giovedì 28 gennaio 2021

Pensieri sulla seconda festa di S. Agnese, le "Ottave semplici" e le "Ottavuncole"

Oggi ricorre quella che nel calendario tridentino è segnata come S. Agnetis secundo, cioè la festa di S. Agnese "per la seconda volta", che cade esattamente sette giorni dopo la prima. La coincidenza è troppo grande per non pensare al residuato di un antica ottava, e proprio così la intese dom Suitbert Bäumer nella sua Storia del Breviario, adducendo la tesi che a Roma anticamente le ottave consistessero solo dell'ottavo giorno, e non dei giorni infra octavam che sarebbero stati un'influenza francescana, eccettuate quelle più importanti del Signore, dell'Assunzione e di S. Pietro, fondandosi su un ambigua indicazione del Micrologus de Ecclesiasticis Observantiis di Beroldo di Costanza (1085). Tale interpretazione tuttavia stride con il quasi coevo Ordo Romanus XI, attribuito a un canonico di San Pietro di nome Benedetto vissuto nella prima metà dell'XII secolo, che descrive come celebrare i giorni infra octavam di S. Lorenzo e S. Giovanni Battista, tra gli altri. Simili dati, peraltro, ricorrono pure negli scritti di Papa Innocenzo III, che, coevo di Francesco, difficilmente si potrebbe dire influenzato dai francescani in materia liturgica. Nondimeno, la tesi di Bäumer ebbe piuttosto seguito all'epoca, e fu probabilmente alla base dell'introduzione delle "ottave semplici" nella riforma di Pio X, di cui parleremo poi.

L'ipotesi di Bäumer, però, non è nemmeno confermata dai testi liturgici più antichi. Né il lezionario di Wurzburg (700 c.a.), né il quasi coevo Sacramentario Gelasiano parlano di "ottava" nel caso di S. Agnese, riportandone invece semplicemente un duplice Natalis, mentre ne parlano per S. Lorenzo o i Ss. Pietro e Paolo. L'eucologia gelasiana sembra suggerire, così come la lettura agiografica del notturno del 28 gennaio, che il 21 abbiano inizio i suoi tormenti, mentre il 28 ella nasca al cielo e visiti in sogno la figlia dell'imperatore Costantino.

Tuttavia, la coincidente durata dell'intervallo con quello di un'ottava, ha certamente fatto sì che in molti luoghi si diffondesse la pratica di celebrare una vera e propria ottava di S. Agnese, in una forma tuttavia particolare; tra questi luoghi si può annoverare l'ambito d'influenza aquileiese, che iniziò successivamente a celebrare nella medesima forma pure l'ottava di un altro santo d'Occidente assai venerato, Martino di Tours. Tale forma di ottava si conserva intatta nel calendario della Ducale Basilica di S. Marco fino alla sua ultima edizione, nel 1805, prima della soppressione del rito proprio in seguito all'invasione napoleonica, con il nome di "Ottavuncola".

Le due ottave nel Missale Aquileyensis Ecclesiae del 1517 (Venetiis, Liechtenstein). La rubrica al folio corrispondente indica che una commemorazione dell'ottava è da farsi in tutti i giorni fra l'ottava, nisi festum duplex vel ix. lectionum occurrerit. Il giorno ottavo è trium lectionum.

Le due ottavuncole nel Kalendarium perpetuum ad usum cleri Sanctae Marcianae Basilicae Venetiarum servatis ordine coeremonialis, atque immemorabili ejusdem consuetudine, Venetiis, Nardini, 1805. A differenza della rubrica cinquecentesca, la commemorazione durante l'ottava è fatta pure nelle feste doppie e semidoppie che vi ricorrano.

Com'è noto, nel rito romano precedente la devastazione piana esistevano solo "ottave", in generale: ognuna poi aveva le sue particolarità, espletate nelle singole rubriche del Santorale o del Temporale, quanto a modalità, precedenze, etc. Il Breviario del 1913, invece, introduce una distinzione delle ottave in varie classi: privilegiate di I ordine (Pasqua e Pentecoste), di II ordine (Epifania, Corpus Domini), di III ordine (Natale, Ascensione), comuni (Giovanni Battista, Pietro e Paolo, Assunzione, Ognissanti, Imm. Concezione, santo patrono della chiesa e della diocesi, dedicazione della chiesa e della cattedrale diocesana), semplici (S. Lorenzo, Natività della Madonna, S. Stefano, S. Giovanni Apostolo, Ss. Innocenti). Nello specifico: le ottave privilegiate regolarizzano con una ostinata categorizzazione i già presenti privilegi delle ottave del Signore; l'unica a ricevere un ampliamento di privilegi è il Corpus Domini, per compensare la perdita contemporanea del precetto. Le ottave comuni restano sostanzialmente immutate (eccetto un cambio nella modalità di commemorazione al Vespro). Le ottave di tutte le feste doppie di II classe, che un tempo non differivano dalle doppie di I classe dei santi, sono ridotte a "semplici"; una maggior acribia fu riservata alle ottave locali che non fossero quelle dei patroni del luogo o della chiesa: specialmente per quelle di feste doppie di II classe, si operò la loro completa distruzione.

Cosa significa ottava semplice? Significa che di essa non si fa nulla durante i sei giorni che la seguono, ma si commemora solo e soltanto il giorno ottavo, con rito semplice. Lo "scandalo" di queste ottave è che di fatto non esistono, perché per sei giorni non succede nulla, e solo l'ottavo ci si ricorda di commemorarle; il senso delle ottave invece, come dei μεθεόρτια bizantini, è prolungare continuativamente per un certo numero di giorni la festa, non riassumerla ex nihilo sette giorni dopo: di fatto, quest'ultimo significa fare esattamente ciò che i sacramentari antichi ci propongono per S. Agnese, ma che abbiamo visto non essere affatto un'ottava in origine! Non ci sono precedenti storici per delle ottave "vuote" come quelle inventate da Pio X. A ciò si aggiunga, quale ulteriore bistrattamento, che l'ottava della Natività della Madonna esiste solo in teoria, perché la festa dei Sette Dolori (prima fissata alla terza domenica di settembre) viene messa in data fissa al 15 settembre, e impedisce con la sua concorrenza de eadem persona addirittura la memoria dell'ottava. L'ottava di S. Stefano in 4 anni su 7 è solo commemorata, perché impedita dalla festa d'idea del Nome di Gesù ivi piazzata; l'ottava di S. Lorenzo è oscurata dalla festa di S. Pasquale Baylonne, spostata dal 16 per far posto a sua volta a uno spostamento di S. Gioacchino, e la bella messa propria dell'ottava del diacono martire è presente nei messali piani solo per ricordo dei bei tempi andati.

Visto che siamo in tema, possiamo ricordare che la riforma piana scempiò pure le domeniche infra octavam (fatta eccezione per quelle infra le ottave privilegiate): se in precedenza esse assumevano il colore dei paramenti e il prefazio dell'ottava, oltre alla commemorazione della stessa, dal 1913 esse tengono i paramenti verdi e il prefazio trinitario. L'uso di impiegare i paramenti del colore della festa nelle domeniche fra le ottave è in uso pure nel rito bizantino (nel tipico slavo, dove l'uso dei colori è normato e non è consuetudinario o basato sulla semplice alternanza di chiari e scuri come nell'uso greco), e invece è scomparso nel rito romano nel XX secolo. Chiaramente la semplificazione piana delle ottave era prodromica alla loro quasi totale soppressione nel 1955, quando si mantengono solo quella Pasquale, quella di Pentecoste e quella di Natale, (ignorando che quella dell'Epifania era più antica e venerata di quella del Natale!), alle quali sarà sottratta l'ottava di Pentecoste nel 1969 (alla quale rimozione è legata la famosa leggenda della lacrymatio Pauli VI).

Ben diversa dall'ottava semplice è l'ottavuncola: essa infatti è una vera e propria ottava, quindi commemorata tutti i singoli giorni, ma appunto solo e soltanto commemorata e non di rito semidoppio come i giorni infra un'ottava comune (che scalzerebbero feste semplici e salterio feriale); il giorno ottavo è celebrato come semidoppio nel calendario della Ducale Basilica, mentre in quello aquileiese cinquecentesco è semplice: in ambo i casi meno ingombrante del doppio di un'ottava comune.

L'ottavuncola è dunque un ottimo sistema, dotato di precedenti storici insigni nelle nostre terre, per mantenere tutte le ottave, pure quelle locali, con il loro carattere proprio di ottava senza ingolfare il calendario liturgico. Nella proposta di calendario che curiamo settimanalmente, abbiamo adottato l'ottavuncola di S. Agnese, e intendiamo provare a usare l'ottavuncola per buona parte delle ottave "semplificate" sotto Pio X e alcune di quelle locali venete (Presentazione della Madonna, Redentore...), in modo da serbarne l'uso e la consistenza tradizionali, pur soddisfacendo alla necessità oggettiva di liberare il calendario (che perseguiamo pure attraverso la sana semplificazione di molte feste).

mercoledì 27 gennaio 2021

S. Giovanni Crisostomo: Adversus Judaeos I, 2-3

La traslazione delle reliquie del Crisostomo nella chiesa dei Ss. Apostoli a Costantinopoli.
Miniatura dal Menologio di Basilio.

Nell'odierna festa della Traslazione del nostro padre tra i santi Giovanni Crisostomo (354-407), vescovo di Costantinopoli e dottore della fede ortodossa, pubblichiamo una parte della sua prima omelia contro i Giudei: in essa il santo spiega perché i Giudei hanno ripudiato la loro elezione divina rifiutandosi di accogliere il Redentore e anzi mettendolo in Croce.

Traduzione italiana tratta da: San Giovanni Crisostomo, Omelie contro gli ebrei, Verrua Savoia, CLS, 1997, pp. 6-10. Originale greco consultabile QUI.

Invero non stupitevi se ho definito miseri i Giudei. Infatti sono ben sventurati e disgraziati poiché hanno ricevuto nelle loro mani tanti beni e li hanno ripudiati, ed hanno respinto i tesori che erano loro offerti. È sorto per loro il sole della giustizia ed essi, rifiutati i suoi raggi, stanno nelle tenebre: mentre noi che eravamo nelle tenebre, abbiamo attirato a noi la luce e ci siamo liberati dall’ombra dell’errore. Essi erano i rami della radice sacra (Rom. XI, 16 - 17) ma sono stati spezzati; noi non eravamo parte della radice, eppure abbiamo portato il frutto della pietà. Essi hanno letto i Profeti sin dalla più tenera età ed hanno crocifisso Colui che dai Profeti era stato annunziato. Noi che non avevamo mai udito parlare delle Sacre Scritture, noi abbiamo adorato questo stesso crocifisso. Perciò essi sono miseri, perché hanno respinto i beni che erano loro inviati mentre altri li hanno presi per sé, portandoli loro via. Ma essi, chiamati ad essere adottati come figli, si sono abbassati alla condizione di cani: noi che eravamo nella condizione di cani, con l’aiuto della grazia divina abbiamo potuto spogliarci di questa indole bruta ed elevarci alla dignità di figli. Cosa lo fa manifesto? Cristo ha detto alla donna di Canaan "Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cuccioli" (Mt. XV, 26), designando come figli i Giudei e come cani i gentili. Vedete quindi come l’ordine è stato invertito, i Giudei sono diventati cani e noi figli. "Guardatevi dai cani, dice Paolo, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi dai circoncisi. Siamo noi i circoncisi" (Filipp. III, 2-3). Vedete dunque come quelli che prima erano figli sono caduti nella condizione di cani? Volete sapere in qual modo noi che eravamo nella condizione di cani siamo diventati figli? "Invero, a tutti coloro che lo hanno ricevuto, Egli ha dato il potere di diventare figli di Dio" (Gv. I, 12). Nulla è più miserabile di questi Giudei che da ogni parte vanno in senso contrario alla loro salvezza. Quando bisognava osservare la Legge, essi l’hanno calpestata: adesso che la Legge è stata abrogata, con insistenza essi vogliono che sia osservata. Che cosa ci potrebbe essere di più miserabile di costoro che dispiacciono a Dio non soltanto quando trasgrediscono la Legge ma anche quando la osservano? Per questo è detto: "Duri di cervice e incirconcisi di cuore, voi sempre resistete allo Spirito Santo" (Atti VII, 51): non soltanto violando le leggi, ma anche volendole osservare a sproposito. "Duri di cervice": giustamente sono stati chiamati così, perché non hanno voluto portare il giogo di Cristo per quanto dolce e benché non avesse nulla di pesante o di spiacevole. Egli dice: "Imparate da me che sono dolce ed umile di cuore (Mt. I, 29 - 30) e prendete il mio giogo su di voi poiché esso è dolce ed il mio fardello leggero". Essi però non lo sopportavano a causa della loro testardaggine, anzi non soltanto non lo hanno sopportato ma lo hanno rotto e fatto a pezzi. "Sin dall’inizio hai spezzato il tuo giogo, hai rotto i tuoi legami" (Ger. II, 20; V, 5; Sal. II, 3). È un profeta, non Paolo che dice queste parole indicando il giogo ed i legami come segni distintivi del potere: perché i Giudei avevano respinto il potere di Cristo quando avevano detto: "Non abbiamo altro re che Cesare" (Gv. XIX, 15). Avete spezzato il giogo, rotto i legami, vi siete esclusi dal regno dei cieli e vi siete sottomessi al potere dell’uomo. Vorrei che esaminaste con quanta abilità il Profeta ha espresso la sregolatezza del loro animo. Infatti non dice: avete deposto il giogo, bensì: l’avete spezzato, atto proprio della brutalità animale, dei vizi sfrontati che respingono ogni freno e non sopportano alcun potere. Da dove proviene questa loro durezza? Dalla gozzoviglia e dalla intemperanza. Chi lo dice? Mosè stesso. "Israele mangiò ed il popolo diletto ingrassò e si rimpinzò. Si rivoltò" (Deut. XXXII, 15). Come gli animali che si nutrono in ricchi pascoli diventano più ostinati ed indocili e non sopportano più né giogo né freno né la mano dell’auriga, così il popolo giudeo, spinto nell’abisso della malvagità dall’intemperanza e dalla troppa abbondanza materiale ha vissuto licenziosamente e non ha sopportato il giogo di Cristo, né trascinato l’aratro della sua dottrina. È quanto un altro Profeta aveva espresso con le parole: "Israele si comporta da pazzo, come una giovenca eccitata da un tafano" (Osea IV, 16). Un altro definisce questo popolo: vitello non istruito a sopportare il giogo (Ger. III, 18). Animali come quelli, incapaci di lavorare vanno bene per essere sacrificati. Lo stesso è stato per il popolo dei Giudei: essendosi resi da soli incapaci di agire, sono diventati adatti ad essere uccisi. Perciò Cristo ha detto: "Portate qui i miei nemici, quelli che non hanno voluto che io regnassi sopra di loro ed immolateli" (Lc. XIX, 27). È allora, o Giudeo, che dovevi digiunare, quando la tua intemperanza ti stava conducendo a questi mali, quando i tuoi eccessi ti portavano all’empietà, non adesso. Adesso il digiuno è inopportuno ed abominevole. Chi lo dice? Isaia che a gran voce esclama: "Non ho scelto io questo digiuno" (Is. LVIII, 4- 5). Perché dice così? "Perché voi digiunate per intentare azioni giudiziarie e liti, e prendete a pugni coloro che stanno sotto di voi". Perciò se il tuo digiuno era abominevole quando colpivi i tuoi fratelli, adesso, dopo che hai immolato il Signore, come potrebbe essere bene accetto? Per quale motivo? Colui che digiuna deve mostrarsi contrito, modesto, umile e non in preda alla collera; e tu colpisci i tuoi fratelli? Un tempo digiunavano e al tempo stesso litigavano e intentavano processi; ora digiunano con sfrontatezza ed estrema intemperanza, mentre danzano a piedi nudi nelle piazze col pretesto dell’astinenza; in realtà si comportano come ubriachi. Ascolta come il Profeta vuole che si digiuni: "Santificate il digiuno", dice, non celebratelo con danze. "Predicate la parola; riunite gli anziani" (Gioele I, 14). Ma costoro radunano stuoli di effeminati e portano nella sinagoga una accozzaglia di donne ignobili, il teatro intero, e gli attori: infatti non vi è alcuna differenza tra il teatro e la loro sinagoga. So in verità che ci sono delle persone che mi accuseranno di eccessiva audacia perché ho detto che non vi è differenza tra la Sinagoga e il teatro ma io li accuserò di essere impudenti, se non sono daccordo con me. Condannami se dico queste cose da solo; ma se uso le parole del Profeta allora approva quello che dico. 3 - So che molti rispettano i Giudei e pensano che i loro riti odierni sono degni di stima; per questo sono incitato a cercare di sradicare completamente tale dannosa opinione. Dissi che nessun teatro val meglio della sinagoga e porterò i profeti a testimoni; i Giudei non sono degni di fede più dei profeti. Dunque uno che dice? "La tua fronte è diventata quella di una prostituta, non vi è più nessuno davanti a cui tu arrossisca" (Ger. III, 3). Invero il luogo in cui la meretrice si prostituisce, questo è il vero lupanare. Anzi la sinagoga non è soltanto un teatro e un luogo di prostituzione, ma anche una caverna di briganti e un rifugio di belve. Infatti il profeta dice: "La vostra dimora è diventata la tana della iena" (Ger. VII, 11), non semplicemente di una belva ma di una belva impura. E ancora: "Ho lasciato la mia casa, ho abbandonato la mia eredità" (Ger. XII, 7). A colui che ha abbandonato Dio che speranza di salvezza rimane? Se Dio lascia un luogo questo diventa dimora di demoni. Ma dicono di adorare anch’essi il Signore. Lungi da noi il dire questo: nessun giudeo adora Dio. Chi lo dice? Il Figlio di Dio. "Se aveste riconosciuto il Padre mio avreste riconosciuto anche me. Ora voi non avete riconosciuto né me né il Padre" (Gv. VIII, 19). Che testimonianza addurrò più degna di fede di questa? Se non riconobbero il Padre, se crocifissero il Figlio, se respinsero l’assistenza dello Spirito, chi oserà sostenere che la loro sinagoga non è l’asilo dei demoni? No, Dio non vi è adorato, statene lontani. È di conseguenza il luogo dell’idolatria; tuttavia alcuni frequentano tali luoghi come se fossero sacri. Ciò che dico non è derivato da una congettura, ma l’ho dedotto dall’esperienza. Tre giorni or sono, credetemi, dico il vero, vidi una donna onesta, libera, di costumi irreprensibili e fedele, costretta da un uomo impuro ed insensato, che si suppone cristiano (in verità udendolo non l’avresti detto un sincero cristiano), costretta dico, a entrare in un tempio degli Ebrei e ivi affermare con giuramento alcunché di relativo ad affari controversi. Siccome implorava aiuto e desiderava ribellarsi a questa scellerata violenza, protestando che avendo preso parte ai divini misteri non le era permesso di entrare in quel luogo, io mi levai infiammato ed ardente di zelo, non sopportando che questa infelice fosse trascinata oltre in tale prevaricazione, e la strappai a questo ingiusto rapimento! Poi domandai a colui che la trascinava se era cristiano: lo confessò. Lo rimproverai energicamente mettendo in risalto la sua stupidità ed infinita follia; gli dissi che non valeva più di un asino colui che, pretendendo di adorare Cristo, trascinava un fratello nelle spelonche dei Giudei, che proprio Cristo avevano crocefisso. Proseguendo nel discorso gli insegnai per prima cosa che, come afferma il Vangelo, non è mai permesso giurare o esigere da altri un giuramento; inoltre, un fedele cristiano, ma anche chi non lo fosse, non deve mai esser spinto a tale necessità. Quando, dopo lunghe considerazioni, ebbi liberata la sua anima da tali errori, gli domandai per quale motivo avesse lasciata la Chiesa e volesse portare la donna alle riunioni dei Giudei. Mi rispose che molte persone gli avevano detto che un giuramento fatto lì, incuteva molto più timore. A tali parole gemetti profondamente, poi mi infiammai di collera ed in ultimo non potei impedirmi di ridere. Gemetti infatti, vedendo l’astuzia del diavolo che riusciva a persuadere gli uomini a fare ciò; m’infiammai poi di furore, considerando l’indolenza di coloro che sono tratti in inganno; infine risi, considerando fra di me l’inconcepibile follia degli stessi. Vi dissi e vi narrai tutto ciò perché mostrate un animo completamente privo d’umanità e non provate pena per coloro che tentano e fanno tali cose; se vedete un vostro fratello cadere in questo peccato ne deducete che la disgrazia non è vostra, ma di altri. Se poi siete accusati, vi stimate assolti dicendo: "Che mi importa? Che cosa ho in comune con costui?". Queste parole suonano come odio mortale e satanica crudeltà verso gli uomini. Ma che dici? Poiché sei un uomo, partecipi della sua stessa natura; anzi, se dobbiamo parlare di comunione della natura, il cui capo è Cristo, osi dire che non hai nulla in comune con gli altri membri? Dunque in che modo confessi Cristo come Capo della Chiesa? Giacché il capo per sua natura congiunge tutte le membra, le coordina e con cura le volge a sé. Se non hai nulla in comune con chi è membro del tuo stesso corpo, allora non hai nulla in comune con tuo fratello, né hai Cristo come capo. I Giudei vi spaventano come foste fanciullini e non ve ne accorgete. Poiché come dei servi malvagi mostrano ai bambini delle maschere orribili e ridicole, che per loro natura non sono terrificanti ma sembrano tali alle anime semplici, e fanno fare grandi risate, così i Giudei atterriscono i cristiani ignoranti con i loro fantasmi. Come possono far paura quei riti giudaici pieni di onta e di derisione, propri di uomini respinti con ignominia e ripudiati dalla giustizia divina?

sabato 16 gennaio 2021

Un inno medievale per la festa di S. Antonio il Grande

S. Antonio il Grande, affresco nella cripta
della Candelora a Massafra (Taranto)

Sebbene non molto popolare nel resto d'Europa, nelle terre imperiali dal Reno all'Ungheria era qua e là diffuso un ufficio proprio, in stile ritmico, per la gran festa di S. Antonio Abate. Di tale ufficio (che si può integralmente leggere ai ff. 86v e ss. di questo Breviario secondo l'uso di Passau, stampato nel 1490 ad Augusta), molto particolare è l'Inno del Vespro, che contiene alcuni preziosismi interessanti.

Antonii pro meritis,
Ejusque gestis inclitis,
Claris quoque virtutibus,
Exultet cælum laudibus.

Natus ex digno genere,
Verbo puer et opere,
Festinavit ad meritum,
Deus, tuorum militum.

Tempus ætatis teneræ
Non deducebat temere,
Te diligendo intime,
Lucis creator optime.

Hic satanæ blanditias
Contempsit et insidias,
Tuo fretus solatio,
Jesu, nostra redemptio.

Omni degebat tempore
Pœnas ferens in corpore,
Memor tuorum operum,
Conditor alme siderum.

Noctes orationibus
Deduxit et laboribus,
Nec cessavit ab opere
Jam lucis orto sidere.

Jejuniis se macerans,                       
Verberibus se lacerans,
Desiderabat ingredi
Ad cœnam Agni providi.

Virtutum tandem titulis
Imbutus et miraculis
Migravit ad te Dominum,
Jesu, corona virginum.

Sit laus Patri cum Filio
Semper in cæli solio,
Nosque replendo cælitus,
Veni, creator Spiritus. Amen.

Per i meriti di Antonio,
e per le sue nobili imprese,
e le sue celebri virtù,
esulti di lode il cielo.

Nato da prestigiosa famiglia,
Da fanciullo, in parole e opere,
si affrettò a ottenere il merito,
dei tuoi soldati, o Dio.

Il tempo della sua giovinezza
non lo trascorse invano,
amandoti nel cuore,
o ottimo creatore della luce.

Egli disprezzò le lusinghe
e gli inganni di Satana,
rinfrancato dal tuo conforto,
o Gesù, nostra redenzione.

Trascorreva ogni stagione
sopportando sofferenze nel corpo,
ricordandosi delle tue opere,
o almo Creatore degli astri.

Passava le notti
tra preghiere e fatiche,
e non s’allontanava dal lavoro
quando ormai era sorto l’astro di luce.

Umiliandosi nei digiuni,
denigrandosi con le verghe,
desiderava avere accesso
alla cena del santo Agnello.

Ripieno alfine di meriti
di virtù e di miracoli,
se ne andò a te, o Signore,
Gesù, corona delle vergini.

Sia lode al Padre insieme al Figlio,
sempre nella corte del cielo,
e tu, ricolmandoci (di grazia) dal cielo,
vieni, o Spirito Creatore. Amen.


Notiamo anzitutto che il poema è acrostico, e le iniziali formano il nome stesso del santo: ANTHONIVS (l'H, seppur etimologicamente assente, è sovente aggiunta nel medioevo). Più raffinato, però, è il gioco per cui ogni strofa si conclude citando il primo verso di un altro inno in uso nella liturgia (ovviamente nella sua versione precedente alla revisione classicista di Urbano VIII), e specificatamente:

Exultet coelum laudibus - al Vespro dal Comune degli Apostoli
Deus, tuorum militum - al Vespro dal Comune dei Martiri
Lucis creator optime - al Vespro della domenica sera
Jesu, nostra redemptio - al Vespro dell'Ascensione
Conditor alme siderum - ai Vespri d'Avvento
Jam lucis orto sidere - all'ufficio di Prima
Ad coenam Agni providi - ai Vespri del tempo pasquale
Jesu corona virginum - al Vespro dal Comune delle Vergini
Veni, creator Spiritus - al Vespro di Pentecoste

martedì 12 gennaio 2021

De Kalendario Juliano et Gregoriano disputatio - 2. Modo di calcolare la Pasqua

 Continuiamo la dissertazione sul calendario giuliano e gregoriano iniziata con il nostro precedente Avviso. Qui facciamo un esempio pratico di come muta il calcolo della Pasqua tra i due calendari. Più avanti discuteremo della storia dell'introduzione del gregoriano e delle reazioni allo stesso.

Nella seguente pagina, tratta da un Messale Romano impresso a Venezia nel 1573 per i tipi aldini troviamo la seguente tabella per ricavare la data della Pasqua anno per anno, secondo il tradizionale calendario giuliano.

Per individuarla, ci occorre sapere il numero aureo dell’anno, cioè a che punto si è del ciclo di 19 anni individuato da Dionigi il Piccolo (VI sec.), e la lettera domenicale, che ci permette di individuare in quali giorni cadono le singole domeniche quest’anno. Il numero aureo lo possiamo ricavare con la formula N = mod19[A] + 1, mentre sapendo che le lettere si ripetono con cicli ventottennali a partire dall’anno (fittizio) 0 bisestile con lettera CD, possiamo usare una tabella come questa:

Se volessimo, per esempio, individuare la data della Pasqua del 1587, ci basterebbe calcolare il numero aureo, che è 11, e la lettera domenicale, che è A; quindi, nella tabella, troviamo l'11 tra i numeri aurei e scorriamo verso il basso sino a che troviamo la lettera A: abbiamo pertanto la Pasqua al 16 aprile (26 del calendario gregoriano, essendovi nel XVI secolo dieci giorni di differenza).

La seguente pagina è invece tratta da un Messale Romano impresso sempre a Venezia dagli stampatori fiorentini Giunti nel 1584, e che quindi recepisce la riforma gregoriana del calendario.

Come si può vedere, essa differisce alquanto dalla precedente, e non presenta un metodo di individuazione, bensì fornisce la data anno per anno. Inoltre, vediamo introdotto un concetto nuovo: l’epatta. L’epatta è un numero, il cui calcolo risale all’astronomo Metone di Atene (V sec. a.C.), necessario per allineare il calendario lunare a quello solare, e indica precisamente quanti giorni dista il 22 marzo (o il 1° gennaio secondo un uso più moderno) dall’ultima luna nuova, secondo dei cicli di 19 anni detti cicli metonici. E’ proprio dalle epatte – come vedremo – che dipende il calcolo del plenilunio pasquale, e nel calendario giuliano queste certo non mancavano, ma era stabilita un’equivalenza biunivoca tra il numero aureo e l’epatta (infatti hanno cicli di eguale durata), che rendeva non necessario specificare quest’ultima.

L’astronomo calabrese Luigi Giglio, cui si deve la paternità della riforma del calcolo della Pasqua nel 1582, cercando di allinearsi il più possibile alla reale posizione del sole rispetto alla rotazione terrestre, risolse di riformare i cicli metonici, utilizzando non più 19 epatte, bensì 29 (in realtà 31, essendovene due particolari), non più ripetute ciclicamente, ma in successione non periodica (in realtà vi è una periodicità di qualche milione di anni, del tutto irrilevante per noi…). Proprio per questa mancata periodicità, è necessario indicare la Pasqua anno per anno e non è più possibile desumerla da una semplice tabella.

Se guardiamo l’anno 1587, troviamo indicata la lettera domenicale D (e fin qui tutto bene, visto che il modulo della differenza in base 7 tra A e D è uguale a 10, come i giorni di differenza tra giuliano e gregoriano), il numero aureo 11 (che qui è un puro residuato del giuliano, essendo stato reso inutile con la riforma dei cicli metonici), e l’epatta 21 (quando invece l’epatta giuliana corrisponde-nte sarebbe la 28 del ciclo di Giglio!). Laonde si ricava come data della Pasqua il 29 (19) marzo.

Ora, noi sappiamo che dalle epatte dipende non solo il calcolo della Pasqua cristiana, ma pure di quella giudaica (esistono in realtà vari calcoli della festa legale, dovuti a differenze nell’uso dei mesi embolistici e nella successione dei mesi di 30 giorni: quello attualmente usato, elaborato dal rabbino Mosè Maimonide nel XII secolo, non coincide sempre con quello antico, ma nel caso del 1587 sì). Ora, se noi calcoliamo la festa giudaica di quell’anno, scopriamo che il 14 Nisan cade il 14/24 aprile (in realtà il 13/23, ma è posticipato di un giorno perché l’anno ebraico non può iniziare di lunedì, e pertanto tutto è traslato in quell’anno). Il risultato è che, mentre la Pasqua giuliana cadrà regolarmente la domenica successiva alla festa legale, la Pasqua gregoriana è caduta quasi un mese prima della stessa, in violazione della decisione del Concilio di Nicea!

Dunque qui si capisce pure il valore del numero aureo, che fu elaborato da Dionigi il Piccolo per contenere in sé al contempo il valore astronomico dell’epatta e la posticipazione rispetto alla festa giudaica, fornendo direttamente la prima domenica che, dopo il plenilunio e dopo la festa legale, rispettasse pienamente i canoni niceni.

Mediamente (una statistica precisa non è possibile data la variabilità dell’epatta), la Pasqua gregoriana cade prima di quella giudaica 5 anni su 10; 2 anni su 10 cade insieme a quella giudaica, e 3 anni su 10 insieme a quella giuliana. Dei 5 anni sopraddetti, può apparire che in uno o due anni non sia così per le già menzionate differenze di calcolo tra i giudei, mentre il numero aureo e il riferimento del calendario giuliano è sempre rispetto al calcolo giudaico in uso ai tempi di Dionigi il Piccolo (e ragionevolmente pure in uso all’epoca di Nostro Signore). Ad esempio, nel 2021 la Pasqua gregoriana cadrà il 4 aprile (22 marzo); la festa legale secondo il calcolo antico cadrebbe il 1° maggio (18 aprile), e la Pasqua giuliana sarà regolarmente dopo, il 19 aprile (2 maggio); secondo il calcolo attualmente in uso dalla maggior parte dei giudei, cadrà invece il 28 (15) marzo, ma vi sono pure alcuni gruppi di ebrei che calcolano in modo diverso e festeggeranno il 4 aprile insieme alla Pasqua gregoriana. Tuttavia, questa prolessi della festa giudaica nell’uso attuale, che si verifica in alcuni limitati anni, non risolve certo la problematica generale della Pasqua gregoriana.

martedì 5 gennaio 2021

AVVISO

Secondo le istruzioni del Pontificale Romano, nel dì dell'Epifania, al termine del Vangelo della Messa, un canonico, rivestito di piviale, proclama solennemente la data della Pasqua e, di conseguenza, delle altre feste mobili che da essa dipendono.

Approfittiamo di questo quanto mai congeniale frangente per comunicare una scelta redazionale: dopo diversi anni in cui, nella pubblicazione degli articoli di approfondimento, si è seguito pressoché interamente il calendario gregoriano - benché non fosse quello personalmente seguito dalla maggior parte degli autori - per venire incontro ai nostri lettori che si presume in maggioranza lo seguano, si è deciso alfine di optare definitivamente per seguire il Paschalio giuliano, rispettando così anche in questa sede le prescrizioni del settimo canone del Concilio di Nicea sulla data della Pasqua.

Per il momento, il calendario seguito per le feste fisse resta quello gregoriano: di fatto, seguiremo il cosiddetto calendario "giuliano riformato", in uso da circa un secolo nelle chiese di Grecia, Cipro, Romania e Bulgaria, nonché nei Patriarcati di Costantinopoli, Alessandria e Antiochia, pur essendo consci che si tratta di un miscuglio di compromesso e con molti problemi. L'idea è quella di giungere, attraverso un periodo di transizione, a usare interamente il calendario giuliano pur qui.

Nella sezione "Calendario liturgico" del blog, da esattamente un anno non aggiornata, cercheremo di inserire da domenica prossima una proposta di calendario liturgico settimanale in questo modo, seguendo l'eortologio "neo-giuliano", le rubriche tridentine e un calendario romano-veneto, ripulito di molti appesantimenti post-tridentini, di nostra elaborazione.

Quest'anno la pasqua giuliana e quella gregoriana sono piuttosto distanti: quest'ultima cadrà il 4 aprile, mentre la prima il 19 aprile giuliano, cioè il 2 maggio del nostro calendario. Di seguito riportiamo l'annunzio della Pasqua con le date del "giuliano riformato", e sotto - per confronto - il medesimo con le date interamente giuliane.

Noveritis, fratres carissimi, quod annuente Dei misericordia,  sicut de Nativitate Domini nostri Jesu Christi gavisi sumus, ita et de Resurrectione ejusdem  Salvatoris nostri gaudium vobis annuntiamus. 
Die vigesima octava Febuarii erit Dominica in Septuagesima. 
Dies decima septima Martii dies Cinerum,  et initium jejunii sacratissimæ Quadragesimæ. 
Secunda Maji sanctum Pascha Domini nostri Jesu Christi  cum gaudio celebrabimus. 
Die decima Junii erit Ascensio Domini nostri Jesu Christi. 
Die vigesima ejusdem Festum Pentecostes. 
Prima Julii Festum sanctissimi Corporis Christi. 
Die vigesima octava Novembris Dominica prima Adventus Domini nostri Jesu Christi, cui est honor et gloria, in sæcula sæculorum. Amen. 

Noveritis, fratres carissimi, quod annuente Dei misericordia,  sicut de Nativitate Domini nostri Jesu Christi gavisi sumus, ita et de Resurrectione ejusdem  Salvatoris nostri gaudium vobis annuntiamus. 
Die decima quinta Febuarii erit Dominica in Septuagesima. 
Dies quarta Martii dies Cinerum, et initium jejunii sacratissimæ Quadragesimæ. 
Decima nona Aprilis sanctum Pascha Domini nostri Jesu Christi  cum gaudio celebrabimus. 
Die vigesima octava Maji erit Ascensio Domini nostri Jesu Christi. 
Die septima Junii Festum Pentecostes. 
Decima octava ejusdem Festum sanctissimi Corporis Christi. 
Die vigesima nona Novembris Dominica prima Adventus Domini nostri Jesu Christi, cui est honor et gloria, in sæcula sæculorum. Amen. 

domenica 3 gennaio 2021

La liturgia, la morale e il diritto: compenetrazione o sottomissione?

Recentemente, in occasione della notte di Natale funestata dalle misure di coprifuoco imposte dal governo italiano, il locale distretto della FSSPX ha diramato un comunicato, indubbiamente di buonsenso, in cui si deprecava la scelta operata dalla Conferenza Episcopale Italiana di anticipare la messa della notte in orario serale. Nel complesso si è trattato di un buon comunicato, pure con un tentativo (non riuscito benissimo, ma si può perdonare dato l'ambiente) di citare qualche fonte di storia della liturgia, che tuttavia scade irrimediabilmente nel finale, quando afferma che: "il Distretto italiano ribadisce che mantiene la tradizione bimillenaria del precetto festivo il quale si assolve dalla mezzanotte alla mezzanotte del giorno festivo stesso"

Peccato che il precetto festivo così come lo conosce la Chiesa Cattolica sia stato introdotto solo dal Concilio Lateranense nel 1215; le fonti che in precedenza, in modo molto diverso e talora contraddittorio da luogo a luogo, elencano delle feste che oggi potremmo considerare "di precetto" erano piuttosto norme statali relative ai giorni in quibus sabbatizandum, ovvero di astensione dai lavori servili, di sospensione dei tribunali etc., non già alla partecipazione alla liturgia - che, come vedremo, era data per scontata. Dunque l'assolvimento di un precetto partecipando a una liturgia entro le 24 ore del giorno festivo è una norma tutt'altro che bimillenaria, bensì meno che millenaria. Inoltre, così come per il digiuno, ci sarebbe molto da dire sulla correttezza di osservarlo dalla mezzanotte alla mezzanotte e non, piuttosto, da vespero a vespero. La Fraternità avrebbe potuto più convenientemente ribadire il sì quasi bimillenario costume di non celebrare ordinariamente l'Eucaristia dopo il mezzodì, interrotto scandalosamente da una costituzione di Pio XII del 1953, ma non penso sia nelle loro intenzioni (dacché la seguono) e, forse, nemmeno nelle loro conoscenze.

Ma il punto grave è qui un altro. Il comunicato dovrebbe essere inteso perché i fedeli e i religiosi sappiano che la liturgia ha dei tempi e delle esigenze, anche simboliche e cosmologiche (appunto cosmologica è la ragione che impone di non celebrare al pomeriggio, per esempio), che non si possono variare a cuor leggero per osservare un DPCM di dubbia legittimità e comunque contingente. Non sarebbe male ricordare che queste esigenze furono violate proprio da Papa Pacelli quando, in occasione del ben più motivato coprifuoco bellico, concesse la facoltà di celebrare la messa della notte alle 16 del pomeriggio, anticipando di un decennio la sua stessa introduzione della messa vespertina: non ho approfondito le circostanze speciali che indussero alla concessione della facoltà, ma ceteris paribus non vi sarebbe stata ragione - come non v'è ragione nel 2020 - di anticipare una messa della notte quando i fedeli possono senza incomodo ricevere le grazie della Liturgia e dei Sacramenti partecipando alle due messe dell'aurora e del giorno. Eppure, la frase finale ci fa capire che non è questo il senso del comunicato: il senso del comunicato è far capire ai fedeli come assolvere correttamente il precetto di Natale. Come se un fedele andasse in chiesa per assolvere il precetto, e non piuttosto per ricevere la Grazia divina.

Ne conseguirebbe che un fedele dovrebbe andare in chiesa solo nei giorni di precetto, che poi è la convinzione di moltissimi fedeli; anche se il 24 giugno non lavoro, siccome non è giorno di precetto chi me lo fa fare di andare alla liturgia? In Oriente, dove il concetto di "precetto" e tutti le sue superfetazioni giuridiche non sono mai penetrati - Deo gratias - il concetto è piuttosto che ogni fedele deve andare alla liturgia ogni volta che può, sia di domenica, sia la festa di un santo, siano entrambe: del resto, noi sappiamo che nella liturgia riceviamo la grazia deificante, il tesoro più grande su questa terra, e vorremmo andarci solo e soltanto quando una legge ce lo comanda? Difficilmente si potrebbe dire che crediamo davvero in questa grazia. Senza contare l'altro assurdo: vado alla liturgia il 24 mattina, magari con Prima e gli altri uffici, poi al Vespro di Natale, e tornerò il 26 per la liturgia e il Vespro, ma per un impedimento non sono riuscito ad andarci il giorno di Natale, ho ricevuto probabilmente (considerando un'equipollente disposizione d'animo) di chi, potendo andarvi tutti questi giorni, vi è andato solo a Natale. Ma legalmente lui ha soddisfatto il precetto, io l'ho violato. Sic...

Recentemente, poi, su un blog curato da una persona indubbiamente competente in materia rubricale, che edita quotidianamente un esteso "ordo" secondo le rubriche di Pio X, è stata pubblicata un'ampia dissertazione, ispirata a un'opera del padre Pruemmer, circa le norme morali e giuridiche relative all'obbligo del Divino Ufficio per i chierici. Devo dire che a leggerlo sono stato alquanto disturbato dal voler osservare ogni minimo dettaglio, con un morboso scandaglio di nugae su cui il buonsenso saprebbe dare risposte da sé soddisfacenti. E' una tendenza del resto diffusa nella moralistica cattolica, specie dall'Ottocento, quella di entrare nei minimi dettagli di ogni specie di peccato o violazione della norma canonica, una casuistica talora lassista e talora acribica che, in alcune materie come la morale sessuale risulta ridicola e ai limiti del pornografico. La tradizione dei padri asceti insegna che il fedele che si sforza di vivere in grazia di Dio, frequenta la liturgia e i sacramenti, prega devotamente e legge le Scritture e le vite dei santi, ha da sé il discernimento (quello che si diceva sensus fidelium) per capire quali atti lo allontanano da Dio e lo consegnano alla morte spirituale e quali no; in caso di dubbio, si può consultare il padre spirituale per una decisione nel caso specifico, che può valutare inoltre se agire con economia o acribia a seconda delle condizioni personali e spirituali del suo figlio. Una casuistica morbosa e dettagliata non aiuta nemmeno il fedele scrupoloso, anzi lo consegna a sempre ulteriori scrupoli e incertezze, data l'ovvia generalità della casuistica difficilmente tratterà un caso del tutto identico a quello che si presenta nella realtà, e le distinzioni circa condizioni esterne, consapevolezza e volontà confondono lo scrupoloso piuttosto che aiutarlo.

Ma in questo caso sono stato disturbato non solo dalla puntigliosità della casuistica, ma dell'impostazione generale dello scritto: trattare il Divino Ufficio come se fosse meramente l'obbligo materiale del chierico. Si discute di cosa fare se si è saltata un'ora per errore, o recitata due volte... addirittura se suonando l'organo all'ufficio non si sono recitati tutti i versetti, e si perde di vista quello che è il vero scopo dell'Ufficio Divino, ovvero la santificazione del tempo e la lode incessante a Dio. Leggere il Breviario in un paio d'ore subito scoccata la mezzanotte, come faceva il cardinale Richelieu secondo un antico racconto, santifica il tempo e rende lode incessante a Dio? Certamente poi il padre Pruemmer raccomanda che sarebbe meglio recitarlo inginocchiati davanti al Sacramento piuttosto che seduti o stesi (sic!), ma si guarda bene dal dire che sarebbe molto meglio che fosse cantato in chiesa in modo che il popolo ci possa partecipare. Quel che dirò scandalizzerà forse i "tradizionalisti", ma un prete che canta in parrocchia il Mattutino e il Vespro tutti i giorni e non recita le altre ore privatamente loda Dio e assolve al suo mandato (cioè celebrare la liturgia per il popolo) molto più di uno che legge nella sua stanza tutto il Breviario. La liturgia è un atto pubblico, e se la recita di alcune ore liturgiche può avvenire come devozione personale non c'è ragione, quando si ha la possibilità, di non cantarle in modo pubblico in chiesa. Paradossalmente, infatti, l'unica disposizione giuridica che l'estensore dell'articolo attesta già decaduta molti decenni prima del Vaticano II, e le cui prime fasi di decadenza - aggiungo - risalgono all'età tridentina, è quella che i canonici e i religiosi con obbligo di coro dovrebbero cantare per intero tutto l'ufficio. Pia illusione da alcuni secoli a questa parte, almeno per i Mattutini e pure per molte altre ore temo.

Un esempio di quella che io definisco follia giuridica: "I Chierici contraggono l'obbligo di recitare l'Ufficio a partire dall'ora della loro Ordinazione al Suddiaconato, e l'Ora Canonica da cui devono iniziare è quella che meglio corrisponde all'orario dell'avvenuta Ordinazione. Per esempio coloro che sono stati ordinati prima delle 9.00 del mattino non sono tenuti a recitare né Mattutino né Lodi né Prima del giorno della loro Ordinazione, ma (pur potendo anche recitare quelle Ore se lo desiderano) devono cominciare almeno da Terza; [...] Se hanno già recitato l'Ora Canonica in questione prima dell'Ordinazione, allora sono tenuti a ripeterla dopo, perché in quel non potevano soddisfare a un precetto che non avevano ancora contratto". Solo a leggere un'elucubrazione del genere si rimane interdetti, ma se si pensa alle conseguenze... un chierico viene ordinato suddiacono, presumibilmente in un solenne pontificale in Cattedrale preceduto dal canto di Terza... ma questo canto di Terza per lui non era valido, nulla, perché "per precetto" vale di più la Terza che mormorerà distrattamente la sera in camera sua, finiti i festeggiamenti, di quella che ha ascoltato devotamente cantare in coro mentre attendeva con gioia di rivestire per la prima volta il sacro manipolo e ministrare al Divino Servizio.

Esempi a parte, abbiamo più volte rimarcato come un intendimento puramente giuridico dell'atto liturgico porti non solo a snaturarlo e a non capirlo, ma anche a violarlo. Le drastiche e deleterie riforme dell'Ufficio compiute nel XX secolo furono tutte motivate col pretesto di alleggerire il carico di quelli che dovevano quotidianamente recitare l'Ufficio. Non si pensò, piuttosto, a sgravarli dal dire qualche ora dello stesso, che detta male e in fretta com'era non faceva certo piacere a Dio, ma si preferì picconare la tradizione liturgica plurisecolare per ossequio alla disposizione giuridica. Similmente avvenne con le riforme della messa, e particolarmente le semplificazioni rubricali occorse tra il 1955 e il 1962.

L'ufficio cantato (in Oriente e Occidente) per rendere lode a Dio
e recitato passeggiando (da don Abbondio) per assolvere il precetto giuridico/morale.

Nel XX secolo fa da padrone il diritto, che ha il suo trionfo con il Codice piano-benedettino, che si permette di normare in modo non solo differente dal diritto canonico sino ad allora in vigore, ma pure in aperto contrasto con le tradizioni e le consuetudini liturgiche, in ossequio a un'ossessione per il diritto che ha afflitto in diverse fasi la Chiesa Romana fino a renderla un monstrum burocratico in cui già Bernardo di Chiaravalle deprecava il fatto che ivi "quotidie perstrepunt leges, sed Justiniani, non Domini", e in cui la funzione precipuamente spirituale della Chiesa viene offuscata in un complesso meccanismo mondano. Nei secoli precedenti troneggiava la morale: l'osservanza delle norme liturgiche era ridotta a un complesso di osservanze moralistiche, per cui il sacerdote era minacciato di peccato per ogni minima azione che andasse contro le rubriche. Questo si rendeva probabilmente necessario in uno scenario di clero distratto e non sempre pio e devoto, purtroppo non raro a quei tempi, talché l'obbligo morale era l'unico forte deterrente (per alcuni...) a rispettare le norme di una liturgia cui non prestavano gran cura o attenzione. Così come il diritto poi sarebbe stato l'unico strumento per far tornare ai suoi doveri il prete di XX secolo, che doveva occuparsi della buona società cristiana e della dottrina sociale rischiando di dimenticarsi quella cosa trascurabile che si chiama Liturgia...

Chi scrive non è affatto contro le rubriche o le norme liturgiche, anzi, le ha studiate e le studia tutt'ora e rientrano nei suoi diletti e interessi. Tuttavia, lasciando da parte il fatto che talora il buonsenso stesso porta a preferire l'osservanza del principio sopra la norma scritta, specie in fatto di norme recentiores et deteriores (i principi della filologia spesso s'invertono, in questo campo), per potersi approcciare serenamente allo studio della normativa liturgica è fondamentale capire che questa normativa non è un codice di diritto canonico o un libro di precettistica morale, bensì una forma tipica e motivata storicamente o simbolicamente di rendere a Dio un culto gradito, sacro e apostolico (non un "culto legale" come direbbero taluni).

La liturgia è tanto importante, nella concezione dei Padri, da fondare addirittura la dogmatica; come potrebbe allora sottomettersi, come di fatto è successo, a branche come il diritto canonico o la moralistica, che sono ampiamente inferiori alla dogmatica? Eppure ciò è stato fatto: e questo è il segno che chi ha permesso che ciò accadesse aveva una concezione della liturgia opposta a quella dei Padri. E il risultato è stato che, dimenticato il motivo per cui si era cercato di introdurre vincoli moralistici o giuridici all'atto liturgico, cioè vincere la pigrizia e la negligenza dei preti, a fronte dell'invincibilità della loro noncuranza e della moltiplicazione dell'abuso si è preferito salvaguardare il vincolo esterno piuttosto che la sostanza, ovvero la liturgia dei Padri e degli Apostoli.

Nel Codice del 1917, come espressione di una mentalità che nasce secoli prima e prosegue ancor oggi, la liturgia non è che una branca del diritto canonico. Gli Apostoli che si ascendevano al Tempio per il servizio divino, e che nelle prime domus ecclesiae celebravano le sante ierurgie (di cui alcune, come quella di S. Giacomo fratello del Signore, sono giunte nella loro sostanza sino a noi), secondo questo orribile principio avrebbero fatto meglio a stendere un codice di diritto e a celebrare processi canonici...