La II domenica di Quaresima nella liturgia romana è caratterizzata dal Vangelo della Trasfigurazione di Nostro Signore secondo S. Matteo. Potrebbe a prima vista apparire strano che la narrazione di un avvenimento così glorioso quale la manifestazione della Divinità del Redentore sul Tabor venga letta durante il periodo di penitenza e digiuno che prepara alla Pasqua. Nondimeno, vi sono svariate ragioni, sia di ordine storico-simbolico che di ordine spirituale, che giustificano questa sapiente e ponderata scelta dei Padri.
I. Ragioni storico-simboliche
Anticamente, questo era l'unico giorno in cui a Roma veniva cantato il Vangelo della Trasfigurazione: la festa del 6 agosto nasce infatti in Oriente attorno al VII secolo e non approda nell'Urbe prima di Papa Callisto III, nel 1457 (ancorché in taluni usi monastici e locali occidentali fosse entrata già dal X secolo). Perché proprio la II domenica di Quaresima? Una spiegazione, poco plausibile ancorché assai diffusa tra i liturgisti in passato, era la stazione a S. Pietro del sabato antecedente, ove si officiava una veglia notturna (pannychìs), conferendo i Sacri Ordini e celebrando dipoi la messa della domenica seguente (ancor oggi, pur essendosi il sabato "delle Tempora" dotato di una messa a sé stante, mantiene lo stesso Vangelo della domenica): "Chi più dell'apostolo - scrive lo Schuster - fu testimone di quella teofania?" E qual giorno migliore dunque per commemorarla che il giorno in cui si celebra il Divin Sacrificio sulla sua tomba?
Tuttavia v'è un'altra spiegazione, più convincente. Secondo la tradizione, confortata dalla cronotassi degli eventi evangelici, l'episodio della Metamorfosi del Signore sarebbe avvenuto quaranta giorni prima della sua Passione, e vi sarebbe perciò intimamente legato. La II domenica di Quaresima era dunque una data abbastanza plausibile, essendo il Venerdì Santo il giorno della Passione. Peraltro, per lo stesso motivo in Oriente la festa iniziò a celebrarsi il 6 agosto, ovvero quaranta giorni prima del 14 settembre, festa dell'Esaltazione della S. Croce, in modo da mantenere l'esplicito legame tra questi due avvenimenti della vita terrena del Salvatore; e, sempre a sottolineare l'intimo legame tra Trasfigurazione e Passione del Nostro Redentore (per cui vedasi pure al paragrafo successivo), i tropari e le odi del Mattutino della festa della Trasfigurazione nel rito bizantino presentano la stessa melodia, nonché innumerevoli riferimenti espliciti, alla Croce di Cristo.
II. Ragione spirituale: Trasfigurazione e Passione
Per meglio capire perché l’anno liturgico colloca la Trasfigurazione del Signore qualche settimana prima della Pasqua, forse bisogna riflettere sul contesto nel quale la trasfigurazione di Cristo accade nella vita terrena del Salvatore. I vangeli narrano che verso la fine della sua vita pubblica, dal giorno in cui San Pietro confessò che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, Cristo “cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme, soffrire molto e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno.” San Pietro protesta contro questo annunzio, “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai”. Pietro rifiuta l’annuncio della morte di Cristo e San Pietro non afferra minimamente il preannunzio che Cristo fa della sua risurrezione. Gli altri apostoli neppure comprendono i preavvisi della sua morte – anche se il Salvatore sta cercando di predisporre gli apostoli per gli avvenimenti della pasqua – gli avvenimenti più importanti nella storia della salvezza del mondo. In questo momento di mancanza di comprensione si colloca l'episodio misterioso della Trasfigurazione. Cristo su un alto monte, davanti a tre apostoli da lui scelti: San Pietro, San Giacomo e San Giovanni per un momento rivela lo splendore che gli appartiene in quanto Figlio di Dio. Il volto e la veste di Cristo diventano sfolgoranti di luce, appaiono Mosè ed Elia. Nella versione di San Luca questi parlano con Cristo della sua dipartita (letteralmente “esodo”) che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. Ossia, parlano della sua imminente morte e risurrezione. Una nube li avvolge e una voce dal cielo dice: “Questo è il mio Figlio, in cui mi sono compiaciuto; ascoltatelo”. Per un istante, nostro Redentore mostra la sua gloria divina, confermando così la confessione di San Pietro. “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente.” Il Salvatore parlando del suo esodo con Mosé ed Elia rivela che, per "entrare nella sua gloria”, deve ritornare al Padre attraverso la croce, sua risurrezione e ascensione a Gerusalemme. Mosé ed Elia vedono in Cristo il compimento delle loro aspettative secolari. Il Padre Eterno dà la conferma ai preannunzi che il Figlio dà della sua morte e risurrezione: “Questo è il mio Figlio; ascoltatelo”. Mosè è il mediatore della legge. Elia rappresenta i profeti. Mosè su Monte Sinai ed Elia su monte Horeb avevano visto la gloria di Dio dopo quaranta giorni di ritiro e solitudine. La Legge e i Profeti avevano annunziato le sofferenze del Messia. Cristo spiegherà questo ai discepoli dopo la sua risurrezione sulla strada per Emmaus. “Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti. Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” Cristo è trasfigurato sul monte, e, nella misura in cui ne erano capaci, i suoi discepoli hanno contemplato la sua gloria, affinché, quando lo avrebbero visto crocifisso e risorto, assistiti dallo Spirito Santo, comprendessero che la sua passione era intrapresa in modo volontario dall’Autore della Vita. Ricordiamo le parole del Salvatore: “Io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo”. Cristo sul Calvario offre se stesso consapevolmente e intenzionalmente al Padre come oblazione pei peccati del mondo.
III. Ragione spirituale: la deificazione dell'uomo come scopo dell'ascesi
L'episodio della Trasfigurazione, tuttavia, ha degl'interessanti risvolti teologici anche nella visione dell'uomo e della Divinità da esso trasmessa, i quali trovano loro naturale applicazione nell'ascesi cristiana, che massime si applica durante il quadragenario digiuno. Avrebbe dunque questa lettura anche un valore di formazione spirituale dei fedeli, per confortarli e guidarli nel percorso interiore intrapreso.
Dobbiamo qui introdurre qualche principio della cosiddetta Teologia della luce. L'umanità visibile di Cristo infatti è l'icona della sua divinità invisibile; come dice S. Giovanni Damasceno, è "il visibile dell'invisibile" (De imaginibus oratio I, 11, PG 94,1241 BC). Il Salvatore dunque appare come l'immagine di Dio e dell'uomo al tempo stesso, l'icona del Cristo totale: Dio-Uomo. Questa funzione rivelatrice che possiede l'umanità di Cristo diviene la verità di ogni essere umano: l'uomo infatti non è vero e non è reale se non nella misura in cui riflette il celeste. Nostro Signore Gesù Cristo realizza, compie l'immagine vera dell'uomo, la porta alla perfezione e, rendendola pura, la fa partecipare alla Bellezza divina. Questo è vero e possibile per ogni persona umana; S. Paolo, nella sua II Epistola ai Corinzi, afferma infatti: "E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore" (3,18). S. Gregorio Nazianzeno, dice che "l'uomo ha ricevuto l'ordine di divenire Dio secondo la grazia" (In laudem Basilici Magni, PG 36, 560 A) perché: "essendosi avvicinata alla luce, l'anima si trasforma in luce" (S. Gregorio di Nissa, In cantica canticorum homilia 5, PG 44, 869A).
Questa vocazione alla gloria è, per i Padri, donata a ogni uomo con il Battesimo; l'indossare le tuniche bianche infatti è un coprirsi delle vesti luminose di Cristo, quelle stesse che Egli ha mostrato nella sua Trasfigurazione. Perché ciò si realizzi, ognuno è però chiamato a dare il suo libero assenso e a partecipare in modo attivo a questa personale trasfigurazione. Ma come è possibile fare in modo che ciò si compia? La via è quella dell'ascesi contemplativa. La deificazione (theòsis), concetto fondamentale della teologia mistica dell'Oriente Cristiano, consiste infatti nel contemplare la luce increata, lasciarsene penetrare, per riprodurre nel proprio essere il mistero cristologico. Come afferma S. Massimo, "è riunire nell'amore la natura creata alla natura increata, facendole apparire nell'unità mediante l'acquisizione della grazia" (Ambiguorum liber, PG 91, 1308B).
La tradizione ci consegna una via privilegiata per giungere alla deificazione, ovvero quella dell'esicasmo e della preghiera del cuore, l'incessante ripetizione dell'invocazione, profondamente interiorizzata, "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore!". Mediante tale preghiera, l'uomo, creato unitario, si esprime nel corpo, nella mente e nello spirito, portando la preghiera, dapprima vocale, a essere compresa dalla mente e, infine, infusa nel cuore, diventando, come dice S. Teofanie il Recluso, "un sospiro del cuore verso Dio": allora si è nella autentica preghiera spirituale. Solo questa è veramente "preghiera del cuore", cioè orazione di tutto l'uomo, corpo, mente e spirito. La preghiera qui non è più una serie di atti, ma uno stato contemplativo. La preghiera si fa strada nel cuore e da lì permea tutta la personalità. Il suo ritmo si identifica sempre più con il battito del cuore, finché giunge ad essere incessante. Si compie quanto S. Paolo afferma nella sua I Epistola ai Tessalonicesi: "Pregate incessantemente" (5,17). Questa "preghiera di Gesù" che staziona costantemente nel cuore è fonte di pace e di gioia; all'orante è fatta la grazia di contemplare la luce taborica, che altro non è che una pregustazione di quella della Parusia, come anche S. Gregorio Palamas afferma quando dice che la luce del Tabor, la luce contemplata dai santi e la luce del secolo futuro sono identiche. L'uomo trasfigurato compie così anche quella che è la sua "missione ontologica", secondo il comandamento di Gesù: "Voi siete la luce del mondo" (Mt5,14). Contemplare la luce taborica e poi scendere nel mondo significa porre i propri passi dietro a quelli di Cristo, il cui Amore è sacrificale: sacrificio redentivo il Suo, che chiama noi a partecipazione. Gli iconografi attraverso il colore, noi attraverso modalità nostre proprie, tutti chiamati a godere della luce del Tabor, fonte di certezza nel buio del dolore, perché ogni morte già risplende della luce del mattino di Pasqua.
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