domenica 31 dicembre 2017

S. Stefano a Mariano (fotografie)

Pubblichiamo alcuni scatti della S. Messa cantata officiata nella festa di S. Stefano (26 dicembre 2017) nella chiesa parrocchiale di S. Gottardo a Mariano del Friuli (Gorizia), stracolma di fedeli e locali e giunti da tutto il Friuli per l'occasione.
Ha celebrato la S. Messa il M. Rev. parroco don Michele Tomasin, grande amico della Tradizione. Il canto è stato eseguito dal coro di Turriaco, che ha eseguito la Messa Pastorale di Luigi Ricci. Il servizio liturgico è stato coordinato dalla nostra direzione con l'aiuto dei ministranti locali.





Dominica infra octavam Nativitatis

Seguito del S. Vangelo secondo S. Luca

In quel tempo: Giuseppe e Maria Madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che di lui si dicevano. E Simeone li benedisse e disse a Maria sua Madre: Ecco che egli è posto per ruina e per risurrezione di molti in Israele: e per bersaglio alla contraddizione; e anche l’anima tua stessa sarà trapassata da una spada, affinché di molti cuori restino disvelati i pensieri. Eravi anche una profetessa, Anna, figliuola di Fanuel, della tribù di Aser: essa era molto avanzata in età, ed era vissuto sette anni con suo marito, al quale erasi sposata fanciulla. Ed ella era rimasta vedova fino all’età di ottantaquattro anni: e non usciva dal tempio, servendo Dio notte e giorno con orazioni e digiuni. E questa, sopraggiungendo quel tempo stesso, lodava anch’essa il Signore e parlava di lui a tutti coloro che aspettavano la redenzione d’Israele. E soddisfatto a tutto quello che ordinava la legge del Signore, se ne ritornarono in Galilea nella loro città di Nazaret. E il bambino cresceva e si fortificava pieno di sapienza, e la grazia di Dio era in lui.


Omelia di sant'Ambrogio Vescovo
Libro 2 sul capo 2 di Luca, verso la fine

Tu vedi che colla nascita del Signore la grazia è stata abbondantemente comunicata a tutti e la profezia fu rifiutata agl'increduli, ma non ai giusti. Ond'ecco Simeone profetizzare il Signore Gesù Cristo essere venuto per la rovina e la risurrezione di molti, per discernere i meriti dei giusti e degli iniqui; e per decretarci secondo la qualità delle nostre opere, egli giudice verace e giusto, o la ricompensa o il supplizio.
«Per te sarà una spada che ti trapasserà l'anima» Luc. 2,35. Né la scrittura, né la storia ci dicono che Maria sia morta di morte violenta. Poiché non l'anima, ma il corpo può essere trapassato da spada materiale. Onde ciò prova che la sapienza di Maria non ignorava il mistero celeste. «Infatti la parola di Dio è viva ed efficace, e più affilata di ogni spada acutissima, e penetrante fino alla divisione dell'anima e dello spirito, e delle giunture e delle midolle, e scruta i pensieri del cuore e i secreti dell'anima, perché tutto è nudo e palese al Figlio di Dio» Hebr. 4,12, al quale non sfuggono i secreti della coscienza. Profetò adunque Simeone, aveva profetato una vergine, aveva profetato una maritata; dové profetare anche una vedova, affinché nessuna condizione o sesso venisse escluso. E perciò Anna, che e per l'uso che fece della sua vedovanza e per i suoi costumi ci apparisce affatto degna di fede, annunzia che il Redentore di tutti è venuto. Ma avendo noi parlato delle sue virtù nell'esortazione alle vedove, non crediamo dover ripeterci ora, dovendo parlare di altro.

mercoledì 27 dicembre 2017

Benedictio vini in festo S. Joannis Evangelistae


La tradizione narra che, mentre trovavasi in Efeso, a S. Giovanni fu offerto un calice di vino avvelenato; prima di berlo, il Santo lo benedisse, tracciandovi un segno di Croce, e da questo calice uscì il veleno sotto forma di un serpente verde. Da allora, la Chiesa nella festa del Santo Apostolo officia la Benedizione del Vino, per la quale ogni fedele portava una bottiglia di vino o sidro (detto "Amore di San Giovanni"), una cui goccia si sarebbe poi dovuta versare dentro ogni bottiglia di vino che si sarebbe bevuta durante l'anno, in modo da trasmettere ad esse la benedizione. Quel vino benedetto veniva poi custodito in casa a protezione della famiglia, o anche dato da bere ai malati gravi quale sacramentale.

BENEDICTIO VINI
in festo S. Joannis Evangelistae
sollemnior


In fine Missæ post Evangelium sancti Joannis, In principio erat Verbum, dicitur:
V. Adjutorium nostrum in nomine Domini.
R. Qui fecit coelum et terram.

Psalmus 22
Dóminus regit me, et nihil mihi déerit: * in loco páscuæ ibi me collocávit.
Super aquam refectiónis educávit me: * ánimam meam convértit.
Dedúxit me super sémitas justítiæ, * propter nomen suum.
Nam, et si ambulávero in medio umbræ mortis, non timébo mala: quóniam tu mecum es.
Virga tua, et báculus tuus: * ipsa me consoláta sunt.
Parásti in conspéctu meo mensam, * advérsus eos, qui tríbulant me.
Impinguásti in óleo caput meum: * et calix meos inébrians quam præclárus est!
Et misericórdia tua subsequétur me * ómnibus diébus vitæ meæ:
Et ut inhábitem in domo Dómini, * in longitúdinem diérum.
Gloria Patri. Sicut erat.

Kýrie, eléison. Christe, eléison. Kýrie eléison.
Pater noster secreto usque ad
V.
Et ne nos indúcas in tentatiónem.
R.
Sed líbera nos a malo.
V.
Salvos fac servos tuos.
R.
Deus meus, sperántes in te.
V.
Mitte eis, Dómine, auxílium de sancto.
R.
Et de Sion tuére eos.
V.
Nihil profíciat inimícus in eis.
R.
Et fílius iniquitátis non appónat nocére eis.
V.
Et si mortiférum quid biberint.
R.
Non eis nocébit.
V.
Dómine, exáudi oratiónem meam.
R.
Et clamor meus ad te véniat.
V.
Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Orémus.
Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: qui Fílium, tuum tibi coætérnum et consubstantiálem de cælis descéndere, et de sacratíssima Vírgine María in hoc témpore plenitúdinis incarnári temporáliter voluísti, ut ovem pérditam et errántem quǽreret, et in húmeris própriis ad ovíle reportáret; nec non ut eum, qui in latrónes íncidit, a vúlnerum suórum dolóre, infúndens ipsi vinum et óleum, curáret; béne + dic et sanctí + fica hoc vinum: quod de vite in potum hóminum produxísti, et præsta: ut, quisquis in hac sacra solemnitáte de eo súmpserit vel bíberit, salútem ánimæ et córporis consequátur: et si in peregrinatióne fúerit, ab eódem, tua grátia mediánte, confortétur; ut via ejus in omni prosperitáte dirigátur. Per eúmdem Christum Dóminum nostrum. R. Amen.

Orémus.
Dómine Jesu Christe, qui te vitem veram, et sanctos Apóstolos tuos pálmites appellári, et de ómnibus te diligéntibus víneam eléctam plantáre voluísti; béne + dic hoc vinum, et virtútem ei tuæ benedictiónis infúnde: ut, quicúmque ex eo súmpserit vel bíberit, intercedénte dilécto discípulo tuo Joánne Apóstolo et Evangelísta, síngulis morbis et venénis pestíferis effugátis, sanitátem inde córporis et ánimæ consequátur: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum. R. Amen.

Orémus.
Deus, qui humáno géneri panem in cibum, et vinem in potum procreásti, ut panis corpus confórtet, et vinum cor hóminis lætíficet; quique beáto Joánni prædilécto discípulo tuo tantam grátiam contulísti, ut non solum haustum venéni illǽsus eváderet, sed étiam in tua virtúte venéno prostrátos a morte resusitáret: præsta ómnibus hoc vinum bibéntibus, ut spirituálem lætítiam et vitam conséqui mereántur ætérnam. Per Dóminum.
R. Amen.


Et aspergatur aqua benedicta.

lunedì 25 dicembre 2017

Natale 2017

Pietro Lorenzetti, Natività, Assisi, 1315-1329


Auguri di un Santo Natale 2017 a tutti i lettori!


Puer natus est nobis, et fílius datus est nobis: cujus impérium super húmerum ejus: et vocábitur nomen ejus magni consíli Angelus.
(Isaias IX, 6)

giovedì 21 dicembre 2017

Tempora Adventus - I sermone di S. Bernardo sopra il "Missus est"

I sermoni di san Leone "sul digiuno del decimo mese" sottolineano i riferimenti agricoli di questo digiuno. Questo riferimento appare ancora nei formulari del leoniano, ma in essi è accompagnato già da un'allusione alla prossima venuta di Cristo. Benché qualche orazione sia stata ritoccata a questo scopo, i formulari gelasiani non sono ancora sistematicamente conformati al nuovo tempo dell'avvento. La cosa è compiuta nella nuova scelta di orazioni che appare con il gregoriano e che è riprodotta nel messale romano. L'assimilazione è totale per le letture e i canti, tutti fissati già nei più antichi documenti.
Le letture delle Messe sono tolte da Isaia. Alle sette pericopi che si leggono ancora, si aggiungeva una volta Is. 42, 1-9 che è stato poi sostituito da Dan. 3. L'epistola del sabato (II Tess., 2, 1-8), che tratta della parusia non è stata scelta forse per questo motivo, ma per il versetto 8 che cita Is. 11, 4.
Come le letture di Isaia, anche i Vangeli si riferiscono alla venuta di Cristo nella carne.
Alcune parti in canto sono tolte dalle letture di Isaia oppure da Zaccaria. Le altre sono tolte dal salterio. Accanto ad estratti isolati dei Sal 23,118 e 144, alcuni salmi sono stati usati sistematicamente per le loro allusioni alla venuta di Dio, e la parte comune di questi estratti indica il passo sul quale è messo l'accento. Il Sal 18, salmo d'introito del mercoledì, ha fornito tre antifone al sabato (parte comune, il versetto 7a). Il Sal 84 ha dato due antifone al venerdì (parte comune, il versetto 8). Il Sal 79, salmo d'introito del sabato, ha dato a questo giorno quattro antifone (parte comune, il versetto 3).

Particolarmente nota è la liturgia del mercoledì di queste Tempora: nel Mattutino la Chiesa non legge nulla del profeta Isaia, come aveva invece fatto per tutto il resto del tempo di Avvento; si contenta di ricordare il passo del Vangelo di san Luca nel quale è narrata l'Annunciazione della Santa Vergine, e legge quindi un frammento del Commento di sant'Ambrogio su questo stesso passo. La scelta di questo Vangelo, che è lo stesso della Messa, secondo la usanza di tutto l'anno, ha dato una particolare celebrità al Mercoledì della terza settimana di Avvento. Si può vedere, da antichi Ordinari in uso presso parecchie e insigni Chiese, tanto Cattedrali che Abbaziali, come si trasferissero le feste che cadevano in questo Mercoledì; come non si dicessero in tale giorno in ginocchio le preghiere feriali; come il Vangelo Missus est, cioè quello dell'Annunciazione, fosse cantato nel Mattutino dal Celebrante rivestito d'una cappa bianca, con la croce, i ceri e l'incenso, e al suono della campana maggiore; e come, nelle Abbazie, l'Abate dovesse tenere una omelia ai monaci, allo stesso modo che nelle feste solenni.

Proprio grazie a questa usanza, siamo in possesso di quegli splendidi trattati omiletici che sono i Sermoni supra "Missus est" di S. Bernardo abate di Chiaravalle, di cui riportiamo il primo.


SERMONI SOPRA L'EVANGELO "MISSUS EST"
del Mellifluo Dottore e ultimo de' Padri, S. Bernardo, Abate di Chiaravalle

SERMONE I

1. Perché mai l’Evangelista ha voluto indicare tante cose con il loro nome in questo passo? Credo che l’abbia fatto perché noi non trascurassimo nulla di quanto egli con tanta diligenza si è studiato di raccontare. Nomina infatti il Nunzio che viene inviato e il Signore da cui fu mandato, la Vergine alla quale è mandato, e anche lo Sposo della Vergine, la discendenza di entrambi, la loro città e la loro regione. E questo perché? Pensi forse che siano indicazioni superflue? No, certamente. Se infatti non cade una foglia senza una ragione, né cade sulla terra un passero all’insaputa del Padre celeste, potrei io forse pensare che dalla bocca del santo Evangelista sia uscita una parola superflua, specialmente nel racconto della storia sacra del Verbo (incarnato)? Non lo penso. Tutte quelle parole infatti sono piene di profondi misteri e spandono una celeste soavità, a condizione che uno le mediti con diligenza e sappia succhiare il miele dalla roccia (Dt 32, 13). In verità, in quel giorno i monti hanno stillato dolcezza, e i colli fecero scorrere latte e miele (G13, 18; Es 3, 8) quando dall’alto dei cieli stillava la rugiada e le nubi piovevano il giusto e la terra si apriva, germogliando con letizia il Salvatore (Is 45, 8; 35, 2); quando, manifestando il Signore la sua benignità, e dando la nostra terra il suo frutto, su quel monte eccelso, pingue e ferace, la misericordia e la verità si incontrarono, la giustizia e la pace si baciarono (Sal 84, 13. 11; 67, 16). Pure in quel tempo, questo beato Evangelista, uno, e non piccolo, tra gli altri monti, con il mellifluo linguaggio ci ha descritto il desiderato inizio della nostra salvezza e, quasi investito dal vento caldo (austro) e dai raggi del Sole di giustizia, ormai vicino a nascere ha sparso il profumo di celesti aromi. Si degni ancora Dio di mandarci la sua parola e spanda anche per noi; faccia soffiare il suo spirito, e ci renda intelligibili le parole del Vangelo: siano esse al nostro cuore più desiderabili che l’oro e le pietre molto preziose, e ci diventino anche più dolci che un favo di miele.

2. Dice dunque: L’Angelo Gabriele fu mandato da Dio (Lc 1, 26). Non penso che questo Angelo sia di quelli inferiori, di quelli che sogliono di frequente portare annunzi dal cielo alla terra; ciò si deduce chiaramente dal suo stesso nome che significa Fortezza di Dio, e dal fatto che egli non viene mandato da un altro Angelo a lui superiore, ma viene detto mandato da Dio stesso. Perciò l’Evangelista ha precisato: Fu mandato da Dio; ovvero ha detto: Da Dio perché non si pensasse che Dio aveva rivelato il suo disegno a qualcuno degli spiriti beati, prima che alla Vergine, fatta eccezione per l’arcangelo Gabriele che tanto eccelleva tra i suoi compagni da apparire degno del suo nome, e degno di portare tale messaggio. Del resto al messaggio si adattava il suo nome. A chi infatti meglio conveniva annunziare Cristo, che è la virtù di Dio, se non a lui, il cui nome significava la stessa cosa? Forza di Dio è infatti lo stesso che virtù di Dio. Né disdice o è sconveniente chiamare con lo stesso nome il Signore e il suo messaggero, sebbene il medesimo nome sia attribuito per diversa ragione all’uno e all’altro. Cristo difatti è chiamato fortezza o virtù di Dio in senso diverso dall’Angelo: questi è detto virtù di Dio solo per partecipazione Cristo invece è tale per essenza, ed è lui che, più forte di quel forte armato che era solito custodire indisturbato la sua casa, venne a debellarlo con la sua potenza e così gli strappò la preda che teneva in suo potere. L’Angelo invece è stato chiamato fortezza di Dio, o perché ha meritato il privilegio di annunziare la venuta di questa Virtù di Dio, o per il fatto che doveva confortare la Vergine, per natura timorosa, semplice e vereconda perché non si spaventasse per la novità del miracolo; ciò che egli fece. «Non temere, o Maria, disse, hai trovato grazia presso Dio» (Lc 1, 30). Si può anche ragionevolmente credere che sia lo stesso Angelo, anche se l’Evangelista non lo nomina, che ha confortato lo sposo di Maria, anche lui uomo umile e timorato. Giuseppe, gli dice, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua sposa (Mt 1, 20). È pertanto conveniente che a Gabriele sia affidato questo compito; anzi appunto perché gli è imposto tale ufficio gli sta bene il nome con cui è chiamato.

3. Fu dunque mandato da Dio l’Angelo Gabriele (Lc 1, 26). Dove? In una città della Galilea chiamata Nazaret. Vediamo se da Nazaret, come dirà Natanaele (Gv 1, 46), può venire qualcosa di buono. Nazaret significa fiore. A me sembra che le parole e le promesse fatte da Dio ai Padri, Abramo cioè, Isacco e Giacobbe siano state come un seme della rivelazione divina gettato dal cielo sulla terra, del quale seme è scritto: Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato un seme, saremmo diventati come Sodoma e simili a Gomorra (Is 1, 9). Questo seme fiorì nelle meraviglie operate da Dio quando Israele uscì dall’Egitto, nelle figure e simboli misteriosi che lo accompagnarono durante tutto il viaggio per il deserto fino alla terra promessa, e in seguito nelle visioni e nei vaticini dei Profeti e nell’ ordinamento del regno e del sacerdozio fino all’ avvento di Cristo. Non a torto Cristo è considerato come frutto di questo seme e di questi fiori, secondo le parole di Davide: Il Signore elargirà il suo bene, e la nostra terra darà il suo frutto (Sal 84, 13); e ancora: Un frutto delle tue viscere io porrò sul tuo trono (Sal 131, 11). In Nazaret dunque viene annunziata la nascita di Cristo, perché nel fiore c’è la speranza del frutto. Ma, spuntato il frutto, il fiore cadde, perché apparendo la verità nella carne, la figura scomparve. Perciò è detto che Nazaret è una città della Galilea, cioè una città di passaggio, perché alla nascita di Cristo sono passate tutte quelle cose che ho detto sopra, le quali, come dice l’Apostolo «erano accadute loro come figure» (1 Cor 10, 11). Anche noi, che ormai possediamo il frutto, vediamo che quei fiori sono caduti; e mentre ancora si vedevano fiorire, si prevedeva che sarebbero passati. Per questo dice Davide: come l’erba che germoglia al mattino, che al mattino fiorisce e germoglia, e alla sera è falciata e dissecca (Sal 89, 6). Alla sera, cioè quando venne la pienezza dei tempi, in cui Dio mandò il suo Unigenito, fatto da donna, fatto sotto la legge, secondo ciò che ha detto: Ecco,faccio nuove tutte le cose (Ap 21, 5), le cose vecchie passarono e scomparvero, a quel modo che, appena il frutto comincia a crescere, i fiori cadono e inaridiscono. Per cui è ancora scritto: Seccò l’erba, e cadde il fiore; ma la Parola del Signore rimane per sempre (Is 40, 8).

4. Cristo pertanto è il buon frutto che rimane in eterno. Ma dov’è l’erba che è seccata? Risponda il Profeta: Ogni carne èfzeno (erba), e tutta la sua gloria è come ilfiore dell’erba (Is 40, 6). Se ogni carne è erba, dunque fu erba quel popolo carnale dei Giudei. Non è forse seccata l’erba, mentre quel popolo, vuoto di ogni contenuto spirituale, si contentò dell’arida lettera? Se non è caduto il fiore, dov’è dunque il regno, dove il sacerdozio, dove sono i Profeti, il tempio, dove infine quelle meraviglie di cui soleva gloriarsi dicendo: « Quanto abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato (Sal 77, 3). E ancora: le cose che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli (ivi 5)? Questo per spiegare perché sia stato detto:...a Nazaret, città della Galilea.

5. In questa città fu dunque mandato da Dio l’Angelo Gabriele. A chi fu mandato? Ad una Vergine sposa di un uomo di nome Giuseppe (Lc 1, 27). Chi è questa Vergine così venerabile da essere salutata da un Angelo, e così umile da essere sposa di un falegname? Bel connubio della verginità con l’umiltà; molto piace a Dio quell’anima in cui l’umiltà dà pregio alla verginità, e la verginità adorna l’umiltà. Ma di quanta venerazione pensi che sia degna colei nella quale l’umiltà è esaltata dalla fecondità, e la maternità consacra la verginità? La senti proclamare vergine, la senti umile; se non puoi imitare la verginità dell’umile, imita l’umiltà della vergine. È virtù lodevole la verginità, ma è più necessaria l’umiltà. La prima è consigliata, l’altra è comandata. Alla prima sei invitato, alla seconda sei obbligato. Della verginità è detto: Chi può comprendere, comprenda» (Mt 19, 12); dell’umiltà è detto: Se non diventerete come questo bambino non entrerete nel regno dei cieli (Mt 18, 3); alla prima è promessa una ricompensa, la seconda è di stretta necessità. Insomma, puoi salvarti senza verginità; senza umiltà non lo puoi. Può, dico, piacere l’umiltà che rimpiange la verginità perduta; ma senza umiltà oso dire che neppure la verginità di Maria sarebbe stata gradita a Dio: Su chi, dice, si poserà il mio Spirito, se non sull’umile e compunto di cuore? (Is 66, 2). Sull’umile, ha detto, non sul vergine. Se dunque Maria non fosse stata umile, non sarebbe disceso in lei lo Spirito Santo. E se non fosse disceso in lei lo Spirito Santo, neppure avrebbe concepito per opera di Lui. Come infatti avrebbe concepito da Lui senza di Lui? È dunque chiaro che, perché essa concepisse per opera dello Spirito Santo, Dio, come essa confessa, ha riguardato l’umiltà della sua serva (Lc 1, 48), piuttosto che la sua verginità, concepì però per la sua umiltà. Anzi, è chiaro anche che se la verginità piacque, certamente fu in vista della sua umiltà.

6. Che ne dici tu che ti insuperbisci della tua verginità? Maria, dimentica di sé, si gloria della sua umiltà; e tu, trascurando l’umiltà ti vanti della tua verginità? Dio, dice Maria, ha guardato l’umiltà della sua serva. E chi è questa serva? Una vergine santa, sobria, devota. Sei forse tu più casto di lei? più devoto? O forse la tua pudicizia è più gradita della castità di Maria, di modo che per renderti accetto a Dio senza umiltà ti basti la tua, mentre a Maria non bastò la sua? Infine, quanto più sei degno di onore per il singolare dono della castità, tanto maggior danno fai a te stesso per il fatto che ne deturpi lo splendore mescolandola con la superbia. Al punto che ti converrebbe piuttosto non essere vergine che insolentire a causa della tua verginità. Non è di tutti la verginità; molto di meno sono quelli che con essa hanno l’umiltà. Se dunque non puoi se non ammirare la verginità in Maria, studiati di imitarne l’umiltà, e per te è sufficiente. Che se sei anche vergine, e sei anche umile, chiunque tu sia, sei davvero grande.

7. Ma c’è ancora una cosa da ammirare in Maria, la verginità unita alla fecondità. Non si è mai sentito dire che una donna fosse insieme madre e vergine. Oh, se riflettessi anche di chi è madre, fin dove salirebbe la tua ammirazione per la sua grandezza? Non ne concluderesti che la tua ammirazione non potrà mai essere adeguata? Non la giudicherai forse, anzi la Verità stessa non la giudicherà degna di essere esaltata al di sopra degli stessi cori Angelici, lei che ha avuto Dio per figlio? Non osa forse Maria chiamare figlio colui che è Dio, e Signore degli Angeli? Dice infatti: Figlio, perché ci haifatto così? (Lc 2, 48) Quale degli Angeli oserebbe fare questo? È sufficiente per essi, e lo considerano già un grande onore, il fatto che, essendo spiriti per natura, li abbia Dio gratificati col farli e chiamarli Angeli, come dice Davide: Fa degli Spiriti i suoi Angeli (Sal 103, 4). Invece Maria, riconoscendosi Madre, chiama con fiducia figlio suo quella Maestà a cui gli Angeli servono. Né Dio disdegnò di essere chiamato quello che si degnò di farsi. Infatti poco appresso soggiunge l’Evangelista: Ed era sottomesso a loro (Lc 2, 51). Chi? A chi? Dio agli uomini: Dio, dico, al quale stanno sottomessi gli Angeli, al quale obbediscono i Principati e le Potestà, era sottomesso a Maria; e non solo a Maria, ma per Maria anche a Giuseppe. Ammira dunque l’una e l’altra cosa, e vedi tu cosa sia più degna di stupore, o la benignissima degnazione del Figlio, o l’eccellentissima dignità della Madre. Doppio motivo di meraviglia, doppio miracolo, e che Dio si faccia obbediente a una donna, umiltà senza esempio, e che una donna comandi a Dio, eccellenza senza uguale. A lode delle vergini si canta come di un loro privilegio che seguono l’agnello ovunque vada (Ap 14, 4). Di quali lodi sarà pertanto degna colei che anche gli va innanzi?

8. Impara, uomo, ad obbedire; impara, terra, a sottometterti; impara o polvere a ottemperare. Parlando del tuo Creatore l’Evangelista dice: Ed era loro sottomesso (Lc 2, 51) , a Maria cioè e a Giuseppe. Arrossisci, superba cenere! Dio si umilia, e tu ti esalti? Dio si sottomette agli uomini, e tu, bramoso di dominarli, ti metti avanti al tuo Creatore? Dio volesse che, quando penso tali cose, Egli si degnasse di rispondermi come quando sgridò l’Apostolo Pietro: Vattene da me, Satana, perché non pensi secondo Dio (Mt 16, 23). Perché tutte le volte che desidero di comandare agli uomini, mi sforzo di precedere il mio Dio, e allora veramente non penso secondo Dio. Di lui è detto infatti: Era loro sottomesso. Se non disdegni, o uomo, di imitare l’esempio di un uomo, certamente non sarà cosa indegna dite seguire il tuo Creatore. Forse non potrai seguirlo dovunque vada: accetta per lo meno di seguirlo mentre Egli scende a te. Cioè, se non puoi praticare la via sublime della verginità, segui Dio almeno per la via sicurissima dell’umiltà. Anche le vergini, se dovessero deviare da questa via retta, neppure esse, a dir vero, seguirebbero l’Agnello dovunque va. Segue l’Agnello colui che è umile, ma è impuro, lo segue chi è vergine, ma superbo, ma nessuno dei due può dire di seguirlo dovunque va, perché il primo non può seguire nel suo candore l’Agnello senza macchia, né il secondo si degna di scendere alla mansuetudine del medesimo Agnello che restò muto non solo davanti ai tosatori, ma ai suoi uccisori. Tuttavia sceglie la via più salutare il peccatore che segue Cristo nell’umiltà, che non chi si insuperbisce per la verginità, perché quello è purificato dalla sua immondezza mediante l’umiltà, mentre alla pudicizia di questo porta pregiudizio la sua superbia.

9. Ma felice Maria, cui non mancò né l’umiltà, né la verginità. E una verginità singolare, a cui la maternità non portò offesa, ma onore; e pure una umiltà speciale che non fu tolta, ma elevata dalla verginità feconda; una fecondità del tutto incomparabile, accompagnata dalla verginità e dall’umiltà. Quale di tutte queste cose non è meravigliosa? Quale non incomparabile? Quale non singolare? Farebbe meravigliare se tu non esitassi nell’esprimere il tuo pensiero, se cioè stimi più degna di ammirazione la stupenda fecondità in una vergine, o l’integrità in una madre, o la sublimità della Prole, o l’umiltà in una persona così eccelsa. Ma senza dubbio alle singole qualità è da preferirsi l’insieme di tutte, ed è incomparabilmente più bello e più felice il considerarle tutte riunite nella medesima persona di Maria. E quale meraviglia se Dio, che si legge e si vede ammirabile nei suoi Santi, si è dimostrato più ammirabile nella sua Madre? Venerate dunque, o coniugi, l’integrità in una carne corruttibile; ammirate anche voi, sacre vergini, la fecondità nella vergine; imitate, uomini tutti, l’umiltà della Madre di Dio. Onorate, Angeli santi, la Madre del vostro Re, voi che adorate la Prole della nostra Vergine, che è nostro e vostro Re, riparatore del nostro genere umano, restauratore della vostra città. A Lui, così sublime tra di voi, fattosi così umile tra noi, salga da voi e da noi la riverenza dovuta alla sua dignità e l’onore e la gloria dovuti dalla sua degnazione nei secoli dei secoli. Amen.

mercoledì 20 dicembre 2017

Antiphonae Majores

Dal 17 al 23 dicembre, al Vespro, la Chiesa canta prima e dopo il Magnificat le Grandi Antifone, altresì dette Antifone “O” (dacché iniziano tutte con il vocativo di uno dei titoli di Cristo), brevi ma densi poemetti teologici sulla Messianicità di Nostro Signore, testi di antichissima origine, più volte musicati e arricchiti di fioriture e melismi.

In uso nell'officio vesperale sin dall'VIII secolo (come si evince dal Responsoriale Maurino), Amalario di Metz (+850) afferma che sono di origine romana, e che furono introdotte in Gallia nel secolo precedente al suo; l'affermazione sembra concordare (nonostante alcuni liturgisti moderni tendano a retrodatarle) con gli accenni di Boezio, che scrivendo nel VI secolo pare averle già ben presenti e attestarle come in uso a Roma in quegli anni.

Alle sette antifone originarie si aggiunsero durante il Medioevo altri testi, sempre cantati al Magnificat o talvolta al Benedicttus, che variavano sensibilmente in ogni chiesa locale: tra le più diffusi vi erano alcune antifone non dedicate a Nostro Signore, come O Virgo Virginum, O Gabriel, O Thomas Didyme (per la festa di S. Tommaso che cade il 21 dicembre, ma fu presto sostituita dalla tuttora in uso Quia vidisti); tra le meno note, O Rex pacifice, O mundi domina, O Hierusalem. Il riordino voluto dal Concilio Tridentino e da Papa San Pio V eliminò dal Breviario Romano queste introduzioni tardive, ripristinando la purezza armonica, letteraria e simbolica del novero originario delle sette antifone gregoriane.

La struttura di queste antifone è tripartita e fissa: l’invocazione iniziale, con il vocativo di un titolo tratto dai Sapienziali o dai Profeti; la profezia dell’Antico Testamento riguardo la manifestazione del Salvatore; l’invocazione finale, marcata dall’imperativo “veni!”, che ben esprime l’attesa ecclesiale di questi giorni. Fin dal Medioevo, si notò che leggendo al contrario l’iniziale di ciascuno dei sostantivi invocati all’inizio delle antifone, si ottiene ERO CRAS, che significa “domani io ci sarò”, evidente riferimento all’imminente prima venuta di Cristo.

De XVII decembris:   
O Sapientia, quæ ex ore Altissimi prodidisti, attingens a fine usque ad finem, fortiter suaviterque disponens omnia: veni ad docendum nos viam prudentiæ!

De XVIII decembris: 
O Adonai, et Dux domus Israel, qui Moysi in igne flammæ rubi apparuisti, et ei in Sina legem dedisti: veni ad redimendum nos in bracchio extento!

De XIX decembris:    
O radix Jesse, qui stas in signum populorum, super quem continebunt reges os suum, quem gentes deprecabuntur: veni ad liberandum nos, jam noli tardare!

De XX decembris:     
O clavis David, et sceptrum domus Israel; qui aperis, et nemo claudit; claudis, et nemo aperit: veni, et educ vinctum de domo carceris, sedentem in tenebris, et in umbra mortis!


De XXI decembris:    
O Oriens, splendor lucis æternæ, et sol justitiæ: veni et illumina sedentes in tenebris, et umbra mortis.


De XXII decembris:   
O Rex gentium, et desideratus earum, lapisque angularis, qui facis utraque unum: veni, et salva hominem, quem de limo formasti.

De XXIII decembris: 
O Emmanuel, Rex et legifer noster, expectatio gentium, et Salvator earum: veni ad salvandum nos, Domine Deus noster!
Il 17 dicembre:                      
O Sapienza che usciste dalla bocca dell’Altissimo, e vi estendete da fine a fine, e ogni cosa con forza e dolcezza disponete: venite ad insegnarci la via della saggezza!

Il 18 dicembre:                 
O Signore, e guida della casa d’Israele, che appariste a Mosè nel fuoco di fiamma di un roveto, e gli donaste la legge sul Sinai: venite a redimerci con braccio potente!

Il 19 dicembre:                      
O germoglio di Jesse, che siete posto a segno dei popoli, davanti al quale tacciono i re, colui che implorano le genti: venite a liberarci, non tardare!

Il 20 dicembre:          
O chiave di Davide, e scettro della casa d’Israele; voi che aprite, e nessuno può chiudere; chiudete, e nessuno può aprire: venite, e portate fuori dal carcere colui che, in catene, siede nelle tenebre e nell’ombra della morte!

Il 21 dicembre:                      
O Oriente, splendore di luce eterna, e sole di giustizia: venite, ed illuminate coloro che siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte.

Il 22 dicembre:          
O Re delle genti, e desiderato delle nazioni, pietra angolare, che fate di entrambe una sola cosa: venite e salvate l’uomo che plasmaste col fango.

Il 23 dicembre:          
O Emmanuele, nostro Re e legislatore, attesa delle genti e loro Salvatore: venite a salvarci, o Signore Dio nostro!

martedì 19 dicembre 2017

27 gennaio - Pellegrinaggio a S. Grisostomo


La direzione di Traditio Marciana ha organizzato per il prossimo sabato 27 gennaio un pellegrinaggio alla Chiesa di S. Giovanni Crisostomo (vulgo San Zuane Grisostomo) di Venezia, ove si custodisce una preziosa reliquia del Santo Dottore della Chiesa, nonché una venerata immagine della Beata Vergine Maria, miracolosamente salvatasi dal bombardamento che colpì la chiesa durante la I Guerra Mondiale.


Il pellegrinaggio si svolgerà in occasione della ricorrenza liturgica di S. Giovanni Crisostomo, con il seguente programma indicativo:

11.00 S. Rosario e Litanie Lauretane di fronte all'immagine della Madonna delle Grazie
11.30 S. Messa cantata in rito antico 
12.45 Venerazione e bacio della Sacra Reliquia

Indicazioni per raggiungere la chiesa:
La Chiesa di S. Giovanni Cristostomo si trova lungo la Salizzada omonima, a 200 metri dal Ponte di Rialto. Il tragitto a piedi dalla stazione dura 20 minuti (25 da P.le Roma), lungo la Strada Nuova. In vaporetto, linea 2 da Ferrovia "B" o da P.le Roma "F" fino a Rialto "C" (11 minuti) e 3 minuti a piedi.



lunedì 18 dicembre 2017

S. Messa di S. Stefano a Mariano del Friuli


Si comunica che martedì 26 dicembre alle ore 10.30 sarà celebrata la S. Messa cantata in rito tradizionale nella festa di S. Stefano Protomartire, presso la Chiesa parrochiale di S. Gottardo a Mariano del Friuli (GO).


Celebra il M. Rev. Parroco don Michele Tomasin. Canta il coro di Turriaco (GO) che eseguirà la Messa Pastorale di Luigi Ricci.

Celebrazioni del Santo Natale 2017 a Venezia

SANTO NATALE 2017


Sandro Botticelli, Natività mistica (particolare), 1501


domenica 24 dicembre

11.00 S. Messa cantata della Vigilia di Natale
12.15 Ultimo giorno della Novena di Natale

a partire dalle 23.30 musica sacra natalizia
00.00 S. Messa cantata nella notte di Natale

lunedì 25 dicembre

11.00 Santa Messa cantata del giorno di Natale




Dominus dixit ad me: Filius meus es tu, ego hodie genui te.
Disse a me il Signore: Figlio mio sei tu, io oggi t'ho generato.
(Salmo II, 7)

domenica 17 dicembre 2017

Veglia russo-ortodossa sulle reliquie di S. Barbara

Nostra traduzione da pravoslavie.it

L'altare con le reliquie di S. Barbara

Sabato 16 dicembre, a Venezia, la Grande Veglia di tutta la notte (1) della Domenica è stata officiata all'isola di Burano, nell'Oratorio di Santa Barbara, presso le reliquie della Santa che da più di un millennio riposano nelle isole della laguna veneziana.
Il rettore della parrocchia russa di Venezia, l'arciprete Alexey Yastrebov, ha espresso la sua gratitudine al rettore della parrocchia cattolica di S. Martino di Tours, don Vincenzo Piasentin, che ha gentilmente concesso l'opportunità di servire una Veglia davanti a questo grande santuario del mondo cristiano, ove i fedeli hanno venerato il capo della Santa Megalomartire e sono stati unti coll'olio consacrato.
Terminato il servizio divino, è stato cantato l'akathisto (2) a Santa Barbara.

Note di Traditio Marciana
(1) La Veglia di tutta la notte (in russo Всено́щное бде́ние) è un servizio liturgico previsto dal typikòn della Chiesa Russa, formato dalle officiature del Vespero, del Mattutino e dell'Ora Prima, che viene celebrato la sera prima delle grandi festività. Questo tipo di servizio non è presente nell'uso greco, ove le varie parti dell'Ufficio Divino sono officiate separatamente; nella pratica romana fino alla metà del XX secolo era normale che, nella recita privata, i sacerdoti dicessero il Mattutino alla sera prima, subito dopo Vespro e Compieta. Il nome "Veglia di tutta la notte" deriva dal fatto che, originariamente (e ancor oggi nei monasteri russi sul Monte Athos), essa durava tutta la notte, ed era subito seguita dalla Divina Liturgia, celebrata all'alba della festa; nell'uso parrocchiale, infatti, molte parti sono omesse o abbreviate (come il Sinassario, alcune odi del canone oppure i catismi del salterio), in modo che il servizio duri circa due ore. Nell'ortoprassi russa tradizionale, i fedeli che vogliono comunicarsi durante la liturgia domenicale e festiva dovrebbero ad assistere alla Grande Veglia la sera prima, durante la quale (durante il canto dei canoni poetici) hanno anche la possibilità di confessarsi. L'unzione di cui si parla nell'articolo fa riferimento a un uso tipicamente russo, quello di conferire l'unzione con olio consacrato (un sacramentale) durante il Mattutino, mentre i fedeli venerano con un bacio il Vangelo appena proclamato.
(2) L'akathistos (in greco ἀκάθιστος, in russo ака́фисто) è un inno liturgico della tradizione orientale in onore di un santo, della Beata Vergine Maria (cui è dedicato l'Inno Akathistos per eccellenza) o di Nostro Signore. Essi sono formati da un kondakio iniziale e 24 strofe (come le lettere dell'alfabeto greco: gli akathisti più antichi sono infatti acrostici), alternate tra 12 iki e 12 kondakia, che enarrano i miracoli, le imprese o le qualità del Santo in onore del quale si canta l'inno. I kondakia terminano tutti con l'esclamazione Alliluia, mentre al termine degli iki si aggiungono 12 salutazioni (introdotte dal greco Χαῖρε, in russo Ра́дуйся, che significa "Rallegrati") che si rivolgono al santo con titoli abbastanza simili quelli in uso nelle litanie cattoliche. Qui il testo dell'akathistos a S. Barbara.


Foto: Vera Golovina

sabato 16 dicembre 2017

Dominica III Adventus


La III domenica d'Avvento, detta domenica Gaudete dalle parole di S. Paolo con cui inizia l'introito, tratte da quel capolavoro che è l'esortazione alla gioia nel Signore costituita dal IV capitolo dell'epistola ai Filippesi, segna una tappa fondamentale nel cammino liturgico verso il Natale, collocandosi difatti più o meno a metà del tempo di Avvento. In questa domenica anticamente si sospendeva ogni digiuno e austerità; l'organo riprende a suonare; le reliquie e i fiori ricompaiono sull'altare; e i sacri ministri indossano paramenti rosacei e non violacei, dove il rosaceo è il frutto della commistione tra il colore viola dell'austerità dell'Avvento e quello bianco della gioia del Santo Natale, che è avvertito come ormai prossimo; il diacono e il suddiacono smettono dunque il paramento penitenziale che è la pianeta plicata e tornano a indossare dalmatica e tunicella; il vescovo indossa una mitria preziosa.
L'avvicinarsi al Natale è segnato non solo dai tratti gioiosi di questa sosta, ma da una serie di altri elementi che prendono a popolare l'ufficio. Dopo la metà di dicembre (quando più o meno cade questa domenica), si sospendono gli uffici dei santi (l'ultimo, S. Eusebio, è il 16 dicembre; l'Apostolo S. Tommaso al 21 dicembre è una motivata eccezione), per concentrarsi maggiormente sull'attesa di Nostro Signore, accompagnata dalla penitenza e dal digiuno delle Quattro Tempora che cadono in questa settimana. Cangiano anche alcune parti dell'Ufficio, e particolarmente l'antifona dell'Invitatorio al Mattutino, che da oggi suona Prope est jam Dominus, venite adoremus (il Signore ormai è vicino: venite, adoriamolo!).



Predica per la Domenica Gaudete
del rev. padre Joseph Kramer, FSSP

 "Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti". Con queste parole di San Paolo si apre l’Introito della messa. Queste parole di San Paolo “Gaudete in Domino semper” danno il tono festoso alla terza domenica dell’Avvento - giorno che da secoli la chiesa chiama la "domenica gaudete". Oggi la liturgia ci esorta a gioire perché, "il Signore è vicino".
 L’arrivo di Cristo è vicino in due maniere. Aspettiamo, l’ultimo giorno quando Cristo ritorna per giudicare i vivi e i morti. Aspettiamo la venuta finale del Signore che è sempre vicino, sempre imminente. Questa venuta l’aspettiamo con timore, con serietà, ma anche con gaudio. Allo stesso tempo, aspettiamo con gaudio la festa di Natale quando celebreremo il primo arrivo di Cristo – quello storico di Betlemme. Nella messa di oggi, l’Epistola parla dell’ultima venuta di Cristo, quando il Redentore ritornerà per giudicare i vivi e i morti. Il Vangelo si riporta alla prima venuta di Cristo – a San Giovanni Battista che prepara le anime per l’inizio della vita pubblica del Salvatore. Il vangelo di oggi ci fa trovare con San Giovanni Battista sulla riva del Giordano a Betania dove dà un battesimo di penitenza per preparare le anime alla venuta del Messia. 
Come dice San Giovanni Battista nel vangelo di oggi, lui, Giovanni, battezzava con acqua solo, ma annuncia ai rappresentanti dei sacerdoti di Gerusalemme che è arrivato “Colui che fu prima di me” (Cristo il Verbo di Dio che esiste da tutta l’eternità). “Colui che verrà dopo di me”.(Cristo che comincia la sua vita pubblica mentre il Battista sarà messo in prigione e presto decapitato).
Scendendo nell’acqua del Giordano, chi si è fatto battezzare da San Giovanni riconosceva i propri peccati e cercava di liberarsi dal peso della colpa. Questo battesimo dato da San Giovanni non poteva, però, cancellare il peccato ed in particolare, il peccato originale. È solo a partire dalla croce e dalla risurrezione di Cristo che il battesimo acquisterà il potere di cancellare i peccati e di conferire una nuova vita; perché con la sua crocifissione Cristo si era preso sulle spalle il peso della colpa dell’intera umanità. Con la sua risurrezione Cristo è emerso dalla profondità, dall’abisso, dal fondale freddo della morte. La morte e risurrezione di Cristo sono, come Cristo dice lui stesso, un “battesimo”. Questo scendere nell’acqua freddo della morte portando con sé i peccati dell’umanità, questo uscire fuori della freddezza della morte sono azioni compiuti del Uomo-Dio, azioni che daranno al battesimo cristiano la sua forza sacramentale, ossia la potenza di realizzare, di effettuare realmente quello che i gesti del battesimo simboleggiano. E’ per questo motivo che Cristo dà ai suoi apostoli il mandato di battezzare tutti le nazioni non all’inizio della sua missione ma dopo la sua morte e risurrezione, al momento di ascendere in cielo- perché lui nella sua persona ha dovuto per prima compiere la redenzione degli uomini. Il battesimo cristiano si fa in seguito e diventa il mezzo scelto da Cristo per unire a sé noi uomini nella due fasi principali della redenzione- la sua morte e la sua risurrezione. 
La grazia reale o sacramentale che ci viene data col battesimo è dunque una grazia di rigenerazione che c'incorpora a Cristo e ci aiuta a vivere una nuova vita secondo gli insegnamenti e gli esempi del Salvatore. Il battesimo cristiano dà a tutti i figli caduti di Adamo la possibilità di rinascere – di diventare figli di Dio.
Così, durante queste settimane dell’avvento, la figura di San Giovanni Battista ci fa meditare sul mistero del battesimo, il battesimo in quanto rinascita - anche perché quando celebreremo il natale fra due settimane, potremo meglio ricordare che il Salvatore ci ha insegnato che per noi diventare come i bambini in rapporto a Dio è la condizione per entrare nel Regno dei Cieli; per questo ci si deve abbassare, seguire l’esempio di Gesù nato a Betlemme, si deve diventare piccoli; anzi, bisogna essere generati da Dio per diventare figli di Dio, come dice il prologo di San Giovanni. “A quanti lo accolsero, ai credenti nel suo nome, diede potere di diventare figli di Dio”.

Perciò oggi ci troveremo con San Giovanni Battista che ha preparato l’arrivo di Cristo. Per tutto il periodo dell’Avvento sentiamo la voce del Battista nelle austerità del deserto che ci invita di rinunciare alla nostra vita di peccato. Il Signore è vicino; il vecchio anno muore e il nuovo anno comincia. Anche noi dobbiamo morire al peccato e alla nostra vecchia vita disordinata; morire all’orgoglio e diventare di nuovo piccoli – diventare come i bambini in rapporto al nostro Padre Celeste.  Durante queste otto giorni che rimangono dobbiamo pregare che potremo nascere come figli di Dio insieme al Bambino di Betlemme.

Sia lodato Gesù Cristo.

mercoledì 13 dicembre 2017

Santa Lucia, vergine e martire di Siracusa

Παρθενίαν ἀκήρατον, ἐμμελῶς ἐξασκήσασα, προσηνέχθης χαίρουσα τῷ Ποιήσαντι· ἀρνησαμένη γὰρ πρόσκαιρον νυμφίον, πανεύφημε, ἐνυμφεύθης τῷ Χριστῷ, καὶ τὸν δρόμον τελέσασα, διὰ πίστεως, καὶ φαιδροῦ μαρτυρίου νῦν παρέχεις, τοῖς τιμῶσί σε Λουκία, τῶν ἰαμάτων χαρίσματα.

Avendo custodito ordinatamente l'integra verginità, vi offriste gioiosa al Creatore: avendo rifiutato uno sposo mortale, o degna di ogni lode, vi deste in sposa a Cristo, e compiuta la corsa, mediante la fede e lo splendido martirio, ora offrite a coloro che vi onorano, o Lucia, i doni delle guarigioni.
(Vespro di rito bizantino, Stichirà di S. Lucia)

Francesco dal Cossa, Santa Lucia, 1472-73

AGIOGRAFIA DELLA SANTA
da leggersi al Mattutino della festa, nel II notturno

Lucia, vergine di Siracusa, illustre dall'infanzia e per la nobiltà dei natali e per la fede, andò a Catania insieme con la madre Eutichia, che soffriva perdita di sangue, per venerarvi il corpo di sant'Agata: e dopo aver pregato umilmente sulla tomba di Agata, ottenne per intercessione di lei la salute alla madre. Allora ella supplicò subito la madre di permetterle di distribuire ai poverelli di Cristo la dote che le avrebbe data. Quindi appena ritornata a Siracusa, vendette tutti i suoi beni, e ne distribuì il prezzo ricavato ai poveri. Il che appena lo riseppe colui al quale i genitori l'avevano, contro la volontà della Vergine, fidanzata, denunziò Lucia come cristiana al prefetto Pascasio. Questi non avendo potuto né con preghiere, né con minacce piegarla al culto degli idoli; anzi egli vedendo, che quanto più si sforzava di farla cambiare di sentimenti tanto più ella sembrava infiammata a celebrare le lodi della fede cristiana: «Non parlerai più così, le disse, quando sentirai i colpi ». Cui la Vergine: « Ai servi di Dio non possono mancare mai le parole, avendo Cristo Signore detto loro: Quando sarete condotti davanti ai re e ai presidi, non vi preoccupate di che e di come lo direte: perché in quel momento vi sarà dato di che dire: perché non siete voi che parlate, ma è lo Spirito Santo, che parla in voi». Avendole domandato Pascasio: «Lo Spirito Santo è dunque in te?» Ella rispose: «Quelli che vivono castamente e piamente sono tempio dello Spirito Santo». Ma lui: «Ti farò condurre in un luogo infame, perché lo Spirito Santo ti abbandoni». E la Vergine a lui: «Se mi farai violentare nolente, la castità mi meriterà doppia corona». Quindi Pascasio, acceso d'ira, comandò di trascinare Lucia dove venisse violata la sua verginità: ma per un prodigio divino, la vergine rimase così immobile dov'era, da non potersi allontanare con nessuna violenza. Perciò il prefetto fattole spandere attorno pece, resina e olio bollente, ordinò d'accendervi il fuoco: ma siccome la fiamma non le faceva alcun male, dopo essere stata tormentata in molti modi, le trapassarono la gola con un colpo di spada. Mortalmente ferita, Lucia predicendo la tranquillità della Chiesa, che sarebbe succeduta alla morte di Diocleziano e Massimiano, rese lo spirito a Dio il tredici Dicembre. Il suo corpo sepolto a Siracusa, fu poi trasportato a Costantinopoli e infine a Venezia.


L'arca che custodisce il corpo della Santa nella chiesa di S. Geremia a Venezia

Messa Tridentina nella chiesa di S. Geremia (altare del Santissimo) il 13 dicembre 2016

Sancta Lucia, ora pro nobis!

lunedì 11 dicembre 2017

60 abitanti e 120 presepi: così in Friuli difendono il Natale

Da "Il Giornale" del 3 dicembre, riportiamo questo interessante articolo, che racconta della singolare ma interessante iniziativa di un paesino cattolico del Friuli, che ha voluto pubblicamente manifestare la propria fede e la propria tradizione, nonostante le istanze dei laicisti liberisti italiani, che non perdono occasione per eclissare i simboli della tradizione cristiana "per non offendere le altre religioni" (fossero le false religioni a volerlo!, ma invece - peggio ancora! - ci troviamo in presenza dei capricci di ferventi anticattolici di stampo liberal che odiano la religione tout court, e che negli ultimi cinquant'anni vedono sempre più approvate le loro barbare volontà, vista la nuova tollerante politica ecclesiastica). Un encomiabile esempio da imitare ovunque!

Sessanta abitanti e 120 presepi: "Così difendiamo il Natale"
L'iniziativa in controtendenza di un borgo friulano mentre in tutta Italia i simboli cristiani sono a rischio
di Serenella Bettin


Scriviamo da un paese che è un presepe. In un Paese che discute se promuovere o censurare i simboli della tradizione cristiana (dalla natività all'albero di Natale, dalle recite «laiche» nelle scuole agli eccessi del politicamente corretto) c'è ancora un paese, ai piedi delle Dolomiti Friulane, che difende con forza la nostra cultura e uno dei suoi simboli più importanti: il presepe.

Ecco, un piccolo borgo di sessanta anime riesce a mettersi d'accordo e mantenere forte questa tradizione.

Poffabro è un paesino in provincia di Pordenone: sessanta anime effettive residenti d'inverno e quasi centoventi presepi a Natale. Arriviamo a Poffabro che è quasi l'ora di pranzo, la gente si sta preparando, oggi è festa qui, perché si inaugura la rassegna, giunta alla ventesima edizione, di «Poffabro: presepe tra i presepi». Avvolto dalle montagne cosparse di zucchero a velo, Poffabro si trova incastonato ai piedi del Monte Raut. Borgo del comune di Frisanco, sopravvissuto al devastante terremoto che colpì il Friuli il 6 maggio del 1976, ora sopravvive anche al lento declino delle tradizioni a cui vergognosamente assistiamo rassegnati.

Un paese, inserito dall'Anci tra i «Borghi più belli d'Italia» che riesce ad attirare migliaia di visitatori: Italia, Austria, Olanda, Slovenia, tutti per questa rassegna di presepi che è una delle più belle d'Italia. E li vedi i presepi, incastonati ovunque. Nelle finestre, lungo i vicoli acciottolati, sotto gli archi di pietra battuta, sui davanzali delle case, sotto i portici, dentro gli scantinati, appesi agli alberi, dentro ai santuari, incassati dentro piccole grotte, sopra gli attici, tra i terrazzi, o preparati con cura sopra i giardini. Ogni casa ha il suo, ogni piccolo spazio di questo piccolo borgo antico è riempito di addobbi, candele, alberelli di legno, arbusti coperti con i cappelli di tanti piccoli Babbo Natale, ghirlande, fili d'oro, fili d'argento, vischio e bacche rosse. I presepi sono grandi, alti, bassi, fatti di legno, di ceramica, di stoffa, di cartone; fatti perfino con le casette di frutta dipinte di bianco. Piccole natività ricavate anche dentro i tronchi degli alberi.

Ieri tutti questi presepi alle 18 sono stati illuminati, dando il via alla rassegna organizzata dall'associazione «Scarpéti» e ideata da Adriana Cozzarini. «I nostri presepi - dice al Giornale il vicesindaco di Frisanco, Gianluca Coghetto - vengono fatti anche da non pofavrîns, cioè gli abitanti di Poffabro». A realizzare le natività sono stati artisti, appassionati, famiglie e associazioni mosse dall'amore per questa tradizione . «Noi abbiamo la casa qui ci dicono Sara e Lucio Corazza ogni anno veniamo a Poffabro per preparare il presepe. Ogni casa ha il suo». «C'è gente che ne prepara anche cinque ci racconta Valentino Brun-Rizza - perfino gli olandesi che hanno comprato casa a Poffabro, fanno il presepe. Bisogna vederli di sera, quando sono illuminati». E ieri infatti, sull'imbrunire, quel paesino incastonato ai piedi di un monte, cominciava ad accendersi di luci e candele soffuse. Triste che per trovare ancora chi difende la cristianità, occorra fare così tanti chilometro e addentrarsi ai piedi delle montagne.

La questione della lingua nella liturgia

Ricorre oggi la festa di Papa San Damaso I (+384), che tra le molte sue opere vien ricordato per aver commissionato a S. Girolamo una nuova traduzione ufficiale della Bibbia, e aver disposto che la liturgia romana venisse officiata in latino, e non in greco come avveniva in precedenza.



Si è recentemente svolto a Venezia un convegno sulla questione della lingua nella liturgia, analizzata a partire dalla cosiddetta disputa trilinguista, accaduta nel IX secolo proprio nella città lagunare, ove alcuni ecclesiastici rimproverarono i Santi Cirillo e Metodio di aver tradotto i testi liturgici in slavo, quando le uniche lingue ammesse nelle cose sacre sarebbero state le tre del Titulus Crucis, ovverosia l'ebraico, il greco e il latino. Tra gl'interventi, molto interessante è stato quello di un sacerdote greco-ortodosso e professore, da cui traggo lo spunto per la stesura di questo breve articolo.

Posto che Nostro Signore Domineiddio comprende tutte le lingue, ci fu un motivo se per le cose sacre ogni popolo scelse lingue che non erano di uso comune, varianti arcaiche e non più comprese dal popolo. L'elenco seguente vuole presentare soltanto alcuni esempi: il greco koinè per la Chiesa costantinopolitana, il paleoslavo ecclesiastico per quella slava, il ge'ez per quella etiope, l'armeno classico per quella armena, l'aramaico per la quella siriaca, il latino per la Chiesa occidentale... persino le confessioni protestanti che mantengono in sé l'idea di una "high church" (e cioè il luteranesimo classico e l'anglicanesimo ufficiale, non influenzati dalle istanze riformate e di stampo carlostadiano) usano una versione poetica e medievale della loro lingua per la liturgia. Ma addirittura i pagani facevano uso di lingue antiche e incomprese dal popolo: Quintiliano ci riferisce che nel I secolo d.C. i sacerdoti salii, durante le processioni in onore di Marte e Quirino, cantavano degli stichi sacri, i cosiddetti carmina saliaria, in un linguaggio talmente arcaico che nemmeno loro stessi sapevano cosa stessero dicendo.

Molti Papi del XX secolo si sono adoperati per difendere la purezza della lingua latina nella liturgia: memorabile fu l'intervento di Pio XII durante un convegno, avendo ei detto che "sarebbe tuttavia superfluo il ricordare ancora una volta che la Chiesa ha serie ragioni per conservare fermamente nel rito latino". Pio XI invece, nell'epistola apostolica Officiorum omnium, scriveva che: "infatti la Chiesa, poiché tiene unite nel suo amplesso tutte le genti e durerà fino alla consumazione dei secoli, richiede per sua natura un linguaggio universale, immutabile, non volgare". Persino Giovanni XXIII con la costituzione Veterum sapientia ribadì vieppiù l'indispensabilità del latino, la cui conservazione "non è solo una questione di cultura o di lettere, ma propriamente una questione di Religione". Uno dei motivi più additati dai Pontefici, fu l'espressione dell'unione di tutta la Chiesa latina alla sua origine romana, come testimoniarono S. Pio X e Leone XIII, così come lo slavo ecclesiastico unisce tutte le chiese slave e quella greca tutte le chiese che si riferiscono alla tradizione costantinopolitana.

In questa analisi bisogna stare molto attenti, per non sfociare in un assurdo e antistorico romanocentrismo tipico di una certa parte tradizionalista, a non considerare tutto in prospettiva romana. La prima lingua usata nella liturgia fu il greco, anche a Roma. Dunque è inutile invocare una predilezione divina per la lingua latina o cose del genere che non farebbero che rendere antistorica e risibile una tesi del genere, senza contare l'annoso problema d'incoerenza con il fatto che la Chiesa Cattolica sempre ammise che le Chiese Orientali in comunione con essa (e financo le compagini balcaniche di rito latino) utilizzassero la loro propria lingua liturgica. L'analisi è invece molto semplice e definitiva: in qualsiasi religione (meno che nell'irreligione, quella a cui cerca di avvicinarsi il modernismo) esistono uno spazio sacro inviolabile, degli oggetti sacri intoccabili. Così, esiste giocoforza una lingua sacra immutabile, che dovrà conservarsi sempre tale, poiché espressione dell'immutabilità della Chiesa e della liturgia; proprio come l'oggetto liturgico, che in sé non ha nessuna elezione ab origine, ma viene costruito con una forma dignitosa e immutabile per uno scopo alto e immutabile qual'è la Sacra Liturgia. I caratteri di una lingua sacra vengono dunque ad essere: l'immutabilità (perché sia espressione della continuità perenne della Chiesa e del rito), l'arcaicità (perché sia distaccata dall'uso quotidiano), l'elevatezza (perché si adatti all'azione più sacra di tutte, la liturgia).

Avendo già parlato dell'immutabilità, vengo all'arcaicità. Ciò che rende gravemente errata l'analisi del Gueranger è sostenere che le Chiese Orientali avessero preferito introdurre la lingua del popolo, la quale poi si fossilizzò nella forma dell'epoca, "venendo a contatto coi misteri dell'altare". La cosa è necessariamente antistorica: anzitutto, la prima lingua liturgica fu proprio orientale, ossia il greco; non già il greco del I secolo d.C., però, ma una sua forma più pura, risalente al IV secolo a.C., ricca peraltro di composti tipici della poesia epica, di certo non parlata dalla gente comune a quel tempo. Il latino fu un'introduzione successiva, ma comunque fu introdotto in una forma "classica" di quattro secoli anteriore rispetto a quella in uso al tempo, una forma lontanissima dall'uso parlato persino degli abitanti dell'Urbe. Stesso discorso può farsi per le altre lingue liturgiche succitate, compreso lo slavo ecclesiastico, che ad oggi i linguisti studiano accuratamente, dacché è formato un corpus di fonemi, lessemi e strutture che si rifanno a una lingua "panslava" ben anteriore al IX secolo, quasi sicuramente non più in uso tra il popolo in quegli anni.
Ma perché si rende necessario l'uso di una lingua arcaica, incompresa? Lo si è già accennato, per mantenere il necessario distacco tra il quotidiano e l'eterno, tra il contingente e il trascendente, tra il profano e il sacro; la stessa separazione fisica che la balaustra e l'iconostasi trasmettono, la trasmette l'uso della lingua antica. L'istanza che il popolo capisca la liturgia, infatti, può essere eretica in due modi:
- gnostica, poiché ammette che l'esperienza religiosa avviene solo attraverso la comprensione totale di essa, e dunque l'uomo, insuperbito nelle sue potenzialità, diventa il vero attore della Religione
- protestante, poiché ammette che lo scopo principale della liturgia sia la catechesi del popolo, quando sappiamo che nella religione cattolica la Divina Liturgia è essenzialmente il Sacrificio di Nostro Signore sul Calvario, e solo secondariamente si esercita il munus docendi, la predicazione, che deve certo avvenire in lingua volgare, ma è in sé nettamente separata e inferiore rispetto all'officio dei Sacri Misteri.
Ciò non significa che chiunque voglia comprendere qualcosa della liturgia rischi di sfociare in una delle summenzionate eresie: come noi possiamo sapere cosa fa il sacerdote dietro l'iconostasi, così noi possiamo leggere dai messalini la traduzione della liturgia. Ma, pur sapendo cosa stia facendo, noi non vediamo il sacerdote dietro l'iconostasi, così come, pur sapendo cosa stia dicendo, non capiamo le sue parole. In ciò si verifica mirabilmente e sensibilmente la distinzione invalicabile tra sacro e profano.
Contraria a questo principio è anche la lettura in lingua volgare di Epistola e Vangelo durante la Messa tradizionale (anche dopo che siano stati cantati in latino), così come purtroppo sulla scorta del Movimento Liturgico molti "tradizionalisti" oggi fanno. La Chiesa Cattolica ha sempre riprovato e condannato come eretiche le proposizioni per cui fosse doveroso da parte dei Cattolici il leggere le Sacre Scritture, l'averle accessibili in lingua volgare, etc. Ciò non significa assoluta impossibilità di leggere le Scritture, né di averle tradotte in lingua volgare, ma ne esclude assolutamente l'uso durante la Sacra Liturgia, poiché sarebbe un accordo alle tesi gianseniste, per le stesse questioni succitate. E a volte, in ciò, il popolo, nato nella religione, risulta spontaneamente più fedele rispetto all'irreligione modernista della gerarchia (che vorrebbe invece attribuire le sue riforme a delle non meglio precisate istanze popolari): mi raccontarono che in una chiesa ortodossa, dopo che il Vangelo fu letto in greco classico, il celebrante prese a rileggerlo in greco moderno. Il popolo si sedette e i concelebranti indossarono il copricapo, poiché spontaneamente essi non lo avvertivano come Vangelo, dal momento che non veniva cantato nella lingua sacra.

Nonostante le molte cose che dovrebbero essere dette a riguardo del punto superiore, non voglio allungare eccessivamente quella che si propone di essere un'analisi sintetica, e passo immediatamente a concludere col secondo punto: l'elevatezza. Si è detto che a scopo altissimo deve corrispondere un linguaggio elevatissimo; e qui si viene a un comportamento antitradizionale tipico di alcuni esponenti cattolici degli anni '50, quello della "ritraduzione" in un latino più "classico e polito" (come la Nova Vulgata di Bea). Essi non comprendevano la grande differenza tra l'elevatezza dello stile tipica degli autori profani e pagani, ricercata attraverso strutture sintattiche complesse e raffinate figure retoriche, e quella tipica della Sacra Scrittura e dei testi liturgici, che invece è data dall'incommensurabilità medesima dei misteri che da essi vengono trasmessi.

Non voglio nemmeno riflettere su quale enorme tesoro è stato perduto dalla Chiesa Cattolica quando essa, nella sua parte ufficiale, abbandonò de facto la lingua latina (pur conservandola de jure), né su cosa sta rischiando l'Ortodossia greca scadendo negli stessi errori modernisti e filogiansenisti. Voglio chiudere citando due testi liturgici, in latino e greco, e lasciando che, assaporandone l'elevatezza inarrivabile trasmessa dai mirabili misteri della fede che vengono trattati, possiamo godere di quell'inestimabile patrimonio sacro trasmessoci dai Padri e conservato purtroppo ormai solo da poche persone rimaste fedeli alla Tradizione.

Deus, qui humánæ substántiæ dignitátem mirabíliter condidísti, et mirabílius reformásti: da nobis per hujus aquae et vini mystérium, eius divinitátis esse consórtes, qui humanitátis nostrae fieri dignátus est párticeps, Jesus Christus Fílius tuus Dóminus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti, Deus, per ómnia saécula saeculórum. Amen.
(rito romano, formula di benedizione dell'acqua da infondere nel vino)

Οἱ τὰ Χερουβεὶμ μυστικῶς εἰκονίζοντες, καὶ τῇ ζωοποιῷ Τριάδι τὸν τρισάγιον ὕμνον προσᾴδοντες, πᾶσαν τὴν βιωτικὴν ἀποθώμεθα μέριμναν, ὡς τὸν Βασιλέα τῶν ὅλων ὑποδεξόμενοι, ταῖς ἀγγελικαῖς ἀοράτως δορυφορούμενον τάξεσιν. Ἀλληλούϊα.
(rito greco, inno cherubico)