sabato 11 novembre 2023

Le tre messe da morto di Benedetto XV: esempio di decadenza liturgica

Qualche giorno fa, un amico ha portato alla mia attenzione la rubrica novecentesca aggiunta nell'edizione piano-benedettina del Messale circa le tre messe da celebrarsi nella Commemorazione dei Defunti, il 2 di novembre. Tale modernissima rubrica, che pure qualcuno nella sua ingenuità crede qualcosa di tradizionale o antico, costituisce un esempio lampante di decadenza liturgica, per i motivi che andremo sotto a esporre.

Anzitutto, occorre premettere che la celebrazione di tale giorno aveva già subito numerosi mutamenti e radicali cambiamenti nel corso della riforma piana dell'Ufficio, trasformando la Commemorazione di fatto in una vera e propria festa (con tanto di rito doppio indicato!). In precedenza non era così: il 2 novembre era il secondo giorno fra l'Ottava d'Ognissanti, in cui si celebravano anche delle speciali funzioni dei defunti secondo la logica di seguito esposto.

Giusta le rubriche del messale tridentino (che ereditano qui un uso antiquiore), il primo giorno libero di ogni mese in monasteri, cattedrali e collegiate si deve celebrare, accanto alla messa del giorno in choro dopo Sesta, una messa di requiem extra chorum, per tutti i defunti: anche nelle altre chiese è raccomandato celebrare tale messa da morto, o comunque aggiungere l'orazione pro omnibus fidelibus defunctis come terza colletta. Tanto in coro, quanto nella recitazione privata, all'Ufficio del giorno si aggiungono il Vespro e il Mattutino dei defunti (le uniche ore da morto esistenti nel Breviario Romano: per altri usi locali, cfr. infra)

Il 2 novembre, in ragione della specialità di questo giorno che segue la festa di tutti i santi, nell'ambito dei monasteri della riforma benedettina di IX-X secolo, la commemorazione dei defunti mensile assume un particolare rilievo: la messa ha un formulario proprio, è obbligatoria in tutte le chiese, e messa e ufficio si dicono col rito doppio, MA nel rito romano restano sempre delle aggiunte rispetto alle funzioni quotidiane, che sono quelle della feria infra l'Ottava. Il Caeremoniale Episcoporum spiega bene come si fa il tutto: la sera del 1° novembre si canta il secondo Vespro d'Ognissanti; detto "Benedicamus Domino", si cambia l'apparato d'altare in nero, e si principia l'ufficio dei morti, cantando Vespro e Mattutino dei defunti di seguito in forma di veglia. Al fine di tutto, teoricamente, la Compieta dell'ottava. Al mattino del 2, si fa all'ora solita il Mattutino dell'Ottava, seguito dalle Ore (tutte dell'ottava!) 1a e 3a, indi la messa dell'ottava (extra chorum, in cattedrali e monasteri beninteso), 6a, 9a, la messa da morto in choro, e alla sera Vespro e Compieta (entrambi dell'ottava).

Con le riforme di Pio X, questa struttura secolare viene alterata: il secondo giorno fra l'Ottava sparisce del tutto, e del suo ufficio non si fa nulla, ma tutto si fa dei morti. A questo punto, vengono create ex novo delle inesistenti Ore minori da morto, per evitare di lasciar vuoti gli spazi, e la Commemorazione dei defunti cessa di essere un'appendice, e diventa un giorno proprio. Ora, è vero che altri usi liturgici pre-tridentini, soprattutto dell'Europa Centrale, conoscevano un ufficio dei morti completo, con ore minori in questo giorno, ma con una struttura molto diversa da quella piana: per esempio, le ore minori del Breviario Praghese sono dotate di antifone, con una struttura dunque che ricalca le ore ordinarie, e l'Ottava non è omessa ma commemorata al Piccolo Ufficio della Madonna, che nel rito praghese è detto quotidianamente indipendentemente dal grado occorrente.

Pochi anni dopo, nel 1915, con la bolla Incruentum Altaris Benedetto XV, argomentando con la necessità di moltiplicare i suffragi in ispecie per i defunti nell'allora corrente conflitto mondiale, introduce la novità della celebrazione di tre messe in questo giorno, estendendo universalmente quella che prima era una limitata e tollerata concessione ad alcune chiese della Penisola Iberica.

La rubrica conseguentemente introdotta nella nuova edizione del messale, che riprende quanto prescritto dalla bolla al capo III, recita: "Hac die quivis Sacerdos tres Missas celebrare potest. Qui unam dumtaxat Missam celebrat, primam legit: eandem adhibet qui Missam cum cantu celebrat, facta ei potestate anticipandæ secundæ ac tertiæ".

Il raffronto con le tre messe di Natale viene subito spontaneo a chi conosce un po' il rito romano, ma le due situazioni sono diversissime, come un analisi puntuale può subito dimostrare:

a) Ragione storica. Le tre messe di Natale nascono dall'uso peculiare della Chiesa locale della città di Roma, la cui pratica prevedeva l'effettuazione di tre stationes in questo giorno; la sua estensione al di fuori della città e soprattutto le tre messe nella stessa chiesa sono un'estensione posteriore che non deve obliare la sua origine storica. Le messe, poi, sono tre per glorificare solennemente il Natale di Cristo in tutta la città di Roma, e per onorare la martire Anastasia che in quel giorno nacque al cielo e che altrimenti sarebbe dimenticata (la mens liturgica romana antica non ammette la traslazione delle feste dei martiri, poiché sono legate al dies natalis: per questo si trovano martiri commemorati anche in grandi feste come il Natale appunto, la Visitazione o la Trasfigurazione; l'uso posteriore di assumere latamente la data di festeggiamento è incomprensibile agli antichi). Le tre messe da morto benedettine, come esplicitato nella bolla, sono invece intese per aumentare meccanicamente il numero di suffragi, secondo la logica materialista invalsa in Occidente, tant'è che l'intenzione da applicare è specificata al capo I della bolla medesima (la prima per quelli che han dato l'offerta, la seconda per tutti i defunti, la terza giusta l'intenzione del papa, cioè i morti della Grande Guerra).

b) Legere vel cantare? La rubrica, seguendo un modello infausto e moderno che già nel messale del 1570 si avverte nel trovare le rubriche per la messa privata poste prima di quelle per la messa solenne, dà per scontato che il sacerdote legga le tre messe, e se proprio ne voglia cantare una, comunque le altre due debbono giocoforza essere lette. A Natale, invece, le rubriche antiche danno per scontato che tutte le tre messe siano regolarmente cantate in modo solenne.

c) Messa e Ufficio. Ognuna delle tre messe del Natale ha una naturale collocazione all'interno del ciclo liturgico di questa festa, che come sempre è costituito primariamente dall'Ufficio. La prima messa, che in gallicantu e dunque dopo la terza vigilia (non a mezzanotte come invalso modernamente!), si canta inframmezzata tra Mattutino e Laudi (che, come sempre, costituiscono un unico ufficio senza soluzione di continuità, in cui semplicemente si inserisce l'Eucaristia: in molti usi, tra cui quello aquileiese, le Laudi assumevano addirittura il luogo del postcommunio, come i Vespri di Pasqua al Sabato Santo); la seconda, essendo dell'alba, dopo l'Ora Prima; la terza, come di consueto, dopo l'Ora Terza. Le tre messe da morto invece non sono in alcun modo legate all'Ufficio, che oramai è concepito solo come qualcosa da recitare privatamente, e si celebrano indistintamente a qualsiasi ora e senza alcun ordine.

d) Quivis sacerdos. Qui si pone il problema centrale: la bolla è una concessione a ogni sacerdote di dire tre messe, cioè di trinare, facoltà che normalmente è concessa in casi eccezionali dal vescovo perché contraria alle norme canoniche e liturgiche, nonché al buonsenso. Le tre messe del Natale, invece, sono intese come tre messe in una stessa chiesa, anzi in uno stesso coro (che infatti le canta legate all'Ufficio!), idealmente celebrate da tre preti diversi, anche se il messale tridentino innova ammettendo che un solo prete possa celebrarle tutte e tre, adottando alcuni accorgimenti. Se la celebrazione di fila da parte di un solo prete delle tre messe natalizie, come spesso si vede, è una decadenza moderna, la rubrica benedettina presuppone la decadenza come norma! Il fatto stesso che, come detto sopra, le messe non siano poste in relazione all'ufficio corale, avviene perché la rubrica non riguarda il fatto che una chiesa debba avere tre messe in quel giorno, come a Natale, ma che ogni prete debba celebrarle, portando all'assurdo di avere - come recentemente annunziato in una cappella di un istituto "tradizionalista" - sei messe di fila, celebrate da due preti un dopo l'altro, su un unico altare, in barba a ogni simbolismo e consuetudine cristiana, in un teatro che rassembla le "messe in stock" dei palmariani, piuttosto che il Sacrificio Incruento così come comandato dalla romana tradizione.

martedì 7 febbraio 2023

In festo Conversionis S. Pauli... et aliorum

E' da molto tempo che il presente blog non viene aggiornato, e per molteplici ragioni non verrà aggiornato, almeno nel prossimo futuro, pur non escludendo una ripresa successiva. Le cause, principalmente di stato spirituale dei redattori, che nella loro attuale situazione preferiscono pregare in silenzio piuttosto che far sentire la propria non necessaria voce, non hanno bisogno di essere troppo indagate.

Rompiamo tuttavia minimamente questo lungo silenzio oggi, 25 gennaio (7 febbraio), nella festa della Conversione di S. Paolo, per fare un augurio e un ammonimento a tutti coloro che nella loro vita, mettendo a frutto l'esortazione del Battista, l'insegnamento di Cristo e l'esempio dell'Apostolo delle Genti, si sono dati alla metànoia spirituale continua, e sono approdati ai lidi della Vera Fede, alla professione dell'autentico Credo, alla vita in Cristo per la divinizzazione della propria anima.

Il caso di uno di questi nostri fratelli, il noto giornalista e scrittore Alessandro Gnocchi, è balzato all'onore delle cronache in seguito alla pubblicazione del "diario" del suo percorso interiore. Contro la sua persona, e contro la Vera Fede, conseguentemente, si sono levate l'armi e gli scudi, con florilegi di menzogne e la consueta aridità di certi cuori. D'altronde, oportet ut scandala eveniant.

Per lunghi giorni si è pensato di scrivere un breve pamphlet apologetico, in difesa non tanto e non solo dell'amico Gnocchi - la cui scelta religiosa era a noi nota da tempo - ma soprattutto dell'onorabilità della Chiesa di Cristo, contro le molte falsità profferitesi sul suo conto. Gli scritti sprizzanti d'odio, e finanche forse tradenti una certa paura, però, "si moltiplicavano senza fine", e non vale rompere il silenzio in cui i nostri maestri spirituali ci hanno posto per uno scritto, finito in pasto al web, avrebbe prodotto ben poco bene nei cuori dei ver'inquirenti di Dio rispetto al male che avrebbe suscitato nei suoi nemici - nolite jactare margaritas ante porcos, ed esperienze passate di "dispute" sul blog ne han dato esempio.

Perciò, più che tante confutazioni e dimostrazioni storiche, vagliano a noi e agli amici sullodati le sole parole di Cristo: Beati estis cum maledixerint vobis et persecuti vos fuerint et dixerint omne malum adversum vos, mentientes propter me: gaudete et exultate, quoniam merces vestra copiosa est in coelis.

martedì 6 dicembre 2022

Corso di Storia della Liturgia - 5a e ultima lezione

 Si informa che la lezione conclusiva del 1° ciclo del corso di Storia della Liturgia promosso da Traditio Marciana, dal titolo "Architettura e simbologia nella liturgia", si terrà sabato 10 dicembre alle ore 13:15, sempre presso lo Spazio Eventi della Toletta (Fondamenta da Borgo, Dorsoduro 1134).

domenica 30 ottobre 2022

RIMANDATO!!! Corso di Storia della Liturgia - 4a lezione

 ATTENZIONE! RIMANDATO A SABATO 12


Si informa che la prossima lezione del corso di Storia della Liturgia promosso da Traditio Marciana, dal titolo "Elementi di storia liturgica bizantina II", si terrà sabato 12 novembre alle ore 13:15, sempre presso lo Spazio Eventi della Toletta (Fondamenta da Borgo, Dorsoduro 1134).

domenica 2 ottobre 2022

Corso di Storia della Liturgia - 3° incontro

Si informa che la prossima lezione del corso di Storia della Liturgia promosso da Traditio Marciana, dal titolo "Elementi di storia liturgica bizantina", si terrà sabato 15 ottobre alle ore 13:15, sempre presso lo Spazio Eventi della Toletta (Fondamenta da Borgo, Dorsoduro 1134).

martedì 13 settembre 2022

La festa dell'Inizio dell'Indizione: un ufficio bizantino anomalo

1. Introduzione.

Il corrente mese di settembre è detto in sardo "cabudanni", cioè "capodanno". La ragione è naturalmente il fatto che, nell'Impero Romano, il 1° settembre segnava l'inizio dell'anno civile. Inizialmente, nella Roma arcaica, l'anno iniziava a marzo, come nella gran parte dell'Europa medievale e in molte altre culture dell'emisfero settentrionale, essendo l'inizio della primavera e della rinascita dell'anno: di ciò resta traccia nei nomi dei mesi ancor oggi impiegati ("settembre", ad esempio, è il settimo mese a partire da marzo, e così via...); successivamente fu portata al 1° gennaio, e infine, in età imperiale, al 23 settembre, giorno del compleanno di Augusto. Dal 23, per comodità, si spostò presto al 1° settembre, e tale situazione si mantenne per tutta la durata dell'Impero sino alla conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani, e fu adottata anche in Russia fino al 1669, quando lo zar Pietro il Grande volle adottare la costumanza occidentale moderna di principiare l'anno il 1° gennaio.

Dopo la cristianizzazione dell'Impero, fu adottata ufficialmente la cronologia di Dionigi il Piccolo, per cui il calcolo ufficiale degli anni fu effettuato a creatione mundi, che secondo i calcoli dionisiani avvenne 5509 anni prima della nascita di Cristo. Dunque, oggi 1° (14) settembre dell'anno 2022, secondo la cronologia imperiale principierebbe l'anno 5731. Il 1° settembre, oltre al capodanno, corrisponde pure al principio della indizione, ossia della sanzione legale da parte dell'Imperatore dell'inizio dell'anno fiscale all'interno del ciclo quindecennale istituito da Diocleziano. Col tempo l'indizione perse il significato fiscale, e rimase come mera indicazione cronologica: per esempio il 2022 era l'anno XV dell'indizione, il 2023 che inizia oggi è l'anno I della nuova indizione, il 2024 sarà l'anno II dell'indizione e via così...

Nel mondo bizantino, il 1° settembre fu naturalmente adottato anche come inizio dell'anno liturgico: infatti, i minei bizantini principiano proprio da settembre, laddove in Occidente il calendario del santorale inizia il 1° gennaio, secondo la data di "tradizione romana" che nell'Urbe non si era mai obliata nonostante l'ufficialità della data settembrina (l'anno liturgico occidentale, come abbiamo detto molte volte, non comincia in Avvento, checché credano molti "tradizionalisti"). Il calendario liturgico bizantino, peraltro, prevede una festa specifica che commemora tale inizio, annoverata come Ἀρχὴ ἰνδίκτου ("principio dell'indizione").

La natura "civile" di tale festa inserita nel santorale non deve stupire, considerati gli stretti legami tra società e liturgia nel mondo bizantino; essa è, peraltro, l'unica festa civile inserita nel ciclo liturgico sopravvissuta alla caduta di Costantinopoli, in quanto era celebrata universalmente. Nella Città si celebravano difatti altre ricorrenze di tale natura, dal compleanno dell'Imperatore alle memorie dei terremoti, le quali tuttavia si persero dopo la caduta. Forse proprio perché si tratta di una festa in fondo civile, lo status liturgico di questa festa nel mineo è assai anomalo.

Paolo Veronese, Gesù fra i dottori nel tempio, 1558, Museo del Prado (Madrid).
Nella pratica greca, un'icona di Cristo fra i dottori è sovente esposta in questo giorno; ovviamente, un'icona propria per questa ricorrenza non esiste, essendo una festa civile difficilmente raffigurabile in iconografia.


2. L'ufficio nel Mineo: il Vespro.

Anzitutto, occorre precisare che coincide con la memoria di san Simeone lo stilita "e della sua madre Marta" (così indica il mineo). Come spesso avviene per la commemorazione contemporanea di due feste, esse presentano un ufficio unico che combina parti delle due ricorrenze. Il mineo cita inoltre, in caratteri più piccoli, il santo martire Aitala, le sante quaranta donne martiri, il santo diacono Ammone coi suoi discepoli, i santi martiri fratelli Callisto, Evodo ed Ermogene, la sinassi della Madonna di Miasin (ritrovamento miracoloso di una icona della Madre di Dio nel monastero armeno di Miasin nell'864) e il giusto Giosuè. Essi sono menzionati all'inizio, e non nel martirologio, quindi almeno una parte dell'ufficio normalmente dovrebbe essere in loro commemorazione. L'intero ufficio è preceduto da una croce rossa, che nel linguaggio simbolico del mineo indica il rango di festa con polieleo, il secondo più alto, che potremmo dunque paragonare al semidoppio romano.

Essendo di tal rango, la rubrica correttamente indica di cantare il Beato l'uomo (salmi 1-3) al posto del salterio della feria corrente. Dipoi, al Signore, a Te ho gridato, prescrive di sostare per ben 10 versetti (il massimo numero possibile, ordinariamente riservato alle sole domeniche) per cantare altrettante stichire. Solo le prime 3 sono segnate come riferite all'Indizione, e sono da cantare in tono primo: la prima è una parafrasi di alcune petizioni del Padre Nostro, la seconda inneggia a Cristo che nascendo a Nazareth ha compiuta la legge e i profeti, mentre la terza, richiamando l'infedeltà degli Ebrei nel deserto, supplica Cristo di disperdere "secondo il salmo" le ossa degli "infedeli e perfidi agareni". Il tema dell'anno nuovo, come si vede, non è strettamente presente, ma si tratta di stichire generiche d'invocazione a Cristo che dovevano comparire spesso negli uffici propri della Capitale; l'ultima, in particolare, ha un evidente legame con la situazione geopolitica del tempo nell'invocazione contro i musulmani ("agareni"), ma pure un accenno polemistico contro i giudei: curiosamente, difatti, la punizione dell'infedeltà d'Israele nel deserto è presentata come punizione attuale della presente miscredenza ebraica.

Le successive tre stichire sono di san Simeone, in tono quinto, e iniziano con "Venerabile padre", secondo il modello consueto delle stichire degli asceti. Seguono però, curiosamente, altre quattro stichire sempre di san Simeone, in tono secondo, automela (cioè, con melodia propria, non riferite a un qualche modello di tono stichirale); le ultime due portano l'indicazione degli autori, rispettivamente il monaco Cipriano e il patriarca Germano di Costantinopoli. Il Gloria, in tono sesto, ha una stichira di Germano in onore del santo asceta, mentre l'E ora ha una stichira di Bizantio sul medesimo tono, relativa all'Indizione e che finalmente menziona la "corona del nuovo anno" (locuzione presa dal salmo 64,11), chiedendo al Signore di benedirla.

Quindi, trattandosi di festa con polieleo e dunque di Vespro Grande, si prescrivono l'ingresso col turibolo e, dopo il prochimeno del giorno, le profezie vesperali, che curiosamente sono miste: le prime due infatti, tratte da Isaia LXI (il servo del Signore che annunzia l'annum Domini acceptabile) e dal Levitico XXVI (esortazione agl'Israeliti di serbar la legge del Signore, e minacce di castighi qualora ne deviino), sono "dell'Indizione", mentre la terza, tratta da Sapienza IV, è una consueta pericope che si legge al vespro degli asceti, è infatti è segnata per san Simeone.

Dopo le litanie, la sticologia è segnata come "dell'Indizione", ma presenta numerose stranezze. E' in tono primo ma automelo, ed è attribuita a Giovanni monaco. La prima stichira commemora contemporaneamente tutte le ricorrenze del giorno, aggiungendo anzi persino una menzione dei Sette Dormienti di Efeso, che probabilmente si commemoravano pure in questo giorno prima che la loro ricorrenza fosse fissata al 4 agosto:

E' giunto il principio dell'anno, che chiama a festeggiarlo gli splendenti Callisto, Evodo ed Ermogene, i fratelli atleti di Cristo, e Simeone pari agli angeli, Giosuè figlio di Nave, i sette fanciulli [dormienti] in Efeso, e il coro a quaranta fiaccole delle sante donne: prendendo parte alla memoria, o amici della festa, gridiamo ardentemente: Signore, benedici l'opera delle tue mani, e rendici degni di trascorrere in modo proficuo il periodo dell'anno.

Dopo il primo stico, una seconda stichira generica chiede di benedire "la corona dell'anno"; al terzo stico, il tono muta in secondo, e una terza estesa stichira dal gusto teologico, attribuita a Cipriano monaco, magnifica il Signore per donarci gli anni utili alla nostra salvezza. Contro l'abitudinale numero ternario delle stichire festive, il mineo prescrive una quarta stichira, attribuita al Damasceno, che appare come una iterazione concettuale della seconda. Il Gloria è del santo in tono quinto, mentre l'E ora, sempre di Giovanni monaco, è relativo all'indizione, e invoca Iddio perché doni vittoria sui "barbari senza Dio, come un tempo la desti a Davide", poiché Egli è "vittoria e lode degli ortodossi".

Gli apolytikia sono tre: dell'indizione (nuovamente si chiede al Signore "che ha stabilito gli anni e le stagioni nella sua potenza" di benedire la corona dell'anno), di san Simeone, e un teotochio proprio sullo stesso tono primo del tropario del santo.

3. L'ufficio nel Mineo: il Mattutino, le Ore e la Liturgia.

Se fin qui si è celebrato un normale Vespro Grande di una festa con polieleo, da un punto di vista rituale, pur con numerose stranezze eucologiche, decisamente curioso appare il Mattutino, che di fatto appare relativo a una festa con dossologia (un rango relativo a una festa semplice, che però ha il privilegio della Grande Dossologia festiva): infatti, il polieleo è esplicitamente previsto dalla rubrica solo "se la chiesa è intitolata a san Simeone", e in assenza di polieleo, naturalmente, non v'è nemmeno il Vangelo.

Quindi, dopo le sticologie (alla prima i catismi sono dell'indizione e di san Simeone, alla seconda dell'indizione e dei ss. Callisto e fratelli martiri), si passa direttamente al salmo 50 e ai tre canoni previsti dal tipico. Il primo, poema di Giovanni monaco, è relativo all'indizione, ed è fattivamente un inno di ringraziamento generico a Cristo, che richiama talora le tematiche delle stichire vesperali o delle paremie, oltre a chiedere ripetutamente e insistentemente di benedire il nuovo anno. Il secondo è in onore delle sante quaranta donne martiri, e il terzo - sempre attribuito a Giovanni monaco - per san Simeone. Le catavasie, ovviamente, sono quelle della santa Croce, che il tipico prescrive di cantarsi già da diversi giorni e fino alla ventura ottava dell'Esaltazione. Dopo la terza ode si legge il condacio dell'indizione e un catisma sempre ad essa relativa, quindi un catisma per san Simeone e uno per le sante martiri, concludendo con un teotochio proprio. Dopo la sesta ode, si legge il condacio di san Simeone col suo ikos.

Alla nona ode è premesso il Magnificat: essendo questo l'inizio del mineo, sono inserite a questo punto le rubriche generali sul modo di cantarlo e di accompagnarlo all'incensazione.

Alle lodi, vi sono due esapostilari dell'indizione intervallati da uno di san Simeone. Ai salmi laudativi si sosta per quattro versetti, e si cantano tre stichire automele dell'Indizione: la prima e la seconda sono di Giovnanni Monaco, rispettivamente in tono terzo e quarto, e ripetono ancora una volta il consueto tema della "corona dell'anno". La terza è di Andrea di Piro, e loda la magnificenza delle vie del Signore, senza però distaccarsi troppo dal tema predetto nel finale. La quarta stichira, invece, è delle sante martiri, ed è di Germano in tono secondo; sullo stesso tono si canta il Gloria per san Simeone, mentre l'E ora, composto da Germano, è in tono ottavo e in onore dell'anno nuovo. Come detto, l'ufficio si conclude con la Grande Dossologia.

Alle ore minori, infine, si leggono solo i tropari dell'Indizione e di san Simeone, col condacio alternativamente di una delle due ricorrenze, e così pure al Piccolo Ingresso della Liturgia, aggiunti ovviamente quelli del patrono del patrono del tempio (eccettoché questo sia dedicato a una festa del Signore) e il tropario proprio della Madonna già cantato alla fine del Vespro, da porsi qui subito dopo quello dell'indizione. Parimenti le stichire alle Beatutudini, i versetti del prochimeno, dell'alleluia e del communio, come pure le Epistole e i Vangeli sono dell'indizione e del santo, senza menzione delle altre odierne ricorrenze.

4. Conclusioni.

L'ufficio odierno, in definitiva, si presenta come multiforme e anomalo, a partire dal mutamento di rango tra Vespro e Mattutino. In esso rimangono evidenti tracce di una situazione in cui la festa principale di questo giorno era quella di san Simeone, che ad esempio primeggia nel numero di stichire vesperali, ha una paremia propria, indicazioni per l'eventuale celebrazione con grado festivo maggiore, e soprattutto ha il condacio posto dopo la VI ode del Canone, che è proprio della celebrazione principale di un dato giorno, laddove l'Indizione ha il condacio dopo la III, come fosse semplice commemorazione. Essendo però l'Indizione considerata festa del Signore, ha diversi privilegi di posizione in tutta l'ufficiatura, quantunque i suoi testi non brillino per originalità e varietà. Alcune delle altre, invero numerose, memorie del giorno, anziché essere portate a Compeita come spesso accade, sono mescolate all'interno del Mattutino (i ss. Callisto e fratelli mm. addirittura con una singola menzione nel catisma della II sticologia), se si eccettua la loro menzione in una stichira della sticologia vesperale (segnata però come "dell'Indizione", e certo testimoniante una situazione antica in cui anche i Sette Dormienti erano festeggiati al 1° settembre, poi spostati per ridurre questo palese accumulo). Giosuè è peraltro menzionato solo in questa stichira, mentre Ammone è nominato solo nel terzo tropario dell'ottava ode del canone delle donne martiri, e di Aitala non v'è alcuna menzione al di fuori del sinassario.

L'eucologio, inoltre, prevede in questo giorno preghiere speciali di benedizione dell'aria, dei campi e dell'acqua. 

E' da notare che la Chiesa Russa segue fedelmente le indicazioni del Grande Tipico e del mineo, laddove le chiese che hanno adottato la riforma di Violakis (quelle ellenofone e la Chiesa Romena) hanno apportato alcune inopportune variazioni: per esempio, nel tipico greco, le stichire vesperali dell'Indizione sono 4 (la prima viene infatti doppiata), mentre le stichire di san Simeone sono ridotte a 6 omettendo la prima. La terza paremia può essere scelta tra tre: una per san Simeone, una per le sante donne martiri, e una per la Madonna di Miasin. Nel mineo greco è presente una litia ad libitum con stichire per le sante donne martiri, laddove il mineo romeno del 1914 prevede una litia per l'indizione: in ambo i casi, non trattandosi di una festa con veglia (doppia), si tratta di un frutto della corrotta prassi violakisiana che, abolendo la celebrazione della veglia di tutta la notte, ha slegato la litia dal suo significato storico. Alla sticologia mattutinale si leggono solo i catismi dell'indizione, omettendo quelli dei santi, e si aggiunge il polieleo per "normalizzare" il grado della festa: il tipico greco avvisa però dell'assenza di Vangelo, laddove quello romeno introduce una lettura da Luca 6. Rimangono i tre canoni, ma il condacio dell'indizione è spostato dopo la sesta ode e dotato di un ikos, laddove il condacio e l'ikos del santo sono spostati dopo la terza ode (e segnati in parentesi quadre, quindi omettibili nelle parrocchie). Avendo la riforma di Violakis abolito le doppie letture e i doppi versetti alla Liturgia, questi tutti si leggono dell'Indizione.

Corso di Storia della Liturgia - AGGIORNAMENTO

Venerdì 9 settembre, presso lo Spazio Eventi della libreria Toletta, si è tenuto il primo incontro del corso di liturgia organizzato da Traditio Marciana. La lezione è stata partecipata da un buon numero di interessati provenienti dalla città di Venezia, dalla campagna e finanche dalle regioni attigue.



La successiva lezione, dal titolo "Elementi di storia liturgica romana II: da Trento al Vaticano II" si terrà sabato 1° ottobre alle ore 13:15, sempre presso lo Spazio Eventi della Toletta (Fondamenta da Borgo, Dorsoduro 1134).

lunedì 5 settembre 2022

Corso di formazione in Storia della Liturgia - AGGIORNAMENTO

 Si avvisa che la lezione introduttiva del Corso in Storia della Liturgia, "Elementi di storia liturgica romana" si terrà

VENERDI' 9 SETTEMBRE
alle ore 19.30

(non alle 18.30 come precedentemente comunicato)

presso lo Spazio Eventi "Toletta"
in Fondamenta da Borgo, Dorsoduro 1134 - VENEZIA



giovedì 1 settembre 2022

L'epitaffio di Dombercht

 di Luca Farina

Il seguente epitaffio fu pubblicato per la prima volta da Wilmanns (Rheinisches Museum, N.F., 23, p. 404), per essere poi inserito da Duemmler (Poetae I 19) nell’appendice ai testi di Bonifacio. Si è scelto proprio di collocarlo nella sezione dedicata all’apostolo della Germania poiché non si sa praticamente nulla del defunto, tale Dombercht, se non che, come recitano i versi, era discepolo di Bonifacio e proveniva dall’Inghilterra. È possibile postulare che egli avesse una buona formazione culturale e un incarico pastorale di rilievo, molto probabilmente era un vescovo.

L’analisi dello stile ha suggerito l’ipotesi secondo la quale il testo sarebbe stato composto da un allievo di Pietro da Pisa. Forse si tratta quindi di un esercizio letterario, dal momento che l’epitaffio si conclude con una frase in prosa che potrebbe sembrare una preghiera per chiedere a Dio la liberazione dai peccati, mentre invece chiede una “salvezza filologica”, di poter cioè preservare il testo dagli errori. Del resto, il codice che lo contiene (Vat. Pal. Lat. 1753) presenta, oltre a codesto epitaffio, opere di carattere grammaticale e metrico come il trattato De pedum regulis di Aldelmo di Malmesbury[1]. Segue il testo con le note che indicano i loci paralleli e le varianti testuali, la traduzione e il commento.

Funereo textu scribuntur facta priorum[2],

ut discat vanas linquere quisque vias.

Sed non est flendus, studuit qui vivere Christo[3],

et mundi toto temnere corde[4] mala.

Et si forte cupis nomen meritumque sepulti

Discere, tu poteris magna[5] viator amans.

Hac iacet egregius nivea sub mole sacerdos

Qui meritis caeli vivit in arce[6] suis,

Eloquio fulgens, sacro cognomine dictus

Dombercht, qui mundi clara lucerna fuit[7].

Grammaticae studio, metrorum legibus aptus,

Plurima percutiens funere corda suo

Occidit et nobis fletus gemitusque reliquit,

Quos hic culparum[8] poena dolorque tenent.

Hic rabiem mortis calcavit morte minantis

Pergens luciflui[9] laetus ad astra poli[10].

Lumen erat patriae[11], sapientia maxima gentis,

Perfundens sancta turbida corda[12] fide,

Inlaesum vigilans domini servavit ovile,

Pestiferi extinguens toxica saeva[13] lupi.

Pauperibus largo praebebat munera[14] dono

Ostendens gregibus pabula pulchra dei.

Artibus et meritis fulgens Bonifatius almus,

Pro Christo gladiis qui sua membra dedit[15],

Hunc magno studio docuit, nutrivit[16], amavit,

Complens quod sonuit vatis in ore pium.

Francorum ad patriam tremulas venere per undas

Anglorum pelagi germine de nitido[17].

Praesul oves domini multos sine sorde[18] per annos[19]

Rexit et aeternae carpsit iter[20] patriae.

Hac venerandus humo voluit requiescere, poscens

Ut nullus violet, quod tenet ipse solum.

Hic, populi, sanctum precibus pulsate[21] iacentem,

Ut precibus solvat vincula vestra suis

Et foveat semper, quos vivens semper amavit,

Et quos hic docuit, clarus ad astra levet.

Rogo te, domine pater, ut emendes[22] et corrigas.

Traduzione: Le imprese di coloro che sono venuti prima di noi sono messe per iscritto in un’epigrafe funebre, perché ciascuno impari a lasciare le strade della vanità. Ma non deve essere oggetto di pianto chi si premurò di vivere per Cristo e di disprezzare di tutto cuore i mali del mondo. Se forse tu desideri conoscere il nome e i meriti del defunto lo potrai fare, pellegrino che ami le cose grandi. Giace dentro questo bianco sepolcro il nobile sacerdote, che ora vive, grazie ai propri meriti, nella rocca del cielo; fulgido per eloquenza, chiamato col sacro appellativo di Dombercht, che fu una splendida lampada del mondo. Perito nello studio della grammatica e nelle leggi della metrica, straziando con la sua morte moltissimi cuori, è morto e ha lasciato lacrime e gemiti a noi che pena e dolore per le colpe trattengono in questo mondo. Egli schiacciò con la morte la furia della minacciosa morte, ascendendo beato agli astri del cielo luminoso. Era luce per la sua patria, era la somma saggezza del suo popolo, irrorando con la santa fede i cuori afflitti, vigilando conservò illeso l’ovile del Signore, estinguendo il terribile veleno del lupo mortifero. Offriva doni ai poveri con mano generosa, mostrando al gregge di Dio i bei pascoli. Il santo Bonifacio – illustre per scienza e meriti – che consegnò per Cristo il suo corpo al martirio, lo istruì con grande impegno, lo nutrì e lo amò; colmandolo di ciò che nella bocca del poeta è detto pio. Entrambi giunsero nel territorio dei Franchi attraverso le tremule onde del mare provenendo dalla splendida patria inglese. Come vescovo governò le pecorelle del Signore per molti anni senza macchia e si guadagnò la strada per la vita eterna. Venerabile, volle riposare in questa terra chiedendo che nessuno potesse violare quel suolo che ora egli tiene. O genti, bussate con le vostre preghiere al santo che è qui sepolto affinché lui, con le sue preghiere, sciolga le vostre catene e favorisca sempre coloro che amò in vita e, glorioso, conduca in cielo coloro che istruì.

Ti prego, o Signore e Padre, di emendare e correggere.

Commento: Anzitutto, l’autore dimostra di conoscere correttamente la scansione metrica: eccezion fatta per la parola metrorum, resa con la prima sillaba lunga anziché breve, non vi sono infrazioni prosodiche. Il poeta dimostra di saper utilizzare in maniera intelligente le tessere che gli provenivano dalla tradizione. Certamente non mancano le citazioni “di maniera”, cioè quelle dei grandi classici come Virgilio, Ovidio e Lucano; ciò non deve stupire o essere considerato indice di scarsa originalità poiché ampie porzioni dei testi classici erano imparate a memoria nelle scuole e riaffioravano, in maniera più o meno cosciente, nella mente degli scriventi.

Il nostro autore, inoltre, pare conoscere molto bene la poesia cristiana: Giovenco, Prudenzio, Eugenio di Toledo, Venanzio Fortunato e Paolino di Nola in modo particolare.

Sono poi numerosi i punti di contatto tra questo epitaffio e quello per Pietro I, vescovo di Pavia, che possono essere così riassunti:

Epitaffio di Dombercht

Epitaffio di Pietro I

Funereo textu scribuntur facta priorum

Candida funereo sculpuntur marmore gesta

Sed non est flendus

Sed non est flendus

Vivere Christo

Vivere Christo

Eloquio fulgens

Nobilis alloquio

Oves Domini…rexit

Rexit ovile Dei

Nobis fletus gemitusque reliquit

Nos tantum gemitus retinent

 

Forse l’autore ha composto l’epitaffio per Dombercht avendo davanti a sé l’epigrafe del vescovo pavese oppure aveva in mano una sua trascrizione: un discreto numero di riprese è difficilmente casuale.

Se il poeta appartiene alla cerchia degli allievi di Pietro di Pisa (le cui tessere sono saggiamente inserite) bisogna ricercare elementi della tradizione franca: vanno quindi in tal senso i riferimenti a Sidonio Apollinare, nobile lionese del V secolo che divenne poi vescovo dell’Alvernia e ad Alcimo Avito, anch’egli nobile, vissuto tra V e VI secolo, proveniente dall’Alvernia e poi arcivescovo di Vienne. Più strettamente legati al tema funebre sono i riferimenti agli epitaffi di Rotaide e Aggiardo.

Infine non vanno trascurati i riferimenti scritturali: al libro di Gioele, dove toto corde è tratto da un brano penitenziale (Ioel. II 12-19)[23] e qui inserito per invitare a cambiare vita, disprezzando il peccato; il vangelo che insegna a bussare, cioè a pregare insistentemente. Si noti che nell’epitaffio non c’è alcuna richiesta di suffragio, si presume che il defunto sia già nella beatitudine e possa intercedere per il suo popolo. A mio avviso, non è da trascurare l’augurio multos per annos del verso 29: il sintagma è inserito in un verso che indica Dombercht come un praesul; è la formula, leggermente modificata (da Ad multos annos) che è prevista come augurio al termine delle consacrazioni episcopali, non in quelle sacerdotali o diaconali e neppure nelle benedizioni abbaziali. Pertanto, è possibile affermare con relativa sicurezza che colui che giace nella tomba era un vescovo, subito acclamato come santo dal gregge che amò e guidò con solerzia.



[1] Questo codice è infatti indicato come uno dei più importanti testimoni del trattato, si veda R. Leotta, Considerazioni sulla tradizione manoscritta del «De pedum regulis» di Aldelmo, «Giornale italiano di filologia», 32 (1980), pp. 119-134: 119.

[2] Facta priorum: cfr. Sidon. Carm. II 26.

[3] Vivere Christo: cfr. Paul. Nol. Carm. X 284; XXXI 499.

[4] Toto corde: cfr. Ioel. II 12; Ovid. Her. XIX 156; Paul. Nol. Carm. VII 5; XXI 372.

[5] Il manoscritto presenta la lezione magne, ma non si capisce perché dovrebbe appellarsi così il viandante, pur pio. Seguo la congettura di Willmans che propone un complemento oggetto di amans. Inoltre tu poteris magna riprende i carmi di Pietro di Pisa XVII 26.

[6] Vivit in arce: cfr. Pietro di Pisa Carm. XXI 8.

[7] Mundi clara lucerna fuit: cfr. Pietro di Pisa Carm. XVII 26.

[8] Culparum: è interessante notare che questo genitivo plurale (non così il suo nominativo) è presente esclusivamente nella poesia cristiana, nei versi di autori come Prudenzio, Eugenio di Toledo, Paolino di Perigueux, Ennodio e Draconzio.

[9] Lucifluus, -a, -um è aggettivo assente nella tradizione classica, compare in Prudenzio, Giovenco e Venanzio Fortunato.

[10] Astra poli: cfr. Prud. C. Symm. I 590; Paul. Nol Carm. XXVII 221; Drac. Satisf. 182; 233; Ven. Fort. Carm. I 9, 6.

[11] Lumen patriae: cfr. Alc. Avit. Carm. App. XV 2.

[12] Turbida corda: cfr. Prosp. Epigr. XXIX 9.

[13] Toxica saeva: cfr. Mart. Epigr. I 18, 6; X 36, 4.

[14] Praebabat munera: cfr. Iuvenc. Evang. II 8.

[15] Membra dedit: cfr. Hor. Sat. II 2, 81; Ovid. Am. I 6, 6; Eug. Tolet. Carm. XXI 22.

[16] Docuit, nutrivit: cfr. CLE MCDXXV 11 (epitaffio di Onorato di Vercelli); Pietro di Pisa Carm. XXXVIII 6.

[17] Sempre in iperbato, ma con excelso […] de germine nell’epitaffio di Rotaide di Paolo Diacono, v.2.

[18] Sine sorde: cfr. Ven. Fort. Carm. VIII 3, 321.

[19] Multos per annos: sempre con la forma in anastrofe cfr. Verg. Aen. I 31; Luc. Phars. V 472; CLE CXCI 5 (epitaffio del soldato Tito Vezzio); MCCCXXV 1 (epitaffio di Giulio, sposo di Trebia); richiama inoltre l’augurio liturgico usato nelle consacrazioni episcopali.

[20] Carpsit iter: cfr. epitaffio di Aggiardo, v. 18.

[21] Pulsate precibus: pur non essendovi queste parole il concetto è tratto da Lc XI 9. È poi un riferimento a Pietro di Pisa Carm. XVII 28.

[22] Il manoscritto presenta la lezione emendas, ma è chiaro che sia necessario un congiuntivo.

[23] Non è un caso che il brano di Ioel. II sia inserito da una versione del lezionario gallicano come lettura per la prima domenica di Quaresima. È possibile che la pericope fosse ormai diventata emblema dello spirito della μετάνοια richiesta al buon cristiano.


Ringrazio il prof. Marco Petoletti per aver fornito il materiale e lo spunto per il presente lavoro.