Ricorre oggi una festa molto amata dal mondo cattolico "tradizionalista", non solo perché coincidente con un noto pellegrinaggio romano quest'anno (fortunatamente) annullato, bensì perché massima espressione della "dottrina sociale della Chiesa" molto in voga nel cattolicesimo del XX secolo: la festa di Cristo Re.
Non sorprende poi molto che i "tradizionalisti" insistano nel difendere una festa assolutamente recente, stabilita solo nel 1925 con l'enciclica Quas primas di Pio XI e del tutto priva di precedenti storici; né che essi se la prendano con la leggera traslazione di significato che questa festa ha avuto nella riforma di Paolo VI (spesso esemplificata nella cattiva traduzione italiana "Re dell'universo" per Rex universorum, a voler sottrarre il valore sociale da loro tanto amato). Purtroppo, un'analisi rigorosa della festa e dei suoi testi troverà ben pochi argomenti in difesa della stessa.
Partiamo dal fatto che l'identificazione di Cristo con un Re è assai presente nella Sacra Scrittura, dai salmi (pss. 92-98) al Vangelo, fino alla Lettera agli Ebrei. Tuttavia, Cristo stesso insiste ripetutamente nello spiegare che il suo regno non è di questo mondo: il Regno dei Cieli, il Regno di Dio, è una realtà totalmente altra rispetto a questo mondo, che il Cristiano deve far suo già in questo mondo ricercando la grazia, ma che resta comunque disgiunto e contrapposto alla dimensione terrena. Ciò non significa ovviamente che il Cristiano non debba curarsi del fatto che questo mondo segua, per quanto possibile, le leggi di Dio, ma nella consapevolezza che il mondo cui apparteniamo è un altro. Un punto fondamentale della contrapposizione tra giudaismo e cristianesimo nell'età apostolica fu l'interpretazione del Messia, dai primi come un re del mondo terreno, dai secondi come il Re celeste della pace. Certamente l'onnipotenza di Dio comporta il suo essere sovrano di tutte le cose, anche di questo mondo, ma sempre in una prospettiva ultramondana che è fondamentale nel Cristianesimo. L'icona tradizionale (sopra) di Cristo Βασιλεὺς Βασιλέων καὶ Μέγας Ἀρχιερεύς (Re dei Re e Sommo Sacerdote) rappresenta il Salvatore nelle vesti liturgiche, di un'azione mistica che punta a distaccare dal mondo e proiettare nel Regno Celeste (e si appone peraltro sul trono del vescovo), per significare che la Sua regalità, pur estendendosi su questo mondo, è altra rispetto a questo mondo.
In secondo luogo, la Tradizione esalta la regalità di Cristo, anche nella sua dimensione di Signore d'ogni cosa, in ben tre feste: l'Epifania, la Crocifissione e l'Ingresso trionfale in Gerusalemme. In quest'ultima occasione, il prefazio di benedizione delle palme della tradizione romana (soppresso nel 1955) esprime molto chiaramente come tutte le potenze della terra siano soggette all'imperio sovraceleste di Cristo. Dunque, come già qualcuno rimarcò all'epoca di Pio XI, la Tradizione ha già i mezzi di onorare la regalità autentica di Cristo, senza bisogno dell'introduzione di una nuova celebrazione. Le feste predette, soprattutto, esprimono la regalità di Cristo nel contesto di un avvenimento storico, mentre la nuova festa di Cristo Re lo fa in modo astratto, come festa d'idea, che come abbiamo già spiegato conviene poco al culto cristiano (cfr. qui).
In terzo luogo, la festa è, sin dalle sue origini più remote, ovvero da quando nel 1899 quarantanove vescovi, sollevati da p. Sanna Solaro SJ, scrissero a Papa Leone XIII per l'istituzione di una festa di tal schiatta, legata al culto del Sacro Cuore e alla consacrazione del genere umano al Cuore di Cristo. La polisemanticità del culto al Sacro Cuore, introdottosi pericolosamente da devozione popolare nella liturgia, alternativamente come una devozione eucaristica o una devozione doloristica della Passione, e successivamente conformatosi allo spirito popolare di culto sentimentalista e psicologista, assume qui una nuova forma che solleva non pochi dubbi. In tutta la messa e l'ufficio ricorrono numerosi i rimandi al Sacro Cuore, culto sconosciuto agli Apostoli, ai Padri e ai santi di quindici secoli, ed eppure divenuto in quei decenni il nuovo insostituibile centro della latria cattolica.
Dopo aver commentato l'idea della festa, veniamo alla festa in sé, a partire dai suoi testi e dalla sua collocazione. Si ordina di celebrarla in una domenica, appena 12 anni dopo una riforma che aveva combattuto per eliminare dalle domeniche quante più feste possibile. Nel 1955, per effetto delle nuove rubriche, la festa addirittura giunge a sopprimere interamente la domenica, annullandone la commemorazione e l'Ultimo Vangelo che prima, almeno, si conservavano. L'ufficio della V domenica di ottobre inizia nel 1925 il suo cammino verso la scomparsa. Le correlazioni cercate ex post con le letture del II Libro dei Maccabei che occorrerebbero questa domenica, oppure con la successiva festa d'Ognissanti, non paiono sempre convincenti.
Ai Vespri il capitolo, un passo della lettera ai Colossesi in cui san Paolo ricorda come la Risurrezione di Cristo ci abbia trasportati dal regno di questo mondo a quello sovraceleste e spirituale del Figlio, stride decisamente con l'inno di modernissima composizione che esalta Cristo come un imperatore del secolo. L'obiettivo dichiarato di Pio XI è combattere il secolarismo che nei primi decenni del Novecento aveva imperversato, ad esempio, in Spagna, Portogallo e Messico, portando agli eccessi una tendenza anticlericale già in voga da un secolo e mezzo in tutta Europa. Yves Chiron (Pio XI. Il papa dei Patti Lateranensi e dell'opposizione ai totalitarismi, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006) sostiene che Pio XI nell'introdurre questa festa fosse pure animato dal desiderio di contrapporsi ai totalitarismi: il che mi pare leggermente implausibile, dacché sia il totalitarismo sovietico (in piena guerra civile tra Stalin e Trotskij) che quello mussoliniano (la proclamazione delle leggi fascistissime sarebbe iniziata pochi giorni dopo l'enciclica) erano appena agli albori, e il resto d'Europa era lungi dal conoscerli. Sicuramente l'idea totalitarista era molto in voga nelle teorie filosofiche e politiche dell'epoca, ma è da dubitare che la Chiesa ne avesse compreso allora la pericolosità per sé. D'altro canto, anche ammettendo che al totalitarismo volesse opporsi, il compositore dell'ufficio da esso stesso era influenzato, poiché l'inno dei Vespri, piuttosto che riproporre un modello di monarchia d'ancient regime o il più tradizionale impero cristiano, presenta Cristo come il capo di uno stato totalitario, che deve sottomettere i ribelli, arbitrare sulle menti e sui cuori, essere riverito da maestri e giudici e cantato da leggi e arti. Non manca un accenno ambiguo al concetto di patria, che per il Cristiano dovrebbe essere quella sovraceleste o - al più - l'Imperium christianum universale, e non lo stato-nazione ottocentesco come la lettera del testo sembra suggerire.
Sullo stesso tenore prosegue l'inno del Mattutino: Cristo jure cunctis imperat, e la felicità dei cittadini (altro termine ambiguo, che appare avere un senso ben diverso dal suo impiego in civium supernorum che si avrà alla terza benedizione del terzo notturno) è essere sottomessi alle sue leggi. Non sono i concetti a essere ripudiandi, quanto piuttosto il modo in cui sono espressi, che tradiscono una concezione decisamente secolare della monarchia di Cristo. Nel secondo notturno la consueta autoreferenzialità dei Papi di Otto-Novecento c'invita a leggere, anziché gli ammonimenti di un Padre della Chiesa, l'enciclica di Pio XI. L'inno delle Lodi sembra aggiustare il tiro rispetto ai suoi omologhi, e ricorda che nel regno di Cristo non sono la violenza e l'armi a trionfare, ma l'amore e la pace segnate dalla croce; tuttavia, non può mancare un accenno alla visione sociale della "buona famiglia" cattolica dove la gioventù è pudica e fioriscono le virtù domestiche. Cose molto belle, ma forse non proprio adatte a un inno che si canta in coro (pardon, vista l'epoca dovrei dire "che un prete legge distrattamente da un breviario") e che non ha lo scopo precipuo di essere un catechismo sociale.
Se la colletta e la segreta si mantengono abbastanza equilibrate, uno spirito di ardore crociato si ravviva nel Postcommunio. Nel Vangelo (Giovanni 18,33-37), Nostro Signore ricorda a Pilato che il suo regno non è di quaggiù: è da supporre che questa frase nella predica immediatamente seguente venisse non di rado ignorata, se non ribaltata. Il Prefazio, con un latino ampolloso e nient'affatto scorrevole, adopera verbose costruzioni per ricordare l'unzione regale del Messia e l'instaurazione del suo Regno eterno e universale. Prendere il prefazio delle Palme e trasporlo avrebbe - oltreché evitato la moltiplicazione dei prefazi che nel Novecento si era iniziata in modo contrario alla millenaria economia del rito romano - fatto la gioia di ogni latinista, non costretto a sentire lo stridente contrasto tra un mal riuscito stile classicheggiante di moda all'epoca e la contemporanea violazione delle norme grammaticali del latino ciceroniano.
E mentre il mondo cattolico "tradizionalista" si prepara a difendere come ogni anno la sua festa degli anni '20, noialtri, affermando, come ogni domenica, nel verso di prostrazione delle Laudi (che poi è il prochimeno del Vespro del sabato sera nel rito bizantino) che "il Signore regna, si è rivestito di splendore", e chiedendogli come il Buon Ladrone che si ricordi di noi nel suo Regno sovraceleste ed eterno, ci prepariamo a celebrare il settimanale memoriale della Risurrezione riassumendo per la prima volta dal 27 settembre i paramenti verdi, e commemorando i santi martiri Crisanto e Daria, e i santi martiri Crispino e Crispiniano, resi arcinoti dalla battaglia di Azincourt.