giovedì 29 giugno 2017

SS. Pietro e Paolo apostoli

Constítues eos príncipes super omnem terram: mémores erunt nóminis tui. Dómine.
(Graduale)



San paolo nasce a Tarso, probabilmente nel periodo di tempo andante dal 5 al 10 a Tarso di Cilicia, importante centro di fusione di culture, che comprendeva una fortissima presenza ellenica, romana e giudaica, alla quale apparteneva la famiglia di Paolo,che,come tutti i cittadini di Tarso, per una sorta di cio' che oggi potremmo anacronisticamente definire 'statuto speciale ',aveva la cittadinanza romana. Numerose sono le ipotesi che porterebbero allla spiegazione di un tale provvedimento, ma non v'è alcuna certezza a riguardo.

In giovinezza e' mandato a studiare da Gamaliele, rabbino di una grandissima importanza nel mondo ebraico dell'epoca,a sua volta citato due volte negli atti degli Apostoli, dove viene descritto mentre testimonia al Sinedrio a loro favore. Paolo tuttavia non sembra cogliere l'inclinazione del maestro e vede i cristiani come una setta pericolosa da estirpare. La sua prima comparsa nella narrazione biblica non e' certo positiva-si dice infatti negli Atti che Paolo fosse presente e consenziente al martirio del protomartire Stefano diacono. Tuttavia, definire Paolo un persecutore crudele e spietato sarebbe assai scorretto, poiche le notizie sul suo operato in questo ambito negli atti  e nelle lettere sono assai numerosi, ma non mai e' mai spiegata la natura di essi. Probabilmente,oltre che ad essere accentrati nell' area di Gerusalemme,i suoi provvedimenti erano sempre di carattere giuridico e fiscale, anche se la sua appartenenza, seppur indiretta, al Sinedrio fa di lui uno degli ebrei piu influenti del suo ambiente.
Persecutore o meno, Paolo si avvale, circa nel 35, delle lettere del Sinedrio che lo autorizzano a proseguire nell'arresto di tanti i cristiani quanti ne sarebbbe riuscito a trovare a Damasco.ma il Signore, nella sua infinita misericordia verso il genere umano infedele e peccatore,si manifesta a paolo mentre egli sta cercando di  ultimare la rovina della vita della comunita' damascena, avvolgendolo con la luce del suo volte, acceccandolo fisicamente, lui, gia' cieco nell'anima, e giammai rimproverandolo, gli chiede semplicemente ' Saul, Saul, quid me persequeris?'. Alla timorosa domanda sull'identita' del Parlante,a Paolo viene risposto di andare nella citta e che ivi gli sara' detto come procedere.Paolo cosi' entra nella citta' di Damasco, e vi riceve il battesimo da parte di Anania. E' peculiare come gli svariati testi trattino la chiamata di Paolo diversamente: dalla descrizione dettagliata degli atti si passa al contenuto delle lettere paoline, dove la sua conversione viene trattata in modo assai npiu razionale e piu simile ad un cammino di riflessione e speculazione interiore.
Dopo il battesimo ed una permanenza di diversi anni (circa una decina) a Tarso, Paolo conosce il suo curatore Barnaba, che al tempo lavorava nella principale metropoli del vicino oriente, Antiochia, e che porta Paolo con se in qualità' di un suo collaboratore. I due faranno ritorno a Gerusalemme tra un anno circa ,nell'occasione di una raccolta di generi alimentari ideata dalla chiesa di Antiochia in soccorso della chiesa di Gerusalemme, colpita da una disastrosa carestia. Questa, per Paolo, fu gia la seconda visita a Gerusalemme. La prima era stara molto breve, ed era stata fatta per pratiche ragioni di sicurezza, avendo Paolo gia rovinato i rapporti con le autorita' della citta di Damasco, e duro' all'incirca due settimane,durante la quale Paolo conobbe gli apostoli e cerco' di allacciare un  rapporto con la comuniuta' cristiana, che tuttavia fu molto guardinga nei suoi confronti, memori della sua recente posizione nei loro confronti. Questo atteggiamento cambio' quando un influente ex levita, Barnaba appunto', si fece garante della sua persona. Con Barnaba ed alcuni compagni, Paolo nel 45 circa intraprende  quello che sara' il primo dei suoi tre viaggi apostolici. Le aree interessate sono Cipro, isola natale di Barnaba, e le cittadine dell'Asia Minore che essi toccano al ritorno. La loro predicazione ha un grandissimo successo, e viene fondata la comunita' galata. Al ritorno, Paolo e Barnaba vennero coinvolti in un dissidiio particolamente aspro avvenuto tra  un notevole numero di pgani convertiti che non erano precedentemente cresciuti nella fede giudaica, e che di conseguenza non seguivano alcune regole giudaiche, in primis la circoncisione, ed alcuni gruppi di cristiani cresciuti invece appunto nella tradizione levitica che giudicavano tali comportamenti necessari nella vita di un cristiano.
Pietro ribadì che la salvezza  proviene dalla Grazia del Signore Gesù, che con il prorpio esempio diretto non fece distinzione tra i nuovi cristiani e i giudei convertiti; Paolo dal canto suo illustrò i risultati meravigliosi ottenuti fra i ‘gentili’ e si dichiarò a favore della non obbligatorietà dell’osservanza della legge mosaica, al contrario di molti cristiani per lo più ex farisei, che non volevano rinunciare alle loro pratiche, osservate sin dalla nascita, come la circoncisione, l’astensione dalle carni impure, la non promiscuità con i pagani o ex pagani, ecc.
Alla fine fu l’apostolo Giacomo a fare una proposta, accettata da tutti, non imporre ai convertiti dal paganesimo la legge mosaica, la cui pratica rimaneva facoltativa per gli ex ebrei.
A Paolo, Barnaba, Sila e Giuda Taddeo, fu dato l’incarico di comunicare ai fedeli delle varie comunità le decisioni prese. Ma la polemica continuò fra i cristiani delle due provenienze, fino a quando la Chiesa, ormai affermata nel mondo greco-romano, divenne autonoma dall’influenza della sinagoga.
Risolta,o quasi, la questione sulla legge mosaica, Paolo, attorno al 50, organizza un secondo viaggio missionario, assieme a Barnaba, con il quale si dividera' per dei conflitti sorti tra i due apostoli a causa del nipote di Barnaba Marco, che gia procuro' non pochi problemi alla spedizione del viaggio precedente. Paolo quindi diventa il capo indiscusso del gruppo. Le regioni toccate sono un'altra volta le aree gia interessate alla predicazione durante il primo viaggio paolino, e poi ancora le aree dell'Epiro e della Grecia. Paolo e Silvano sono arrestati ed imprigionati una volta a Filippi,ma vengono liberati miracolosamente dopo grazie alla conversione del loro carceriere dopo un terremoto.
Il terzo viaggio apostolico di Paolo comincia a meta' degli anni 50, che si preannuncia essere il maggiore per importanza e per la durata. Come nel viaggio precedente, Paolo passa di nuovo nei territori gia toccati nel viaggio precedente ovvero per alcune aree della Grecia e della Turchia. Comincia ad Efeso, dove Paolo rimane per tre anni. Visita con particolare affetto le comunita  da lui fondate dell'Asia minore, sapendo, dopo la profezia di Agabo (cristiano che predisse tra l' altro la carestia che dette l' occasione per la seconda visita di Paolo a Gerusalemme) di non aver piu  molto tempo a disposizione prima dell'arresto e della prigionia.
Tornato a Gerusalemme, pur conoscendo la riluttanza di alcuni ebrei nei suoi confronti inasprisce la situazione, venendo sospettato  di aver profanato un tempio ebraico poiché vi introdusse un cristiano non giudeo provocò la reazione della folla e solo l’intervento del tribuno Claudio Lisia lo salvò dal linciaggio; convinto però che Paolo fosse un egiziano pregiudicato, lo fece flagellare, nonostante le sue proteste perché ciò era illegittimo, essendo cittadino romano.
Condotto davanti al Sinedrio, Paolo abilmente suscitò una contrapposizione tra Sadducei e Farisei, cosicché Lisia lo riportò in carcere e il giorno dopo, volendosi liberare della spinosa questione, mandò l’Apostolo sotto scorta a Cesarea, poiche quest ultimo era seriamente minacciato di morte,dal procuratore Antonio Felice, il quale lo trattenne per due anni.
Solo il suo successore Porcio Festo, nel 60, provvide ad istruire un processo contro di lui a Gerusalemme, ma Paolo si oppose e come “civis romanus” si appellò all’imperatore.
Appena fu possibile, fu consegnato al centurione Giulio con evidente sollievo di Festo,èer essere trasferito a Roma, accompagnato da Luca e Aristarco; il viaggio a quel tempo avvento uroso, fu interrotto a Malta a causa di un naufragio, dopo tre mesi di sosta, proseguì a tappe successive a Siracusa, Reggio Calabria, Pozzuoli, Foro Appio e Tre Taverne, arrivando nel 61 a Roma.Qui ricevette nel 67 la corona del martirio sotto la persecuzione di Nerone,presso Aquae Salviae,poco piu a sud di Roma.Sono numerose le testimonianze gia dei contemporanei relative al suo martirio-tra i primi abbiamo Tertulliano, che parlando del martirio di Paolo dice che egli 'e' morto come Giovanni'.Un altra importantissima fonte e' Eusebio,che parlando di Paolo nella sua 'Storia Ecclesisastica' specifica che il suo martirio fu lo stesso di quello di Pietro,anche se non lo indica con precisione.La data esatta sarebbe, secondo gli  'Atti di Pietro e Paolo' testo apocrifo del IV secolo scritto in greco,il 29 giugno appunto.

Il ritratto di Paolo che deduciamo dal nuovo testamento e' composito e ricco, a volte contradditorio, formato dall'unione da molti tratti ambivalenti. Paolo era un uomo caratterizato da un zelo infiammato,dovuto alla peculiarita' del rapporto con il Signore,che comincio ' con una manifestazione che non gli poteva certo lasciare dei dubbi o dei tentennamenti, lì sulla via di Damasco. A causa di questo nella sua predicazione non poteva curarsi eccessivamente dei propri rapporti non solo con il potere o con la giurisdizione o con le maggioranze,ma addirittura con gli stessi apostoli,con i quali ha numerosi dissidi, tutti descritti direttamente o indirettamente sia nelle lettere paoline sia negli Atti. Grave e' il dissidio con Marco, che rimprovera per aver mancato di fede durante il suo primo viaggio, e con Pietro, che al concilio di Gerusalemme  pubblicamente si espresse contrario a lui,pur proponendo assieme a Giacomo   una soluzione migliore. Paolo e' pronto a sopportare ogni fatica e prova se queste possono portare ad una maggiore diffusione della chiesa di Cristo,atteggiamento visibile soprattutto alla comunita' di Corinto,ma poco prima delle sue ultime prove,che avranno come premio la corona del martirio,scrivendo la seconda lettera a Timoteo,Paolo sembra stanco,abbattuto e quasi rassegnato,deluso.

Pietro non e' certo meno determinato di Paolo. Forte del rapporto particolarmente stretto che cristo ebbe con lui, nei giorni immediatamente successivi alla sua passione e morte grazie alla sua forza e carisma assume la guida del piccolo ed impaurito per i recenti avvenimenti gruppo degli apostoli, provvedendo subito a ristabilire l equilibrio del gruppo sostituendo il posto di Giuda da un tale Mattia. Subito dopo la Pentecoste, spiegando alla folla incredula gli effetti della discesa dello spirito santo avvalendosi di una lunga citazione del profeta Gioele, Pietro compie il suo primo miracolo, guarendo un paralitico, e subito dopo viene arrestato dai sacerdoti, ma, condotto assieme a Giovanni all'interrogatorio, manifesto' una tale decisione assieme ad una fortissima tranquillita' d animo, ed essi furono rilasciati sotto mancanza di prove. I sinedriti tuttavia non si arresero e poco tempo dopo lui e Giovanni vennero nuovamente arrestati, e secondo la tradizione un angelo li aiuto ad evadere nottetempo. Dopo questo Pietro e Giovanni trascorsero un certo periodo in Samaria, e Pietro poi si diresse verso la zona costiera, a Giaffa, dove, grazie alla propria fama di taumaturgo, accrebbe notevolmente il numero dei fedeli. Nel frattempo Erode Agrippa, cominciata la persecuzione anticristiana, fece imprigionare e giustiziare Giacomo Zebedeo, guadagnandosi  cosi l'appoggio del partiro sinedrita. Procedette nel proprio intento cercando di arrestare Pietro per la terza volta,ma anche qui egli fu soccorso da un angelo, riuscendo ad uscire dalla prigione ed indirizzandosi in seguito alla casa di Maria, madre di Marco. A causa di una conversione attuata da Pietro, quella del centurione Cornelio, nasce una aspra contesa che disgiunge varie parti della giovane chiesa cristiana, in seguito nota come l'incidente di Antiochia. Cornelio infatti risulta il primo convertito al cristinesimo a non aver riportato, nell'infanzia, l'esercizio della legge mosaica, ovvero la circoncisione. L'incidente d antiochia,nonostante sara presente ancora per molto tempo nelle chiese orientali, si risolve con l'in tervento di Giacomo, sanando una condizione che stava ponendo le basi di un vero e proprio scisma. A seguito di cio',avuto scontri in patria  a causa del dissidio, peraltro destinato a prolungarsi, con Simon Mago, Pietro si imbarca da Cesarea Marittima per Roma, arrivandovi presumibilmente attorno agli anni 60, periodo di grandi prove per la comunita' cristiana a causa dellla persecuzione di immani proporzioni attuata dall'imperatore Nerone. Riesce, nel 64,  ad evadere un'altra volta dal carcere mamertino, convertendo pure i suoi due carcerieri, posteriormente giustiziati anch'essi, ma sulla via appia ha una visione di Gesu' che, all'arcinota domanda di Pietro "Quo vadis?" rispondendo "Eo Romam iterum crucifigi", lo invita a tornare i citta' e di avere la corona gloriosa del martirio, comando a cui Pietro obbedisce, e ritenendo di non essere nemmeno degno di morire esattamente come Cristo, chiede di essere crocifisso capovolto.

Orémus.
Deus, qui hodiérnam diem Apostolórum tuórum Petri et Pauli martýrio consecrásti: da Ecclésiæ tuæ, eórum in ómnibus sequi præcéptum; per quos religiónis sumpsit exórdium.
Per Dominum nostrum Iesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. 

lunedì 26 giugno 2017

La Santa Messa VII - La liturgia fidelium



Volendo suddividere la S. Messa in un modo più antico (e ancora in uso presso i Greci), termina la liturgia cathecumenorum e inizia la liturgia fidelium. Anticamente, infatti, i catecumeni e gl’infedeli, in somma i non battezzati, potevano assistere alla prima parte della Divina Liturgia, durante la quale pure avrebbero potuto ricevere istruzione dalle letture bibliche e dal sermone riguardo le verità della Fede; non potevano però assistere alla seconda parte, dacché essendo ora officiata la ripresentazione del più alto mistero cristiano, ossia il propiziatorio Sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo, non sarebbero stati in grado né degni di attendere alla Transustanziazione, alla discesa del Figlio di Dio in corpo, sangue, anima e divinità nelle specie eucaristiche, né tantomeno di goderne gl’incommensurabili frutti.

Come già abbiamo introdotto, a questo punto dunque si dimettono coloro che non sono degni di partecipare (communicare) ai divini misteri: non solo dunque gl’infedeli, ma financo i catecumeni, i penitenti pubblici (che durante la loro lunga penitenza erano completamente esclusi dalla comunità) e gli energumeni (dal greco “coloro che subiscono una forza”, ossia gl’indemoniati). Nei riti orientali , eseguite la “litania dopo il Vangelo” e la “preghiera ardente” con le quali orazioni per le necessità della Chiesa e dei fedeli si chiude la prima parte della Liturgia, il Diacono canta una “preghiera per i catecumeni” e la loro dimissione:

Ὅσοι κατηχούμενοι, προέλθετε·
οἱ κατηχούμενοι, προέλθετε·
ὅσοι κατηχούμενοι, προέλθετε.
Μή τις τῶν κατηχουμένων.
Quanti siete catecumeni, andatevene!
Voi catecumeni, andatevene!
Quanti siete catecumeni, andatevene!
Non resti alcuno dei catecumeni!

S. Agostino battezza i Catecumeni
di Girolamo Genga (XVI secolo)
Tutto ciò, benché scomparso in Occidente durante il Medioevo, quando la diffusione universale in Europa del Cattolicesimo e il conferimento del Battesimo agl’infanti nullificarono la presenza d’indegni della partecipazione ai mistero, era sicuramente presente nella forma più antica del Rito Romano: di essa son rimaste due tracce, una direttamente nella liturgia e una negli antichi Sacramentari.
All’inizio dell’Offertorio il sacerdote, salutato il popolo, dice: Oremus, ma non fa seguire alcuna orazione. Questo gesto apparentemente insensato in realtà è il residuo, che i riformatori del Concilio Tridentino non vollero eliminare, della succitata preghiera sui catecumeni, nella quale s’invoca su di loro la protezione degli angeli, l’illuminazione divina, e la grazia di ricevere presto il Battesimo, conservarne i frutti ed entrare pienamente nella comunione con Dio.
Si parlava invece di una “Dimissio” contenuta in alcuni antichi Sacramentari, di cui ci son pervenute peraltro indicazioni per il canto, utili testimonianze per ricostruire l’antico canto romano pre-gregoriano.

Si quis cathecumenus est, procedat!
Si quis haereticus est, procedat!
Si quis paganus est, procedat!
Si quis judaeus est, procedat!
Cujus cura non est, procedat!
Se v’è qualche catecumeno, sen vada!
Se v’è qualche eretico, sen vada!
Se v’è qualche infedele, sen vada!
Se v’è qualche giudeo, sen vada!
Chi non ha nulla a che fare qui, sen vada!

A parte il passaggio al linguaggio giuridico dell’ultima formula per la dimissione dei perdigiorno, quanto utile anche oggi, in tempi di apostasia e tenebra, sarebbe utile una formula del genere all’inizio della celebrazione del Sacrificio Eucaristico!

XXII. Il Simbolo della Fede

I Padri di Nicea ostendono il testo greco del Simbolo
Contro ogni eresia e infedeltà, quale arma migliore del Simbolo della nostra fede? Specificatamente, a questo punto della S. Messa viene recitato non già il più antico Simbolo Apostolico che arricchisce le preci del Breviario e le orazioni private, bensì il Simbolo Niceno-Costantinopolitano, elaborato tra i due Concili di Nicea del 325 e di Costantinopoli del 381 (quest’ultimo in realtà aggiunse unicamente la sezione sullo Spirito Santo, per negare le tesi dell’apostata Macedonie) esplicitamente al fine di contrastare i movimenti ereticali dell’epoca. Il Credo ha un significato profondo ed insostituibile, essendo l’espressione concisa e completa di tutti i principali articoli della Vera Religione: per tal motivo, lo pronunzia il battezzando (in una formola responsoriale oggi; un tempo lo recitava interamente dopo averlo ricevuto la settimana prima e appreso a memoria), ogni vescovo e ogni parroco (almeno sino alla Rivoluzione Francese) al momento di prender possesso del suo incarico, e così il beneficiato che riceve il beneficio ecclesiastico, e via così. In alcuni casi speciali, al Simbolo vengono aggiunte delle preci particolari: per esempio, coloro che rientrano nella Chiesa Cattolica abiurando l’eresia protestante son tenuti ad aggiungere particolari articoli, scritti da Pio IV, sulla Vergine, sull’Eucaristia e sul Papa.
Al Credo latino, rispetto al testo originale, si aggiunge, per decreto del Concilio di Toledo (589) sanzionato da Papa Leone III (IX secolo), la parola Filioque parlando dello Spirito Santo, precisando ch’Esso procede anche dalla persona del Figlio. Gli Orientali han sempre rigettato ciò, e anzi gli scismatici Ortodossi l’usarono come pretesto per separarsi dalla Chiesa Romana; i Concili di Lione (1274) e di Firenze (1439), cui formalmente aderì anche la Chiesa separata d’Oriente, ribadirono questo concetto, ma stabilirono al contempo che non vi fosse eresia nell’omettere tale formola dal Credo (questo fu deciso per facilitare la riunione tra le due Chiese, che al momento della convocazione dei Concili, causa i problemi politici dell’Impero Bizantino, pareva imminente).

La Regula Fidei inizialmente venne introdotta nella Chiesa Orientale, laddove più era forte la presenza di eretici e più era necessario ribadire durante la Liturgia l’aderenza alla retta fede ortodossa; furono gli stessi Imperatori di Bisanzio a richiedere la sua introduzione, preoccupati delle lesioni che l’eterodossia avrebbe potuto portare all’unità dell’Impero Cristiano. Se in Occidente a lungo non risultò necessario, esso fu introdotto in ambito germanico con la preoccupante diffusione tardiva dell’arianesimo (che arrivò dopo il V secolo, quando in Oriente era esploso e poi in gran parte debellato nel IV), e fu adottato poi nell’uso gallicano, su speciale promozione di Carlo Magno e dei suoi successori.
Nel 1014, S. Enrico II imperatore di Germania discese a Roma, e si stupì alquanto, partecipando alla Messa Papale, di non udire il Credo: si rivolse pertanto al Sommo Pontefice Benedetto VIII chiedendogli il motivo di tale omissione, e questi gli rispose che essa era la miglior prova dell’ortodossia perfetta dell’Urbe, mai intaccata dallo spettro dell’eresia. Ciononostante, in pochi anni dopo la questione sollevata dall’Imperatore Enrico anche a Roma si adottò l’uso di recitare questa meravigliosa professione di Fede ogni domenica, in memoria della Risurrezione di Cristo che è fondamento della nostra fede. Per prescrizione del Concilio di Trento, si recita anche in altri giorni, a motivo del mistero celebrato (Feste del Signore e della sua Santissima Madre, nonché nella Dedicazione della Chiesa), oppure della dottrina annunziata (e dunque nelle feste degli Apostoli, di alcuni Dottori, di S. Maria Maddalena “apostola degli apostoli”); in generale, dopo la riforma di Giovanni XXIII, si dice in ogni festa di I classe.
Essendo la sua recita d’influenza orientale, anche in molti riti occidentali (mozarabico, ambrosiano etc.) il Credo fu introdotto durante la Messa dei Fedeli, dunque dopo l’Offertorio. A Roma invece si scelse di recitarlo subito dopo la lettura evangelica, quasi come una risposta alle parole di Nostro Signore con l’adesione alla dottrina ufficiale della Chiesa, un “suggello della didascalia” (Schuster): appare forse poco sensato recitarlo durante la Liturgia dei Catecumeni (i quali non conoscono il Simbolo né ancora posson recitarlo), ma bisogna considerare che negli anni gloriosi della Cristianità, quando fu introdotto a Roma, i catecumeni eran spariti da molto tempo ormai.
L’influenza greca a Roma tuttavia si notò lo stesso lungamente, dacché nei primi tempi il Simbolo si recitava e in lingua greca e in lingua latina. Nelle Messe solenni e cantate viene recitato dai Sacri Ministri in segreto mentre il coro lo canta. Alle parole Et incarnatus est etc. tutti genuflettono, per devoto rispetto al gran mistero dell’Incarnazione.

Credo in unum Deum,
Patrem omnipotentem, creatorem coeli et terrae,
visibilium omnium et invisibilium.
Et in unum Dominum (caput inclinat) Jesum Christum,
Filium Dei unigenitum.
Et ex Patre natum ante omnia saecula.
Deum de Deo, lumen de lumine,
Deum verum de Deo vero.
Genitum, non factum, consubstantialem Patri,
per quem omnia facta sunt.
Qui propter nos homines et propter nostram salutem, descendit de coelis. (genuflectit)
Et incarnatus est de Spiritu Sancto
ex Maria Virgine
(caput inclinat) et homo factus est.
(surgit)
Crucifixus etiam pro nobis,
sub Pontio Pilato passus, et sepultus est.
Et resurrexit tertia die, secundum Scripturas.
Et ascendit ad coelum: sedet ad dexteram Patris.
Et iterum venturus est cum gloria
judicare vivos et mortuos,
cujus regni non erit finis.
Et in Spiritum Sanctum,
Dominum, et vivificantem,
qui ex Patre Filioque procedit.
Qui cum Patre et Filio (caput inclinat)
simul adoratur et conglorificatur:
qui locutus est per prophetas.
Et unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam.
Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum.
Et exspecto resurrectionem mortuorum.
Et vitam + venturi saeculi. Amen.

Credo in un solo Dio,
Padre onnipotente, creator del cielo e della terra,
d’ogni cosa visibile e invisibile.
E in un solo Signore (china il capo) Gesù Cristo,
l’unigenito Figlio di Dio.
Ed Egli è nato dal Padre pria di tutti i secoli.
Dio da Dio, lume da lume,
Dio vero da Dio vero.
Genito, non creato, consustanziale al Padre,
per mezzo del quale ogni cosa fu fatta.
Egli per noi uomini e per la nostra salute
discese dai cieli. (s’inginocchia)
E s’incarnò dallo Spirito Santo
nella Vergine Maria
(china il capo) e si fece uomo. (si rialza)
Crocifisso poi per noi,
patì sotto Ponzio Pilato, e fu sepolto.
E il terzo giorno risuscitò, secondo le Scritture.
E ascese al cielo: siede alla destra del Padre.
E nuovamente verrà con gloria
a giudicare i vivi e i morti:
e del suo regno non vi sarà fine.
E nello Spirito Santo,
che è Signore, e vivificante:
che procede dal Padre e dal Figlio.
Ed Egli col Padre e il Figlio (china il capo)
è insieme adorato e glorificato:
Egli parlò per mezzo dei profeti.
E la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica.
Confesso un solo battesimo pel perdono dei peccati.
Attendo la risurrezione dei morti.
E la vita + nel secolo futuro. Amen.

 Non ci sentiamo di elaborare noi un commento dogmatico al Credo, di fronte all’ottimo lavoro fatto dall’abate Prosper Gueranger, che con ogni stima riportiamo dunque di seguito: 

Ecco come comincia il nostro simbolo: Credo in unum Deum. Si noti bene la differenza. Gli Apostoli non misero la parola unum, perché in quell'epoca non la stimarono necessaria. Più tardi, nel Concilio di Nicea, la Chiesa credette opportuno aggiungerla per sostenere l'affermazione dell'unità divina accanto alla professione espressa della trinità delle Persone, contro l'eresia degli Ariani. Ma perché diciamo Credo in Deum? Qual è qui il valore della preposizione in? Grande è la sua importanza e la comprenderemo facilmente. La fede non è altro che un movimento dell'anima verso Dio; la fede unita alla carità, la fede viva che la Chiesa depone nel cuore dei suoi figli tende di natura sua verso Dio, sale e s'innalza a Lui: Credo in Deum.
Vi sono due maniere di conoscere Dio. Un uomo che vede tutte le meraviglie dell'universo: la terra con le sue innumerevoli produzioni, il firmamento ricco dei suoi astri, in mezzo ai quali brilla il sole con la magnificenza e lo splendore dei suoi raggi e con l'ammirabile e ordinata successione delle sue rivoluzioni; quest'uomo, alla vista di tali meraviglie disposte con tanto ordine e perfezione, deve necessariamente riconoscere l'esistenza d'un essere che le ha create. Questo è ciò che si chiama una verità razionale. L'uomo che non giungesse a questa conclusione darebbe prova di mancare d'intelligenza e si eguaglierebbe agli animali, i quali non sono capaci di comprender alcuna verità, essendo privi di ragione. Questo è dunque il modo di conoscere Dio con la ragione, quando dalla contemplazione delle cose create deduciamo, come conseguenza, che Egli ne è l'autore.
Ma quando affermiamo: "Conosco Dio come Padre, come Figlio e come Spirito Santo", bisogna certamente che Dio ce lo abbia rivelato e che noi crediamo alla sua Parola per fede, cioè per una certa disposizione che ci è stata comunicata in modo soprannaturale. Essa ci spinge a credere ciò che Dio ha detto e ad arrenderci alla sua Parola. Dio ci rivela questa o quella cosa per mezzo della sua Chiesa. Subito, come se uscissimo da noi stessi, ci slanciamo verso di Lui, riconoscendo come verità quanto si degna di rivelarci. In tal modo confessiamo il nostro Dio: Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem.
Factorem ceeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium, "Dio creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili". Gli Gnostici attribuivano a Dio la sola creazione della materia e delle cose visibili. Per tale ragione furono condannati dal Concilio di Nicea, il quale affermò con chiarezza che visibilium et invisibilium, "tutte le cose visibili e invisibili", sono opera di Dio, rendendo così omaggio al Dio eterno che, essendo onnipotente, per virtù di tale onnipotenza ha creato tutte le cose del mondo visibile ed invisibile. Con questa formula si confessa anche che Dio è il Creatore degli Angeli.
Et in unum Dominum Jesum Chrìstum, Filium Dei unigenitum. Qui la Chiesa ci fa nuovamente adoperare la parola unum. "lo credo in un solo Signore": in unum Dominum. Questa parola unum ha un valore essenziale. Infatti, crediamo non in due figli, ma in uno solo; non in un Uomo e in un Dio separati, che formano due persone distinte, ma nella medesima Persona, quella del Figlio unigenito di Dio. Ma perché lo chiamiamo "Signore" in maniera così speciale? Parlando del Padre non gli abbiamo dato questo titolo. Diamo questo titolo a Gesù Cristo perché gli apparteniamo per due ragioni distinte e a due titoli differenti. Siamo di Gesù Cristo in primo luogo perché, facendo il Padre tutte le cose col Verbo suo, Questi col Padre ci ha creato. In secondo luogo, Gesù Cristo ci ha redento col suo Sangue, ci ha strappato dagli artigli di Satana. Siamo, di conseguenza, suo bene e suo possesso. Egli dunque ci possiede non solo come Creatore, ma anche come Redentore e il suo amore per le anime giunge al punto di voler possederle a titolo di Sposo.
Figlio di Dio: ecco un esempio chiarissimo della differenza, che poco fa facevamo notare, tra la conoscenza di Dio per mezzo della ragione e la conoscenza di Lui per mezzo della fede. La ragione, da sola, non potrebbe insegnarci che esistono in Dio un Padre ed un Figlio; bisogna, per penetrare questa verità, o esser in cielo, o che Dio ce l'abbia rivelato nella Scrittura o attraverso la Tradizione. Come noi crediamo in un solo Dio Padre, così crediamo in un solo Dio Figlio: et in unum Dominum Jesum Chrìstum, Filium Dei unigenitum.
Et ex Patre natum ante omnia saecula, "nato dal Padre prima di tutti i secoli". I secoli hanno avuto inizio quando la creazione è uscita dalle mani di Dio. Infatti, perché vi fossero i secoli, era indispensabile che esistesse il tempo e, perché il tempo esistesse, era necessaria l'esistenza degli esseri creati. Ora, prima di tutti i secoli, ossia prima che alcuno dei secoli esistenti uscisse dal nulla, il Figlio di Dio era già uscito dal Padre, come noi confessiamo dicendo: Ex Patre natum ante omnia saecula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero.
Il mondo creato procede da Dio, poiché è opera della sua destra, ma non per questo diciamo che il mondo creato è Dio. Il Figlio di Dio, al contrario, procedendo dal Padre, è Dio come Lui, perché da Lui è stato generato. Dunque tutto ciò che si dice del Padre conviene al Figlio, salvo l'essere Padre; ma si tratta sempre della stessa sostanza, della medesima essenza divina.
Orbene, come può il Figlio essere la medesima sostanza del Padre, senza che questa sostanza ne risulti diminuita? Sant'Atnasio, parlando di questo argomento, ci propone una similitudine che, benché materiale, ci fa cogliere, sia pur imperfettamente, tal verità. Come una fiaccola - egli dice -, ricevendo la sua luce da un'altra della medesima sostanza, non diminuisce per niente la fiaccola da cui è stata accesa, così il Figlio di Dio, prendendo la sostanza dal Padre, non diminuisce in nulla tale sostanza divina che condivide con Lui, perché Egli è veramente "Dio da Dio, luce da luce, Dìo vero da Dio vero".
Genitum, non factum, "Generato non creato". Noi, creature umane, siamo state create, siamo tutte opera di Dio, senza eccettuare né la Vergine Santissima né gli Angeli. Ma il Verbo, il Figlio di Dio, è stato generato, non creato, è uscito dal Padre, ma non è opera sua. Ha la medesima sostanza, la medesima natura del Padre.
In Dio, dobbiamo distinguere le Persone, ma dobbiam anche sempre considerar in Lui la medesima sostanza divina, per il Padre, per il Figlio e per lo Spirito Santo: Idem quoad substantiam. Il Signore medesimo ce lo dice: Ego et Pater unum sumus. Essi sono una medesima cosa, ma le Persone sono distinte. Padre, Figlio e Spirito Santo sono i tre termini che servono a designarli. È dunque di somma importanza la sentenza del Concilio di Nicea: Consubstantialem Patri, ossia: "consustanziale al Padre". Sì, il Figlio è stato generato dal Padre, ha con Lui la medesima sostanza, è la medesima essenza divina.
Per quem omnia facta sunt, "per mezzo di Lui furono fatte tutte le cose". Abbiamo detto al principio del Simbolo che Dio ha fatto il cielo e la terra, tutte le creature visibili e invisibili. Ora diciamo, parlando del Verbo, Figlio di Dio, che tutte le cose furono fatte per mezzo di Lui. Come armonizzare questi due concetti? Facilmente lo si comprenderà per mezzo d'un paragone con l'anima nostra.
Vi sono nell'anima umana tre facoltà differenti per il compimento dei suoi diversi atti; queste tre facoltà sono: la potenza, l'intelligenza e la volontà. Tutte e tre sono necessarie perché l'atto si compia, poiché per mezzo della potenza l'anima agisce, ma la sua azione suppone conoscenza e volontà. Similmente, Dio Padre onnipotente fece tutte le cose con la sua potenza; le fece con intelligenza attraverso il suo Figlio; e infine le fece con la volontà attraverso lo Spirito Santo, e in tal modo si compì l'atto. È dunque esatto dire, parlando del Figlio: per quem omnia facta sunt.
Qui propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de caelis. Dopo averci mostrato il Verbo che opera i più grandi prodigi, la Chiesa aggiunge ch'Egli è venuto al mondo per noi, uomini peccatori, e che non solamente è venuto per l'uomo, ma anche per riparar i peccati dell'uomo e liberarlo dalla dannazione eterna; in una parola, per operare la nostra salvezza: et propter nostram salutem.
Sì, per questo e solamente per questo è disceso dal cielo: descendit de caelis. Senza lasciar il Padre e lo Spirito Santo, senza privarsi della beatitudine divina, si è unito all'uomo in tutto tranne che nel peccato, e ha sofferto, come uomo, tutto ciò che l'uomo poteva soffrire. È disceso dal cielo per incarnarsi in una creatura, viver in mezzo a noi e conformarsi in tutto e per tutto alle esigenze della nostra fragile natura.
Et incarnatus est de Spirìtu Sancto. Il Verbo si è fatto carne per opera dello Spirito Santo. Dio ha fatto tutte le cose, e noi abbiamo già veduto la cooperazione delle tre divine Persone, in tutte le opere della creazione. Nel mistero dell'Incarnazione operano ancora unite le tre Persone divine; il Padre inviando il Figlio, il Figlio venendo sulla terra, e lo Spirito Santo presiedendo a questo divino mistero.
Ex Maria Virgine. Osserviamo bene queste parole: ex Maria. Maria ha fornito al Figlio di Dio la sostanza del suo essere umano, sostanza che le era propria e personale; dunque ha preso qualcosa di se medesima per darla al Figlio di Dio, divenuto perciò suo proprio Figlio. Quanto grande dovette essere la purità di Maria perché la si trovasse degna di comunicar al Figlio di Dio la sostanza del suo essere umano! Il Verbo non ha voluto unirsi ad una creatura umana tratta immediatamente dal nulla come il primo uomo; no, ha voluto essere della stirpe di Adamo e per questo s'è incarnato nel seno di Maria. E si noti bene che non solo è disceso in Maria, ma ha preso la medesima sostanza di lei: ex Maria.
Et homo factus est, "E si è fatto uomo", cioè non si è limitato a prendere le sembianze dell'uomo, ma si è fatto veramente uomo. In queste sublimi parole noi vediamo la divinità sposare l'umanità e, per tributare l'onore che è dovuto a così meraviglioso mistero, si fa qui una profonda genuflessione.
Crucifixus etiam prò nobis: sub Pontio Filato passus, et sepultus est.
Crucifixus. Il Simbolo degli Apostoli usava questa stessa espressione. Gli Apostoli volevano sottolineare che il Signore non solamente era morto, ma che era morto crocifisso, facendo così risaltar il trionfo della croce su satana. E poiché la nostra perdizione era avvenuta per un legno, il Signore voleva che anche la nostra salvezza fosse operata per un legno: ipse lignum tunc notavit, damna Ugni ut solveret. Sì, bisognava che il nostro nemico cadesse nel medesimo artificio di cui s'era servito per ingannarci: et medelam ferret inde, hostis unde laeserat, e che il rimedio fosse attinto là dove il nemico aveva tratto il veleno.
Per questo gli Apostoli vollero indicare con esattezza il supplizio del Signore e, a tal fine, quando annunziavano la fede ai pagani, parlavano subito della croce.
San Paolo, scrivendo ai Corinzi, affermava che, quando era giunto tra loro, aveva giudicato di non dover parlar loro d'altro che di Gesù e di Questi crocifìsso: Non enim judicavi me scire aliquid inter vos, nisi Jesum Christum et hunc crucifixum (1 Cor 2,2). Già aveva loro detto: "Predichiamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei, e i stoltezza per i pagani", Judaeis quidam scandalum, gentibus autem stultitiam (ibid., 1,23).
Gesù Cristo è stato crocifisso, e il Simbolo aggiunge: prò nobis. Come noi diciamo propter nos homines descendit de caelis, così era giusto che la santa Chiesa ci facesse notare che, se il Signore è stato crocifìsso, lo è stato per noi. Crucifixus etiam prò nobis: sub Pontio Pilato. Il nome del governatore romano si trova qui menzionato dagli Apostoli perché dona una collocazione storica.
Et sepultus est. Cristo ha sofferto, è vero, ed è stato sepolto. Ciò era necessario poiché, in caso contrario, come poteva avverarsi la profezia in cui s'annunzìava che al terzo giorno doveva uscire trionfante dal sepolcro? Ciò inoltre dimostra che la sua morte non è stata fittizia, ma reale, poiché è stato seppellito come gli altri uomini.
Et resurrexit tertia die, secundum Scripturas. Il terzo giorno è risuscitato, come avevano annunziato le profezie, particolarmente quella del profeta Giona. Nostro Signore stesso aveva detto: "questa generazione malvagia domanda un segno, ma non le sarà dato se non quello del profeta Gìona", nisi signum Jonee prophetae (Mt 12,39; Le 11,29). Infatti, "come Giona stette tre giorni e tre notti nel ventre della balena, così il Figlio dell'uomo dimorerà tre giorni e tre notti nel seno della terra".
Et ascendit in coelum, "è salito al cielo". Il Verbo di Dio, venendo sulla terra per farsi uomo, non aveva per questo lasciato il seno del Padre suo. Qui si dice che è salito al cielo, nel senso che la sua umanità è ascesa alla celeste dimora, dov'è oggetto díuníintronizzazione eterna.
Sedet ad dexteram Patris, "si è assise alla destra del Padre", come un maestro, come un Signore. Senza dubbio, il Figlio con la sua natura divina era stato sempre assiso alla destra del Padre, ma doveva esservi anche secondo la sua natura umana, ed è quanto si afferma con queste parole. Difatti, così doveva essere perché la natura umana è unita alla natura divina in una stessa Persona, quella del Figlio di Dio. Di essa può dirsi in tutta verità: "II Signore sta assiso alla destra del Padre". Davide l'aveva già annunziato quando diceva: Dixit Dominus Domino meo: Sede a dextris meis (Sal 109,1). Da qui può dedursi una prova dell'intima unione che esiste, nella Persona di Nostro Signore, tra la natura divina e la natura umana. Cosicché possiamo dire che il salmo 109 è veramente il salmo dell'Ascensione, perché è esattamente quello il momento in cui il Padre, che è Signore, dice al Figlio, che è pure Signore: "Siedi alla mia destra", Sede a dextris meis.
Et iterum venturus est cum gloria judicare vivos et mortuos. A proposito di Nostro Signore si parla di due avvenimenti. Nel primo nasce senza gloria e, come dice san Paolo, si abbassa sino a prendere la forma di schiavo: semetipsum exinanivit formarti servi accipiens (FU 2,7), mentre nel secondo verrà circondato di gloria, venturus est cum gloria. E perché viene? Non più per salvare, come la prima volta, ma per giudicare: judicare vivos et mortuos. Non solamente verrà a giudicare quelli che saranno ancora sulla terra al momento di questa seconda venuta, ma anche tutti quelli che sono morti, a partire dalla fondazione del mondo, perché tutti, assolutamente tutti, devono essere giudicati.
Cuius regni non erit finis, "e il suo regno non avrà fine". Qui si tratta del regno di Gesù Cristo come uomo, perché come Dio non ha mai smesso di regnare. Questo regno, poi, non solo sarà glorioso, ma eterno.
Qui termina la seconda parte del Credo, che è anche la più considerevole. È più che giusto che in questa confessione pubblica della nostra fede si parli più lungamente di Gesù Cristo, poiché Egli, con la sua divina Persona, ha fatto per noi più delle altre due Persone, quantunque nulla abbia fatto senza l'accordo e il consenso di esse. Per questo lo chiamiamo "Nostro Signore", e, sebbene questo titolo convenga anche al Padre che ci ha creati, conviene per un duplice motivo al Figlio, il quale, oltre ad averci creati, perché Dio ha fatto tutte le cose con il suo Verbo, ci ha anche redenti. Gli apparteniamo dunque, come abbiamo detto, a doppio titolo.
Et in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem. Io credo ugualmente nello Spirito Santo, cioè, per fede, vado verso lo Spirito Santo, aderisco, mi unisco allo Spirito Santo. E lo Spirito Santo chi è? Dominum. È Signore, è maestro come le altre due Persone. Ma cos'altro è? Vivificantem, "Colui che da la vita". Come la nostra anima è il principio vitale del nostro corpo, così lo Spirito Santo vivifica la nostra anima. È lo Spirito Santo che le da vita con la grazia santificante che effonde su di essa, la sostiene, la fa agire, la vivifica e la fa crescer in amore. L'azione dello Spirito Santo si estende anche alla Chiesa. È Lui che la sostiene incessantemente, è Lui che fa sì che tutti i suoi membri, così diversi per nazione, linguaggio e costumi, vivano tutti la medesima vita, appartengano ad un medesimo Corpo di cui Gesù Cristo è il Capo. Tutti, infatti, hanno la medesima fede, ottengono le medesime grazie dai medesimi Sacramenti; tutti sono animati dalle stesse speranze e tutti attendono le medesime promesse; tutti, in una parola, sono sostenuti dallo Spirito Santo.
Qui ex Patre Filioque procedit, "il quale Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio". Com'è possibile pensare che il Padre e il Figlio siano disuniti? Era necessario che un legame li unisse. Infatti il Padre e il Figlio non stanno unicamente uno accanto all'altro, ma un legame li unisce, li stringe, e questo legame procede da ambedue, formando una medesima cosa con loro; quest'amore scambievole è lo Spirito Santo.
Il Concilio di Nicea si occupò di redigere l'articolo del Simbolo che tratta di Gesù Cristo; nel Concilio di Costantinopoli si volle completar il Simbolo di Nicea aggiungendovi tutto ciò che riguarda lo Spirito Santo, eccetto, tuttavia, il Filioque, cosicché si sarebbe detto semplicemente: Qui ex Patre procedit.
I Padri di questo Concilio non credevano necessario aggiunger altro a quest'espressione, perché le parole di Nostro Signore nel Vangelo non possono lasciar alcun dubbio in proposito. Nostro Signore aveva detto: "lo vi manderò lo Spirito che procede dal Padre", Ego mittam vobis a Patre Spiritum veritatis qui a Patre procedit (Gv 15,26). Egli è, dunque, anche principio dello Spirito Santo, poiché lo manda. Il Padre manda il Figlio, ed è chiaro per tutti che il Figlio procede dal Padre, che lo ha generato. Nostro Signore dicendo qui: "Io vi manderò lo Spirito", dimostra che Egli pure è l'origine donde procede lo Spirito Santo, come lo è il Padre. E se aggiunge: Qui a Patre procedit, non è per dirci che lo Spirito Santo procede solamente dal Padre, ma, al contrario, per spiegarci con maggior chiarezza che non è Egli solo che lo invia, ma che il Padre lo invia con Lui.
I Greci non hanno voluto ammettere questa Verità e hanno sollevato una questione su questa preposizione per scompaginar il mistero della Trinità. Ma facilmente si comprende questíammirabile unione delle tre Persone, ossia che la prima Persona genera la seconda, e la prima e la seconda sono unite tra loro dalla terza. Se non si ammettesse questo legame esistente tra il Padre e il Figlio, s'isolerebbe completamente lo Spirito Santo e si distruggerebbe, in tal modo, la Trinità.
È in Spagna che si è introdotto per la prima volta il Filioque nel Simbolo, per spiegare meglio ciò che avevano detto i Padri di Costantinopoli. Si era allora al secolo Vili, ma la Chiesa romana non l'adottò fino al secolo XI. Sapeva molto bene che ciò avrebbe provocato delle difficoltà, ma, quando vide che questo provvedimento era divenuto necessario, si decise ad accettarlo, e sin d'allora l'aggiunta della parola Filioque divenne obbligatoria per la Chiesa universale.
Qui cum Patre, et Filio simul adoratur, et conglorìficatur. Lo Spirito Santo deve esser adorato, dunque è veramente Dio. Per professar, pertanto, la vera fede non basta onorare lo Spirito Santo, ma bisogna adorarlo come Dio, così come adoriamo il Padre e il Figlio, simul adoratur. Adorarlo come le altre due Persone divine, nel medesimo tempo: simul. A questo punto, la santa Chiesa vuole che chiniamo il capo, per render omaggio allo Spirito Santo, del quale in questo momento riconosciamo la divinità.
Et conglorìficatur, "e conglorificato", cioè riceve gloria con il Padre e con il Figlio; è incluso infatti nella medesima dossologia, parola greca che significa "dar gloria".
Qui locutus est per Prophetas. Ecco un altro dogma. Lo Spirito Santo ha parlato per bocca dei Profeti, e la santa Chiesa lo dichiara. Il fine principale di tale dichiarazione è quello di confonder i Marcioniti, eresiarchi che pretendevano d'introdurre il principio dell'esistenza d'un dio buono e d'un dio malvagio. Secondo loro, il Dio dei Giudei non era buono. La Chiesa, dichiarando qui che lo Spirito Santo ha parlato per bocca dei Profeti, dai libri di Mosè fino a quelli che si avvicinano al tempo di Nostro Signore, proclama che l'azione dello Spirito Santo avvolge la terra fin dal principio.
Nel giorno della Pentecoste questo divino Spirito è disceso sugli Apostoli ed è venuto sulla terra per restarvi. La sua missione era del tutto differente da quella di Nostro Signore. Il Verbo fatto carne è venuto sulla terra, ma dopo un certo tempo è risalito al cielo. Lo Spirito Santo, al contrario, è venuto per restare, e Nostro Signore, annunziandolo ai suoi Apostoli, disse loro che tale era la sua missione: Paraclitum dabit vobis - disse -, ut maneat vobiscum in aeternum (Gv 14,16). E altrove dice loro che questo Spirito insegnerà ad essi tutte le cose, suggerendo loro tutto ciò che Egli medesimo aveva loro insegnato: Et suggeret vobis omnia quaecumque dixero vobis (ibid., 26).
La Chiesa, infatti, ha bisogno d'esser istruita, guidata e sostenuta. A chi spetta questa missione? Chi la compie? È lo Spirito Santo che deve assisterla sino alla fine dei secoli, secondo le parole di Nostro Signore. Per questo il Figlio è stato inviato dal Padre e poi è ritornato in cielo. Il Padre e il Figlio hanno quindi inviato lo Spirito Santo perché rimanesse con la Chiesa sino alla fine. Nostro Signore dice: "II Padre mio vi manderà lo Spirito Santo": e altrove: "lo vi manderò lo Spirito Santo", indicando in tal modo l'intima relazione che esiste tra le divine Persone le quali non possono star isolate l'una dall'altra, come avrebbero voluto gli eretici.
La santa Chiesa ci ha dunque spiegato il dogma della Trinità nel Simbolo. Inizialmente ci mostra il Padre onnipotente e creatore di tutte le cose; ci presenta poi il Figlio, che discende dal cielo, si fa uomo, muore per noi, risuscita vincitore della morte e trionfa nella sua Ascensione. Infine viene lo Spirito Santo, Signore come il Padre e il Figlio, che da la vita, ha parlato per bocca dei Profeti ed è Dio come il Padre e il Figlio.
Entriamo ora in un altro argomento: et unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam. Occorre notare che non diciamo: credo in unam... Ecclesiam. Perché? Perché la fede, che ha per oggetto immediato Dio, è un movimento dell'anima nostra verso Dio, si slancia verso Lui e riposa in Lui; così crediamo in Dio, Credo in Deum. Ma per quel che riguarda le cose create ed intermedie che concernono Dio, che servono a condurci a Lui, ma che non sono Lui, le crediamo semplicemente. Un esempio è, appunto, la santa Chiesa fondata da Gesù Cristo, nel seno della quale soltanto si trova la salvezza: Credo Ecclesiam. Questo articolo è più sviluppato in questo Simbolo che in quello degli Apostoli, il quale dice semplicemente: Credo sanctam Ecclesiam catholicam.
Noi diciamo, dunque, in primo luogo, che la Chiesa è "una": Credo unam Ecclesiam. Nel Cantico ascoltiamo lo Sposo chiamarla Egli stesso: "unica mia", una est columba mea.
Inoltre è "santa": Credo sanctam Ecclesiam; ancora una volta ascoltiamo lo Sposo che dice nel Cantico: Amica mea, columba mea, formosa mea, [...] et macula non est in te (Ct 2,10). San Paolo, scrivendo agli Efesini, afferma anche che essa è "senza macchia e senza ruga", non habentem maculam aut rugam (Ef 5,27). È dunque "santa" la Chiesa di Gesù Cristo: i Santi non si trovano che in essa e in essa vi sono sempre dei Santi. Inoltre, essendo santa, non può insegnarci che la Verità della quale è depositarla.
La Chiesa è "cattolica": Credo Ecclesiam catholicam. Ciò significa che la Chiesa è universale, poiché è diffusa su tutta la terra e la sua esistenza si prolungherà fino alla fine dei tempi. Tutto ciò è indicato dalla parola cattolica con cui la si designa.
Infine è "apostolica": Credo Ecclesiam apostolicam. Sì, la Chiesa nella sua origine procede da Gesù Cristo. Non è sorta in modo improvviso, come è avvenuto per il Protestantesimo nel secolo XVI. Se così fosse, non sarebbe di Nostro Signore. Perché sia la vera Chiesa, deve esser "apostolica", cioè ha bisogno d'una gerarchia che risalga fino agli Apostoli e, attraverso gli Apostoli, a Nostro Signore stesso.
Così, dunque, noi crediamo la Chiesa, e Dio vuole che la crediamo "una", "santa", "cattolica" ed "apostolica": Et unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam. La crediamo, dunque, fondata su queste quattro note o caratteri essenziali, che sono la nozione e la prova della sua istituzione divina.
Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum, "Confesso un solo battesimo per la remissione dei peccati". La parola Confiteor significa "io riconosco". Ma perché la Chiesa ci fa confessare così espressamente un solo battesimo: Confiteor unum baptisma? Perché con questa confessione vuoi farci proclamare l'esistenza d'un solo ed unico modo di nascita spirituale e, secondo la parola dell'Apostolo agli Efesini, d'un solo battesimo, come Ve un solo Dio e una sola fede", unus Dominus, una fides, unum baptisma (Ef 4,5).
Il battesimo ci fa figli di Dio e, al tempo stesso, ci da la grazia santificante, con la quale lo Spirito Santo viene a stabilire in noi la sua dimora. E quando, per il peccato mortale, abbiamo la sventura di perdere questa grazia, l'assoluzione che ci riconcilia con Dio ci ridona questa grazia del battesimo, questa santificazione primordiale e non altra, tanta è la forza di tale grazia originaria. Il battesimo prende tutta la sua forza dall'acqua che è scaturita dal costato di Cristo, che è stato dunque per noi il principio di vita. Possiamo pertanto ben dire che Nostro Signore ci ha veramente generato, e que?sto è il solo ed unico battesimo che dobbiamo confessar e riconoscere.
Et expecto resurrectionem mortuorum, "aspetto la risurrezione dei morti". La Chiesa non ci fa solamente dire: io credo nella risurrezione dei morti, ma io aspetto. Dobbiamo infatti aspettar impazienti il momento della risurrezione, perché l'unione del corpo e dell'anima è necessaria alla perfezione della beatitudine.
I pagani facevano molta fatica ad accettare questa verità, perché la morte sembrava esser una condizione della nostra natura. Quest'ultima, infatti, si compone di anima e di corpo. Dal momento che questi elementi possono separarsi, la morte conserva qualche dominio su di noi. Ma, per noi cristiani, la risurrezione dei morti è un dogma fondamentale. Nostro Signore stesso, risuscitando il terzo giorno dopo la morte, lo confermò in maniera lampante, perché -  dice san Paolo - Egli è il primo uscito tra i morti: primogenitus ex mortuis. E poiché dobbiamo tutti seguirlo, tutti dobbiamo risuscitare.
Et vìtam venturi saeculi. Aspetto anche la vita del secolo futuro, che non conosce la morte. Sulla terra viviamo della vita della grazia, basandoci sulla fede, la speranza e la carità, ma non godiamo della visione di Dio. Nella gloria, al contrario, ne godremo pienamente, lo vedremo a faccia a faccia, come ci dice san Paolo: Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad facies (1 Cor 13,12). Inoltre, durante il nostro pellegrinaggio terrestre, siamo continuamente esposti a perdere la grazia, mentre nel cielo non esiste più alcun timore che ciò avvenga, e si possiede qualcosa che appaga tutti i nostri desideri ed aspirazioni. Si possiede Dio stesso, che è il fine dell'uomo. Ben a ragione, dunque, la Chiesa ci fa ripetere: Et expecto vitam venturi saeculi.
(d. Prosper Gueranger, Explication de la Sainte Messe, XIII. Le "Credo")

Prossima pubblicazione (inizio luglio): La Santa Messa VIII - L'Offertorio

sabato 24 giugno 2017

S. Giovanni Battista il Precursore (Πρόδρομος)

Quale altro Santo, ad eccezion della tuttasanta Vergine Maria, ha mai avuto il privilegio d’esser festeggiato non solo nel dies obitus, ma financo nel dì della nascita terrena, se non Giovanni il Battista? Egli, il più eccelso dei profeti, il prodromo e il precursore del Signore Nostro Gesù Cristo, il Santo più raffigurato nell’iconografia cattolica, considerato dalla teologia “il più vicino a Dio dopo la Madonna”. Vogliamo ripercorrere qui la missione profetica di S. Giovanni, del quale in realtà è inutile proclamare le lodi, dopo che lo stesso Signor nostro così ne ha parlato: Inter natos mulierum non surrexit major Johanne Baptista.



Natività di S. Giovanni

Il Catechismo di S. Pio X (II, 83) riporta le parole del Vangelo di S. Luca (I, 36), affermando genericamente che Elisabetta, la santa donna con il cui nome si apre ex abrupto il Vangelo odierno, era parente di Maria; la tradizione popolare in Occidente la vuole cugina della Madonna, quella Orientale, diventata addirittura parte del magistero, vuole che ne sia la sorella, risultandone dunque che S. Giovanni è il cugino di Nostro Signore, concepito sei mesi prima dell’Annunciazione a Maria, e nato dunque in giugno, il 24 precisamente, come da sempre affermato dalla Chiesa d’Africa; anche alla sua nascita era preceduta un’annunciazione, a Zaccaria, per spiegargli come mai da sua moglie sterile sarebbe nato un figlio (le Chiese Orientali festeggiano con gioia quest’evento il 24 settembre). Ad egli fu imposto il nome di Giovanni, perché così era stato voluto da Dio, ancorché secondo la tradizione gli volessero imporre il nome paterno. Dopo aver concluso ch’egli dovesse chiamarsi col nome predestinato, suo padre Zaccaria esulta, e magnifica il Signore con il famoso cantico Benedictus. Tutto ciò è contenuto nella seconda parte del I capitolo del Vangelo di S. Luca, che oggi è letto e a Mattutino e durante la Messa.

Missione prodromica di S. Giovanni

S. Agostino ci dice che S. Giovanni fu scelto da Dio quia per hunc Dominus adventum suum, ne subito nomine insperatu, non agnoscerent, voluit esse testatum. La missione prodromica del Battista è scritta nei piani di Dio sin dall’inizio dei tempi, e la Scrittura è piena di riferimenti alla figura del Precursore, colui che precederà il Messia e lo annuncerà alle genti. S. Zaccaria stesso doveva conoscere molto bene quei riferimenti, che gli furono poi confermati dall’angelo, e per questo nel succitato cantico, rivolgendosi al neonato suo pargoletto, lo appella con queste gravi parole: Et tu, puer, propheta Altissimi vocabitur: praeibis enim ante faciem Domini parare vias ejus, ad dandam scientiam salutis plebi ejus in remissione peccatorum eorum. Tale missione ci è confermata dall’Inno al Logos, il I capitolo dell’Evangelo di Giovanni, in cui si parla di un homo missus a Deo cui nomen erat Johannes: hic venit in testimonium, ut testimonium perhiberet de lumine, ut omnes crederent per illum. Dunque la missione del Battista è essenzialmente quella di parare vias Domini et rectas facere semitas ejus, secondo le parole profetiche di Isaia (XL, 3), ch’egli stesso riprende per descriversi (cfr. tutti gli Evangeli); non sono però certamente mancati, nell’Israele del tempo, quanti videro in lui il vero e proprio Messia, tale era il suo carisma e il suo rigido ascetismo, e si vennero a formare delle vere e proprie scuole di suoi discepoli. Di queste ultime cose diremo al capo seguente, ma S. Giovanni Evangelista sente bene la necessità di far capire che il Battista non era il Messia, bensì solamente il suo prodromo, e infatti così prosegue nella sua poetica introduzione: non erat ille lux, sed ut testimonium perhiberet de lumine: erat lux vera quae illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum. L’importantissima missione eliatica e profetica del Battista, nonché la sua speciale condizione di parente del Dio fatto uomo e suo speciale precursore, è predetta da diversi profeti veterotestamentari: Geremia in primis, il quale parla di se medesimo in un modo applicabile tanto a Giovanni quanto a Cristo stesso, dicendo: ex utero matris tuae dilexi te, ti scelsi sin dal seno di tua madre per affidarti l’ufficio profetico (o, se vogliamo riferirla a Gesù, l’ufficio cristologico, dacché Dio Figlio era stato generato dal Padre prima di tutti i secoli e solo negli ultimi tempi ha preso forma carnale). S. Agostino conferma le virtù profetiche di S. Giovanni Battista, donategli da prima della nascita (e infatti, durante la Visitazione di Maria Santissima alla cugina Elisabetta, il futuro Giovanni sussultò nel grembo al vedere la Madre di Dio che avea da poco ricevuto in grembo il Salvatore), dicendo: nondum natus de secreto materni uteri prophetavi, et exspers luxis jam testis est veritatis.
Anche Isaia parla similmente del Battista nel capitolo XLIX, dicendo: Audite, insulae, populi de longe: Dominus ab utero vocavit me, de ventre matris meae recordatus est nominis mei (e immancabilmente anche qui vi sono alcuni che opinano di riferire queste parole direttamente a Nostro Signore).

Ascetismo e predicazione di S. Giovanni
S. Giovanni Battista in un'icona
bizantina: nella tradizione orientale
il Precursore spesso ha ali angeliche

Secondo le parole di Isaia, S. Giovanni si fa vox clamantis in deserto, praticando una rigidissima ascesi secondo l’uso giudaico del nazireato, vestendosi di pelli di cammello e nutrendosi di locuste e miele selvatico. Secondo alcuni storicisti, egli avrebbe fatto parte della setta essenica, la quale attendeva nel deserto la venuta del Messia. Proprio nel suo eremo, secondo alcuni scritti pseudoepigrafi o apocrifi, egli avrebbe ricevuto illuminazione dagli angeli circa la sua missione, la quale consisté di due diverse fasi: la prima era la proclamazione del Battesimo per la conversione dei peccati, fatto del tutto nuovo rispetto alla tradizionale abluzione rituale, che come è ben noto conferì, pur sentendosene indegno, anche a Nostro Signore; la seconda parte della sua predicazione era invece aiutare le genti a comprendere l’identificazione del Messia da secoli atteso con Gesù Cristo, che egli appena lo vide additò con queste parole, riprese da Isaia e ben sintetizzanti l’offerta sacrificale di sé stesso in espiazione, soddisfazione e redenzione compiuta da Gesù sulla Croce: Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi! Egli tuttavia, per adempiere alla sua missione, non diverrà mai un discepolo palese di Nostro Signore, ma continuò ad amministrare una sua scuola, dalla quale in realtà molti poi si faranno seguaci o addirittura apostoli di Cristo, tanto da mettere poi alla prova il carisma messianico di Gesù (cfr. Matthaeus XI), specialmente dopo la predicazione da parte di quest’ultimo della risurrezione dei morti, la quale non compariva tra gli annunzi del Messia profetizzati nei libri dell’Antico Testamento. In ogni caso, nonostante questa incomprensione e il successivo anonimato sino al momento della condanna a morte (già era stato incarcerato per la sobillazione che, agli occhi dei governanti locali, provocava la sua predicazione profetica), egli non aveva mai mancato di impostare tutti i suoi discorsi sull’attesa del vicinissimo Messia (che – ribadiamo – egli stesso aveva indicato in Gesù), come si evince dalle parole attribuitegli dai Vangeli: Venit fortopr me post me, cujus non sum dignus procumbens solvere corriviamo calcamentorum ejus (Marcus I, 6); Illum oportet crescere, me autem minui (Johannes III, 30).

Non c’occupiamo qui della decollazione e della presunta assunzione di S. Giovanni, di cui parleremo a tempo debito il 29 settembre.

Inno a S. Giovanni

Tra gl’infiniti patronati di S. Giovanni il Battista, che a motivo della speciale sua santità è stato scelto non solo come protettore di numerosi popoli e paesi, nonché titolare di innumerevoli chiese, e particolarmente di quelle in cui si custodiscono le sue veneratissime (di cui spesso in età medievale si son prodotte false copie) reliquie, vi sono anche numerose arti e mestieri (i conciatori, e.g.), e soprattutto i cantori.

Proprio per questo Guido d’Arezzo, per rinominare per praticità didattica le note musicali, determinando così i nomi che (cambiato qualche tempo dopo ut in do) usiamo tuttora, adottò le prime sillabe del popolarissimo inno a S. Giovanni, ancor oggi cantato in ambo i Vespri della festa, il quale è un vero capolavoro poetico.

Ut queant laxis resonáre fibris
Mira gestórum fámuli tuórum,
Solve pollúti lábii reátum,
Sancte Ioánnes.

Núntius celso véniens Olýmpo,
Te patri magnum fore nascitúrum,
Nomen, et vitæ sériem geréndæ
Ordine promit.

Ille promíssi dúbius supérni,
Pérdidit promptæ módulos loquélæ;
Sed reformásti génitus perémptæ
Organa vocis.

Ventris obstrúso récubans cubíli
Sénseras Regem thálamo manéntem;
Hinc parens nati méritis utérque
Abdita pandit.

Sit decus Patri, genitǽque Proli,
Et tibi, compar utriúsque virtus,
Spíritus semper, Deus unus omni
Témporis ævo.
Amen.
Acciocché possan con voci tonanti cantare
i tuoi servi le mirabili tue gesta,
dissolvi il peccato del lor labbro inquinato,
o San Giovanni.

Un messaggero scendendo dall’altissimo cielo
a tuo padre annunziò che grande saresti nato,
il tuo nome, e il modo in cui vivrai,
per ordin gli svela.

Egli dubbioso della celeste promessa
perse il dono di un pronto parlare;
ma appena nato gli rendesti della voce
perduta facoltà.

Giacendo nel ventre materno
avevi avvertito il Re che nel grembo giaceva;
onde ambedue i genitori per i meriti del nato
scopron i misteri.

Sia onore al Padre, e al Figlio generato,
e a te, d’ambedue pari la forza,
o Spirito eterno, solo Dio
in ogni tempo.
Amen.

giovedì 22 giugno 2017

La Chiesa Ortodossa di rito Occidentale

E’ universalmente noto che all’interno della Chiesa Cattolica vi sono un buon numero di Chiese Orientali sui juris, volgarmente dette uniate, le quali fanno uso dei riti orientali (bizantino, siro-antiocheno, siro-malabrese, copto, armeno…)
E’ assai meno noto che esistano delle chiese “uniate” anche nell’Ortodossia, le quali utilizzano invece i riti occidentali, ossia quelli latini, anglicani e gallicani. L’origine di queste chiese ortodosse latine affondano nei primi anni dopo lo scisma, quando le province dell’Impero Bizantino nel Sud Italia, pur legate alla liturgia romana, si unirono per ovvi motivi agli scismatici orientali; questa situazione fu in realtà di breve durata, giacché dopo la conquista normanna delle Puglie, patrocinata dai Papi, e con l’obbligo a tutte le chiese del Meridione d’Italia di accettare la dottrina del filioque (sancito nel 1098 dal Concilio di Bari), esse rapidamente passarono al Cattolicesimo.

La riscoperta del rito occidentale avvenne tra la fine del XIX e il XX secolo, soprattutto per la necessità di integrare nel modo meno traumatico possibile quelle comunità di ex cattolici che, principalmente per il rifiuto delle decisioni del Concilio Vaticano I, si convertirono all’Ortodossia. Utilizzata in seguito anche dalla Chiesa Ortodossa Russa fuori dalla Russia, sia prima che dopo la ricomposizione dello scisma interno, ad oggi anche la Chiesa ortodossa russa ufficiale, la Chiesa ortodossa d’Antiochia, la Chiesa ortodossa romena accolgono comunità di rito latino, locate principalmente in Australia, Brasile, Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Canada (ne esistono anche alcune situate in paesi a maggioranza ortodossa orientale, come la Chiesa di S. Maria dei Latini in Siria), nelle quali confluiscono continuamente convertiti, specialmente dal protestantesimo, dall’anglicanesimo e da alcuni cattolici sconcertati dall’apostasia latente dopo il Vaticano II.
Nonostante vi siano state molte critiche all’interno dell’Ortodossia riguardo l’uso dei riti occidentali (erano considerati troppo legati alla Chiesa di Roma, un segnale di discontinuità con la tradizione ortodossa, un’avvallare di fatto l’odiatissimo uniatismo creandone una propria versione), essi sono ufficialmente in vigore, e sono stati difesi da numerosi apologeti, che sono giunti alla conclusione che essendo questi riti celebrati già prima del Grande Scisma, per quale motivo non dovrebbero risultare accettabili alla Chiesa ortodossa?

Gli Ortodossi di rito latino indossano i paramenti occidentali (pianeta, stola, manipolo…), usano libri liturgici occidentali, toccano prima la spalla sinistra facendo il segno della croce, recitano il Rosario mariano secondo l’uso occidentale, e finanche si servono del calendario liturgico latino, con l’unica differenza della data della Pasqua e del ciclo delle feste mobili da essa dipendenti, essendo stato loro imposto, per sottolinearne l’unità con le compagini orientali, il metodo di calcolo della Pasqua in uso in Oriente.
Un vescovo e un sacerdote ortodossi di rito occidentale: notare l'aspetto prettamente latino

Analizzando le forme di liturgia impiegate da queste comunità, possiamo trovare:
  • La Divina Liturgia di S. Tikhon (antico rito inglese di cui sono rimaste tracce nel Book of Common Prayer anglicano, ovviamente in stile antisacramentale, ora però restaurato nella sua ortodossia)
  • La Liturgia di Sarum (rito pre-tridentino con elementi anglosassoni ed anglicani, che subì una sorte simile al rito precedentemente citato)
  • La Liturgia di S. Germano (rito gallicano, assai simile al rito lionese, con elementi più antichi)
  • La Liturgia di S. Gregorio Magno (di fatto il rito tridentino, che effettivamente è la stessa liturgia che già ai tempi di Papa Gregorio veniva offerta a Roma; talvolta è detta di S. Pietro, per identificare il fatto che corrisponda al rito romano e per non confonderla con l’altra Liturgia intestata a S. Gregorio Dialogo, ossia quella dei Presantificati)
  • Altre Liturgie limitatamente usate sono quella di S. Giovanni il Divino (ricostruzione della liturgia irlandese del I millennio, di cui però non si hanno testi originali), nonché quella ambrosiana antica e quella mozarabica
In tutti questi riti vengono in realtà apportate delle modifiche rispetto al rito originariamente in uso  in Occidente: oltre alla scontata rimozione del Filioque dal Simbolo Niceno, viene rafforzata l’epiclesi, l’invocazione allo Spirito Santo che nelle anafore orientali segue immediatamente le parole della Consacrazione e senza le quali la stessa non sarebbe valida.

[NOTA: In realtà, come alcuni eminenti liturgisti anche ai nostri giorni osservano, l’epiclesi nelle anafore orientali non è originaria, ma viene introdotta tra VII e IX secolo per contrastare efficacemente alcune tesi pneumatologiche propugnate dalle eresie antitrinitarie dell’epoca. Lo schema originario dell’anafora in tutti i riti cristiani era quella che si trova nel Canone Romano, il quale, immutato dal IV secolo, è una fonte certamente attendibile, per di più confermata da alcuni antichissimi testi orientali. Alcuni analisti ortodossi hanno individuato l’epiclesi romana nel Quam oblationem, altri nel Veni Sanctificator dell’offertorio (opinione secondo noi preferibile), e comunque la quasi totalità di essi ritiene valida la Consacrazione attuata con l’“epiclesi” romana.]

Una "Messa in terzo" celebrata dagli Ortodossi di rito occidentale

Tutto questo ci permette di fare le seguenti osservazioni:
Esempio di Messa ortodossa di rito occidentale
  • Così come i riti orientali sono validi per la Chiesa Cattolica, i riti occidentali sono validi per la Chiesa Ortodossa; se lex orandi è lex credendi, allora è confermato (come del resto affermano tutti i Catechismi dal Tridentino in poi) che non vi sono differenze dottrinali gravi e volontarie (eresie formali), ma semplicemente uno stato di scisma, tra la Chiesa Ortodossa e quella Cattolica. (P.S.: il rifiuto di alcuni dogmi, come l’Immacolata Concezione, non è eresia formale, dacché il loro stato di scisma li porta a ritenere che mai sia stato proclamato dogma, e dunque non negano volontariamente una verità di fede; la questione del Filioque non costituisce eresia, come insegna il Concilio di Firenze; peraltro non tutti gli Ortodossi sono scismatici, dacché il Battesimo, da chiunque sia celebrato, incorpora nell’unica Chiesa Cattolica, ma solo coloro che conoscendo appieno la Chiesa di Roma scelgono volontariamente di separarsene, come i convertiti dal Cattolicesimo all’Ortodossia)
  • La Chiesa Ortodossa non riconosce valide le cene riformate: infatti, i protestanti che si convertono debbono adottare uno dei riti occidentali “cattolici”, e gli anglicani il rito inglese antecedente alle riforme edoardiane).
  • La Chiesa Ortodossa riconosce valido il Rito Romano nella sua forma tradizionale, il quale si conferma essere la liturgia da sempre celebrata in Occidente, ma NON il rito romano riformato (“di Paolo VI”), nel quale effettivamente non è esplicitata gran parte dei caratteri che identificano realmente una liturgia eucaristica (quello del Sacrificio, e.g.), nonché, essendo scomparse le preghiere dell’Offertorio, di fatto (secondo loro) anche la validità della Consacrazione. (P.S.: in prospettiva cattolica, la messa di Paolo VI è valida perché approvata da un Papa, ma – come già abbiamo scritto più volte – è nel suo complesso assai poco cattolica e assai poco ortodossa; in alcuni testi si trova scritto che “gli Ortodossi ritengono validi i libri liturgici romani fino al 1952, rifiutando le riforme del 1955 e del 1962”, affermazione mai confermatami da un ortodosso, né tantomeno logicamente sensata: vi sono, e avremo modo di parlarne, sensibili svilimenti a livello di calendario e soprattutto nella Settimana Santa, ma in che modo tali riforme potrebbero influire sulla validità della Consacrazione?)

In conclusione, ci permettiamo di porre una domanda: tratte queste conclusioni, cos'altro occorre per capire che l’Unità della Chiesa nella Verità può essere raggiunta solo con la Santa Tradizione (e Occidentale e Orientale), e giammai con pretestuosi e probabilmente eretici avvicinamenti al Protestantesimo, come purtroppo succede “in questi tempi di tenebra, quando Prelati della Chiesa Cattolica, invece di diffondere la Fede Cattolica, si compiacciono di oscurarla con ambiguità e negarla con eresie”?


Ad majorem Dei gloriam!

martedì 20 giugno 2017

La Santa Messa VI - La Pars Didactica


Scusandoci per il ritardo nella pubblicazione rispetto alla data prevista

Terminati i riti preparatori, la venerazione dell’altare, e innalzati gli inni a Nostro Signore, inizia la vera e propria parte istruttiva, nella quale il sacerdote, in primis dottore e poi santificatore, come fu già Nostro Signore Gesù Cristo stesso di cui egli è perfetta figurazione (“alter Christus”). Essa, facente parte del proprio del giorno, ha tuttavia uno schema pressoché fisso con una ben precisa origine storica che ci proponiamo di sintetizzare qui.


XVIII. L’epistola

Nelle Messe basse e cantate semplici, il sacerdote, dopo aver pregato, si reca al lato dell’epistola per leggere la medesima, la cui esposizione rappresenta, secondo la già più volte citata interpretazione mistica della S. Messa come sacra rappresentazione della Passione, Cristo che risponde a Pilato. Ha inizio dunque la parte didattica vera e propria, che ha comportato per lunghi secoli la fonte principale, assieme alla predicazione che ne era la naturale successione, di istruzione religiosa dei fedeli, completata poi a partire dal Tridentino con il Catechismo parrocchiale. Anticamente, questa parte, proprio perché occorse per istruire i fedeli mediante salutari letture della Sacra Scrittura, poteva essere assistita anche dai catecumeni, i quali traevano gran giovamento, in preparazione del Battesimo, da quest’insegnamenti.
La prima delle letture bibliche proposte è per l’appunto detta “epistola”, giacché è tratta perlopiù dagli scritti apostolici, e specialmente da S. Paolo: pertanto è detta soventemente lectio ex apostolo o, secondo l’uso diffuso presso i Greci, apostolus. Il costume di leggere brani della Sacra Scrittura durante le sacre sinassi, al di là dell’utilità pratica e spirituale succitata, trae origine dalla lettura dei libri di Mosè e dei Profeti, che si usavano leggere durante le officiature sabbatiche dei Giudei.
Ogni Messa domenicale ha una propria epistola, secondo un ben preciso calendario. Le Messe feriali, essendo di più tardiva introduzione, ne sono sprovviste, e utilizzano i formulari della domenica (anche se, tra Messe votive e feste dei Santi, è davvero raro nei calendari tridentino e successivi che si dica la Messa della domenica in una feria della Settimana, secondo un uso introdotto già da Alcuino con la sua raccolta di formulari votivi); le ferie della Quaresima, tuttavia, in virtù del riordino generale subito a Roma tra VII e IX secolo, hanno tutte una lettura e un Vangelo propri. Nei primi secoli ciascun vescovo ordinava il ciclo delle epistole secondo la propria preferenza pastorale, ma attorno al IV secolo furono definitivamente fissate da S. Girolamo, in un ciclo unico annuale che aveva lo scopo di favorire la memorizzazione dei brani. In realtà, fino ai tempi di Pio V vi saranno numerose modifiche, e l’ordine sarà più volte turbato: lo Schuster suggerisce di guardare come i cicli di letture quaresimali vengano bruscamente interrotti nel giovedì delle ultime due settimane (ed effettivamente si ha traccia di una modifica di Gregorio II ai testi letti in queste Messe), nonché cita alcune letture introdotte secondo allusioni storiche, come la lettera da S. Pietro alla festa di S. Apollinare, col monito rivolto ai vescovi non dominantes in cleris, indirizzato ora ai metropoliti ravennati, i quali, “ebbri del favore che godevano presso la corte degli esarchi, sottraevansi all’autorità pontificia e vessavano i propri suffraganei”).

Se per i protestanti la lettura scritturale è una parte autonoma e di massima importanza della liturgia, nella tradizione cattolica viceversa non è  mai effettuata per sé stessa, ma ha sempre un significato che va al di là della pur importante istruzione dei fedeli, come la preparazione degli animi all’Eucaristia. La sacra funzione della lettura è evidente quando, durante la Messa Solenne, l’epistola è letta in plano dal Suddiacono, rivolto verso all’altare, e non verso il popolo come presso i protestanti (identicamente farebbe un lettore ordinato alla Messa Cantata).

Dunque abbiamo visto come il sacerdote, dopo aver espresso i voti e i desideri dei fedeli, insegna loro in nome della Chiesa, e si appresta a far loro udire le parole del Signore stesso contenute nel Vangelo; ma per questo è necessario che i cuori dei fedeli siano stati prima ben preparati dalle parole della Legge, dei Profeti e degli Apostoli.

Nei primi secoli, si leggevano anche numerose pericopi dall’Antico Testamento: tracce ne son rimaste nelle Messe delle Tempora, nelle feste più antiche e nelle feste dei Santi. La soppressione della lettura veterotestamentaria che precedeva l’epistola è, secondo Giovanni Diacono, da attribuirsi a S. Gregorio Magno (anche se la forma in due lezioni si trova nelle feste maggiori dei Sacramentari dei secoli VIII-X, e per diversi secoli a venire si usò leggere due epistole nelle domeniche d’Avvento).
 S. Agostino diceva che la Sacra Scrittura è una lettera di Dio Onnipotente ai suoi fedeli. Proprio per questo è doveroso rendere grazie a Iddio per il dono dell’istruzione, mediante la consueta formula Deo gratias, nata assai probabilmente per scopi pratici all’età delle persecuzioni: chiunque infatti non la pronunciasse era subito individuato come infedele e prontamente allontanato dall’ostiario.

XIX. Graduale

Tra una lettura e l’altra è invalso da sempre l’uso di recitare dei Salmi, indicati nei Sacramentari più antichi anche col nome di psallenda (uso mozarabico) e psalmellus (ambrosiano): in particolar modo la forma più antica era quella del cosiddetto “salmo responsoriale”, che nel rito romano è passato con il nome di graduale, dacché il cantore lo eseguiva inginocchiato sui gradini dell’ambone (o, secondo altri, perché veniva cantato mentre il diacono era inginocchiato sui gradini dell’ambone settentrionale per chiedere la benedizione prima del Vangelo). Anticamente, si è detto, all’intonazione di un solista rispondeva il coro: dalle indicazioni del Messale si può ancora percepire l’antica suddivisione, dacché accanto ai versetti che un tempo spettavano al solista si trova la consueta indicazione V/. E’ da dire che nemmeno in tempi antichi si cantava un salmo intero: l’uso di suddividere i salmi in brevi pericopi si ritrova già negli uffici monastici egiziani; la forma attuale della salmodia della Messa, principalmente dai Salmi ma anche da libri sapienziali o storici, fu fissata tra il 450 e il 550, con l’istituzione della Schola Cantorum romana da parte di Celestino I (a quest’epoca, col prevalere del coro specializzato, si fa risalire anche la scomparsa dell’uso responsoriale).
Lo Schuster rimanda l’origine di questo canto agl’inni corali delle sinagoghe, nonché al teatro greco; secondo un’interpretazione spirituale, siccome il graduale generalmente risponde nematicamente alla lettura dell’epistola, secondo l’antico motto “a letture tristi si risponda con cose tristi, a letture liete con cose liete”, può paragonarsi agli affetti devoti che la lettura suscita nel cuore.

Il Guyet ricorda che entrambe le parti del graduale, similmente all’introito, contengono “ora invito ed esortazione alla lode, ora congratulazione, talvolta prosopopea o invettiva”. Altra caratteristica stilistica è l’assenza di dossologia (cosa anomala per i Latini, impensabile per i Greci). Dal punto di vista musicale, il graduale  aveva spesso la melodia gregoriana più ornata di tutta la Messa, che rompeva la rigida monodia della lezione. La sua difficoltà fece sì che sovente fosse affidato al più esperto della schola, anche se in alcuni luoghi erano i fanciulli a intonarlo; a Milano, poi, il sabato santo, era l’arcivescovo in persona (uso condannato da Gregorio Diacono).

In tempo pasquale, giusta la Regula Sancta del IV secolo, il responsorio del popolo era sempre alleluia: quest’uso si è perfettamente conservato, e infatti nella cinquantina di Pasqua il graduale è sostituito dal cosiddetto “grande alleluia”, infarcito da queste ebraicizzanti invocazioni di gioia.

XX. L’Alleluia, il Tratto e la Sequenza

Il Santo Evangelo, la parola stessa di Nostro Signore, merita d’essere degnamente onorata da un canto di lode, il cosiddetto “carme alleluiatico”, intercalato dalla tipica invocazione ebraica (variamente tradotta con Gloria tibi Domine o Laudate Deum, tra cui, sulla base degli usi Orientali, dissociandomi dallo Schuster, preferisco la prima), la quale “risuonava continuamente nella bocca do Gesù e degli apostoli, intervallata da salmi di lode”. L’introduzione di quest’uso giudaico nella liturgia cristiana è prima orientale, importato a Roma solo da Papa Damaso. L’antico uso dell’Urbe, secondo Sozomeno, era di cantare tale inno solo a Pasqua; per influsso greco, giunsero gli alleluia quaresimali e per i defunti (contestati da S. Girolamo, dacché a Roma tale invocazione aveva assunto un ruolo prettamente gioioso, al di là del suo letteral significato, che rendeva contraddittorio per i Latini l’uso orientalizzante adottato anche dai Benedettini di intonar l’Alleluia negli uffici vigiliari, e ometterlo invece nella cinquantina pasquale). Sappiamo peraltro che questo canto non ebbe diffusione universale, ma fu ignorato dagli anacoreti egiziani e da altre chiese orientali; inoltre, in Spagna e in altre tradizioni anche occidentali il suo posto non è prima del Vangelo. Sull’origine del versetto intercalare vi sono molte supposizioni, tutte però, al di fuori di quella mitizzante che lo rimanda all’uso giudaico, poco convincenti.
Già a partire dalla metà del IV secolo, si è detto, iniziò a contestarsi l’uso di cantare in Quaresima tali gioiosi melismi, cosa che fu sanzionata da S. Gregorio, il quale ordinò anche di cantarli però in tutte le altre domeniche e feste. Con l’introduzione della Settuagesima, anche dalle tre settimane preparatorie fu escluso il canto alleluiatico, cosa che diede origine a suggestivi uffici di commiato dal gioioso carme, officiati in alcuni usi gallicani il martedì grasso.

Se nell’ufficio divino l’Alleluia è sostituito dalla pressoché omologa (ma meno inflazionata dal sapore pasquale) invocazione Laus tibi Domine [Rex aeternae gloriae], durante la Messa al suo posto si canta invece, nell’uso romano, il Tractus, la più antica forma di salmodia diretta, “tutta d’un tratto” (quanto lungamente si sono interrogati i liturgisti medievali sul significato di tal termine, ignorando l’esistenza di un psalmus indirectus nell’antico costume delle due lezioni scritturali!). Trattasi di un salmo intero o quasi intero, cantato assai sobriamente sopra il II o l’VIII tono, ma al contempo decisamente prolisso e prettamente penitenziale (si pensi al salmo XC, della I Domenica di Quaresima).

Accenniamo qui brevemente alla Sequenza, aggiunta al canto della Messa verso i secolo IX, come un testo che, adattandosi alle note su cui si doveva cantare l’Alleluia, serviva da promemoria per i cantori, e che venne poi sanzionato all’interno dei Sacramentari (ma i loro testi, come si può ben notare, non hanno nulla in comune coi modelli innografici tradizionali, e ricordano invece molto la prosa, rimata ma aritmica, dell’epoca). Il Bona la definisce una “sequela e appendice del cantico alleluiatico”. Molte sequenze, amate dal popolo, furono introdotte negli uffici solenni, e durante di esse si sonavan l’organo e le campane, per dar maggior risalto allo jubilus (al nome di sequentia infatti, derivato dal fatto che accanto al melisma dell’alleluia soleva indicarsi “et sequentia”, fu lungamente affiancato quello di jubilatio): pressoché ogni domenica arrivò ad averne una. Considerata l’enorme proliferazione di tali testi (arrivarono ad essere più di 5000), spesso di autori anonimi, e la loro non originarietà nel rito romano (furono infatti ricondotti agli ambienti monastici di S. Gallo), S. Pio V li soppresse tutti, tranne cinque, di provata ortodossia, meravigliosa armonia compositiva, sublime stile e pregnante significato:
  •  Victimae paschali laudes, attribuita a Wipone, per la festa e l’ottava di Pasqua
  • Veni Sancte Spiritus, d’Innocenzo III, per la festa e l’ottava di Pentecoste
  • Stabat Mater, di Jacopone da Todi, per le due feste dei sette dolori della B.V. Maria
  • Dies Irae, di Tommaso da Celano, per le Messe da morto
  • Lauda Sion Salatorem, di S. Tommaso d'Aquino, per la festa del Corpus Domini
Lo jubè (tecnicamente "pontile-tramezzo") della Cattedrale francese di Albi (in alto).
L'iconostasi della Basilica veneziana di S. Maria Gloriosa dei Frari (in basso)
Con funzione di oscuramento del Santuario simile a quella iconostasi orientali, come si può notare,
su di essa sono presenti due amboni, quello di destra per l'Epistola e quello di sinistra per il Vangelo.
Lo stesso nome di jubè è una corruzione dello Jube che il Diacono, inginocchiato sui gradini dell'ambone
sinistro, pronunciava per richiedere la benedizione

XXI. Il Vangelo

Vangelo a Messa cantata semplice;
sotto, tre momenti del canto del Vangelo
durante una Messa solenne
Viene a questo punto cantata la più importante delle letture, la parola stessa di Nostro Signore Gesù Cristo, solennemente cantata dal Diacono, al lato sinistro del Santuario (o talvolta fuori dal Santuario), con i lumi e l’incenso. L’uso di cantare il Vangelo al corno sinistro (che mantiene anche il Sacerdote nelle Messe lette e cantate, dopo il trasporto del Messale da parte del ministro, in cui si figura Cristo portato da Erode a Pilato) non è originale: anticamente, esso veniva letto in modo da avere il prete a sinistra e i fedeli a destra, rivolgendosi così a entrambi; tuttavia, il Diacono si rivolgeva così, assai sconvenientemente alle donne. S’introdusse allora la nuova posizione, ricca di significati simbolici: essendo il Nord il lato delle tenebre, il Vangelo è la luce che illumina qui in tenebris et in umbra mortis sedent; alcuni aggiunsero che la parola del Vangelo era anche la forza di Dio che vinceva gl’invasori che venivano dal Nord (i Longobardi, nel caso di Roma); in questa posizione, inoltre, si è alla destra del Crocifisso, e dunque al suo lato più degno.
 Dopo che il sacerdote ha benedetto l’incenso, il Diacono, inginocchiato sui gradini dell’altare (dell’ambone, un tempo), supplica il Signore di purificarlo (alludendo alla purificazione ricevuta da Isaia profeta e narrata al capitolo VI della sua profezia) e chiede al celebrante la benedizione, per poter degnamente ripetere le parole di Gesù (nelle Messe senza Diacono, il sacerdote dice il Munda cor meum e chiede direttamente a Iddio la benedizione).
Poi, riceve dal celebrante l’Evangeliario, baciandogli la mano (come aveva fatto il suddiacono chiedendogli la benedizione dopo aver letto l’Epistola), e si reca processionalmente al luogo ove leggerà il Vangelo, accompagnato dal suddiacono che gli reggerà il libro, dagli accoliti con i ceri accesi e dal turiferario con il turibolo fumigante, con il quale incenso si onoreranno le parole di vita eterna.
Ivi, pronunciata la salutazione Dominus vobiscum, che suggestivamente il Gueranger amplia “Il Signore sia con voi perché udiate il Verbo di Dio, che v’illumini e vi alimenti colla sua Parola”, inizia la pericope evangelica è introdotta dalle parole Sequentia Sancti Evangelii secundum N. (sequentia sta per “parole che si trovano in seguito”: se fossero le prime parole del Vangelo, egli direbbe Initium), e accompagnata da un segno di croce sul libro, a significare “questo è il Vangelo del Crocifisso”, e tre segni di croce su fronte, labbra e petto, per testimoniare apertamente la Croce di Cristo, raccontarla colla bocca, credervi coll’intelletto e abbracciarla con tutto il cuore. Il diacono legge il Vangelo a mani giunte, non permettendosi la familiarità di tenere le palme sul libro, come farebbe il sacerdote. Al termine della lettura, risposto Laus tibi Christe sul modello del Δόξα σοι orientale, il Vangelo è portato al celebrante perché ne baci l’inizio in segno di venerazione, pronunciando la formula di benedizione Per evangelica dicta deleantur nostra delicta (una delle benedizioni del Mattutino, di origine medievale, come tradisce la rima), e poi quest’ultimo è incensato: l’incenso, santificato ulteriormente dal contatto con le parole di Gesù, santifica il sacerdote e ne conferma la missione di dottore divino nel mondo.


Sacerdos in medio altaris exspectat donec subdiaconus missale in latere Evangelii collocaverit et diaconus librum Evangeliorum in medio altaris deposuerit; deinde incensum imponit et benedicit more solito. Postea diaconus, genuflexus in supremo gradu inclinatus dicit:
D - Munda cor meum, ac lábia mea, omnípotens Deus, qui lábia Isaiae prophétae cálculo mundásti igníto; ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum Dóminum nostrum. Amen.

Diaconus, accipiens librum Evangeliorum de altari, petit benedictionem a sacerdos similiter genuflexus in superiori gradu altaris
D - Jube, Dómne, benedícere.

Sacerdos dicit:
S - Dóminus sit in corde tuo et in lábiis tuis: ut dígne et competénter annúnties Evangélium suum: in nómine Patris, et Fílii, + et Spíritus Sancti. Amen.
Il Sacerdote aspetta in mezzo all’altare sinché il suddiacono non abbia collocato il Messale al lato del Vangelo, e il diacono abbia deposto il libro dei Vangeli in mezzo all’altare; indi, impone l’incenso e lo benedice al modo consueto. Poi, il diacono, genuflesso sul primo gradino, prostrato dice:
D – Purifica il mio cuore e le mie labbra, o Dio onnipotente, che purificasti le labbra d’Isaia profeta col carbone ardente; così degnati di purificarmi con la tua benigna pietà, affinché io possa degnamente proclamare il tuo Santo Evangelo. Per Cristo Signore nostro. Amen.

Il Diacono, prendendo il libro dei Vangeli dall’altare, chiede la benedizione al sacerdote, genuflesso sempre sul primo gradino dell’altare
D – Comanda, o signore, la benedizione.

Il sacerdote dice:
S – Il Signore sia nel tuo cuore e nelle tue labbra, acciocché tu proclami chiaramente e degnamente il suo Vangelo: nel nome del Padre e del Figlio + e dello Spirito Santo. Amen.

Predica dal pulpito
Predica dalla balaustra
Al termine delle letture, obbligatoriamente nelle domeniche e nelle feste di Precetto (Concilio Tridentino), il celebrante o un predicatore può tenere un sermone (detto anche omelia, dal greco), il quale può vertere sulla Scrittura appena proclamata, sulle vite dei Santi, su alcuni esempi di virtù, sul Catechismo, su articoli di fede o morale; questa pratica, antichissima come ci attestano le raccolte di omiletica dei Padri della Chiesa, ha origine dalla predicazione apostolica, ed è assai importante, specialmente nelle Parrocchie, per garantire ai fedeli un’adeguata istruzione in materia religiosa. L'omelia si tiene tradizionalmente dal pulpito, posto sopra la Navata, oppure alla balaustra dal lato del Vangelo; il sacerdote che predica indossa la berretta e, se era celebrante o ministro superiore, depone sul Messale il Manipolo, il quale non dev’essere tenuto per nulla al di fuori della Messa.
Secondo le parole di S. Agostino, "dopo il Sermone si fa la dimissione dei catecumeni, degli energumeni, degl'indegni e degl'infedeli", pressoché scomparsa nel rito romano, ma di cui parleremo nella prossima uscita.

Fonti: si vedano le pubblicazioni precedenti
Prossima pubblicazione (fine giugno): dalla dimissione dei catecumeni all’Offertorio