domenica 27 maggio 2018

Il Simbolo Atanasiano

Glória tibi, Trinitas æqualis, una Deitas, et ante ómnia sæcula, et nunc et in perpétuum.
Gloria a Voi, o Trinità eguale, sola Divinità, che è da prima dei secoli, e ora, e in eterno.
(Antiphona I ad Vesperas)




Una delle preghiere trinitarie più note della Tradizione Cattolica è il cosiddetto Simbolo (o Credo) Atanasiano, pressoché un mirabile trattato esplicante la dottrina trinitaria ortodossa, cosa che si rese particolarmente necessaria nel IV secolo, quando, per contrastare le dottrine antitrinitarie e specialmente quelle ariane, i Padri della Chiesa e i Concilj (particolarmente quello Niceno del 325 e quello Costantinopolitano del 381, ai quali si deve la formulazione del Simbolo che si recita anche durante la Messa) definirono dommaticamente le persone, le nature e le relazioni della Trina e Una Deità.

Il Simbolo, altresì detto Cantico o Quicumque (dalla parola iniziale), è particolarmente ricco di riferimenti dottrinali, minuziosamente e ripetutamente spiegati, nonché di anatemi nei confronti degli eretici; si può dividere in due sezioni, di cui la prima (versi 1-28) è trinitaria, la seconda (versi 29-44) è Cristologica. Enumerando le tre ipostasi della Trinità, si ascrive a ciascuna di esse individualmente l'attributo di increata, immensa, eterna e onnipotente. Si confutano inoltre gli errori, sia il subordinazionismo (ritenere che vi sia un ordine gerarchico per cui una persona "comandi" sulle altre), sia il triteismo; si spiega la natura di ogni persona, del Padre increato ed ingenerato, del Figlio increato e generato prima dei secoli, dello Spirito Santo increato, ingenerato, ma procedente dal Padre (il testo latino include la clausola Filioque, assai probabilmente aggiunta in seguito sul modello del Credo Niceno). La Cristologia della seconda sezione è più dettagliata di quella del Credo Niceno, riflettendo gl'insegnamenti del Concilio Efesino (431) e di quello di Calcedonia (451). Si confutano qui, tra le altre, le eresie del Nestorianesimo e dell'Eutichianesimo.

Per quanto riguarda l'autore, ancorché la tradizione lo attribuisca al glorioso vescovo di Alessandria S. Atanasio (295-373), campione d'Ortodossia e strenuo difensore della Fede contro l'arianesimo, che l'avrebbe composto durante il suo esilio romano, per comprovare a Papa Giulio I la propria ortodossia. Tuttavia, tale attribuzione non pare leggersi in testi antecedenti il XVI secolo, né paiono esservi manoscritti greci più antichi di quelli latini che lo attestano (dunque, la sua redazione sarebbe avvenuta direttamente in latino e non in greco come si potrebbe pensare; tali manoscritti, inoltre, risalgono all'VIII secolo). Inoltre, tale Simbolo non è menzionato nell'epistolario di Atanasio né in altri testi, né scritti privati né documenti conciliari, del IV e del V secolo. Come si è poi già detto, la Cristologia di questo Simbolo sembra essere successiva ai grandi concili del V secolo. Si è pensato dunque a una sua attribuzione in ambito latino, e ne sono stati tratti i nomi più disparati (S. Cesario di Arles, S. Agostino d'Ippona, S. Vincenzo di Lerins, S. Ambrogio di Milano, Venanzio Fortunato, S. Ilario di Poitiers...). I più propendono per S. Vicenzo di Lerins, il cui latino pare molto simile a quello del Simbolo, ancorché il Kelly neghi quest'opinione.

In Oriente, tale cantico non ebbe mai impiego liturgico (anche questo suggerisce un'origine occidentale), ma si ritrova in numerosi libri di preghiera, antichi e moderni, soprattutto quelli di tradizione slava.
Nella liturgia romana, viceversa, era cantato ogni domenica durante l'Ufficio dell'Ora Prima. La riforma di S. Pio X del 1911 stabilì definitivamente che esso dovesse cantarsi, dopo i tre salmi dell'Ora Prima, nella Domenica della Ss. Trinità, in tutte le Domeniche dopo Pentecoste e in quelle dopo l'Epifania, purché in esse non cadesse la commemorazione di un ufficio di grado doppio oppure di un'ottava (praticamente, le stesse norme che regolano il canto, sempre a Prima, delle Preci Domenicali). In questo modo, viene rafforzata e confermata soventemente la Fede Trinitaria, non solo nella festa specialmente dedicata al Mistero, ma durante tutto l'anno liturgico.

Lo "scudo della Trinità", con le relazioni tra le tre ipostasi della Divinità

Symbolum Athanasianum


Quicúmque vult salvus esse, * ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem:
Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, * absque dúbio in ætérnum períbit.
Fides autem cathólica hæc est: * ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur.
Neque confundéntes persónas, * neque substántiam separántes.
Alia est enim persóna Patris, ália Fílii, * ália Spíritus Sancti:
Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, * æquális glória, coætérna majéstas.
Qualis Pater, talis Fílius, * talis Spíritus Sanctus.
Increátus Pater, increátus Fílius, * increátus Spíritus Sanctus.
Imménsus Pater, imménsus Fílius, * imménsus Spíritus Sanctus.
Ætérnus Pater, ætérnus Fílius, * ætérnus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres ætérni, * sed unus ætérnus.
Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, * sed unus increátus, et unus imménsus.
Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, * omnípotens Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres omnipoténtes, * sed unus omnípotens.
Ita Deus Pater, Deus Fílius, * Deus Spíritus Sanctus.
Ut tamen non tres Dii, * sed unus est Deus.
Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, * Dóminus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres Dómini, * sed unus est Dóminus.
Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: * ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur.
Pater a nullo est factus: * nec creátus, nec génitus.
Fílius a Patre solo est: * non factus, nec creátus, sed génitus.
Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: * non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens.
Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: * unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti.
Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil majus aut minus: * sed totæ tres persónæ coætérnæ sibi sunt et coæquáles.
Ita ut per ómnia, sicut jam supra dictum est, * et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit.
Qui vult ergo salvus esse, * ita de Trinitáte séntiat.
Sed necessárium est ad ætérnam salútem, * ut Incarnatiónem quoque Dómini nostri Jesu Christi fidéliter credat.
Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, * quia Dóminus noster Jesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est.
Deus est ex substántia Patris ante sǽcula génitus: * et homo est ex substántia matris in sǽculo natus.
Perféctus Deus, perféctus homo: * ex ánima rationáli et humána carne subsístens.
Æquális Patri secúndum divinitátem: * minor Patre secúndum humanitátem.
Qui licet Deus sit et homo, * non duo tamen, sed unus est Christus.
Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, * sed assumptióne humanitátis in Deum.
Unus omníno, non confusióne substántiæ, * sed unitáte persónæ.
Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo: * ita Deus et homo unus est Christus.
Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: * tértia die resurréxit a mórtuis.
Ascéndit ad cælos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: * inde ventúrus est judicáre vivos et mórtuos.
Ad cujus advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis; * et redditúri sunt de factis própriis ratiónem.
Et qui bona egérunt, ibunt in vitam ætérnam: * qui vero mala, in ignem ætérnum.
Hæc est fides cathólica, * quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.
Simbolo Atanasiano


Chiunque vuol esser salvo, * prima di tutto bisogna che abbracci la fede cattolica.
Fede, che se ognuno non conserverà integra e inviolata, * senza dubbio sarà dannato in eterno.
La fede cattolica consiste in questo: * che si veneri, cioè, un Dio solo nella Trinità e un Dio trino nell'unità.
Senza però confonderne le persone, * né separarne la sostanza.
Giacché altra è la persona del Padre, altra quella del Figlio, * altra quella dello Spirito Santo;
Ma del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo unica è la divinità, * eguale , la gloria, coeterna la maestà.
Quale è il Padre, tale il Figlio, * e tale lo Spirito Santo.
Increato è il Padre, increato il Figlio, * increato lo Spirito Santo.
Immenso è il Padre, immenso il Figlio, * immenso lo Spirito Santo.
Eterno è il Padre, eterno il Figlio, * eterno lo Spirito Santo.
Pur tuttavia non vi sono tre eterni, * ma uno solo è l'eterno.
E parimenti non ci sono tre esseri increati, né tre immensi, * ma uno solo l'increato, uno solo l'immenso.
Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio, * onnipotente lo Spirito Santo.
E tuttavia non ci sono tre onnipotenti, * ma uno solo è l'onnipotente.
Così il Padre è Dio, il Figlio è Dio, * lo Spirito Santo è Dio.
E tuttavia non vi sono tre Dèi, * ma un Dio solo.
Così il Padre è Signore, il Figlio è Signore, * lo Spirito Santo è Signore.
Però non vi sono tre Signori, * ma un Signore solo.
Infatti, come la fede cristiana ci obbliga a professare quale Dio e Signore separatamente ciascuna Persona; * così la religione cattolica ci proibisce dì dire che ci sono tre Dèi o tre Signori.
Il Padre non è stato fatto da alcuno, * né creato e neppure generato.
Il Figlio è dal solo Padre; * non è stato fatto, né creato, ma generato.
Dal Padre e dal Figlio è lo Spirito Santo, * che non è stato fatto, né creato, né generato, ma che procede.
Dunque c'è un solo Padre, non tre Padri; un solo Figlio, non tre Figli; * un solo Spirito Santo, non tre Spiriti Santi.
In questa Triade niente vi è di prima o di dopo, niente di più a meno grande; * ma tutte e tre le Persone sono fra loro coeterne e coeguali.
Talché, come si è detto sopra, * si deve adorare sotto ogni riguardo nella Trinità l'unità, e nella unità la Trinità.
Pertanto chi si vuol salvare, * così deve pensare della Trinità.
Ma per la salute eterna è necessario * che creda di cuore anche l'Incarnazione di nostro Signor Gesù Cristo.
Or la vera fede consiste nel credere e professare * che il Signor nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo.
È Dio, generato, sin dall'eternità, dalla sostanza del Padre, * ed è uomo, nato nel tempo, dalla sostanza d'una madre.
Dio perfetto e uomo perfetto * che sussiste in un'anima razionale e in un corpo umano.
È eguale al Padre secondo la divinità, * è minore del Padre secondo l'umanità.
Il Figlio quantunque sia Dio e uomo, tuttavia non sono due, ma è un Cristo solo.
Ed è uno non perché la divinità si è convertita nell'umanità, * ma perché Iddio s'è assunta l'umanità.
Uno assolutamente, non per il confondersi di sostanza; * ma per l'unità di persona.
Ché come l'uomo, anima razionale e corpo, è uno: * così il Cristo è insieme Dio e uomo.
Il quale patì per la nostra salvezza, discese agli inferi, * e il terzo giorno risuscitò da morte.
Salì al cielo, siede ora alla destra di Dio Padre onnipotente, * donde verrà a giudicare i vivi ed i morti.
Alla cui venuta tutti gli uomini devono risorgere con i loro corpi, * e dovranno rendere conto del loro proprio operato.
E chi avrà fatto opere buone avrà la vita eterna; * chi invece opere cattive subirà il fuoco eterno.
Questa è la fede cattolica, * fede che se ciascuno non avrà fedelmente e fermamente creduto non si potrà salvare.

sabato 26 maggio 2018

Prossimi appuntamenti a Venezia

Riportiamo di seguito i prossimi rilevanti eventi liturgici che avranno luogo nel Veneziano.


27 maggio - Parrocchia di S. Pietro Apostolo (Oriago, VE)

16.00  Messa cantata della Ss. Trinità


29 maggio - Chiesa di S. Simeon Piccolo (VE)

18.30  Messa cantata di requie con assoluzione al tumulo


31 maggio - Chiesa di S. Simeon Piccolo (VE)

19.00 Messa cantata coram Sanctissimo Sacramento exposito nella festa del Corpus Domini.
Segue la Benedizione Eucaristica.


3 giugno - Chiesa di S. Simeon Piccolo (VE)

11.00 Messa cantata (d'orario) della Domenica fra l'Ottava del Corpus Domini
A seguire, Processione Eucaristica per la fondamenta


16 giugno - Basilica della Salute (VE)

10.00 Pellegrinaggio di Traditio Marciana e del Summorum Pontificum
Litanie della BVM more veneto, S. Messa solenne della Presentazione della BVM (celebrante mons. Marco Agostini), Venerazione della reliquia dell'ulna di S. Antonio di Padova
Maggiori informazioni QUI.

venerdì 25 maggio 2018

I dodici frutti dello Spirito Santo

Messa prelatizia di Pentecoste
alla Santissima Trinità di Pordenone
Predica del rev. padre Joseph Kramer, FSSP

Durante il periodo della pentecoste noi dobbiamo:
1. pregare lo Spirito Santo affinché venga in noi e mantenga vivi in noi i suoi sette doni: la scienza, l’intelletto, il consiglio, la sapienza, la fortezza, la pietà, e il timor di Dio;
2. pregare lo Spirito Santo affinché formi in noi i suoi dodici frutti: l’amore, la gioia, la pace, la pazienza, la longanimità, la bontà, la benevolenza, la mitezza, la castità, la continenza, la modestia e la fedeltà;

Ho già cercato di fornire una spiegazione dei sette doni dello Spirito Santo: la scienza, l’intelletto – ossia i due doni che ci aiutano nella conoscenza e la comprensione dell’insegnamento e della legge di Cristo; e poi, il consiglio, la sapienza, la fortezza, la pietà, il timore di Dio – i cinque doni che ci aiutano ad osservare e mettere in pratica quello che Cristo ci ha insegnato - mettere in pratica la legge che Cristo ha prescritto.

Se i doni dello Spirito Santo conferiscono comprensione e virtù, i frutti dello Spirito Santo conferiscono le disposizioni che questa comprensione e queste virtù producono nell’anima. La presenza di questi frutti è un'indicazione che lo Spirito Santo dimora in noi e che noi stiamo cooperando con le grazie dello spirito Santo. Guardiamo questi dodici frutti uno per uno:

1. Carità (o amore)
La carità è l'amore di Dio e del prossimo, senza alcun pensiero di ricevere qualcosa in cambio. Tuttavia, non è una sensazione "calda e indistinta"; la carità si esprime in azioni concrete verso Dio e il prossimo – adorazione e obbedienza verso Dio – e il sostegno spirituale e corporale del nostro prossimo.

2. Gioia
La gioia che lo Spirito Santo fa crescere in noi è più che una gioia mondana transeunte, ed è più profonda di un'esperienza emotiva. È radicata in Dio e viene da lui, poiché non ha il mondo per propria origine ma, piuttosto, viene da Dio, è più serena e stabile della gioia mondana, che è semplicemente emotiva e dura solo per un certo tempo. Notiamo cosa dice San Paolo: “Possa il Dio della speranza riempirti di ogni gioia e pace mentre confidi in lui, in modo che tu possa traboccare dalla speranza con il potere dello Spirito Santo”.

3. Pace

La pace è più che un'assenza di conflitto: è un tipo di equilibrio che deriva dalla fiducia in Dio e dall'esperienza che tutto è nelle mani di Dio. A causa di questa esperienza, non cerchiamo ossessivamente di controllare le persone e le cose ed in questo senso, e dunque diventiamo più pacifici e sereni.

4. Pazienza
Questo frutto dello Spirito ci rende più disposti a soffrire le difficoltà della vita e delle altre persone: abbiamo meno bisogno di vendicare i torti e le offese e siamo più capaci di sopportare le imperfezioni delle persone e di questo mondo. Con questo frutto possiamo anticipare le croci, le miserie e le difficoltà della vita in questo mondo.

5. Benignità
La benignità è una disposizione grazie alla quale si ha la volontà di assistere e sostenere gli altri, in un modo che va oltre quello che è dovuto secondo giustizia.

6. Bontà
La bontà significa la disposizione di fare ciò che è giusto e il meglio per gli altri in ogni circostanza. A volte potrebbe includere rimproveri o richiami, altre volte incoraggiamenti o rassicurazioni. Il significato di tale parola è la motivazione a fare sempre ciò che è buono per la persona.

7. La longanimità
Questo dono è la pazienza sotto provocazione; essere longanimi significa sopportare silenziosamente gli attacchi degli altri.

8. Mitezza
Fondamentalmente, significa essere sottomessi a Dio e essere abbastanza umili da essere istruiti da Dio. Verso gli altri, significa essere mansueti: La persona mite non è mai superbo e prepotente. 

9. Fedeltà
Vuol dire essere fedeli e affidabili. La connessione tra i due concetti di fede e fedeltà nasce dal fatto che siccome crediamo in Dio tendiamo ad essere più affidabili, perché la nostra fede infonde in noi il senso che Dio ci sta guardando, e come risultato siamo responsabili e siamo affidabili, in quanto la vera fede ci rende più inclini a rispettare gli impegni, soprattutto l’impegno di essere obbedienti verso Dio.

10. La modestia
La parola Modestia viene dal "modus" o dal mezzo. Quindi, per modestia, si osserva una posizione intermedia tra il vanto inappropriato delle proprie abilità e l'eccessiva mancanza di autostima. Essere modesti significa essere umili, riconoscendo che nessuno dei nostri successi, risultati, talenti o meriti sono veramente nostri, ma doni di Dio.

11. Continenza
Questa parola si riferisce all'autocontrollo generale, al controllo di sé. Questo frutto o virtù ci aiuta a regolare i nostri desideri. C'è un posto nella vita per i piaceri e i desideri: senza di loro moriremmo. Tuttavia, dalla caduta dell'uomo, i nostri desideri sono spesso smodati e i piaceri sregolati. C'è bisogno della virtù della temperanza, che li modera e li regola.

12. La castità
E' la sottomissione del desiderio fisico alla retta ragione, ossia la sottomissione degli impulsi fisici alla propria dimensione spirituale.

Quindi, complessivamente abbiamo 12 frutti dello Spirito Santo, secondo la tradizione cattolica. Come possiamo vedere, molti di loro ci spingono ad essere più zelanti, mentre altri fondano in noi una virtù radicata nella moderatezza.
Così, preghiamo con attenzione oggi l’ultima orazione della messa di oggi:

Fa’ o Signore, che l’infusione dello Spirito Santo purifichi i nostri cuori, e li fecondi coll’intima aspersione della sua grazia. Amen.

lunedì 21 maggio 2018

La sola e unica Pentecoste: contro l'eresia neo-gioachimita

di Peter Kwasniewski

Traduzione di Traditio Marciana


Il Concilio Vaticano II è stato bollato come una "nuova Pentecoste". Ma una nuova o una seconda Pentecoste è impossibile. La Pentecoste è il mistero dell'identità e della vitalità della Chiesa attraverso tutti i secoli fino al ritorno di Cristo nella gloria; la Pentecoste non è un semplice evento, come lo spettacolo pirotecnico del 4 luglio (festa dell'indipendenza statunitense, ndt), ma è un dinamismo che permane, espresso dalla perenne freschezza della liturgia, che "lo Spirito Santo ... copre nel suo dolce seno e con ali splendenti (1), cosa caldamente ricordata in tutte le Domeniche dopo Pentecoste, che riempiono di un verde brillante l'autentico calendario Romano.

Potrebbe esserci una nuova Pentecoste solo se la vecchia avesse fallito; e in modo simile, potrebbe esserci una nuova Messa solo se la vecchia avesse fallito (2). Se ci fosse una nuova Pentecoste, questa darebbe origine a un nuovo tipo di Cattolicesimo, con nuove dottrine, una nuova moralità, una nuova liturgia, una nuova umanità in una nuova creazione, tutte cose che potrebbero essere in aperto conflitto con le loro controparti della "vecchia Pentecoste".

Martin Mosebach analizza eloquentemente il problema: "Lo 'spirito del Concilio' iniziò a esser tirato in ballo contro il senso letterale dei testi conciliari. In modo disastroso, dell'attuazione dei decreti conciliari s'impossessò la rivoluzione culturale del 1968, che scoppiò in tutto il mondo. Questo fu certamente il lavoro di uno spirito, di uno spirito assai impuro. La sovversione politica di ogni forma di autorità, la volgarità dell'estetica, la demolizione filosofica della tradizione non solo devastò le università e le scuole e avvelenò l'atmosfera pubblica, ma al contempo s'impossessò delle alte sfere della Chiesa. Iniziò a diffondersi la sfiducia nella tradizione, l'eliminazione della tradizione, in ogni cosa, in un entità la cui essenza consiste completamente nella tradizione, tanto che qualcuno ebbe a dire che la Chiesa sarebbe nulla senza la tradizione. In tal modo, la battaglia postconciliare che portò la distruzione della tradizione in moltissimi posti non fu altro che il tentato suicidio della Chiesa, un processo nichilistico, letteralmente assurdo. Noi tutti ricordiamo come i vescovi e i professori di teologia, i pastori e i funzionari delle organizzazione cattoliche abbiano proclamato con un tono fiducioso e vittorioso che con il Concilio Vaticano II una nuova Pentecoste si sia realizzata nella Chiesa, cosa che nessuno dei famosi Concili della storia, che hanno in modo così decisivo costituito lo sviluppo della Fede, ha mai preteso d'essere. Una "nuova Pentecoste" non significa altro che una nuova illuminazione, possibilmente una che possa sorpassare quella che fu ricevuta duemila anni fa; perché non passare direttamente al "Terzo Testamento" dell'Educazione della Razza Umana di Gotthold Ephraim Lessing? Nella visione di queste persone, il Vaticano II significò una rottura con la Tradizione così com'era esistita fino ad allora, e questa rottura sarebbe secondo loro stata salutare. Chiunque abbia ascoltato ciò potrebbe aver creduto che la Religione Cattolica abbia trovato realmente se stessa solo dopo il Vaticano II. Si suppone dunque che tutte le generazioni precedenti - alle quali noi qui presenti dobbiamo la nostra fede - siano rimaste nelle tenebre dell'immaturità" (3).

Quello che abbiamo visto negli ultimi cinquant'anni è un maldestro tentativo di riesumare l'eresia gioachimita secondo la quale la Chiesa sarebbe entrata nella terza e finale età, la nuova età dello Spirito, che avrebbe lasciato alle spalle il Vecchio Testamento del Padre, rappresentato dalle tavole del decalogo e dai sacrifici animali, e il Nuovo Testamento del Figlio, rappresentato dall'unione costantiniana di Chiesa e Stato e dal santo sacrificio della Messa. La nuova età, in modo ecumenico e interreligioso, "va al di là" dei comandamenti, della Cristianità, e del culto divino tradizionale. Con la riforma liturgica di Paolo VI noi andiamo al di là della tradizione liturgica ereditata; con gl'incontri d'Assisi di Giovanni Paolo II noi andiamo al di là della differenza sostanziale tra la Vera Religione e le false religioni; con l'Amoris Laetitia di Papa Francesco noi andiamo al di là dei rigidi confini del Decalogo e dei Vangeli.

Ora, ovviamente, tutte queste novità non costituirebbero altro che una nuova religione, e una nuova religione è una falsa religione.  In tal guisa, la caratteristica maggiormente distintiva della cosiddetta "nuova Pentecoste" o "nuova primavera" è la manifestazione di un'eresia neo-gioachimita, che è incompatibile con il Cattolicesimo ortodosso. La crisi della Chiesa ai nostri giorni è stato il segno divino della disapprovazione del deliberato allontanamento e del lento abbandono della Scrittura, della Tradizione e (sic) del Magistero, in questi decenni, in cui l'amnesia rimpiazza l'anamnesi, e il sacrilegio soppianta la sacralità. Come nota un autore di Rorate Caeli il 2 maggio 2014: "E' la generale inaffidabilità della maggior parte dei mezzi di comunicazione ufficiali della Chiesa e delle case editrici che ha reso i blog così popolari. Questo è specialmente vero quando si considera l'ovvio discordanza che ogni Cattolico avverte tra la morbidezza e la gaiezza dei mezzi di comunicazione ufficiali e la realtà vista terra a terra, dagli abusi sui bambini agli abusi nei sacramenti, dagli abusi nella liturgia agli abusi di confidenza, dalla promozione dei dissidenti al nascondere le statistiche della crisi generale della demografia Cattolica e della pratica religiosa nella maggior parte del mondo, da quando sono iniziati i geli della primavera".

 La Chiesa oggi soffre perché malata nel suo cuore: è letargica nel suo tessuto e intasata nelle sue arterie. Ha bisogno di un trapianto cardiaco, ma piuttosto che darle un cuore differente, ella ha bisogno di liberarsi di quel cuore artificiale e meccanico che le è stato installato da dottori poco competenti, e riacquistare il cuore di carne che la tradizione aveva fatto crescere in lei. Quando questo accadrà, noi saremo testimoni non già di una nuova Pentecoste, ma del rinnovarsi dell'adorazione di Dio in spirito e verità, come Nostro Signore ha profetizzato e ha già stabilito per noi. Dom Paul Delatte (abate di Solesmes dal 1890 al 1921) scrisse, riguardo la sacra liturgia tradizionale: "Nello Spirito Santo  si concentrano, si eternano, si diffondono in tutto l'intero Corpo di Cristo l'immutabile pienezza dell'atto della Redenzione, tutte le ricchezze della Chiesa del passato, del presente e dell'eternità (4).

Non ci meraviglia che Dom Guéranger, in un passo che io amo molto citare, disse: "Lo Spirito Santo ha fatto della liturgia il centro della sua attività nelle anime umane". Questo è ciò in cui dobbiamo trovare la nostra Pentecoste; questo è ciò in cui la Chiesa si rinnova perennemente nella sua giovinezza, trovando a portata di mano l'unico comune linguaggio con cui lodare, benedire, glorificare ed adorare il Re celeste, sinché Egli ritorni dall'Oriente nella gloria: "Ascenderò all'altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza".

NOTE dell'autore
(1) Gerard Manley Hopkins, La grandezza di Dio
(2) Una nuova Messa è una contraddizione in termini; la Chiesa non ha l'autorità per fare una cos adel genere
(3) In occasione del XC genetliaco di Benedetto XVI, Prefazione a P. Kwasniewski, Nobile bellezza, Santità trascendente: perché l'età moderna ha bisogno della Messa di sempre, xii-xiii.
(4) Commentario della Regola di S. Benedetto, 133

[Fonte]

domenica 20 maggio 2018

Il Vespero della genuflessione

Cupola della Pentecoste (Basilica di S. Marco, Venezia)

Nel rito bizantino, i tropari, le antifone, gli irmì e gli stichi della Festa di Pentecoste, coronamento dell'economia salvifica pasquale di Nostro Signore, tanto al Mattutino (dove in realtà si concentrano anche sulle precedenti Teofanie, particolarmente quella a Mosè e sul mistero della Trinità che si manifesta agli uomini) che alla Divina Liturgia, da una parte ricordano l'effusione dello Spirito Divino, i suoi doni e i suoi , e dall'altra la Predicazione degli Apostoli, i quali han ricevuto il dono di tutte le lingue per poter diffondere in tutto il mondo la gloria di Dio (ad esempio, il prokimeno prima dell'Epistola recita "Εἰς πᾶσαν τὴν γῆν ἐξῆλθεν ὁ φθόγγος αὐτῶν", "Per tutta la terra se ne andò il loro grido").
Questa domenica è detta anche "Domenica della SS. Trinità", ed è celebrata in paramenti verdi a motivo dell'importanza della solennità. La festa dello Spirito Santo vera e propria, celebrata dunque in paramenti rossi, sarà ufficiata il lunedì immediatamente seguente. Anche il martedì è un giorno di festa, il cosiddetto "terzo giorno della Trinità". Quest'uso di far durare tre giorni (simbolicamente, essendo il numero delle ipostasi trinitarie) la festa di Pentecoste non è ignota neppure ai latini: nel Rito Romano, anche il lunedì e il martedì dell'Ottava di Pentecoste hanno il grado di doppi di I classe (contro il grado semidoppio dei restanti giorni dell'Ottava), e almeno fino al Medioevo vi era precetto per tutti i tre giorni.


Nella liturgia bizantina della Pentecoste i fdeli sono invitati a diventare partecipi dello Spirito Santo, secondo quanto insegnano i Santi Padri della Chiesa (S. Gregorio Dialogo nelle sue omelie e S. Basilio Magno nelle sue Brevi Regole), ossia con l'adesione perfetta ai comandamenti di Dio, in modo da estraniarsi dal mondo, e ricevere in tal modo "il Paraclito che il mondo accogliere non può".

La sera della festa (nell'uso parrocchiale, subito dopo la Divina Liturgia) si celebra una cerimonia alquanto particolare, detta Vespero della Genuflessione (Ἑσπερινὸς τῆς γονυκλισίας): giacché per sette settimane, a motivo della gioia pasquale, del risollevamento dell'umana condizione portato dal Cristo Risorto, per disposizione del Concilio Niceno (conservata, seppur limitatamente ad alcune parti dell'Ufficio Divino, anche nel rito romano) nessuno può inginocchiarsi né prostrarsi durante le sacre celebrazioni o le preghiere personali, oggi, in supplice atteggiamento volto alla ricezione completa dei doni dello Spirito, si riprende questa posizione mistica, attraverso questo rito particolare. Inoltre, l'accogliere lo Spirito Santo in ginocchio è veramente il modo più degno, in quanto noi, essendo tutti peccatori, dimostriamo così il nostro pentimento e la nostra contrizione, attendendo misericordia, perdono e purificazione, invocando la salvezza da Dio, che oggi ci viene concessa mediante il Concolatore, lo Spirito di Verità.

Ufficio della Genuflessione nella Chiesa greco-cattolica di Piana degli Albanesi

La genuflessione, anche se meno praticata rispetto agli usi latini e vista come meno devota della prostrazione, è dunque presente anche nel Rito Bizantino, specialmente attraverso questa ufficiatura (anche se non esclusivamente, in quanto il sacerdote n'effettua parecchie durante la Liturgia quaresimale dei Presantificati, così come il popolo suole inginocchiarsi durante i Vangeli quaresimali e durante la recita del tropario Anima mia, anima mia durante il canto del Grande Canone di S. Andrea di Creta).

Dopo le preghiere introduttive e l'inno Φῶς ἱλαρὸν si canta il grande Prokimeno della Sera (Τίς Θεὸς μέγας, ὡς ὁ Θεὸς ἡμῶν; "Quale Dio è grande come il nostro Dio?"). Indi, il diacono canta l'invito Ἔτι καὶ ἔτι, κλίναντες τὰ γόνατα, τοῦ Κυρίου δεηθῶμεν ("Ancora e ancora, inginocchiandoci, preghiamo il Signore", equivalente della ben più usata formula latina Flectamus genua) il sacerdote, "mentre tutti s'inginocchiano e scoprono il capo (i membri del clero, ndr), dal Santuario legge ad alta voce, in modo che tutti ascoltino" una lunga e poetica preghiera di San Basilio, di cui riportiamo sotto solo la traduzione:

Immacolato, incontaminato, senza principio, invisibile, incomprensibile, imperscrutabile, immutabile, insuperabile, incommensurabile, paziente Signore, che solo possiedi l’immortalità e abiti la luce inaccessibile, che hai fatto il cielo, la terra e il mare e tutte le opere che sono in essi, che adempi le preghiere di tutti prima che siano formulate: noi ti preghiamo e ti supplichiamo, o Sovrano amico degli uomini, Padre del Signore, Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, che per noi uomini e per la nostra salvezza discese dai cieli, s’incarnò per virtù dello Spirito santo da Maria, la sempre Vergine e gloriosa Deipara; egli, insegnando prima con le parole e dimostrandolo poi con le opere, quando si sottopose alla passione salvifica, lasciò un esempio a noi miseri, peccatori e indegni servi suoi, perché offrissimo suppliche, piegando il collo e le ginocchia per i nostri peccati e i peccati d’ignoranza del popolo. Tu dunque, misericordiosissimo e amico degli uomini, ascoltaci nel giorno in cui t’invochiamo, particolarmente in questo giorno di pentecoste, in cui il Signore nostro Gesù Cristo, dopo esser asceso ai cieli ed essersi assiso alla destra di Dio Padre, inviò il santo Spirito sui suoi santi discepoli e apostoli ed egli si posò su ciascuno di loro e li colmò tutti della sua grazia inesauribile ed essi iniziarono a proclamare in altre lingue le meraviglie di Dio e a profetare. Or dunque, noi ti preghiamo, ascoltaci e ricordati di noi miseri e colpevoli e fa’ tornare dalla prigionia le anime nostre, perché intercede per noi la tua stessa compassione. Accoglici, mentre prostrati gridiamo: Abbiamo peccato. Su te siamo stati gettati sin dal grembo, dal seno di nostra madre tu sei il nostro Dio: ma sono venuti meno nella vanità i nostri giorni, siamo stati spogliati del tuo aiuto, siamo privi di ogni scusa. Confidando tuttavia nella tua pietà, gridiamo: Il peccato della nostra giovinezza e le nostre ignoranze non ricordare e purificaci dalle nostre colpe nascoste; non respingerci nel tempo della vecchiaia, al venir meno della nostra forza non abbandonarci; prima di farci tornare alla terra, dacci di convertirci a te e guardaci con benevolenza e grazia. Misura le nostre iniquità col metro della tua pietà; opponi l’abisso della tua multiforme pietà alla moltitudine delle nostre colpe. Guarda, Signore, dall’alto del tuo santuario sul tuo popolo che ti circonda e attende da te la tua copiosa misericordia: visitaci nella tua benevolenza, liberaci dalla tirannia del diavolo, rendi sicura la  nostra vita con le tue sante e sacre leggi. Affida il tuo popolo a un fedele angelo custode; raccoglici tutti nel tuo regno; dona il perdono a quanti in te sperano; condona a loro e a noi i peccati; purificaci con l’energia del tuo santo Spirito; sventa le macchinazioni del nemico contro di noi.
Risultati immagini per icona pentecosteBenedetto sei tu, Signore, Sovrano onnipotente, che hai illuminato il giorno con la luce del sole e rischiarato la notte con i bagliori del fuoco: tu che ci hai concesso di percorrere tutta la giornata e di avvicinarci all’inizio della notte, ascolta la nostra supplica e quella di tutto il tuo popolo e perdona a noi tutti i peccati volontari e involontari; accogli le nostre preghiere vespertine e manda copiosa la tua misericordia e la tua compassione sulla tua eredità Circondaci come di un baluardo dei tuoi santi angeli, armaci con le armi della tua giustizia, tienici nella roccaforte della tua verità, custodiscici con con la tua potenza, liberaci da ogni sventura e da ogni assalto dell’avversario. Concedi che anche questa sera, con la notte che sopraggiunge, sia perfetta, santa, pacifica, senza peccato, senza inciampo, libera da fantasie notturne e così tutti i giorni della nostra vita: per l’intercessione della santa Deipara e di tutti i santi che in tutti i tempi ti sono stati graditi.

Le preghiere sul popolo genuflesso sono in tutto tre, ciascuna diversa, tutte estremamente poetiche e attribuite a San Basilio, tutte precedute dal summenzionato invito del diacono, e intervallate tra loro dal canto di una litania diaconale. Nella seconda si rinnova la richiesta dei doni dello Spirito Santo, mezzi indispensabili per il perfezionamento e il compimento della vita cristiana; la terza esalta lo Spirito fonte di vita, per cui siamo liberati dalle catene dell'Ade, è sconfitto l'antico serpente e noi siamo guidati alla salute eterna.

La Chiesa genuflette tre volte per accogliere lo Spirito Santo, e tutti gli affetti e i sentimenti che vuole esprimere con questo gesto sono ben trasmessi da quest'altro inno del Vespero: Ἐν ταῖς αὐλαῖς Σου ὑμνήσω Σὲ τὸν Σωτήρα τοῦ κόσμου, καὶ κλίνας γόνυ προσκυνήσω Σου τὴν ἀήττητον δύναμιν, ἐν ἑσπέρᾳ καὶ πρωί καὶ μεσημβρίᾳ, καὶ ἐν παντί καιρῷ εὐλογήσω Σὲ, Κύριε (Nelle vostre dimore vi inneggerò, o Salvatore del mondo, e inginocchiandomi adorerò la vostra invincibile potenza, alla sera, al mattino e a mezzogiorno, e in ogni tempo vi benedirò o Signore).

Scarica il testo greco-italiano dell'intero ufficio

mercoledì 16 maggio 2018

Concerto alla Scuola Grande di San Rocco il 18 maggio

Venerdì 18 Maggio ore 16:00

 Chiesa di San Rocco – Venezia 
Venezia 18 maggio 1782 - 18 maggio 2018

Commemorazione di Papa Pio VI 

Nel maggio del 1782 Papa Pio VI (Gian Angelo Braschi, 1717-1799) passò a Venezia di ritorno da Vienna. Dopo una solenne cerimonia di accoglienza ai Santi Giovanni e Paolo e poi in San Marco, il giorno 18 maggio visitò la Scuola Grande di San Rocco, alla quale, sette anni, più tardi conferì il titolo di Arciconfraternita.
Il dicembre scorso, La Scuola Grande di San Rocco ha ricordato il 300° della nascita del Pio VI. Si vuole ora ricordare la sua visita a San Rocco nel giorno in cui fu compiuta.

***

Sarà eseguito il seguente programma:

1. DON FRANCESCO ROSSI (Napoli, 1625 - post 1699), La Caduta de gl’Angeli (1656), Oratorio in parte unica

San Michele Arcangelo                     Salvatore Saracino (sopranista)
Padre Eterno                                      Antonio Sapio (tenore)
Lucifero angelico                              Paola Ronchetti / Sabina Cortese (soprano)
Lucifero caduto                                 Walter Testolin (basso)

Violino I, Violino II, Tiorba, Violoncello, Contrabasso,
Trombone Basso, Organo b.c.

2. ORAZIO BENEVOLI (1605-1672), Credo dalla  Missa «In angustia pestilentiae» a 16 voci (1656)

4 cori, 16 voci
Soprano, Alto, Tenore, Basso


Cappella Musicale Santa Maria in Campitelli
Ensemble la Cantoria
direttore: Vincenzo Di Betta

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Particolarmente interessante risulta l'oratorio che sarà eseguito in apertura del concerto, di cui pubblichiamo una descrizione del medesimo, tratta dall'invito speditoci dall'Ensamble "La Cantoria".

La caduta degli Angeli è un oratorio in parte unica che presenta diversi motivi d’interesse. Si tratta di uno di quei pochi esempi di oratorio in musica intessuto sull’episodio biblico della cacciata degli angeli superbi dal Paradiso e, come tale, fa interloquire alcuni personaggi indiscutibilmente accattivanti, anche per il non addetto ai lavori. Di fronte al Padre Eterno (un’altra rarità), affidato alla voce di tenore, si sviluppa infatti la battaglia, a suon di cori battenti, tra angeli virtuosi, capitanati da S. Michele (un sopranista acuto), e angeli dannati, poi demoni, con in testa un Lucifero che vive sulla propria pelle il cambiamento di status cui lo condanna la sconfitta (da soprano a basso profondo).

Ad un libretto denso di richiami alla teologia scolastica come quello scritto da mons. Salvatore Scaglione (1624-1680), illustre prelato napoletano nonché consigliere del re di Spagna Carlo II d’Asburgo, corrisponde un rivestimento musicale che mischia caratteri del passato ad altri anticipatori di sviluppi futuri: degno di nota è, ad esempio, lo spazio insolitamente ampio riservato alla compagine strumentale (violini e basso continuo), mentre scontata, a questa altezza cronologica (seconda metà del Seicento), appare l’importanza dei passaggi corali, come quelli a 5 e 6 voci che incorniciano l’opera dopo la breve sinfonia, o i già citati scontri tra angeli e demoni.
Rimarchevole è anche l’impiego, più o meno esplicito, di movenze di danza in diversi numeri vocali, come la prima aria del Padre Eterno (una ciaccona) o «Pensieri guerrieri» di Lucifero, in tempo di giga, oltre che in diversi ritornelli strumentali.
Senza dubbio, l’assenza dal libretto della figura del narratore (historicus) ha consegnato al compositore, il barese Francesco Niccolò de’ Rossi (1625ca-post 1699), un più ampio margine di manovra nello sviluppo delle sezioni solistiche, vivificate da procedimenti di pittura sonora molto intensi ed efficaci. La valorizzazione di questo autore, a lungo confuso con altri omonimi sparpagliati nel resto della Penisola, è un’altra delle ragioni che giustificano la riscoperta di questo lavoro. E' noto come all’epoca i conservatori napoletani accogliessero diversi eccellenti allievi pugliesi, e il Nostro non fa di certo eccezione: registrato come allievo presso il Sant’Onofrio a Capuano, ne diviene maestro di cappella già nel 1669, prima di tornare in patria quale maestro di cappella in cattedrale, e quindi a Venezia dal 1686, maestro di coro all’Ospedale dei Mendicanti e compositore di diverse opere andate in scena nei teatri della città.
La circostanza che il manoscritto dell’oratorio giaccia tuttora nella inaccessibile biblioteca dei Girolamini di Napoli costituisce l’ultimo, non secondario, valore aggiunto ad una operazione che ambisce a gettare un ulteriore sguardo critico all’immenso, e in parte ancora inesplorato, patrimonio musicale partenopeo seicentesco.

lunedì 14 maggio 2018

P. Nikolaus Gihr - L'incensazione

Tratto da: Padre Nikolaus Gihr, “Das Heilige Messopfer – Dogmatisch, liturgisch und aszetisch erklärt – Klerikern und Laien gewidmet, 17a -19a edizione, ed. Herder, Freiburg im Breisgau 1922 (imprimatur: Friburgi Brisgoviae, die 24 Decembris 1921)”, cap. XXXV



1. Nella Messa Solenne, subito dopo le preghiere dell’Introito ha luogo l’incensazione dell’altare. Per spiegare questo rito, vogliamo premettere alcune osservazioni generali sull’uso e sul significato dell’incenso.
Per diretta disposizione di Dio, l’incenso fu largamente usato nelle cerimonie liturgiche già nell’Antico Testamento. Sì, allora l’incenso doveva essere offerto solamente al Signore: bruciato solo per Yahve. L’azione dell’incensare era “sacra al Signore”: il Signore stesso aveva prescritto in dettaglio come andava preparato e mescolato l’incenso; dove e quanto spesso lo si doveva accendere (Es. 30,1 e ss.). Nel Santo – diviso tramite il velo dal Luogo Santissimo – c’era l’altare sacrificale dell’incenso sul quale, ogni mattina e al tramonto, si doveva compiere un apposito sacrificio bruciando l’incenso. Anche nel grande sacrificio espiatorio della festa della riconciliazione e nel sacrificio dei pani azzimi veniva aggiunto e bruciato dell’incenso. I Padri della Chiesa insegnano all’unanimità che i Re Magi, giunti dall’Oriente, con l’offerta dell’incenso al Bambino Gesù, “Re dei Giudei”, hanno voluto adorare “Dio” che, pur celato nella bassezza terrena, si era rivelato loro al momento dell’adorazione.
Nel culto cristiano l’incenso fu accolto sin dagli inizi; soprattutto dopo il IV secolo – quando le celebrazioni liturgiche incominciarono a svolgersi con maggiore libertà – l’uso divenne generale. La prima testimonianza certa sull’uso liturgico dell’incenso in Occidente la troviamo presso S. Ambrogio. Infatti, quando questo dottore della Chiesa viene a parlare dell’apparizione angelica a Zaccaria (Luc. 1,5-25), aggiunge: “Possa un angelo assistere anche noi mentre incensiamo gli altari e celebriamo il Santo Sacrificio”. L’attuale prassi liturgica occidentale dell’incensazione si è perfezionata durante il Medioevo. Nelle funzioni liturgiche è consentito solamente l’uso dell’incenso autentico. La migliore qualità proviene dall’Africa e dall’India (Penisola Arabica) dove viene estratta dall’albero dell’incenso (Boswellia). All’incenso si possono aggiungere anche altre sostanze profumate, per es. resina o erbe aromatiche, ma solamente in quantità minima.

2. Il religioso bruciare, nell’atto nobile e prezioso dell’incensazione, è in sé un rito splendido che non solo contribuisce ad esaltare maggiormente le celebrazioni liturgiche, ma anche manifesta simbolicamente i segreti della fede e delle virtù della vita cristiana. Il simbolismo dell’incenso risiede essenzialmente nel fatto che i suoi granelli si sciolgono nel carbone acceso spargendo così un profumo amabile che sale verso l’alto, circonda l’altare e riempie la chiesa. Per questo, dunque, l’incensazione liturgica ha un valore simbolico, ma solo se l’incenso brucia (incensum scil. Thus) perché, se da esso non si diffonde il profumo o la brace è scarsa (prunae ardentes – Pont. Rom.) o non vengono utilizzati carboni accesi, questo valore va perso.
L’incenso profumato che si consuma nel fuoco sembra fatto apposta per indicare e per esprimere solennemente il sentimento interiore del sacrificio e della preghiera grata a Dio. Il profumo è il più fine e nobile, ad esempio quello dell’albero balsamico, della rosa, del ciclamino, è “l’anima nascosta e dormiente della pianta”. L’incenso, quindi, consumandosi nel fuoco espira e spande all’intorno la sua anima [p. 321] in nuvole di fumo che salgono verso il cielo. In ciò esso rende sensibile in primo luogo lo spirito di sacrificio dell’uomo, che sacrifica sé stesso e tutte le sue energie nel fuoco dell’amore, per la gloria di Dio e il servizio a Lui.
Inoltre, il fumo che si sviluppa e s’innalza quando l’incenso brucia sulla brace infuocata simbolizza anche la preghiera: è l’anelito dell’anima verso Dio, è l’elevazione dello spirito e del sentimento al Cielo, è la tensione del cuore ai beni invisibili ed eterni. Quando si lascia cadere i grani d’incenso sui carboni infuocati, ecco che s’innalza un profumo gradevole: se il cuore, quasi carbone ardente, commosso dalle fiamme dell’amore divino, è in fervido raccoglimento, allora la preghiera lascia la terra e sale, come dolce e prezioso profumo, al cospetto del Signore; e viene da Lui accolta con grazia e benevolenza ed esaudita. Perciò il salmista implora: “Possa salire al tuo cospetto, o Signore, la mia preghiera come l’incenso!” (Sal. 140,2). La Sacra Scrittura presenta simbolicamente “le preghiere dei santi” come “profumi amabili in coppe d’oro”, che gli Anziani portano sulle loro mani fino davanti al Trono dell’Agnello di Dio (Ap. 5,8). Adorazione, lodi, azioni di grazie e suppliche penetrano come un incenso fino al Santo dei Santi del Cielo e al Trono dell’Altissimo.
Da questo significato originale dell’incenso ne deriva spontaneo un altro: il sacrificio e la preghiera, simbolizzati dal “fumo di profumi fragranti”; cioè, il sacrificio e la preghiera suscitano la divina compiacenza e misericordia, attirano la Grazia di Dio su di noi, e perciò il profumo dell’incenso simbolizza anche la divina grazia. Mentre l’innalzarsi del profumo manifesta i devoti e insistenti sacrifici e le preghiere; le nubi d’incenso, che si spandono tutt’attorno, suggeriscono l’effetto della preghiera e del sacrificio, che è il profumo della Grazia che scende dal Cielo, o emana da Cristo presente sull’altare. La preghiera si eleva verso l’alto e la misericordia di Dio scende a noi.
Le nuvole profumate dell’incenso sono un monito, anche per i sacerdoti e per i fedeli, a diventare “buon odore di Cristo” (“Christi bonus odor” - 2Cor. 2,15) tramite lo spirito di sacrificio e di preghiera, tramite la grazia e la virtù, tramite una fervente devozione e la santità di vita, così da riempire di allegria il Cielo e la Terra.
È nella stessa natura dell’azione che il bruciare i chicchi d’incenso sia un segno di adorazione, ossia del sacrificio da intendere come l’atto e l’atteggiamento più perfetto dell’adorazione. Si tenga anche presente che, per disposizione della Chiesa, l’incenso non viene usato solo per venerare solennemente Dio, ma anche per dimostrare nei confronti delle cose sacre una religiosa venerazione. Perciò, oltre ai più venerabili oggetti, [p. 322] s’incensano, per esempio, le reliquie e le immagini dei santi, il libro del Vangelo, il sacerdote, il clero e i fedeli.
Nelle celebrazioni solenni l’incenso viene benedetto, cioè diventa un oggetto sacro, o elemento consacrato a Dio. L’incenso benedetto è un sacramentale, e come tale non ha semplicemente un significato elevato e misterioso, ma anche (a suo modo) un effetto soprannaturale.
Questa benedizione, ora, conferisce all’incenso un senso religioso più marcato. Il significato simbolico dell’incenso è già presente nella sua natura, ma, tramite l’uso nelle funzioni religiose esso riceve quasi una consacrazione che viene confermata dalla benedizione della Chiesa. Da questo momento l’incensare simboleggia perfettamente (come la cenere e le palme benedette) il suo significato sacro e misterioso.
In quanto sacramentale l’incenso conferisce una protezione divina. Tramite il segno di croce e la preghiera della Chiesa, l’incenso acquisisce un forte potere che allontana satana dall’anima o lo tiene lontano, agisce contro astuzia e malignità, contro tentazioni e assalti degli spiriti infernali, e dà grande aiuto di cui abbiamo particolarmente bisogno quando stiamo celebrando i Sacri Misteri all’altare. Prima di bruciare l’incenso sull’altare, che così sta per essere consacrato, il vescovo prega Dio che “guardi misericordioso questo incenso, lo benedica e lo consacri affinché il suo profumo allontani tutti i mali e le debolezze; davanti al suo profumo fuggano anche tutte le insidie del Maligno e la creatura (l’uomo), redenta dal prezioso sangue di Cristo, non venga mai ferita dai morsi dello scellerato serpente senza Dio”. Perciò esso è utile anche nella consacrazione di persone e cose. Con le nuvole d’incenso, infatti, si spande anche la forza della benedizione che la Chiesa pronuncia e vuole comunicare: esse attirano tutto ciò che viene incensato entro un’atmosfera sacrale. Dal simbolo dell’incenso e dal suo effetto si può facilmente intuire lo scopo e il significato delle varie incensazioni.

3. L’elevarsi in nubi di gradevole fumo, conferisce all’azione liturgica una maggiore dignità, magnificenza e solennità. Perciò la Chiesa ha onorato molte esecuzioni liturgiche con l’uso dell’incenso; tra queste, la più alta e la più nobile, particolarmente profonda e significativa, è la celebrazione del S. Sacrificio della Messa. Le chiare nubi dell’incenso che si librano verso il cielo avvolgono l’altare e riempiono il santuario con il loro amabile profumo, sono ancora più appropriate per marcare e far risaltare meglio la maestà di un tale Sacrificio, e così rendere più visibile l’altare terreno come simbolo dell’Altare Celeste (Ap. 8,3).
L’incensazione si trova all’inizio della funzione liturgica, cioè tra l’introito ai piedi dell’altare e l’introito vero e proprio, così come anche quando inizia il Sacrificio con l’oblazione. Vengono adornati e glorificati, inoltre, altri due punti salienti: il Vangelo, dove il Signore è presente come Maestro, e la consacrazione, quando Egli è sull’altare come Agnello sacrificato. Le nubi d’incenso sono qui il simbolo dell’apparizione e presenza del Signore nel SS. Sacramento e nella Sua parola. Già nell’Antico Testamento la Gloria del Signore appariva nel Tabernacolo; e nel gran giorno dell’Espiazione il Sommo Sacerdote avvolgeva il Santo dei Santi in una nube d’incenso come segno della Rivelazione di Yaveh in questo venerabile luogo. Una nuvola avvolgeva la Sacra Tenda che Mosè aveva eretto e ordinato, e la Gloria del Signore la riempiva, tanto che Mosè non osava entrarvi. Durante tutta l’attraversata del deserto, questa nuvola miracolosa rimase presso la Sacra Tenda. Durante il giorno appariva scura su di essa e durante la notte infuocata (Es. 40,34-38). Anche nel Santuario stesso permaneva la benevola presenza del Signore, poiché Egli troneggiava sempre in una nuvola sopra l’Arca dell’Alleanza; e ogniqualvolta Mosè voleva interpellarLo, veniva qui per sentire la Sua volontà. “Apparirò sulla nuvola sopra il luogo delle sentenze” (Lev. 16,2).

4. Si può considerare la prima incensazione nel rito della Messa come la solenne conclusione della preghiera dell’introito ai piedi dell’altare: il rito è semplice e viene eseguito senza essere accompagnato da preghiere. Il celebrante mette tre volte dell’incenso sui carboni incandescenti, mentre dice: “Ab illo benedicaris – in cujus honore – cremaberis. Amen” (“Sii benedetto da Colui in onore del quale verrai bruciato. Amen”). Dopo queste parole egli fa il segno di croce sui chicchi d’incenso che bruciano. Questa formula della benedizione dice quale sia il primo scopo dell’incenso: la glorificazione del Nome divino. L’incenso non viene usato nella liturgia per gratificare, col suo amabile profumo, l’odorato dei fedeli, ma piuttosto per infondere un profondo timore reverenziale verso Misteri così grandi.
Per primo si venera dovutamente, tramite l’incenso, la croce dell’altare, ossia il SS. Sacramento. Se il Santissimo Sacramento non è esposto, allora s’incensano le reliquie 4 dell’altare o le immagini dei santi. Questa incensazione è, in primo luogo, segno di venerazione verso i Beati del Cielo che come il cinnamomo e il balsamo danno un odore dolce e come la preziosa mirra offrono un fragrante profumo (Sir. 24,20); con l’ossequio di cui è segno, inoltre, essa deve muovere i santi affinché, con la loro potente intercessione davanti al trono di Dio, ci ottengano misericordia e accondiscendenza alle nostre suppliche. In questo momento il sacerdote, sostenuto dall’intercessione dei santi, ha pregato Dio per una perfetta purificazione del cuore: le nuvole d’incenso profumato che avvolgono l’altare sono simbolo di quelle preghiere e dei meriti dei santi; ed esprimono in questa forma simbolica le preghiere appena recitate, cioè la richiesta d’intercessione dei santi.
L’altare, dotato delle reliquie dei santi, consacrato solennemente dal vescovo, è il luogo del Sacrificio da contemplare con religioso e venerabile fremito: è il nostro Santo dei Santi. Tramite l’incensazione si vuole rendere presente alla memoria l’alta sacralità dell’altare. Le nubi d’incenso benedette, poi, non sono una semplice esortazione, ma esse mediano, anche, il necessario aiuto dall’Alto per entrare con retta intenzione nel Santo dei Santi e stare all’altare con cuore devoto a celebrare il Santissimo Sacrificio. Allo stesso tempo, le nuvole profumate indicano che il Sacrificio eucaristico è un “odore amabile” che sale verso il Cielo ed è, per noi, la fonte di tutti i profumi spirituali della Grazia. Infine, lo stesso sacerdote celebrante – e lui solo –, come rappresentante visibile dell’invisibile Sommo Sacerdote Gesù Cristo, riceve tre volte l’incenso, in segno di venerazione dovuta al suo nobile ufficio.
L’incensazione all’inizio della messa si applica soprattutto all’altare. Esso, tramite la misteriosa e celeste atmosfera che suscitano le nubi d’incenso, viene caratterizzato come il luogo eccelso del Sacrificio e dell’adorazione. La nostra cerimonia, così solenne, così significativa e tanto edificante, deve indurre tutti i presenti a una sacrale disposizione d’animo e, contemporaneamente, richiamarli al pensiero che – come l’incenso si consuma nella brace incandescente – così anche essi possono offrire la propria vita nel fuoco e nelle fiamme dell’amore, come prezioso olocausto a gloria e servizio di Dio.

domenica 13 maggio 2018

AVVISO SACRO: 16 giugno - Pellegrinaggio alla Basilica della Salute


Si informa che la direzione di Traditio Marciana, in collaborazione con il Coordinamento Nazionale Summorum Pontificum, ha organizzato per il prossimo sabato 16 giugno un

PELLEGRINAGGIO
alla Basilica di S. Maria della Salute in Venezia

Alle ore 10 inizieranno le solenni funzioni con il canto delle Litanie della Beata Vergine Maria secondo l'uso veneziano.
A seguire, mons. Marco Agostini canterà all'altar maggiore una S. Messa solenne votiva della Presentazione della BVM.
Al termine, la reliquia dell'ulna di S. Antonio di Padova, custodita nella Basilica, sarà offerta al bacio dei cristiani presenti.

Dopo la S. Messa è stato organizzato un pranzo in un ristorante nei pressi della Basilica. E' necessaria la prenotazione (posti limitati): per adesioni scrivere a traditiomarciana@gmail.com o contattare il 348 803 5141 (Alessandra).


L'icona della Mesopanditissa venerata alla Basilica della Salute

Ad majorem Dei gloriam!

Celebrate le nozze solenni a Colloredo (UD)

Sabato 12 maggio, nella chiesa parrocchiale dei Santi Apostoli Andrea e Mattia di Colloredo, piccolo borgo sui colli udinesi, si è solennemente celebrato, secondo il rito tradizionale, il matrimonio di Giovanni Luca Luigi Gortan Cappellari e Sara Mazzuccato.

La funzione si è svolta con solennità e precisione grazie alla collaborazione di clero e ministranti di ben quattro diocesi del Triveneto (Udine, Trieste, Gorizia e Venezia). Durante la celebrazione, la Schola Aquilejensis ha eseguito i brani dell'ordinario secondo alcune antiche melodie aquilejesi riportate nei codici del Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli (come si evince dal programma QUI riportato).







sabato 12 maggio 2018

La novena di Pentecoste

Affine di voler aumentare le pubbliche suppliche allo Spirito Santo, particolarmente utili per la Chiesa e per il popolo cristiano nelle difficoltà in cui versa, Papa Leone XIII, coll'Enciclica Divinum illud munus, datata 9 maggio 1897, stabilì che: "in tutto il mondo cattolico quest’anno e sempre in avvenire si premetta alla Pentecoste la novena in tutte le chiese parrocchiali e anche in altri templi e oratori, a giudizio degli ordinari". Vista l'importanza della suddetta festa, conosciuta come la Pasqua d'estate e un tempo circondata da attenzioni liturgiche e devozionali pressoché paragonabili a quelle della Risurrezione, nulla di strano che in tutte le parrocchie fu stabilita l'obbligazione al compiere una pia pratica allo Spirito Santo, invocandone la discesa sui cristiani alla guisa dell'antica Pentecoste, in quella che meritatamente fu definita "la prima novena dell'anno".


Essendovi dunque l'obbligo di compiere questa devozione alla terza ipostasi della Santissima Trinità, vediamo cosa stabilì a riguardo d'essa la Sacra Congregazione dei Riti, seguendo quanto ci riporta uno dei più autorevoli manualisti di liturgia, Giuseppe Baldeschi (Esposizione delle cerimonie, capo XVI, articolo I):

1. La Novena di Pentecoste deve cominciarsi il venerdì fra l'ottava dell'Ascensione, cosicché termini alla vigilia di Pentecoste (SRC, Decr. 4271, VI)
2. L'ufficio si compie ordinariamente coi paramenti bianchi; ma se si facesse subito dopo i vesperi solenni, allora il colore dei paramenti sarà quello del giorno, ma il velo omerale dovrà sempre essere bianco (SRC, Decr. 2562)
3. L'ufficio si ordina nel seguente modo: esposto il Santissimo Sagramento, dopo una breve adorazione, durante la quale possono recitarsi preghiere al Santo Spirito, pure in lingua volgare, purché approvate dalla competente autorità ecclesiastica, si canta l'inno Veni Creator, la prima strofa in ginocchio e le altre tutti in piedi, dicendo al termine la dossologia pasquale (Deo Patri sit gloria, et Filio qui a mortuis surrexit... e non, come si potrebbe ragionevolmente supporre, quella dell'Ascensione), seguito dal versetto Emitte Spiritum tuum et creabuntur colla sua risposta, senza però aggiungervi alleluja infine (nonostante siamo nel tempo pasquale) e detto in ginocchio, e si termina coll'orazione Deus qui corda fidelium con la conclusione breve, detta dal sacerdote in piedi mentre gli altri stanno in ginocchio. (SRC, Decr. 3157, VIII; 1583, VII; 4224; 4036; 3764, XVIII; 3134).


Foglietto colle preghiere della novena di Pentecoste scaricabile

giovedì 10 maggio 2018

In Ascensione Domini Nostri Jesu Christi

L'Ascensione nei mosaici del Duomo di Monreale (XII secolo)
Si celebra oggi, esattamente 40 giorni dopo la Pasqua di Nostro Signore, la gloriosa festa della sua Ascensione (in greco Ἀνάληψις), con la quale egli chiude il periodo di tempo trascorso sulla Terra in compagnia dei discepoli, e si ricongiunge completamente al Padre suo celeste, completando l’opera della nostra Redenzione (per questo motivo i Greci chiamano talvolta ἐπισῳζομένη, “salvezza”, tale festa). Gesù Cristo, ascendendo al cielo e venendo accolto dalle schiere angeliche e dal coro dei patriarchi che ha liberato dal limbo poche settimane prima, raggiungendo i beati, cui spetta la felice contemplazione fisica di Nostro Signore, non abbandona tuttavia i suoi se non fisicamente, restando sempre però spiritualmente vicino alla sua Chiesa, come aveva detto “ove due o tre son radunati nel nome mio, io sarò con loro”. Allo stesso modo, oggi celebriamo con una nota di melanconia la dipartita al cielo di Nostro Signore, ma continuiamo a cantare Alleluia, perché sapendo che Egli è risorto e ci ha provata la comune risurrezione non possiamo che esser lieti ed inneggiarlo, contemplandolo spiritualmente nella Santa Liturgia.

L’Ascensione iniziò a esser celebrata molto presto, probabilmente già a partire dal III secolo, poiché Agostino ce ne parla come di una tradizione ben consolidata nella Chiesa, presumendone . Inizialmente, però, doveva esser celebrata il cinquantesimo giorno, unitamente alla Pentecoste, solennità introdotta non troppo tempo prima, perché la pellegrina Egeria nel suo Itinerarium racconta sì d’aver assistito a una solenne celebrazione il quarantesimo giorno dopo Pasqua, ma dal luogo che ci fornisce, ossia la Grotta di Betlemme, siamo più propensi a pensare si trattasse della Dedicazione della Basilica della Natività, o la festa dei SS. Innocenti, celebrati a metà maggio in territorio gerosolimitano; ella, peraltro, ci racconta che invece il giorno di Pentecoste si tengono tre uffici, tra cui uno sul Monte degli Ulivi, durante il quale si legge il brano evangelico dell’Ascensione. Questa teoria è confermata anzitutto da degli scritti di S. Eusebio, nel quale egli considera l’Ascensione come il termine del periodo pasquale, precisando che quest’ultimo dura esattamente sette settimane. Durante il Concilio di Elvira (primi anni del IV secolo) fu per l’appunto discusso in quale giorno si dovesse celebrare l’Ascensione: la logica conclusione fu che non andasse celebrata né il dì di Pasqua né quello di Pentecoste, ma, siccome è scritto negli Atti, il quarantesimo giorno dopo la Risurrezione. Il primo libro liturgico pervenutoci che tratta la festa in tale data è il Lezionario Armeno del 417.

Edicola ottagonale sopravvissuta dell'antica
Basilica dell'Ascensione
All’ultimo decennio del IV secolo invece risale la Basilica dell’Ascensione (il nome originario è Ἐλεόνα βασιλικὴ), costruita in quel dipresso per volere della pia donna Poimenia (anche se, stando a S. Eusebio, alcuni la fanno risalire addirittura al 333 per desiderio di S. Elena e ordine di Costantino il Grande), la quale andò distrutta durante l’invasione dei Persiani di Cosroe II nel VII secolo, fu ricostruita in quello seguente, nuovamente distrutta e ricostruita dai Crociati, e infine distrutta definitivamente dai maomettani, sopravvivendone solo l’edicola ottagonale. Nel luogo, nonostante fosse stata poi edificata una moschea, i Cristiani continuano a venerare l’orma del piede destro di Gesù ivi impressa; esiste poi un monastero ortodosso sul Monte degli Ulivi.

Tra i riti antichi della chiesa gerosolimitana vi era, a mezzogiorno, la processione solenne diretta al Monte degli Ulivi (proseguita sino al Medioevo e diffusasi, con l’ovvia perdita del realismo del luogo, in alcune tradizioni occidentali), esattamente come avevano fatto Cristo e i discepoli. Si teneva anche una benedizione delle vivande, in particolare del pane e della frutta di stagione, a simboleggiare l’ultimo pasto fatto dal Salvatore nel cenacolo coi discepoli.

Anticamente, anche a Roma si teneva una processione sul modello di quella di Gerusalemme: il Papa, celebrati gli Uffici Notturni e la Messa a S. Pietro, procedeva verso l’ora sesta in processione con i Cardinali fino alla Basilica del Laterano.

Dal rito gerosolimitano derivano i testi sia della Messa Romana che la Divina Liturgia bizantina di questo giorno, che condividono dunque diversi passi. Vedremo quelli della Messa Romana a titolo esemplificativo.

La Messa di oggi presenta dei testi veramente notevoli, uno tra tutti l’Antifona dell’Introito, sopra riportata, la quale possiede, a detta dello Schuster, una delle melodie più belle di tutto il repertorio gregoriano. Essa è anche la prima antifona dell’Ufficio Divino, nonché la lettura alla Benedizione finale dell’Ora Prima, che continueranno a leggersi fino al termine dell’Ottava dell’Ascensione (rimontante all’VIII secolo). In tale Antifona, tratta dagli Atti degli Apostoli, oltre ad ammirare il mistero dell’Ascensione, ci viene ricordata anche la sua Seconda Venuta, la quale i Cristiani attendono bramosi.

La lezione è tratta dagli Atti di S. Luca, ed è la narrazione dell’episodio dell’Ascensione, così come lo sarà anche il Vangelo (che è quello di S. Marco), per la quale si vedano i capi precedenti.
Il versetto del Piccolo Alleluia è dal salmo LXVI, Ascendit Deus in jubilatione et Dominus in voce tubae, il quale è stato visto come profezia dell’Ascensione stessa, e come tale è presente anche all’Antifona dell’Offertorio e come versicolo anche ai Vespri di tutta l’ottava.

Dopo il Vangelo, un accolito si reca all’ambone per compiere il rito dello spengimento del cero pasquale (sarà acceso nuovamente solo la Vigilia di Pentecoste, per compiervi i riti della veglia), giacché esso simboleggia la presenza fisica di Nostro Signore Domineiddio su questa terra che si ha nel tempo Pasquale: oggi però egli fisicamente ci lascia e sale al Cielo, così come il fumo del suo lume spento ascende verso l’alto.

Oggi persino il Canone subisce delle piccole modificazioni per meglio esprimere il grande mistero celebrato, come ha fatto a Natale e a Pasqua: dopo il Prefazio, che già Papa Vigilio nel VI secolo cita scrivendo a Profuturo di Braga, in cui si ricorda come Gesù maniféstus appáruit et [...] est elevátus in coelum, ut nos divinitátis suæ tribúeret esse partícipes, il giorno gloriosoquo Dóminus noster, unigénitus Fílius tuus, unítam sibi fragilitátis nostræ substántiam in glóriæ tuæ déxtera collocávit è ricordato con speciale menzione prima dell’anamnesi dei Santi (Communicantes).

L'antifona per la Comunione deriva dal salmo LXVII : Psállite Dómino, qui ascéndit super coelos coelórum ad Oriéntem. Il più alto dei cieli qui significa il trono stesso della divinità, che oggi l’ umanità santa di Gesù va ad occupare. Egli si eleva dalla parte d'Oriente, perché tutte le opere di Dio sono splendide, luminose. [...] Il Cristo muore su d'una collina alla presenza di tutto un popolo nel gran giorno della Parasceve gerosolimitana; Gesù risorge e si fa vedere, palpare, non solo dagli Apostoli, ma dalle pie donne, e persino da cinquecento persone adunate insieme. Oggi egli sale al cielo, ma su d'una collina,alla presenza d’almeno undici persone.” (I. Schuster)

Particolare è il rito che osservano le Carmelitane riformate di S. Teresa: giacché tradizione vuole che l’Ascensione sia avvenuta a mezzodì, esse ne fanno particolare memoria, sostando in lunga contemplazione quando sono riunite in coro per l’Ora Sesta, quasi ammirassero realmente il Salvatore ascendere al Cielo anzi ai loro occhi.

Dalle letture patristiche del Mattutino traiamo infine questo bel commento di San Leone Papa sulla festività odierna:


I SERMONE SOPRA L'ASCENSIONE DEL SIGNORE
di San Leone I Magno, Papa di Roma

Quest'oggi, o dilettissimi, si compie il numero di quaranta giorni sacri trascorsi dopo la beata e gloriosa risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, colla quale, nello spazio di tre giorni, la potenza divina rialzò il vero tempio di Dio che l'empietà dei Giudei aveva distrutto, numero preordinato dalla santissima disposizione della provvidenza a nostra utilità e istruzione: perché il Signore prolungando in questo spazio di tempo la sua presenza corporale quaggiù, la nostra fede nella risurrezione vi trovasse le prove e la conferma necessarie. Perché la morte di Cristo aveva turbato assai i cuori dei discepoli: e lo stordimento della diffidenza era penetrato nei loro spiriti resi pesanti dall' angoscia causata dal suo supplizio sulla croce, dal suo ultimo sospiro, dalla sepoltura del suo corpo esanime. Perciò i beatissimi Apostoli e tutti i discepoli, ch'erano sgomenti per la morte (di Gesù) sulla croce ed avevano esitato sulla fede nella sua risurrezione, furono talmente confermati dall'evidenza della verità, che, lungi dall'essere rattristati al vedere il Signore ascendere nelle altezze dei cieli, furono al contrario ripieni di grande gioia. E certo, c'era là una grande ed ineffabile causa di gioia, allorquando in presenza di questa santa moltitudine, una natura umana s'innalzava al di sopra della dignità di tutte le creature celesti, per sorpassare gli ordini Angelici, per essere elevata più alto degli Arcangeli, e non arrestarsi nelle sue elevazioni sublimi che allorquando, ricevuta nella dimora dell'eterno Padre, ella sarebbe associata al trono e alla gloria di colui alla natura del quale si trovava già unita nel Figlio. Poiché l'ascensione di Cristo è la nostra elevazione; e il corpo ha la speranza d'essere un giorno dove l'ha preceduto il suo glorioso capo: esultiamo dunque, dilettissimi, con degni sentimenti di gioia, e rallegriamoci con pia azione di grazie. Perché noi quest'oggi non solo siamo stati confermati possessori del paradiso, ma nella persona di Cristo abbiamo penetrato ancora nel più alto dei cieli: e per ineffabile grazia di Cristo, abbiamo ottenuto di più di quanto avevamo perduto per invidia del diavolo. Infatti quelli che il velenoso nemico aveva bandito dalla felicità della prima dimora, il Figlio di Dio se li è incorporati e li ha collocati alla destra del Padre: col quale, essendo Dio, vive e regna insieme collo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Così sia.