano coe li vecchi del mondo, i quali sono chiamati ritrosi e scimoniti, che avessono neuno parlamento né costume non ragionevole, né men che savio, né infinito, né pigro; ma tutti di fuori erano mansueti ed allegri, la qual cosa leggiermente non si trova in molti, e dentro nell'anima a Gesù Cristo Iddio loro ed al pastore loro quasi simplici ed innocenti parvoli ragguardanti, e contra alle demonia ed alli vizii aveano l'occhio della mente non confuso, ma fermo e terribile.
S. Giovanni Climaco, La Scala del Paradiso, volgarizzazione del testo latino di frate Agnolo de' Minori (inizio XIV secolo). Testo di lingua corretto su antichi codici mms. per Antonio Cerruti (1830-1918) dottore dell'Ambrosiana.
Purtroppo il testo è in un fiorentino del Trecento, abbastanza semplice rispetto alla lingua d'un Dante o di altri prosatori contemporanei, ma comunque non immediato né scorrevole. Purtroppo è l'unica traduzione italiana liberamente accessibile.
RispondiEliminaPotrei certo tradurre ex novo il testo greco in un Italiano meno arcaico, ma il lavoro richiederebbe molto tempo.