Le Quattro Tempora sono, giusta il rito romano, quattro periodi durante le quattro diverse stagioni (la I settimana di Quaresima per la primavera, l'Ottava di Pentecoste per l'estate, la settimana dopo l'Esaltazione della Croce per l'autunno e la III settimana d'Avvento per l'inverno), durante i quali tre giorni (mercoledì, venerdì e sabato) vengono dedicati a particolari digiuni e preghiere per consacrare a Dio i diversi tempi dell'anno, e specialmente per invocare la protezione sui campi e i raccolti.
Queste "solennità rurali", che anticamente erano considerate di origine apostolica, si formano a Roma attorno al III secolo (la tradizione basata sul Liber Pontificalis ne attribuisce l'introduzione a Papa Callisto I; altri, addirittura a Papa Silicio, alla fine del secolo seguente, nell'ambito delle controversie coll'eretico Gioviniano circa l'utilità dei digiuni): in tale epoca esistevano solo tre tempora, e la quarta fu aggiunta in seguito per amor di simmetria: nel pieno V secolo Papa S. Leone Magno riferisce in un sermone l'esistenza di quattro periodi stagionali di digiuno, jejunum I, IV, VII et X mensis (che facendo partire l'anno a marzo, siccome era nell'antico calendario romano, combaciano perfettamente coi periodi attualmente osservati).
D'origine romana quindi, le quattro tempora si sono diffuse nei secoli successivi nel resto dell'Occidente (a Napoli nel VII secolo; in Inghilterra tra VII-VIII; in ambito gallicano nell'VIII; in quello ispanico e mozarabico nel XI; a Milano invece, nel rito ambrosiano, comparvero, con carattere esclusivamente penitenziale e non liturgico, solo attorno al XII secolo).
Attorno al 490 Papa Gelasio prescrisse di conferire le ordinazioni diaconali e sacerdotali nelle veglie notturne dei sabati delle Tempora, pratica spesso ancor oggi osservata.
Preghiera, digiuno ed elemosina sono gli esercizi principali di questo tempo di penitenza. Ma, all'epoca di san Leone, si sottolineava soprattutto il legame esistente tra ciascuno delle Tempora e il momento dell'annata agricola con la quale essi coincidevano. Questo legame è il solo rilevato nel Liber Pontificalis. Questo riferimento alla stagione agricola è totalmente assente dalle quattro tempora di Quaresima e di Avvento, le quali hanno subito una riforma testuale, trasformando la prima in prettamente penitenziale e conferendo alla seconda un forte significato messianico; la gioia della festa ha assai inficiato sul senso agricolo della liturgia delle Tempora di Pentecoste, mentre quest'ultimo è stato completamente mantenuto solo in quelle di Settembre.
Le quattro tempora sono tutte, tempi di preghiera e di digiuno ufficiali che devono essere accuratamente distinti dai digiuni e dalle preghiere private, come San Leone esige espressamente. Sono, egli dice, atti ufficiali della Chiesa, che fanno appello al «popolo cristiano» nella sua interezza. Per questa ragione esse partecipano della «presenza speciale» di Cristo mediatore e godono, per questo, di una fecondità spirituale propria (cfr. Sermo LXXXVIII).
La tradizione, confermata dal Codice di Diritto Canonico del 1917, consiste nel praticare il digiuno e l'astinenza (secondo le prescrizioni consuete) il mercoledì, il venerdì e il sabato delle Tempora (nulla di strano, considerando che erano i giorni in cui si praticava abitualmente l'astinenza nei primi secoli della Chiesa, la quale sopravvisse in seguito solo al venerdì in Occidente). Il digiuno del sabato, che stando al Liber Pontificalis fu introdotto proprio insieme alle Tempora e poi passò a osservarsi nel resto dell'anno, fu nei secoli a venire oggetto di controversie tra Chiesa Orientale e Occidentale.
Nei giorni delle tempora si celebrava la sinassi eucaristica nella Basilica Stazionale, tranne al sabato: infatti, si celebrava una lunga veglia durante la notte (similmente a quelle del sabato di Pasqua o di Pentecoste), seguita dalla celebrazione dell'Eucaristia domenicale, che non veniva poi reiterata durante il giorno seguente (da ciò nacque l'impropria definizione di Dominica vacans). Ad oggi la veglia non è più celebrata, ma è stata sostituita, come gran parte delle liturgie notturne, da una Messa celebrata al mattino del sabato: il fatto che anticamente essa fosse una celebrazione vigiliare è tradito dal Vangelo, identico a quello della domenica susseguente.
Per quanto riguarda i testi delle Messe, nella riforma Tridentina furono conservate le due letture alle liturgie del mercoledì (tale arcaismo risale ai secoli in cui ogni Divina Liturgia aveva due letture, ossia prima del V-VI secolo). Essendo vigilie semplici, le liturgie del sabato constano di sei letture, ivi compresa l'epistola.
L'unità liturgica di queste quattro Tempora è data dalla presenza di alcune parti comune, come la lettura tolta dal cap. III di Daniele (episodio dei Tre Fanciulli), seguita dal relativo cantico (essa s'inserisce nel VII secolo sopprimendo la V lettura propria delle vigilie); essa è accompagnata da un'orazione molto popolare negli uffici sacerdotali della Chiesa latina (Deus qui tribus pueris), la quale ha origine dai Sacramentari gelasiano e gregoriano. Anche le antifone offertoriali (al di fuori delle Tempora d'Avvento che subirono le succitate modificazioni) sono identiche tra loro.
Tempora Septembris
Tra le più antiche, sono le uniche ad aver mantenuto interamente il formulario liturgico originario dei primi secoli, dedicato alle messi e alla vendemmia che cadono in questo periodo, quelle che anticamente erano le dominicae septem post festum s. Laurentii, una sezione dell'anno liturgico antico, la cui esistenza può desumersi dai tratti comuni di graduali e antifone di comunione delle domeniche IX-XV dopo Pentecoste. Le Tempora di Settembre segnavano anticamente la fine di questo periodo, avendosi poi una festa pro consummata perceptione omnium frugum, dignissime largitori earum Deo continentiae offertur libamen, per entrare infine in quello susseguente alla festa di S. Michele Arcangelo. Come alle altre Tempora, fu uso a partire da Papa Gelasio di conferire in questi giorni le Sacre Ordinazioni.
Molti testi liturgici sono tolti da quelli già utilizzati nelle feste giudaiche per le celebrazioni del settimo mese, ossia il primo dell'anno secondo il loro calendario. Secondo alcuni autori, era tradizione nei primi secoli di portare durante l'offertorio dei calici ricolmi di doni, soprattutto uva, che venivano poi benedetti durante il Canone e distribuiti ai fedeli alla fine della Messa.
L'introito del mercoledì, ad esempio, è tratto dal salmo LXXX, in cui si invita Israele a dar nei cembali a far vibrare l'arpa e la cetra soave, a sonare il corno in occasione del settimo novilunio, perché questa è una tradizione santa in Israele. La prima delle due lezioni è tolta dal profeta Amos, ed è una rassicurante descrizione della florida vendemmia del contadino fedele. "Se ora invece le campagne sembrano divenute sterili, - tuona il beato Ildefonso Schuster, riferendosi questo passo biblico - e se le malattie delle erbe, degli alberi e del bestiame rievocano il ricordo delle piaghe d'Egitto, la vera cagione va ricercata nei peccati dei popoli, nell'apostasia sociale da Dio e dalla sua Chiesa, nella sensualità, nell'anarchia, nella profanazione delle feste e nelle molte bestemmie, colle quali, assai più che coi chicchi di frumento, si fa la semina dei nostri campi". Dopo il versetto del salmo CXXII che esalta la potenza di Dio nel cielo e nella terra, si dice la colletta, che ricorda i digiuni di questo periodo, e un'altra lezione, dal II libro di Esdra, commemora la liberazione di Israele dal giogo babilonese, e la solenne restituzione della legge, proprio il primo giorno del settimo mese. Questo gioioso invito, che presenta ora un valore spirituale e simbolico, "pure rivela il carattere primitivo di queste antiche feste romane, dall'intonazione improntata alla più viva gioia e riconoscenza verso il Signore, datore magnifico dei frutti della terra". Il Vangelo, la guarigione del lunatico secondo S. Marco, è incentrato invece sulla necessità digiuno e la preghiera, che fanno emergere la nostra natura spirituale, rintuzzando gli attacchi demoniaci delle tentazioni, macerando la carne e le sue passioni, avvicinandoci a Cristo, uscendo da questo mondo di mortale sensualità. Le altre preghiere di questa Messa richiamano le prime due letture, tranne l'Offertorio che, come si è detto, è comunemente tratto dal salmo CXVIII.
Il venerdì, ad ogni tempora, si fa la Stazione ai SS. Apostoli; rispetto alle liturgie del mercoledì e del sabato, questo formulario è più tardivo, sulla cui origine le spiegazioni dei liturgisti non sono affatto esaurienti, tra chi ne fa una questione puramente testuale, chi una legata al digiuno, chi cita a sproposito Tertulliano e altre fonti che però parlano dei digiuni e della S. Eucaristia nei giorni ordinari dell'anno. Fatto sta che la struttura liturgica è identica a quella di tutte le Messe che conosciamo, e le parti salmodiche e le orazioni sono comuni prevalentemente ai formulari delle ferie quaresimali. La lettura è tratta dal libro del Profeta Osea, contenente le promesse di Dio al suo popolo, consistenti in grazie sovrabbondanti e soavi, paragonate ai dolci frutti delle messi orientali, qualora esso si converta, abbandoni gli idoli e ritorni al Signore. Una lettura ancora attuale, rifacendoci alle parole del beato Arcivescovo sopraccitato. L'odierna lezione evangelica, col racconto della conversione della povera Peccatrice secondo Luca, non corrisponde alla lista evangeliare di Würzburg, ma può essere che questa sia inesatta, o che la lettura sia stata cambiata nei secoli.
Per quanto concerne il sabato, infine, a proposito della lunga veglia notturna in San Pietro che precedeva l'Eucaristia, riportiamo la meravigliosa analisi del già più volte prezioso card. Schuster:
"L'introito è tratto dal salmo 94, ed invita l'anima ad umiliarsi innanzi alla maestà di Dio giusto e misericordioso; giusto, perché nelle fiamme della santità sua vendica tutto quello che trova di difettoso nei figli suoi; misericordioso, perché anche nell'esercizio di questa giustizia, s' ispira ad un immenso amore. Gli è nota [la debolezza del nostro essere], perché nell'eccesso della sua condiscendenza ha voluto anch'egli velarsi di questa carne umana e subire il cimento della nostra
travagliata vita. Dopo la preghiera litanica, che però oggi non è al suo posto, giacché, a cagione delle sacre ordinazioni, essa in Roma veniva differita sin dopo la lettura dell'Apostolo, si recita, quasi a conchiudere, la bella colletta. Segue la lezione del libro Levitico, che riallaccia il digiuno di questa settimana con quello giudaico corrispondente alla solennità dell'Espiazione, che si celebrava appunto il decimo giorno del settimo mese. Sembra tuttavia che questo riferimento del digiuno delle ferie autunnali alla solennità dell'Espiazione giudaica, sia semplicemente postumo, quando cioè a molte istituzioni liturgiche della prima ora si volle attribuire un'origine scritturale.
La penitenza di cui qui si parla, consisteva massimamente nel digiuno, che cessava al tramonto del sole. Dando a tutto il brano un significato spirituale assai più vasto, noi possiamo affermare la necessità universale della penitenza per tutta l'umanità prevaricatrice : Nisi poenitentiam egeritis, omnes similitier peribitis. Il graduale deriva dal salmo 78, ed è comune al sabato dei Quattro Tempi di Marzo, dopo la prima lezione. E' un canto di penitenza, e s'accorda mirabilmente col brano del Levitico ora recitato. La colletta sacerdotale dà compimento alla prima lettura.
La seconda lezione del Levitico, che nel Sacro Testo fa seguito alla precedente, descrive la solennità dei Tabernacoli, che durava una intera settimana ed aveva fine colla festa dell'Espiazione. Durante questo tempo, in memoria delle tende erette nel deserto durante i primi 40 anni dopo l '
esodo dall'Egitto, il popolo d'Israele dimorava in capanne ricoperte con palme e rami d'albero, al quale uso allude appunto il salmo 117: «Festeggiate nei tabernacoli ombrosi il giorno solenne».
Segue il graduale tratto dal salmo 83, esattamente come nei Quattro Tempi di Marzo. La colletta del presidente dell'assemblea,pone termine al canto responsoriale.
La seguente lezione di Michea descrive l'infinita misericordia di Dio che perdona al peccatore, e sommerge nel più profondo del mare i suoi delitti, per non ricordarsi che della sua misericordia, e delle promesse che egli ha fatto ad Abramo ed alla sua spirituale discendenza. Il graduale derivato dal salmo 89 è comune alla grande pannychìs di marzo. Segue la bella colletta sacerdotale, nella quale si
fa rilevare il doppio carattere del digiuno cristiano; in grazia sua si raffrena la carne colla penitenza corporale, affinchè lo spirito riconquisti contro di essa tutto il suo impero, quella vigoria insomma che è necessaria per dominare l'impeto delle sregolate passioni.
Segue un brano di Zaccaria, in cui alle antiche minacce di vendetta contro i peccatori, si contrappongono le più affettuose promesse per chi pentito ritorna al Signore. La vera conversione è intima ed interna, e consiste nella pratica della divina legge, di cui si deve soprattutto osservare il contenuto spirituale. Il Signore da parte sua farà si che i giorni altra volta luttuosi, come i digiuni israelitici del quarto, settimo e decimo mese, si convertano in altrettante fonti di gioia e di prosperità per il nuovo popolo che ama la verità e la pace. Quest'era nuova divinata qui dal Profeta, è appunto l'era Messianica. Il responsorio graduale tolto dal salmo 140, il salmo vespertino per eccellenza, è comune pur esso alla pannychìs di marzo. Segue la colletta sacerdotale in cui, per i meriti del digiuno pubblico e solenne che celebra la comunità cristiana di Roma, - è sempre da por mente che trattasi d ' una istituzione liturgica puramente romana - s' implora il perdono dei peccati. Segue, come nelle altre pannychìdes di dicembre e di marzo, la lezione di Daniele col Cantico delle Benedizioni, che serve quasi di canto di passaggio tra l'ufficio vigiliare e la Messa. Dopo le Benedictiones, seguiva la grande litania colle ordinazioni dei nuovi diaconi e presbiteri titolari romani. Compiuta la chirotesia, l'arcidiacono imponeva loro gli oraria, o stole, tolte da sopra la tomba di san Pietro, come i palli vescovili. Dopo la Comunione, il Papa consegnava ai nuovi presbiteri una delle oblate consacrate, affinchè essi per otto giorni ne deponessero un morsello nel proprio calice, a significare che il loro sacrificio era quasi un'estensione e continuazione di quello del Pontefice consacratore. Questo rito si
ritrova anche in Oriente. Dopo la messa, il clero ed il popolo parrocchiale del rispettivo titolo urbano, accoglieva il nuovo presbitero titolare e lo conduceva trionfalmente alla propria sede. Il Papa aveva già fatto agli ordinati degli splendidi presenti in generi, balsamo, grano, vino, olio, paramenti sacri e vasi liturgici. Precedevano il corteo alcuni valletti con incensieri e candelabri, onde diradare le tenebre della notte attraverso le anguste vie di Roma, addobbate per la circostanza con festoni, lauri e drappi. La folla circostante acclamava evviva: N.N. presbyterum sanctus Petrus elegit. Il nuovo eletto incedeva su cavallo bianco, sul quale era distesa la candida gualdrappa villosa, che costituiva l'insegna onorifica speciale di tutto il clero di Roma. Come per la consacrazione del Papa, cosi anche per la solenne cavalcata dei nuovi presbiteri titolari, i cantori per via eseguivano le tradizionali laudes, e la festa aveva termine con uno splendido banchetto, imbandito nelle aule annesse alla chiesa titolare del neo ordinato. Questa tradizione dell'ordinazione dei preti titolari di Roma e della loro cavalcata di possesso in occasione dei Quattro Tempi, ha lasciato dei lunghi strascichi negli usi della Corte pontificia. Infatti, sino a questi ultimi secoli, la creazione dei nuovi cardinali coincideva regolarmente coi digiuni dei Quattro Tempi, ed essi iniziavano il loro nuovo ufficio con una pomposa cavalcata da Porta del Popolo in Vaticano.
Nel brano dell'epistola agli Ebrei che precede la lezione evangelica, si descrive il rito giudaico della solennità dell' Espiazione, quando cioè il sommo sacerdote una volta all'anno penetrava nel
Santo dei Santi ad offrirvi il sangue del sacrificio. L'Apostolo, dal ripetersi di questo rito annuale ne deduce la sua inefficacia e la sua inutilità; mentre Gesù, Pontefice eterno del Nuovo Testamento, con un sacrificio unico, ma perfetto, ha santificato il popolo cristiano, aprendogli definitivamente le porte del santuario celeste. Segue il graduale tratto dal salmo 116, solito a cantarsi in Roma dopo compiute le sacre ordinazioni.
Il tempo autunnale fa si che l'odierna parabola evangelica (Luca XIII, 6-17) della ficaia sterile, sia tutt'altro che fuori di stagione. Essa è simbolo della Sinagoga e di quelle anime che, prevenute da Dio con abbondanti grazie, si contentano di vuoti riti esteriori che, al pari delle foglie, nascondono la sterilità dell'albero, senza rendere alcun vero frutto d'opere virtuose. Il regno di Dio non consiste né in
parole né in cerimonie, ma è essenzialmente spirituale ed interiore. San Gregorio Magno commentò al popolo l'odierna lezione evangelica nella basilica di san Lorenzo, o, secondo alcuni codici, in san Pietro stesso, in occasione della veglia notturna. Quest'ultimo particolare però è meno probabile, giacché tutto il contesto del discorso non contiene alcuna allusione a questa circostanza importantissima. Non conviene quindi insistervi molto, tanto più che le antiche liste evangeliari sono state più volte modificate.
Il verso offertoriale è tratto dal consueto salmo vigiliare 87, solito a cantarsi in tutte queste solenni pannychìdes romane. L' anima eleva la sua prece al Signore non solo di giorno, ma altresì di notte, e questo per più motivi. Oltre l'esempio che ce ne ha dato Gesù medesimo quando, dopo le fatiche del ministero evangelico diurno, saliva in sulla sera su qualche monte et erat pernoctans in oratione Dei, la preghiera notturna corrisponde a un vero bisogno dell'anima. Se lo spirito è tutto acceso d'amor di Dio, questo certo non sa rassegnarsi a lasciar trascorrere sterili lo lunghe ore della notte, senza rendere al Signore il dovuto omaggio di riconoscenza e di perfetta carità. E' in persona di questi tali che Isaia dice: anima mea desideravit te in nocte.
Se invece l'anima è ancora sulla strada dei proicienti, e per giunta è avvolta dalle tenebre delle tentazioni, - una buia notte spirituale - in questo stato è ancora necessaria l'assidua preghiera,
giacché il Salmista, descrivendo appunto tale stato dell'anima, dice: In die clamavi et nocte coram te.
Finalmente, se l'anima si sente depressa sotto il peso schiacciante delle sue colpe, anche in questo caso il suo scampo è nella preghiera, imitando cosi il Salmista penitente, il quale cantava: Lavàbo per singulas noctes lectum meum, lacrymis meis stratum meum rigabo. E' per tutti questi motivi che la Chiesa, ammaestrata da Cristo e dagli Apostoli, ha istituito la preghiera notturna, siccome parte del divino Ufficio, alla cui celebrazione solenne e splendida si dedicano di preferenza gli Ordini monastici, giusta quello che sta scritto: non extinguetur in nocte lucerna eius.
La colletta che fa da preludio all'anafora, è comune alla domenica fra l'ottava del Natale. Vi si domandano due grazie simboleggiate nella Sacra Eucaristia: la consacrazione cioè costante di tutte le nostre facoltà al servizio di Dio, - ecco il significato primitivo della devotio dei latini - e finalmente l'integrazione di questa consacrazione in cielo, quando Dio, mediante la visione beatifica, prenderà intero e perpetuo possesso dell'anima fedele, confermata nella carità, così che Egli allora sarà omnia in omnibus.
Il verso per la Comunione deriva dal testo del Levitico già letto precedentemente. Questa solennità [di cui parla] prelude a quella che celebreremo nel tabernacolo celeste, quando, trascorsi già i sei mesi che raffigurano il tempo penoso della presente vita, Dio c' introdurrà nel sabato del suo riposo. In questo settimo tempo, santificato e benedetto già dal Signore insin dagli esordi del mondo, noi eleveremo a lahvè un inno di ringraziamento, e sarà quello l'inno della riscossa, il carme degli scampati dalle onde del mare Eritreo, la canzone dei rimpatriati.
Nella colletta di ringraziamento, si domanda al Signore che la divina grazia, di cui l'Eucaristia è fonte vitale, consegua in noi piena efficacia; così che quell'unione mistica dell'anima nostra con Dio, quale viene ora simboleggiata dal Sacramento, raggiunga in cielo tutta la sua perfezione.
La Divina Eucaristia infatti, è una grazia ed una promessa. E' una grazia, in quanto ci rende capaci del consorzio della divina natura, allenandoci ad una vita di santità e di perfezione; ma insieme è altre sì una promessa, perché Gesù, al dire di Giovanni, dà gratiam pro grata, e quando Egli in cielo sottrarrà alla nostra fede le specie del Sacramento, darà al nostro amore quanto appunto in grazia dell'Eucaristia il cuore in terra si riprometteva di conseguire.
L'odierna liturgia insiste tanto nel ricordare la festa israelitica dell'Espiazione e dei Tabernacoli, per inculcarci la necessità della penitenza, senza la quale non si può giungere alla gloria. Questa penitenza, ad essere efficace, deve essere però unita alle pene di Gesù, il quale, per mezzo della sua passione, ha santificato e resi meritori tutti i nostri patimenti. La festa dei Tabernacoli ci deve inoltre ispirare un filiale abbandono nella divina Provvidenza, la quale per quarantanni ha fatto abitare sotto le tende nel deserto il popolo d'Israele, nutrendolo ogni giorno con cibo miracoloso, senza che durante sì lungo intervallo neppure le vesti venissero a consumarsi".
(A.I. Schuster, Liber Sacramentorum, V - Sono state eliminati dall'originale i testi tradotti delle lezioni e due errori di grammatica greca)
Parlando del valore straordinario di questi periodi di preghiera e pie pratiche osservati da tutta la comunione ecclesiale in modo pubblico, e non semplicemente come devozione privata, che acquistano grandissimo merito anzi a Dio (ah, quanto oggi sono invece aborrite dalla società le forme pubbliche di culto, come le grandi processioni tradizionali!), S. Leone Papa in occasione del jejunum VII mensis, antenato della Tempora, pronunziò questa bella omelia: L'osservanza regolata dall'alto, egli dice, supera sempre le pratiche di iniziativa privata, non importa quali esse siano, e la legge fatta per tutti rende l'azione più sacra che non possa fare un regolamento particolare. L'esercizio di mortificazione che ciascuno si impone di sua volontà riguarda infatti l'utilità di una parte, di un membro, mentre il digiuno fatto dalla Chiesa tutta non esclude alcuno dalla generale purificazione, e il popolo di Dio diventa onnipotente, quando i cuori si riuniscono nell'unità della santa obbedienza e quando, nel campo dell'armata cristiana, le disposizioni sono dappertutto eguali e la difesa è la stessa in tutti i luoghi. Ecco dunque, amatissimi, che oggi il digiuno solenne del settimo mese ci invita a schierarci sotto la potenza di questa invincibile unità. Leviamo a Dio i nostri cuori, togliamo qualche cosa dalla vita presente per accrescere i nostri beni eterni. Il perdono completo dei peccati si ottiene con facilità quando la Chiesa si riunisce tutta in una sola preghiera e in una sola confessione. Se il Signore promette di accogliere ogni domanda fatta nel pio accordo di due o tre come dire di no a tutto un popolo innumerevole, che segue uno stesso rito e prega in spirituale accordo? È casa grande davanti al Signore e prezioso lo spettacolo del popolo di Gesù Cristo, che si dedica allo stesso impegno e, senza distinzione di sesso e di condizione, in tutte le sue classi agisce come un cuore solo. È unico pensiero di tutti fuggire il male e fare il bene, Dio è glorificato nelle opere dei suoi servi, l'elemosina abbonda e ciascuno cerca solo l'interesse altrui e non il proprio. Per grazia di Dio che fa tutto in tutti, frutto e merito sono comuni, perché comune è l'amore nonostante la sproporzione di quanto si possiede, e quelli che meno possono dare si eguagliano ai più ricchi, per la gioia che sentono della generosità altrui. Nessun disordine in un popolo simile, nessuna dissomiglianza là dove tutti i membri dell'intero corpo tendono tutti a dare prova di una stessa intensità di amore. Allora la bellezza delle parti si riflette sul tutto e fa la sua bellezza. Abbracciamo dunque, o carissimi, questa saldezza di unità sacra e iniziamo il solenne digiuno con la ferma risoluzione di una volontà concorde.
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