domenica 29 aprile 2018

Le ragioni del latino e del greco - don Angelo Citati



«Il greco e il latino non servono a niente. Nella società di oggi è molto più utile studiare le lingue moderne e le materie scientifiche. Per questo il liceo classico andrebbe drasticamente riformato per adattarsi alle esigenze attuali». Questo genere di argomentazioni rappresenta un cliché di vecchia data, ma è divenuto specialmente oggi moneta corrente e trova attualmente rappresentanti di rilievo perfino nelle autorità deputate alla gestione e all’ordinamento delle istituzioni scolastiche.(1) Chi ha ragione? E quali argomenti si possono obiettare alla logica, all’apparenza così stringente, del «non serve a niente»? Per capirlo, dovremo prima sgombrare il campo da alcuni equivoci, cioè da alcuni argomenti fallaci e controproducenti ai quali alle volte certe apologie del latino e del greco si lasciano andare (I parte); poi vedremo perché, in via generale, l’uomo colto europeo non può fare a meno del patrimonio linguistico, storico e letterario greco e latino (II parte); e, infine, perché più in particolare il cristiano non può non sentirsi legato, e ad un titolo ancora più specifico, alla cultura classica (III parte). A conclusione di queste osservazioni, noteremo (IV ed ultima parte) come di conseguenza la difesa del liceo classico, appunto in quanto veicolo privilegiato (e ormai pressoché unico nel quadro europeo) di questa cultura, si riveli necessaria per chiunque voglia salvaguardare la “buona scuola” (quella vera) .(2)


I) Qualche mito da sfatare

È successo senz’altro a molti di sentire, a giustificazione dello studio obbligatorio del latino e del greco nella scuola, argomenti di questo genere: «Il greco e il latino sono lingue più logiche delle altre e insegnano a ragionare»; oppure: «Apprendere il latino e il greco è indispensabile a chi studia materie scientifiche per conoscere i termini tecnici di quei settori, che sono tutti di origine latina»; o, ancora, si è spesso insistito su una presunta “attualità” dei testi classici, che sarebbero in grado, in una sorta di appiattimento spazio-temporale, di “parlare” all’uomo moderno come se fossero stati scritti ieri. Chiaramente – come tutti i miti – anche questi non sono privi di un fondo di verità. Studi recenti, in effetti, confermano che la traduzione dal latino e dal greco, come del resto da qualunque lingua letteraria (infatti il latino e il greco non sono, di per sé, lingue più “logiche” delle altre)(3), contribuisce a sviluppare il cosiddetto problem solving, cioè l’attività intellettuale che si mette in atto per la risoluzione di un problema.(4) Né si può negare che lo studente di Medicina che proviene dal liceo classico si trovi maggiormente a suo agio quando incontra per la prima volta parole come gastralgia e iatrogeno. O ancora che il lirismo e il valore artistico di certi brani del mondo antico sono espressione di sentimenti così universali dell’animo umano che l’uomo contemporaneo li può leggere quasi senza avvertire lo scarto di tempo e di civiltà che lo separa da essi. Questi argomenti, tuttavia, presentano un duplice limite di fondo. Il primo limite è che hanno un valore dimostrativo molto limitato: non si vede come si possa convincere ragionevolmente qualcuno a studiare due lingue non più parlate per cinque anni di scuola, e per cinque ore alla settimana, solo per questi vantaggi tutto sommato accidentali e comunque conseguibili anche con lo studio di altre discipline. Ma, soprattutto, questo modo di argomentare ha il difetto di accettare il principio di fondo dei detrattori del latino e del greco, e cioè di piegare lo studio di queste (come delle altre) discipline a degli scopi meramente utilitaristici, cercando insomma di mostrare che, come l’inglese serve ad andare in giro per il mondo, la geometria a far stare in piedi le case e la chimica a produrre medicinali, così anche il latino e il greco “servono” a qualcosa. Ma è una gara persa in partenza: su questo terreno le lingue classiche non hanno alcuna speranza di competere non solo con quelle moderne, ma neppure con un semplice corso accelerato di cucina o di cucito, che hanno riscontri pratici senz’altro maggiori. Il problema va quindi spostato su un piano più elevato: bisogna dapprima chiedersi se la formazione della persona umana si debba fondare solo su discipline che offrono un’immediata fruibilità pratica sul piano del guadagno e della produzione commerciale, o anche (e in primo luogo) su quelle discipline che, in quanto mettono al centro l’uomo, la sua anima e gli interrogativi che l’indagine di questi campi inevitabilmente fa porre, la vulgata tràdita chiama humanæ litteræ. Per chi ha una concezione materialistica della vita, non ha senso proseguire oltre: il greco e il latino, bisogna ammetterlo, non gli possono “servire” a niente (o forse gli servirebbero proprio a mettergli sotto gli occhi una concezione diversa della vita). Solo a chi è convinto che l’uomo non è unicamente una macchina da produzione, ma in primo luogo un essere razionale il cui bene proprio «è l’attività dell’anima secondo virtù» (Aristotele)(5), solo a chi è quindi convinto che le discipline umanistiche debbano occupare un posto di primo piano nella formazione scolastica, potranno dire qualcosa gli argomenti in favore dello studio del greco e del latino che ci sforzeremo ora di riassumere.

II) Le ragioni del greco e del latino

Posto, dunque, che lo scopo della vita dell’uomo su questa terra non può essere ridotto solo al soddisfacimento dei suoi bisogni fisici e all’accrescimento dei beni materiali, resta da chiedersi perché, tra tutte le discipline che potrebbero concorrere alla formazione umana e spirituale della persona (e non parliamo quindi solo dei professionisti del settore, dei classicisti di professione, ma di qualsiasi persona di cultura che vive nel continente europeo), è bene che proprio il greco e il latino occupino un posto di primo piano.
  1. Cominciamo dalle “ragioni del greco” (anche se, chiaramente, la maggior parte degli argomenti potrebbero valere tanto per l’una quanto per l’altra lingua).
  1. Come accennavamo all’inizio, gli argomenti che intendiamo sviluppare per adesso sono di ordine storico e razionale. Dovrebbero quindi poter essere sottoscritti anche da chi non condivide la prospettiva particolare dalla quale noi abbordiamo il problema (cioè quella cattolica, che svilupperemo più nello specifico nel paragrafo seguente), e in particolare, come si diceva, da qualunque uomo colto europeo. Perché da qualunque “uomo colto europeo”? Perché qualsiasi europeo, se ripercorre all’indietro il cammino della sua civiltà (operazione alla quale non può sottrarsi se aspira realmente ad essere un uomo “di cultura”), trova all’origine i Greci. Tutti i campi del pensiero speculativo che hanno costituito l’oggetto dell’indagine dei secoli successivi fino ai giorni nostri hanno la loro origine nel pensiero greco: «L’intera vita intellettuale dell’Europa, il suo pensiero filosofico, morale, politico ed estetico trova origine nell’opera dei pensatori greci, e ancora oggi si può ritornare ripetute volte a ciò che è rimasto dell’attività greca nel campo intellettuale per trarne stimolo e incoraggiamento. Coi Greci, come con nessun’altra civiltà antica o contemporanea, l’uomo moderno sente una innegabile affinità di spirito. Quali circostanze ambientali, culturali, biologiche fecero sorgere quella brillante fioritura dell’intelletto umano nella Grecia del periodo classico noi non lo sapremo mai con certezza. Possiamo soltanto essere riconoscenti che tutto ciò sia accaduto».(6) Tutto questo non sminuisce la grandezza di altre civiltà che hanno preceduto quella greca e dalle quali la civiltà greca stessa ha imparato molto né di tutte le altre che la storia dell’umanità ha conosciuto (anche, per esempio, la tradizione cinese o quella indiana sono rispettabilissime e degne di studio). Tuttavia, da una parte bisogna riconoscere che, perlomeno nell’ambito del pensiero filosofico, «la superiorità dei Greci rispetto ad altri popoli, su questo specifico punto, è di carattere non puramente quantitativo ma qualitativo, in quanto ciò che essi crearono, istituendo la filosofia, costituisce una novità in un certo senso assoluta»(7); e, dall’altra, che «certo prima vi sono state anche altre grandi civiltà: l’egizia, la mesopotamica, da cui anche i Greci hanno imparato. Ma noi abbiamo imparato dai Greci: se in assoluto non dovessero valere più di altri popoli, essi valgono più d’ogni altro per noi. Sono i nostri capostipiti».(8) Ecco perché lo studio del greco (e a fortiori del latino) non potrebbe essere in alcun modo surrogato da quello di una qualsiasi altra “lingua morta”: perché per noi questo studio ha un valore più importante, lo stesso valore che può avere per un indiano lo studio del sanscrito o per un cinese quello del cinese antico. È un po’ come – volendo ricorrere ad un’analogia – il motivo per cui ad un certo punto della propria esistenza un uomo avverte il bisogno di sfogliare l’album di famiglia per scoprire chi c’era all’origine della sua genealogia. Non lo fa per disprezzo verso gli alberi genealogici delle altre famiglie, ma perché per lui, e per la sua famiglia, è più importante. La civiltà greca è appunto, sul piano della cultura, il corrispettivo di quello che rappresenta, sul piano degli affetti familiari, l’album con le informazioni e le foto dei nostri avi: un patrimonio storico (della nostra storia) privati del quale non oseremmo più definirci persone colte. La civiltà greca, insomma, rappresenta «un mondo la cui conoscenza rimane fondamentale per la comprensione di quello attuale e per il quale non ci sembra enfatico parafrasare Croce affermando che, in qualche modo, “non possiamo non dirci Greci”».(9)
  2. Quest’ultimo punto fornisce un ulteriore argomento in favore dello studio della civiltà greca. Anche se non si volesse riconoscere alla conoscenza del proprio passato un valore autonomo e si desse importanza solo al presente, si potrebbe dire che perfino in quest’ottica lo studio della civiltà greca sarebbe indispensabile, perché, appunto per l’influenza che i Greci hanno esercitato sulle scienze speculative (e anche, sebbene più indirettamente, su quelle sperimentali) dei secoli successivi, numerosissimi aspetti di tante branche del sapere risulterebbero incomprensibili senza la conoscenza della civiltà greca: «Letteratura, architettura, scultura, filosofia, scienza, psicologia utilizzano miti, parole, elementi, simboli, forme e riferimenti greci. Innumerevoli opere della civiltà europea diventano mute e opache se non si conoscono i Greci».(10)
  3. Tutto questo, come si vede, va ben al di là del saper riconoscere le radici etimologiche di espressioni del lessico tecnico delle scienze. Quello non è che l’aspetto che emerge maggiormente in superficie di una realtà molto più profonda: si tratta del fatto che i canoni della civiltà greca costituiscono, per così dire, il nostro “codice genetico”, e così «studiando i Greci è possibile ricostruire la formazione del codice, osservarlo nella sua originaria semplicità, capirne meglio gli effetti nel tempo. È cioè possibile capire meglio noi stessi».(11)
  4. Si sarà notato che fin qui abbiamo parlato soprattutto dello studio della «civiltà» greca, quindi del mondo greco in tutti i suoi aspetti, non solo quello linguistico. L’influenza della civiltà greca riguarda infatti, come abbiamo visto, quasi tutti i campi del sapere e merita quindi di essere studiata in toto. Tuttavia, poiché la lingua è il veicolo attraverso cui una civiltà esprime nel modo più compiuto il proprio pensiero (a tal punto da plasmarla e da rendere certi idiotismi quasi intraducibili in altre lingue), l’apprendimento della lingua resta sempre una tappa indispensabile per chiunque voglia accostarsi allo studio serio di una civiltà. Ecco perché tutti gli argomenti che militano in favore dello studio della civiltà greca costituiscono in definitiva altrettanti argomenti in favore dello studio della lingua greca.
  1. Alla luce di quanto detto fin qui, ancora più cogenti risulteranno, evidentemente, le ragioni dello studio del latino(12), vista la “discendenza” ancora più diretta della nostra civiltà da quella dell’antica Roma. Le ragioni in favore del greco che abbiamo riassunto valgono quindi, mutatis mutandis, anche per il latino e qui ci limitiamo, dunque, ad aggiungere solo qualche importante corollario.
  1. Lo studio del latino, come si accennava all’inizio, acquisisce realmente un senso solo se inteso come parte di una concezione non materialista e non puramente utilitaristica della vita, partendo cioè dal presupposto che non si deve studiare solo ciò che ha un’utilità pratica, ciò che insegna a “fare” qualcosa e che “produce” beni materiali, ma anche – e in primo luogo – ciò che contribuisce alla formazione intellettuale e spirituale. Ecco perché è molto limitativo (e anche controproducente) l’approccio di chi, come alcuni tra quelli che oggi si presentano in teoria come difensori del latino, sembra ridurre l’interesse del suo studio all’apprendimento di una serie di “curiosità antropologiche” del tipo: “come mangiavano e bevevano i Romani”, “la moda nell’antica Roma”, ecc. (per poi andare a parare, a dire il vero, quasi sempre sui particolari più sconci, che permettono di piazzare meglio i libri sul mercato). Le ragioni del latino sono ben più profonde e riguardano la natura razionale e spirituale dell’uomo e la sua storicità.
  2. Il latino non è, come spesso si sente affermare, una “lingua morta”. Più esatto è dire che è una lingua storicamente conclusa, cioè una lingua che non è più la lingua madre di alcun popolo. Il latino, però, ha continuato a vivere anche dopo aver smesso di essere una lingua nazionale, diventando la lingua culturale dell’Europa: ancora fino a pochi decenni fa le pubblicazioni scientifiche erano redatte in latino.(13)
  3. Ma, vivo o morto che lo si voglia considerare, in ogni caso il latino è una lingua vitale. La sua vitalità si manifesta non solo nell’uso che se ne è continuato a fare anche dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, ma anche nelle tracce che, in tutti i campi del sapere, il latino ha lasciato di sé nelle lingue e nelle culture moderne: dalle iscrizioni nelle chiese alle lapidi dei monumenti, dalle nomenclature scientifiche all’ortografia delle lingue contemporanee(14), dalle espressioni latine utilizzate ancora oggi fino, non ultimo per importanza, all’uso del latino nella liturgia e nei documenti della Chiesa cattolica (di cui è la lingua ufficiale).
  4. L’italiano è una lingua neolatina e perciò deve moltissimo, nelle sue strutture lessicali e morfosintattiche, al latino, tanto nel registro linguistico popolare quanto in quello dotto. Ciò non significa che non si possa parlare, né tantomeno parlare bene l’italiano senza conoscere il latino. Conoscere il latino, però, significa conoscere meglio – cioè in modo più consapevole e più completo – l’italiano (e un discorso analogo vale ovviamente anche per tutte le altre lingue romanze).(15)
  5. Studiare il latino non è sinonimo di esterofobia e nostalgia del passato. Il latino si rivela estremamente utile anche per l’apprendimento delle lingue moderne, e non solo di quelle neolatine, ma anche, ad esempio, dell’inglese (il cui lessico è formato per più della metà da vocaboli di derivazione direttamente o, più spesso, indirettamente latina). È un dato di fatto incontrovertibile che chi ha studiato il latino apprende con maggiore facilità e rapidità le lingue moderne, specialmente (ma non solo) quelle romanze: «Noi vediamo, per esempio, che gli studenti di Lettere delle nostre università, i quali, di solito, se hanno scelto quella via, vengono dal liceo con una buona preparazione nelle lingue classiche, riescono con non molta applicazione e senza perder troppo tempo a intendere alla meglio un testo, supponiamo, tedesco, anche se il tedesco non l’hanno studiato a scuola… Quest’attitudine ad orientarsi rapidamente nell’apprendimento di una lingua vivente, da che cosa deriva se non dall’avere studiato in modo decente il latino?»(16)
  1. Sintetizzando: se è certo da evitare l’eccesso che ha caratterizzato per diverso tempo lo studio del latino e del greco – cioè la tendenza a presentare un mondo classico “idealizzato” (e al suo interno idealizzare ulteriormente certe fasi “auree” rispetto ad altre “di decadenza”), storicamente inattendibile e reinterpretato in funzione dei nostri codici culturali(17) – e se non va senz’altro trascurato l’apporto dato alla conoscenza del mondo antico dalle scienze più recenti come l’antropologia, l’interesse dello studio del mondo classico, tuttavia, non può essere ridotto a semplici curiosità antropologiche né paragonato a quello dello studio di qualsiasi altra civiltà del passato. È invece fondamentale recuperare le ragioni storiche e umane che stanno alla base dello studio del greco e del latino: storiche, in quanto nostro patrimonio culturale e “genetico”; umane, perché la natura stessa dell’uomo – essere razionale dotato di un’anima spirituale e destinato alla contemplazione del sommo bene – richiede per la sua formazione lo studio di discipline storiche ed umane, che gli ricordino e siano all’altezza di questa sua vocazione contemplativa. Trascorrere in questo modo gli anni della propria formazione, lungi dal costituire una perdita di tempo (sottratto a materie più pratiche e più “utili”), valorizza quindi quanto di più nobile vi è nell’uomo: «La semplificazione, il livellamento e l’annacquamento che prevalgono oggi nell’educazione, tranne in rarissimi casi privilegiati, sono criminali. Si tratta di disprezzo per le nostre capacità latenti. Le crociate contro il cosiddetto elitismo nascondono una condiscendenza volgare: verso tutti coloro che vengono a priori giudicati incapaci di miglioramento. Sia il pensiero […] sia l’amore pretendono troppo da noi. Ci umiliano. Ma l’umiliazione, persino la disperazione davanti alla difficoltà – abbiamo sudato tutta la notte eppure l’equazione rimane irrisolta, la frase greca incompresa – possono trovare l’illuminazione all’alba». 
III) Cristianesimo e cultura classica

Abbiamo detto che l’europeo colto non saprebbe veramente considerarsi tale se non conoscesse la civiltà greca e quella latina. Se poi è cristiano – ciò che è in ogni caso culturalmente, in quanto, come diceva Croce, sotto questo profilo «non possiamo non dirci cristiani», ma qui intendiamo dire: se è cristiano nel senso che è di fede cristiana – rifiutare il patrimonio del mondo greco-romano significherebbe per lui rifiutare, se non la fede cristiana stessa, tutto l’apparato storico, culturale e intellettuale di cui essa si riveste. Lungi dall’aver contribuito o addirittura causato la scomparsa della civiltà classica, infatti, la Chiesa cattolica romana rappresenta al contrario, sul piano culturale, l’erede diretta e l’autentica continuatrice della cultura della Grecia e della Roma antica, «di quella Roma onde Cristo è romano», per dirla con Dante. Anche questo tema, chiaramente, è stato oggetto di grandi dibattiti, fin dall’antichità. Qui ci limiteremo a sottolineare due aspetti: in primo luogo vedremo, citando solo alcuni degli esempi più macroscopici, come gli stessi autori cristiani (con poche eccezioni e quasi sempre di autori poco rappresentativi) si rifacciano esplicitamente ai classici greci e romani quali modelli di lingua e di pensiero; e poi cercheremo di tratteggiare a grandi linee i principali aspetti della religione cristiana e della vita della Chiesa cattolica che sarebbero impensabili e incomprensibili senza considerare tutto quello che devono all’eredità greco-romana.
  1. I campi in cui l’eredità classica riveste la funzione più preponderante nella cultura cristiana sono senz’altro quelli che più direttamente e più compiutamente sono espressione del pensiero umano: la filosofia e le lettere.
  1. In un certo senso, che l’universo greco-romano fosse chiamato in modo speciale ad esprimere la fede cristiana attraverso le categorie del pensiero e gli strumenti retorici sviluppati dal V secolo a.C. in poi, è adombrato già dalle Scritture quando san Paolo annuncia ai Giudei lo spostamento della predicazione del Verbo incarnato da Israele ai “gentili”: «Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”» (At 13,46-47). Anche nel celebre discorso all’Areopago di Atene (At 17,22-31), l’Apostolo delle Genti dichiarò di annunciare agli Ateniesi, «persone molto religiose da ogni punto di vista», il «Dio ignoto» che essi adoravano «senza conoscerlo». E, del resto, Gesù Cristo stesso aveva già constatato «di non aver trovato tanta fede in Israele» quanta presso i pagani, i quali «verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli».
  2. Dopo le tensioni iniziali e qualche prima reticenza, esempi di compenetrazione di cultura classica e religione cristiana si trovano fin dai primi secoli, tanto tra gli autori latini che tra i greci. Tra i primi possiamo ricordare Minucio Felice (seconda metà del II secolo d.C.), il quale scrisse un dialogo, l’Octavius, in cui sosteneva la superiorità del cristianesimo sulla religione pagana utilizzando un’impostazione e uno stile estremamente classici e seguendo tutti i canoni della retorica latina tradizionale (era probabilmente oratore di professione e si convertì in età matura). Circa un secolo dopo fu attivo un altro apologeta, Lattanzio, che Pico della Mirandola definirà «il Cicerone cristiano» per l’eleganza dello stile (che segue senza deroga il latino letterario dell’età cesariana) e la matrice classica del pensiero. Tra il IV e il V secolo diversi letterati si cimenteranno nella trasposizione dei contenuti della fede cristiana nello stile e nei metri classici: così Aquilino Giovenco scriverà una sinossi dei quattro Vangeli in esametri virgiliani, Prudenzio e san Paolino da Nola saranno autori di carmi religiosi in distici elegiaci e strofe saffiche. Ma la vetta di questo connubio tra classicità e cristianesimo è stato raggiunto senza dubbio dai quattro Padri della Chiesa latina (sant’Ambrogio, san Gerolamo, sant’Agostino e san Gregorio Magno), i quali, provenendo chi dal campo della retorica e della grammatica (Gerolamo e Agostino), chi da quello della politica (Ambrogio e Gregorio), erano da ogni punto di vista figli della società romana e seppero trasfondere l’eredità classica nella cultura cristiana non semplicemente con un’imitazione fredda e pedissequa dei modelli antichi (rispetto agli autori precedentemente menzionati, infatti, il loro stile è di impostazione classica, ma non ricusa l’impiego di un nuovo lessico e di nuove forme per esprimere i contenuti della nuova fede), bensì facendoli vivere in essi come una radice, per quanto sotto terra, vive ancora nell’albero a cui ha dato origine, mentre recisa da esso potrebbe forse essere osservata meglio, ma resterebbe senza vita. L’Impero romano d’Occidente ebbe fine nel 476 d.C., «ma la linfa vitale della cultura romano-cristiana, affidata alle scuole monastiche, rimaneva a fecondare il terreno dell’Occidente, come la lava dopo le eruzioni, e avrebbe dato, negli ultimi secoli del Medioevo e nei primi dell’età moderna, la sua nuova splendida fioritura: Dante avrebbe additato il suo maestro in Virgilio».
  3. Il mondo greco si presenta non meno ricco di testimonianze che vanno nella stessa direzione. Come per gli autori latini, ci limiteremo a citare i più significativi. Il primo nome che spicca è senz’altro quello di san Giustino («filosofo e martire», come lo definisce Tertulliano, del II secolo d.C.), che è noto soprattutto per la sua dottrina dei semina Verbi: secondo Giustino la dottrina dei filosofi dell’antichità, o perlomeno della loro pars sanior, non è incompatibile con la dottrina cristiana; anzi, la Provvidenza divina stessa li ha suscitati, gettando in loro – come al popolo ebraico aveva affidato la Rivelazione – dei “semi del Verbo” (λόγοι σπερματικοί), che hanno permesso loro di conoscere almeno parzialmente la verità. Questo lo spinge a qualificare con termini molto lusinghieri i grandi filosofi greci: «Quelli che vissero secondo il Verbo sono cristiani, anche se furono stimati atei, come tra i Greci Socrate ed Eraclito ed altri simili a loro»; di Socrate in particolare dice che «conobbe il Cristo in parte». Tali giudizi non sorprendono, se si pensa che i cardini a partire dai quali si è sviluppato il pensiero filosofico cristiano (il fatto che vi sia una causa prima all’origine dell’universo, l’immortalità dell’anima, la contemplazione del sommo bene come vera beatitudine dell’uomo, l’esistenza di una morale oggettiva, l’importanza delle virtù nella vita morale, ecc.) sono tutte conclusioni alle quali, anche se talora frammiste ad errori e non sempre con rigore argomentativo, giunsero già i più grandi pensatori dell’antichità, specialmente Socrate, Platone, Aristotele («lo maestro dell’umana ragione», nel quale la natura ha riposto «’ngegno eccellente e quasi divino», secondo il noto giudizio di Dante), ma anche Cicerone e Seneca (che Tertulliano non si peritò di definire sæpe noster, «spesso uno dei nostri») e ancora molti altri.  Giustino fu un apripista: dopo di lui l’uso delle categorie della filosofia greca per difendere o sviluppare i contenuti della fede cristiana divenne una prassi corrente. Ricordiamo ad esempio, per il II secolo, i nomi di Atenagora di Atene e Clemente di Alessandria (che per primo tentò di leggere i miti dell’antichità pagana come allegorie di verità cristiane), nel III secolo Origene e, nel quarto, uno dei Padri della Chiesa greca, san Basilio, autore tra l’altro di un opuscolo dal titolo molto significativo: «Esortazione ai giovani sul modo di trarre profitto dalla letteratura pagana».
  4. Tutto il patrimonio letterario, filosofico e teologico del cristianesimo dalle origini fino ad oggi sarebbe impensabile senza questo sostrato greco-romano. Tutto ciò non vuol dire, ovviamente, che tra il pensiero pagano e quello cristiano non vi siano profonde e sostanziali differenze. La differenza fondamentale sta nel fatto che la risposta ai grandi interrogativi che si sono posti – che sono gli stessi del pensiero cristiano – i Greci e i Romani l’hanno cercata (quasi) unicamente dove non potevano trovarla, cioè nell’uomo. Ecco perché i punti di contatto tra pensiero pagano e pensiero cristiano sono sporadici e non sistematici, accidentali e non sostanziali: la religione pagana è fondamentalmente antropocentrica, quella cristiana teocentrica. Si pongono le stesse domande, ma trovano risposte diverse: anzi, una le trova (perché si trovano solo in Dio, nell’unico vero Dio fatto uomo), l’altra non le trova o al limite resta nel dubbio e nel desiderio di trovarle. Tuttavia, «sarebbe un grave errore credere che questa enorme differenza comporti solo insanabili antitesi. In ogni caso, anche se qualcuno oggi è di questo avviso, non fu questa la tesi dei primi cristiani, che, dopo il primo brusco impatto, lavorarono alacremente per costruire una sintesi [...]. In effetti, l’uomo, che il greco aveva pur tuttavia tanto esaltato, risulta per il cristiano qualcosa di assai più grande di quanto il greco non pensasse, ma in una dimensione diversa e per ragioni diverse: se Dio ha ritenuto di dover affidare agli uomini la diffusione del proprio messaggio, e se, addirittura, si è fatto uomo per salvare l’uomo, allora la “misura greca” dell’uomo, pur così alta, diventa insufficiente e deve essere a fondo ripensata. Nascerà, nel grandioso tentativo di costruire questa nuova “misura” dell’uomo, l’umanesimo cristiano».
  1. Di quanto la Chiesa sia debitrice al mondo classico in tutti gli altri campi della cultura e della fede (arte, diritto, liturgia, ecc.) possiamo dare qui sono un rapidissimo cenno. Quanto all’arte, è evidente a chiunque metta piede in una chiesa che non potrà capire quasi nulla delle sue colonne, delle sue sculture, dei suoi affreschi e della sua architettura senza conoscere l’arte greca e romana. Anche il diritto canonico sarebbe inimmaginabile senza il diritto romano, specialmente nella forma codificata dall’imperatore Giustiniano (527-565 d.C.) con il Corpus iuris civilis. E anche ciò di cui la Chiesa vive quotidianamente e più visibilmente, cioè la liturgia, è piena di elementi ricollegabili, direttamente o indirettamente, all’antichità (specialmente romana): si pensi, per citare appena qualche esempio tra moltissimi, alle ore del Breviario, numerate ancora secondo il sistema romano, o ai paramenti che indossa il sacerdote per celebrare la Messa, che derivano tutti da abiti indossati nella Roma tardoantica, o ancora all’uso dell’incenso, desunto probabilmente dalle pratiche cerimoniali della magistratura romana.
IV) Una élite di europei cristiani e colti

Ora il quadro ci sembra un po’ più completo. Chi non ha le stesse radici perché appartenente ad altri continenti e altri popoli (ma ne avrà altre, rispettabilissime, da conoscere e da studiare), chi non ha aspirazioni culturali e chi non è cristiano potrebbe sentirsi estraneo a questo discorso. Chi invece è almeno una di queste cose, dovrebbe condividere almeno in parte quanto abbiamo scritto fin qui. Ma chi è tutte e tre le cose dovrebbe fare dello studio e della salvaguardia della cultura classica una delle sue priorità. Rinunciarvi significherebbe rinnegare sé stesso. In Italia, in particolare, abbiamo una vera “eccellenza” – per usare un termine in voga – che è ormai appannaggio esclusivo della nostra nazione (nonostante sia il bersaglio di continui tentativi di eliminarlo o snaturarlo): il liceo classico, una scuola nella quale il latino si studia per cinque ore alla settimana e il greco per quattro (ridotte rispettivamente di una nel triennio conclusivo). Scegliere di difenderlo e lottare per la sua salvaguardia è una scelta di campo: chi lo vuole abolire è necessariamente contro la cultura razionale, spirituale e cristiana su cui ci siamo diffusi in queste colonne; chi invece è per questa cultura, non può che abbracciare la causa della difesa del liceo classico (a partire dal suo nome: che non è quello di un liceo dove si studia “antropologia del mondo antico”, ma la civiltà classica). Per concludere, un dato storico. Fino al 1960 la maturità classica era l’unico titolo che permettesse di iscriversi a qualsiasi facoltà universitaria (e fino a qualche decennio fa anche l’unico corso di studi proposto nei seminari minori). L’idea che stava alla base di questa scelta è molto chiara: si riteneva che non certo solo i classicisti, ma tutti i professionisti di un certo livello (magistrati, medici, ingegneri, uomini di scienza), il clero e la classe dirigente non potessero fare a meno di questo bagaglio culturale. Una persona che avesse occupato incarichi di rilievo nella società senza conoscere il latino sarebbe stata considerata come un sommelier che non sapesse prendere in mano una forchetta. E quindi la grande accusa che si leva contro i difensori del liceo classico è: volete tornare indietro, volete tornare ad una scuola elitaria. A questo noi rispondiamo senza timore che se per elitaria si intende una scuola riservata a dei gruppi di élite, non siamo d’accordo; ma se una scuola elitaria è una scuola che forma delle élite, allora sì, vogliamo questa scuola: non vogliamo tornare indietro, vogliamo andare avanti, e per farlo vogliamo formare delle élite di europei cristiani e colti.
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1. In particolare l’ultimo quindicennio ha conosciuto un vero revival di questa annosa diatriba. Ne è la prova la proliferazione di pubblicazioni che fanno il punto sulla situazione del dibattito o prendono apertamente partito per l’una o l’altra posizione. Si segnalano tra gli altri: L. Canfora, Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, BUR, Milano 2004; id., Gli antichi ci riguardano, Il Mulino, Bologna 2014; S. Settis, Futuro del ‘classico’, Einaudi, Torino 2004; I. Dionigi (a cura di), I classici e la scienza. Gli antichi, i moderni, noi, BUR, Milano 2007;  U. Cardinale – A. Sinigaglia (a cura di), Processo al liceo classico, Il Mulino, Bologna 2014; M. Bettini, A che servono i Greci e i Romani?, Einaudi, Torino 2017; M. Ruggeri, Giù le mani dal Liceo Classico, BookTime, Milano 2017; M. Napolitano, Il liceo classico: qualche idea per il futuro, Salerno Editrice, Roma 2017; L. Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori, Milano 2018.
2. Va da sé che la vastità dell’argomento impedisce che, in un breve articolo come questo, sia trattato in modo esauriente e in tutte le sue sfaccettature. Qui ci limiteremo, perciò, ad un profilo molto sintetico delle riflessioni che traiamo dal pensiero di grandi studiosi in materia. Nelle note si troveranno comunque brevissime indicazioni bibliografiche relative al materiale utilizzato, a cui rinviamo i lettori per maggiori approfondimenti.
3. «Il pregiudizio opposto [a quello per cui le lingue fossero un tempo più “primitive” e si siano evolute nel corso del tempo fino ad arrivare allo stato “progredito” attuale] è quello secondo cui vi sono lingue per eccellenza “logiche” (status spesso attribuito a lingue come il latino o il greco, per esempio): gli argomenti per contrastare questo punto di vista sono esattamente gli stessi di quelli per contrastare la visione “primitiva”. Non esistono lingue logiche e lingue illogiche: tutte le lingue hanno una loro logica interna per il semplice motivo che sono un prodotto della mente umana e debbono poter essere apprese e tramandate» (G. Graffi – S. Scalise, Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla linguistica, 3a edizione, Il Mulino 2013, p. 49).
4. Sul valore formativo della traduzione cfr. M. Bettini, Vertere. Un’antropologia della traduzione nella cultura antica, Einaudi, Torino 2012, pp. 189-251 (con notevoli riferimenti alla teologia patristica); in particolare sul suo ruolo nello sviluppo del problem solving, si veda D. Antiseri, Dalla parte degli insegnanti, Editore La Scuola, Brescia 2013, pp. 35-54, 105-123 e 125-145.
5. Etica Nicomachea, A7.
6. R. H. Robins, Storia della linguistica, trad. di G. Prampolini, Il Mulino, Bologna 1995, p. 29.
7. G. Reale – D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, Editrice La Scuola, Brescia 1983, p. 3.
8. G. A. Privitera – R. Pretagostini, Lo studio della grecità e le sue motivazioni, in Storia e forme della letteratura greca, Einaudi Scuola, Milano 1997, vol. I, pp. 9-10.
9. G. Monaco – M. Casertano – G. Nuzzo, Prefazione degli autori a L’attività letteraria nell’antica Grecia, Palumbo, Palermo 1997, p. XXVI.
10. G. A. Privitera – R. Pretagostini, op. cit., p. 10.
11. Ib.
12. Cfr. L. Miraglia, Latine doceo, Edizioni Accademia Vivarium Novum, Montella 2000, pp. 11-17 (di cui riprendiamo l’impianto e le idee fondamentali); id., Il latino e noi, in Nova via. Latine doceo, Edizioni Accademia Vivarium Novum, Montella 2009, pp. 1-6. Qui prescindiamo ovviamente dalla querelle tra “metodo natura” e “metodo grammaticale-traduttivo” (che occupa buona parte del testo del prof. Miraglia), attenendoci unicamente alle motivazioni dello studio del latino, che dovrebbero trovare d’accordo i sostenitori di entrambi i metodi.
13. Cfr. P. Burke, Lunga vita di una lingua morta. Come e perché il latino ecclesiastico, accademico e pragmatico sopravvisse all’affermarsi del volgare, in Prometeo. Rivista trimestrale di scienze e storia, vol. VII, n. 27, settembre 1989, pp. 30-39.
14. Ad esempio, la conoscenza del greco e del latino rende chiaro – e sono solo un paio di esempi nella selva di quelli possibili – perché in francese (più fedele dell’italiano, sotto questo profilo, all’ortografia latina) si scrive mythe (dal greco μῦθος, passando per il latino mythus) e herbe (dal latino herba), laddove in italiano si hanno mito ed erba, o ancora perché solo una parte delle parole (appunto quelle che derivano dal latino)  che cominciano per h presentano la liaison (l’herbe, ma la hache).
15, Cfr. E. Mandruzzato, Il piacere del latino, Mondadori, Milano 1989, pp. 13-18.
16. U. E. Paoli, Latino sì o latino no?, in L’osservatore politico e letterario, dicembre 1959.
17. Cfr. L. E. Rossi, Introduzione a Letteratura greca, Le Monnier, Firenze 1994, p. 16.


sabato 28 aprile 2018

Solovki, il più santo monastero nel mondo intero

Pubblichiamo un articolo apparso qualche mese fa su "Il settimanale di Padre Pio", circa il Monastero delle isole Solovki, trasformato dal regime comunista in uno dei più terribili gulag. L'articolo merita di essere letto nella sua integrità, ma segnaliamo un brano sicuramente molto  interessante (poi sottolineato da noi nell'articolo): "Una volta, racconta il patriarca Serafim, quando i monaci piangevano per la mancanza degli oggetti liturgici, gli angeli cominciarono ad apparire con le icone e prestare servizio alla divina Liturgia. A un certo momento i monaci videro l’arcangelo Michele che teneva in mano un misterioso calice, che risplendeva di raggi di luce; i monaci capirono che era l’ostensorio cattolico. Dicevano perciò che là, nelle Solovki, la Chiesa orientale si era unita alla Chiesa latina. «Nelle liturgie invocate incessantemente i cori angelici – esortava il patriarca Serafim –. Nei nostri cuori deve rimanere accesa la fiamma; se il calore non si diffonderà nel cuore, non conoscerete fino in fondo il mistero dell’Immacolata Concezione della Madre di Dio. Senza fine, invocate incessantemente la Misericordiosa Imperatrice!"
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di Rosario Silesio (Il Settimanale di Padre Pio, n. 2/2018)

Nel celebre monastero delle isole Solovki, arcipelago della Russia nord-occidentale, il Regime bolscevico installò il primo gulag. Qui nel più assoluto silenzio, mentre la santità dei monaci si scontrava con la criminale arroganza dell’ideologia, si attuava la nascosta redenzione di migliaia di uomini.

Il patriarca Serafim

L’ultimo patriarca ortodosso dell’era pre-comunista, Serafim, consacrato vescovo segretamente e nominato suo successore dall’agonizzante patriarca Tichon, intransigente confessore della Fede cristiana contro la diavoleria comunista, diceva: «[Qui in Solovki] la morte era piuttosto un premio [...]. Qua nessuno la temeva. Non si parlava di essa. Per la nostra fraternità la morte non esisteva. L’abbiamo vinta. A mezzanotte si apriva la celeste iconostasi, che si vedeva lungo tutto l’orizzonte. I cieli si rimestavano e ritornavano i miracoli dei tempi antichi quando sorgevano le opere dei martiri. Il sangue dei giusti sulla terra scorreva come un fiume». Gli angeli del Golgota di Solovki visitavano ogni giorno i loro frati. La Madre Santissima fu sempre accanto ai martiri. «La sua bontà immensa fu talmente grande – diceva il patriarca Serafim – che davanti ad essa cessava ogni brutalità e bestialità, la gente che stava perdendo i sensi, immediatamente si trasfigurava, le loro rughe si distendevano e le loro facce risplendevano. Con una gioia inesprimibile guardavano ad Essa, dicendo: “Oh, quanto sei bella, Vergine Santissima! Le nostre sofferenze adesso sono un niente!”».

Solovki: il monastero della tragedia e della gloria

Avendo da poco ricordato il centenario della Rivoluzione comunista, non si può tacere di questi grandi uomini. Solovki era un antico monastero, trasformato lungo gli anni ’20 e ’30 del XX secolo dal Regime comunista in Gulag – campo di concentramento sovietico – per tutto il clero sia orientale, che latino. La memoria di questi martiri doveva essere dimenticata sulla terra. «Preziosa davanti gli occhi del Signore è la morte dei suoi santi»: la Santissima Trinità è adesso premio e godimento di questi uomini santi, ma anche noi, ancora in via, possiamo essere edificati dal loro esempio eroico. Le poche testimonianze della santa vita cristiana nel campo dello sterminio di Solovki sono state confermate da migliaia di corpi incorrotti ritrovati, dai quali, in centinaia di casi, fuoriusciva mirra. La terra di Solovki destinata dai nemici di Dio ad essere una terra maledetta, è diventata invece una nuova Terra Santa, un vero nuovo Golgota, un altare del sacrificio diretto al Padre, affinché possa mandare nel terzo millennio lo Spirito Consolatore che rinnoverà la terra intera, cominciando dall’amata Russia.

La vita alle Solovki

I comunisti riconoscevano da lontano un uomo credente dal suo particolare comportamento. I prigionieri abitavano in baracche e potevano dormire seduti solo qualche ora al giorno. Nessuno aveva una retina per proteggersi dalle zanzare, che erano moltissime dentro i magazzini: solo questo bastava perché i nostri prigionieri diventassero gonfi e sanguinanti, tanto che parecchi perdevano i sensi a causa di questi insetti. Poteva sopravvivere solo chi riceveva una speciale assistenza da Dio. La silenziosa sofferenza, che doveva distruggere gli uomini, fu causa della speciale benedizione per cui i corpi dei più deboli furono custoditi dall’angelo silenzioso. Ogni prigioniero era abituato ad essere battuto, maltrattato senza motivo. Le paludi delle Solovki hanno sepolto parecchi corpi esausti dal dolore. I religiosi venivano derubati di qualsiasi croce o segno religioso, mentre si lasciava loro il vestito. La regola era questa: ognuno rimaneva col vestito con il quale era arrivato. Dopo la morte venivano denudati e così buttati nella fossa. I sacerdoti venivano mandati al lavoro di scavo: un custode speciale era incaricato di non permettere loro di pregare. I sacerdoti chiudevano gli occhi e chiedevano aiuto agli angeli perché salvaguardassero il loro raccoglimento. Ogni prigioniero ateo moriva invece in breve tempo. Da questo si riconoscevano gli uomini di fede, che avevano la forza morale di sopportare tutte le sofferenze, le torture, le umiliazioni. In questo “convento” non c’era spazio per la ricreazione, tanto che ogni comunicazione tra i prigionieri poteva essere punita con la morte. Nessuno contava i morti. Non c’era spazio per un’infermeria: gli ammalati non ricevano nessuna medicina ma riponevano le loro speranze in Dio. Nel complesso del monastero era stato costruito un nuovo edificio destinato solo per le torture, chiamato popolarmente “gastronomia”. Chiunque era destinato alla “gastronomia” era sicuro di non tornare più. Solo le grida che si udivano al di fuori potevano provocare la morte dallo spavento. Le torture venivano fatte affinché i prigionieri cessassero di usare la ragione: volevano tramutare tutti in bestie. Per questo le torture più orribili erano subite da coloro che ponevano maggior impegno a mantenere retta la loro coscienza, secondo Dio: i corpi di costoro sono stati premiati da Dio con l’incorruzione. Gli ufficiali di Solovki furono i primi e i più grandi specialisti nel campo della tortura, tanto che furono loro poi a insegnare ai nazisti come organizzare un campo di concentramento.

La conversione sulla croce

I delinquenti messi in prigione insieme ai preti e ai monaci chiedevano, come una volta il Disma dalla croce: «Noi sappiamo che soffriamo per i nostri peccati, ma voi perché siete qua?». Il patriarca Serafim racconta come diverse persone condannate ingiustamente si interrogassero: «Per quali peccati noi soffriamo? Chiedilo a Dio!», intendendo sottolineare la loro innocenza. I monaci pregarono Dio e immediatamente videro davanti a loro il suo Giudizio, i migliaia di peccati che lo offendevano. «Quanto è accecato l’uomo e quanto paziente e misericordioso Iddio!», dicevano allora quelli che prima si sentivano innocenti. «Il Suo giudizio è così giusto che perfino quelli che hanno commesso gravi peccati, quelli destinati al fuoco eterno, danno ragione a Lui. Non offendete Iddio. Santo è il Suo nome!». «Iddio mi ha convinto con la visione del suo giudizio misericordioso – racconta Serafim –. Non potevo piangere più. [...]. Alla confessione bisogna accostarsi come al giudizio di Dio e non ripetere mai più i peccati. Confessarsi veramente e fare penitenza, finché non verrà il cambiamento. Allora pure Iddio perdonerà. Quante belle confessioni ho ascoltato dai prigionieri. Quanto ferventi furono le loro penitenze! Iddio veniva presso di loro e gli donava il perdono».
Tra i prigionieri c’erano anime chiamate davvero alla vita più perfetta. Corrispondevano alla carità che veniva loro offerta e si convertivano. Le loro lacrime di penitenza possono essere paragonate alle lacrime degli antichi Padri del deserto. Parecchi chiedevano la tonsura, proprio lì! Il monastero che i comunisti volevano trasformare in inferno, diventò anticamera del Paradiso. I monaci sacerdoti di nascosto accettavano i nuovi novizi e gli imponevano nuovi nomi. Quelli, lungo le giornate interminabili, ripetevano in silenzio i loro nomi religiosi: si dilettavano con i loro suoni, cercando di capire il loro significato. Con questi nuovi nomi potevano in ogni momento essere chiamati da Cristo alla Gerusalemme Celeste.

La preghiera del cuore nel silenzio

Si racconta nella vita dei Padri del deserto di come una volta un candidato venne da un abba anziano e questi chiese: «Che cosa cerchi qua?». Il giovane rispose: «Cerco la salvezza». L’anziano disse: «Quello che tu cerchi, ormai non si trova tra i monaci...». Vediamo ora i nostri religiosi di Solovki. Che cosa cercavano i nuovi novizi? Forse una carriera ecclesiastica? La scienza teologica? Un modo semplice per sopravvivere? No, cercavano soltanto la salvezza. Solo questo i Padri martoriati nel Gulag di Solovki potevano offrire. Ma solo questo bastava. Possano i monaci di Solovki essere luce per la vita religiosa del Terzo Millennio, affinché i religiosi cerchino la salvezza e non si preoccupino delle cose effimere.
In questo grande “monastero di stretta clausura” nascevano parecchie vocazioni. Dopo un piccolo periodo di prova, i novizi di nascosto facevano i quattro voti: di povertà, castità, obbedienza e della preghiera incessante. Penso che ogni lettore possa comprendere come quest’ultimo voto fosse il più eroico. Nessuno poteva farsi vedere mentre pregava. Gli anziani insegnavano a ripetere incessantemente l’invocazione liturgica d’Oriente: “Gospodi pomyluy” (Signore abbi pietà di me!) oppure: “Signore, ascolta la mia voce ed abbi pietà di me peccatore!”. Dovevano custodire le menti durante la notte: da una parte non potevano smettere di pregare, dall’altra dovevano evitare che, per leggerezza, le parole della mente fossero per caso pronunciate con le labbra, per non farsi sentire dai custodi che castigavano ogni invocazione a Dio. Gli anziani insegnavano ai giovani la preghiera del cuore, come stare sempre alla presenza di Dio, come tenere la mente nella contemplazione delle realtà celesti. Il silenzio di Solovki non provocava disperazione, ma era la via per la più grande felicità.

Vita angelica in un carcere demoniaco

Dai tempi dei Padri del deserto non si vide un’osservanza religiosa più estrema di quella di Solovki. Lì, la povertà significava portare lungo tutta la vita lo stesso sporco e logoro abito. Il digiuno significava spesso una tazza di acqua calda e due cucchiai di farina per l’intera giornata. Gli anziani insegnavano la vita di obbedienza: saper soffrire e tacere, offrire tutto in conformità con il Volere divino. Vivendo immersi nella sporcizia, i monaci invocavano la Madonna, ed Essa proteggeva la purezza dei loro cuori. L’osservanza dei monaci di Solovki non fu un’allegoria o un simbolo. Ascolta, caro lettore, questa testimonianza della conversione di un soldato comunista ventenne: «Il ragazzo si turbò interiormente – racconta un anziano –. Era stato convinto dagli scritti di Trotski e Lenin e derideva qualsiasi anima devota. Batteva i prigionieri con il calcio del fucile, li terrorizzava con la baionetta, strappava i loro vestiti. Quando qualcuno veniva da noi per un consiglio, lui sorrideva, perché avrebbe potuto far vedere il suo potere. Quando una volta Iddio ci lasciò in un rapimento dopo la preghiera, lui si avvicinò a noi. Si prostrò davanti a noi con le lacrime, gridando: “Perdonatemi, padri... Che razza di uomo sono, se ho deriso dei santi viventi. È ancora possibile che Dio mi perdoni? Mia madre era credente, ma io sono un grande peccatore. Vivo già da vent’anni e non ho mai detto nemmeno una preghiera! Vi supplico, beneditemi!”. Dopo di che si tolse la giacca militare e chiese di essere vestito di una maglia sporca di sangue».
Nel monachesimo orientale, gli anziani monaci professavano la “grande schima”, la vita più perfetta di ritiro e solitudine: la loro vita doveva essere ormai assimilata alla vita degli angeli. Anche nelle Solovki ci furono questi “monaci angelici”. Alcuni di loro godevano di piena libertà, poiché i soldati comunisti temevano di toccarli. Quando qualche comunista minacciava di «uccidere questo cane», spesso veniva punito dall’Altissimo con una paralisi o si perdeva dentro le paludi. Così questi Padri potevano visitare gli uomini disperati offrendo loro parole di speranza, elevando i loro pensieri alle realtà celesti.

Vita di paradiso nell’inferno delle Solovki

«Nessuno mai sentirà parlare delle vostre sofferenze!», con voci diaboliche i carcerieri comunisti tentavano di scoraggiare i monaci. «Dio vi darà la sua gloria e i vostri nomi non saranno mai dimenticati nel suo Regno», rispondevano gli angeli. Ogni religioso, ogni credente veniva denominato “nemico della nazione”. Alle Solovki veniva offerta da bere solo acqua sporca di mare: gli ex prigionieri dicono che la sola vista di essa provocava la nausea, ma erano obbligati a berla per non morire di sete. I sacerdoti aggiungevano l’acqua santa a quest’acqua infangata e in un’apparizione videro venire l’arcangelo Raffaele che, portando uno scettro ardente, toccava l’acqua e questa veniva immediatamente purificata. Proprio come nel racconto evangelico della piscina di Bethesda: l’acqua con la quale si lavavano le pecore, veniva mossa dall’angelo e chiunque entrava in quest’acqua veniva guarito. Nel Rito Romano, nella festa di san Raffaele arcangelo si legge questo brano del Vangelo; Raffaele, che significa medicina di Dio, assiste in modo particolare gli uomini di Dio quando per necessità spirituali hanno bisogno della salute del corpo. Così l’acqua sporca di Solovki diventava dolce acqua prodigiosa, grazie all’intercessione di questo Arcangelo.
«Fu per noi un grande onore aver avuto accesso alla Liturgia celeste, la quale finora non è stata vista dagli abitanti della terra», così diceva Giovanni il Teologo. Un’antica prassi ascetica nella vita religiosa è quella di imparare a memoria i testi sacri: la Sacra Scrittura, i testi liturgici, che impressi nella memoria rivivono mossi dalla grazia. Nelle Solovki era difficile avere un testo scritto, i monaci pertanto meditavano su quello che ricordavano del Vangelo. Quando potevano radunarsi per celebrare la divina Liturgia di nascosto «la comprensione liturgica era del tutto diversa rispetto a prima. [...]. Gli angeli svelavano agli anziani i misteriosi significati e oggetti sconosciuti, mostrando la presenza dei santi e degli angeli. Si sentivano moltitudini di voci, misteriosi contatti con la musica celeste. Questa musica era talmente dolce che i monaci ne venivano travolti. Essa li trascinava e loro stessi ne divenivano parte. Sembrava loro che i propri corpi divenissero parti di un divino strumento musicale. Gli organi divini suonavano in armonia con la voce di Dio, e risuonavano in tutta la loro interiorità». Le “chiese” nelle Solovki erano molto modeste; i religiosi si radunavano in segreto in qualche grotta o nei boschi. Gli orientali, che molto più dei latini avevano sviluppato il senso della bellezza liturgica, soffrivano molto per la mancanza dell’iconostasi, degli oggetti sacri con i quali rendere un culto più degno alla Maestà divina. Una volta, racconta il patriarca Serafim, quando i monaci piangevano per la mancanza degli oggetti liturgici, gli angeli cominciarono ad apparire con le icone e prestare servizio alla divina Liturgia. A un certo momento i monaci videro l’arcangelo Michele che teneva in mano un misterioso calice, che risplendeva di raggi di luce; i monaci capirono che era l’ostensorio cattolico. Dicevano perciò che là, nelle Solovki, la Chiesa orientale si era unita alla Chiesa latina. «Nelle liturgie invocate incessantemente i cori angelici – esortava il patriarca Serafim –. Nei nostri cuori deve rimanere accesa la fiamma; se il calore non si diffonderà nel cuore, non conoscerete fino in fondo il mistero dell’Immacolata Concezione della Madre di Dio. Senza fine, invocate incessantemente la Misericordiosa Imperatrice!».

San Giovanni della Croce insegna che qualsiasi atto compiuto per puro amore di Dio, con il desiderio che esso rimanga nascosto agli occhi degli uomini – e se fosse possibile perfino agli occhi di Dio stesso –, dà a Dio più gloria di tutte le grandi opere di apostolato, le prediche, i libri, ecc. Proprio di questo amore, amore purissimo, profumava il santo monastero di Solovki, fondato dai nemici di Dio.

venerdì 27 aprile 2018

Come un prete ubriaco fu salvato dai morti

Breve ma edificante racconto di grande profondità spirituale, apparso recentemente sul sito Pravoslavie.ru

Dio ascolta sempre le nostre preghiere, specialmente quelle offerte durante la Divina Liturgia. Nella diocesi del vescovo citato vi era un certo padre Ioannis, amato da tutti. Egli soleva soffermarsi molto alla proscomidia (1), perché commemorava molti nomi. Eppure egli aveva un grave disturbo: gli piaceva bere. Così come era diligente in tutti i suoi doveri, così gli piaceva alzare il gomito. Tanti lo imploravano di lasciar perdere questa passione, così bassa per un servo di Dio. Egli stesso voleva, lo desiderava, e si sentiva così arrabbiato con sé stesso e impotente. Provò molte volte ad abbandonare il vizio, salvo riprenderlo pochi giorni dopo.

Una volta accadde che, dopo aver ripreso il vizio, si presentasse in chiesa mezzo ubriaco. E iniziò in quello stato la divina Liturgia: Benedetto il Regno... E col permesso di Dio, il sacerdote, al momento dell'Ingresso, fece cadere i Sacri Doni per terra. O qual disgrazia! Pieno di terrore, il prete si gettò a terra e purificò con la lingua il pavimento. E si sentiva colpevole, perché era accaduto a causa del suo peccato. 

Il sacerdote corse dal suo vescovo a confessarsi di questa colpa. Dopo aver molto riflettuto, al vescovo non restò che prendere in mano la penna e mettersi a scrivere: doveva sospendere il padre Ioannis. Eppure, il vescovo si fermò prima di scrivere: ebbe una visione. Migliaia di persone si presentavano dinnanzi a lui. Nei loro occhi ardeva un vivo dolore. Passando dinnanzi a lui, dicevano: "No, vostra eminenza, non fatelo! Non sospendete il padre Ioannis! Perdonatelo!" E continuavano a passargli davanti uomini e donne, vecchi e ragazzi, d'ogni età e ceto sociale, ricchi e poveri. E anche dicevano: "non buttate fuori il nostro padre! Lui sempre ci ricorda alla Liturgia, lui veramente ha pietà di noi. E' un nostro amico... non togliergli la sua dignità!" e questa visione andò avanti per molto tempo.

Il vescovo capì che erano le anime che padre Ioannis ricordava ad ogni proscomidia. Queste commemorazioni li aiutavano parecchio, erano come acqua fresca quando si ha sete, per loro. Così, il monsignore scelse di chiamare il prete.

"Padre Ioannis. Lei commemora molte persone alla proscomidia?"

"Centinaia, eminenza. Non le conto nemmeno." 

"Come mai ne ricordi così tanti e ritardi la Liturgia?" domandò il vescovo.

"Mi fanno pena i defunti: essi non hanno alcun aiuto, se non le preghiere della Chiesa. E così chiedo all'Altissimo di donare loro riposo. Ho un libro dove tengo memoria di tutti coloro che devo commemorare, è una pratica che imparai da mio padre: lui pure è stato un sacerdote." 

"Fai bene". rispose il vescovo, continuando: "le anime ne hanno bisogno. Continua così. Solo, vedi di non ubriacarti più. Non bere mai più. Questa è la tua penitenza. Sei perdonato." 

Da quel giorno, il padre Ioannis fu completamente liberato dal vizio del bere, e ancora oggi si alza presto per compiere la proscomidia, ricordando tutti i defunti. 

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NOTE

1) La proscomidia è la parte preliminare della Divina Liturgia, quando si preparano il pane e il vino che verranno offerti sull'altare, e si offrono preghiere per i vivi e per i defunti. Equivale all'offertorio del rito latino, solo che (come del resto avviene ancora nei riti latini più antichi, come quelli monastici o conventuali) si officia prima dell'inizio della Liturgia, e non dopo la parte didattica come nel rito romano.

giovedì 26 aprile 2018

Dichiarazione del Patriarca sul caso di Alfie Evans

Le apprezzabili parole del nostro Patriarca sul caso del piccolo Alfie Evans. Qualche Vescovo cattolico con le idee chiare, per fortuna, esiste ancora...



Queste mie parole sorgono dal cuore del vescovo ma anche dell’uomo e del cittadino.

 La vicenda drammatica del piccolo Alfie non può lasciarci solo pensosi e tristi. Deve, piuttosto, portare ad una riflessione pacata e che aiuti a maturare una posizione per cui i diritti dei deboli – innanzitutto di un bambino e poi dei due giovani genitori – non siano “diritti deboli”.

La vicenda del piccolo e fragilissimo Alfie ha faticato a catturare l’attenzione di molti, ma, alla fine e contro tanti ostacoli, vi è riuscita. E questo bambino, anche grazie ai media, è diventato davvero “figlio nostro” e “figlio del mondo”.

La vicenda è molto triste perché chiama in causa la civiltà e la cultura, il diritto e la giustizia, le istanze etiche attorno a cui si fonda la vita di un intero Paese, di molti popoli, di una nazione e di un intero continente – l’Europa – che purtroppo, ancora una volta, ci lascia profondamente delusi per come non riesce a trattare una questione delicatissima e così lancinante. L’Europa si spende per l’euro, per le banche, per i parametri economici… ma sembra continuare a balbettare in altri fondamentali ambiti.

Il nostro Paese, l’Italia, concedendo ad Alfie la cittadinanza e offrendo la disponibilità ad accoglierlo e curarlo in alcune nostre strutture ospedaliere d’eccellenza (il Bambino Gesù di Roma e il Gaslini di Genova), ancora una volta – come per il salvataggio di migliaia di uomini in mare – ha saputo e soprattutto voluto cantare fuori dal coro, mostrando in tale vicenda un’attenzione, una sensibilità e, in una parola, un’umanità che, in fondo, da sempre appartiene all’Italia, alla sua storia e alla sua cultura e che viene continuamente attestata da varie e attuali situazioni contingenti e strutturali.

Certo, non sono mancate e non mancano in Italia ambiguità e incoerenze – alcuni recenti provvedimenti legislativi lo dimostrano – ma in questi casi – e quindi sia nel rispetto della vita che, più in generale, nel prendersi cura delle persone – si è evidenziata un’incoraggiante “originalità” propria della cultura e della civiltà italiana, anche rispetto ad altri filoni di pensiero anglosassoni ed europei. Un’originalità di cui dovremmo andare umilmente fieri, non dimenticando di trascurarla e praticarla per il futuro.

Con le parole che ha usato pochi giorni fa Papa Francesco, vorrei anch’io ribadire che “l’unico padrone della vita, dall’inizio alla fine naturale, è Dio” e che, sempre, “il nostro dovere è fare di tutto per custodire la vita”.

Anche chi non è credente può convenire sul fatto che nessun potere umano (politico) può arrogarsi il diritto di impedire che altri Stati ed istituzioni scientifiche riconosciute come eccellenze – nel campo della ricerca e della cura medica – si facciano carico del piccolo Alfie ed intervengano in luogo di chi non ha più nulla da dire o da dare. 

Senza accanimento terapeutico, senza cioè trattamenti sproporzionati, ma anche senza abbandono terapeutico, cioè senza mai venire meno al dovere-diritto di prendersi cura e di accompagnare la persona malata e i suoi familiari con alta professionalità, con grande umanità e con… amore, veramente disinteressato e non ideologico.

Si tratta perlomeno di risparmiare il dolore – come ora è possibile, con le opportune e preziose cure palliative – fino al momento della morte naturale. Solo così una società “vive” e progredisce, solo così si cresce in civiltà e umanità.


Affidiamo nella preghiera il piccolo Alfie e i suoi genitori alla Madonna – che è Madre di misericordia – perché non faccia mancare luce e speranza anche nei momenti più bui e continuiamo a chiedere ed invocare umanità perché finalmente, come ha detto ancora il Santo Padre, “venga ascoltata la sofferenza dei suoi genitori”.

mercoledì 25 aprile 2018

Festa di San Marco

25 aprilis
IN FESTO S. MARCI EVANGELISTAE
Patroni principalis Venetiarum
et totius regionis olim subjectae rei publicae nostrae


duplex I classis

Il Santo Evangelista nacque secondo alcune fonti in Palestina, secondo altre a Cipro, attorno al 20 d.C., ebreo di stirpe levita, e cugino di S. Barnaba (cfr. Col IV,10). Non si sa se avesse fatto parte del numero dei discepoli di Gesù, ma sicuramente ne aveva sentito parlare, venne presto in contatto con gli Apostoli dopo la Risurrezione e divenne discepolo personale di S. Pietro. Una suggestiva interpretazione vede in Marco il giovinetto che fugge via nudo mentre Gesù vien catturato, citato solo nel di lui Vangelo (cfr. Mc XIV). Scrisse il suo Vangelo quando si trovava a Roma, ove era stato battezzato, e possedeva un'abitazione al Campidoglio, sulle cui spoglie ora sorge la Basilica romana a lui titolata, durante il regno di Claudio Imperatore (cfr. Eusebio di Cesarea,Historia Ecclesiastica), in compagnia proprio di Pietro, il quale, testimone oculare e uditore, è la fonte da cui trae ogni informazione per la stesura, non mancando però di criticare duramente il maestro quando necessario (Gueranger nota come il Vangelo di Marco sia quello che più duramente rimprovera Pietro per il rinnegamento). Il suo scritto fu particolarmente apprezzato dai Cristiani di Roma per la brevità, semplicità, concisione e al contempo completezza e precisione che sono caratteristiche del suo Vangelo, il più breve ma non per questo il meno ricco o importante.

Dagli Atti degli Apostoli, sappiamo che Marco seguì dapprima Paolo, da cui poi si separò, per recarsi (attorno al 50 d.C.) a Cipro, insieme al cugino Barnaba. Dopo la morte di Paolo, iniziò la sua predicazione autonoma, che la Tradizione vuole egli abbia effettuato in Egitto, fondando l'episcopato di Alessandria che egli stesso ricoprì, e fornendo ai Cristiani d'Africa, proprio nella terra che era stata tanto fonte d'errori e sventure, una salda fonte di dottrina petrina, dopo Roma ed Antiochia (Alessandria viene definita la "terza cattedra di Pietro").

G. Bellini, Predicazione di S. Marco ad Alessandria

Contestualmente, attorno al 66 d.C., inizia ad avere i primi contatti con l'Italia ,quando vi si trova in aiuto a Paolo (cfr. II Thim IV, 9-11), e, prima di partire all'evangelizzazione dell'Alessandria,, procede verso l'Italia settentrionale, precisamente ad Aquileia, dove fu inviato probabilmente da Pietro, nominandone il primo vescovo, Ermagora, che lui stesso aveva convertito. Nella città sono facilmente riscontrabili testimonianze del passaggio dell'Evangelista: nella cripta della Basilica di Aquileia, interamente affrescata con i cicli della predicazione dell'apostolo, vi si trova "Vangelo di San Marco", oggetto di ampia venerazione, scritto attribuito direttamente alla mano dell'Evangelista, oggi separato in pezzi e custodito in tre diversi luoghi, tra cui la Biblioteca Marciana.

Partendo verso Alessandria, fu tuttavia sorpreso da una tempesta presso le isole Realtine (nucleo della futura città di Venezia) .Qui, secondo la tradizione, un angelo gli apparve insogno, salutandolo con la famosa formula "Pax tibi Marce, evangelista meus!", diventata poi quasi un motto del Santo, e dando origine al profondo vincolo legante l'apostolo ed evangelista Marco alla città di Venezia.

Secondo gli apocrifi Acta S. Marci, che danno informazioni riscontrabili anche nella Leggenda Aurea, S. Marco subì il martirio nel 68 ad Alessandria d'Egitto, incarcerato ed immolato da degli idolatri durante la festa pagana di Serapide. Secondo questi racconti, egli in carcere fu visitato dallo stesso nostro Signore Gesù Cristo risorto, il quale lo salutò ancora: "Pax tibi Marce, evangelista meus!", suscitando grande commozione nel Santo, che ebbe nella visione del suo Maestro il coronamento di tutta la sua missione e della sua devozione alla causa Cristiana. Il giorno dopo, affrontando terribili tormenti, nacque al Cielo, andando ad occupare il seggio glorioso che gli spettava. ad acquistare la sua veste candidata nel sangue che ha versato, che, da martire immagine del Cristo patente, è il sangue stesso dell'Agnello.

martedì 24 aprile 2018

Pontificale greco-ortodosso per S. Giorgio

Lunedì 23 aprile, festa di S. Giorgio grande martire, titolare della cattedrale greco-ortodossa di Venezia, il metropolita d'Italia e di Malta Gennadios ha celebrato un solenne pontificale, assistito dal clero della cattedrale e da altri sacerdoti del Patriarcato di Costantinopoli in Italia.

Al termine della solenne funzione, è stato offerto un rinfresco nel Campo dei Greci, accompagnato da un concerto di musica popolare greca e musica sacra latina, della corale "Tommaso Flangini" di Corfù, diretta dal maestro Andreas Gousis.

Di seguito qualche foto della celebrazione.