lunedì 30 agosto 2021

L'Investigatore confutato - Nota su Lc 1,49

 Fortuitamente nella nostra Ottava dell'Assunzione, il buon Marco Tosatti ha ospitato sul suo blog (qui) l'intervento di un anonimo personaggio che si fa chiamare "Investigatore biblico", e che sostiene di aver individuato un errore nella traduzione CEI del 2008 di Lc 1,49, che poi è il terzo versetto del Magnificat.

Lascio ai lettori di leggere il suo breve scritto, e riassumo solo brevemente l'errore, che egli individua confrontando con la traduzione CEI del 1974:

CEI 1974: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” (Lc 1,49);
CEI 2008: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49).

L'argomentazione consiste nell'analisi del testo greco e del testo latino, ma è un'argomentazione alquanto difettosa. Il testo greco infatti dice: ὅτι ἐποίησέν μοι μεγάλα ὁ δυνατός; quello latino letteralmente traduce: Quia fecit mihi magna qui potens est.

Ora, il Nostro, citando come "autorevoli" fonti a suo sostegno uno specchietto di mezza pagina sui pronomi personali greci (che non lo sostiene nella sua tesi, in realtà) e un traduttore automatico online dal latino (ben messi siamo!), sostiene che sia palese che la traduzione corretta sia "in me", e "per me" sia una distorsione che mira a una diminutio dell'opera dello Spirito Santo in Maria. E il Nostro analizza:

oti: che [impreciso: "poiché", non essendo nel contesto di una dichiarativa; identidem il quia latino; farei notare, e il Nostro non lo fa, che nessuna delle due traduzioni italiane riporta la preposizione causale]
epoiesen: fatto [errore: "fece", o tutt'al più "ha fatto"; "fatto" sarebbe πεποιημένον]
moi: me [errore: "a me", o "mi" in posizione atona, essendo dativo; "me" (che in italiano è c. ogg, quindi acc.) è με]
megala: grande [errore: grandi! Neutro plurale accusativo!]
o dunatos: l’Onnipotente [errore: "colui che è potente", "il potente"; e infatti la traduzione latina dice qui potens est; "onnipotente" equivale a παντοκράτωρ / omnipotens, ma né la CEI del '74 né quella del 2008 né il Nostro paiono avvedersene]

Cinque errori su cinque parole sono un record interessante; ma non pago, il Nostro prosegue:

Il pronome “moi” nel versetto in esame non può essere assolutamente tradotto con “per me”.
Il contesto stesso ci porta all’esatta traduzione: “in me”.

Purtroppo per il Nostro, μοι (così come mihi) è un dativo di vantaggio, costruzione comunissima nel greco, e perciò la traduzione corretta è proprio "per me". "In me" è una supposizione intepretativa che non ha ragioni linguistiche: bisognerebbe che il testo avesse ἐποίησεν ἐν ἐμοὶ, oppure in una versione più raffinata con preverbio (che però sarebbe stilisticamente improbabile trovare nel testo greco "volgare" dei sinottici) ἐνεποίησέν μοι. San Luca intendeva altro? Possibile, ma il testo tradito è questo, e può essere letto solo così, non seguendo le nostre ubbie teologico-interpretative (la teologia si ricava dall'esperienza, non si adatta l'esperienza [cioè la Liturgia e la Scrittura] alla teologia speculativa!).

Perciò la versione CEI 2008 su questo corregge un errore dell'imprecisa CEI 1974; entrambe però sono imprecise su altri due punti della traduzione di questo solo versetto, oltre che in tutto il resto della Scrittura. Questo è un errore tipico delle traduzioni interpretative (le antiche traduzioni a scopo sacro e liturgico, come quella latina di S. Girolamo o quella slavonica dei Ss. Cirillo e Metodio, traducono parola per parola, e addirittura cercano di imitare le parole composte tipicamente greche), che sono per questo sommamente inadatte all'uso sacro, poiché la mente dei fedeli si lega alla traduzione, e percepisce come sbagliato il suo aggiornamento, anche quando questo corregge un errore della precedente (vedasi il caso della "rugiada dello Spirito"); perciò, invitiamo il Nostro e tutti i lettori a non affidarsi ai traduttori-traditori della CEI, ma a preferire le versioni antiche nelle lingue liturgiche dei testi sacri.

Infine, ci preme segnalare un errore tipico del mondo conservatore e "tradizionalista", che abbiamo ben visto in questo caso: persone che non sanno e non studiano, e nondimeno insegnano, con grande danno per tutti.

venerdì 6 agosto 2021

San Gregorio Magno e il Papato moderno - parte II

Proseguiamo la rassegna di testi con cui san Gregorio il Grande esprime la dottrina tradizionale e patristica sul papato, a confronto con quella ultramontana oggi diffusa nella chiesa Cattolica. Varie lettere di san Gregorio sull'argomento originano dalla disputa sul titolo di ecumenico, cioè universale che il patriarca di Costantinopoli si era attribuito in quanto vescovo della sede imperiale. Tra le numerose lettere agli altri Patriarchi ch'egli dedica alla questione, riportiamo - col prezioso commento ottocentesco dell'Archim. Wladimir Guettée, apologeta della dottrina patristica contro l'ultramontanismo del Vaticano I - una indirizzata direttamente al vescovo di Costantinopoli Giovanni. Utile non solo contro il papismo ultramontano, ma pure contro il papismo costantinopolitano dei giorni nostri.

LETTERA DI S. GREGORIO AL PATRIARCA GIOVANNI DI COSTANTINOPOLI
(V, 18)

Gregorio a Giovanni, vescovo di Costantinopoli.

Dal momento in cui la Vostra Fraternità è stata elevata alla dignità sacerdotale, ella si ricorda quanta pace e concordia tra le Chiese si sia avuta. Ma, ignoro per quale azzardo o per quale superbia, ella ha cercato di impossessarsi di un nuovo titolo, onde potesse causarsi scandalo nei cuori di tutti i fratelli. E della qual cosa assai mi stupisco, poiché ricordo che non volevi giungere all'episcopato, ma volevi fuggirlo. Eppure, una volta ottenutolo, lo vuoi esercitarlo così come se lo avessi ricercato con ambizioso desiderio. Tu infatti che ti dicevi essere indegno d'esser chiamato vescovo, sei arrivato ora, disprezzando i tuoi fratelli, al punto di voler aver tu solo il titolo di vescovo. E su questo argomento furono trasmessi alla vostra santità dei gravi scritti del mio predecessore Pelagio di santa memoria, nei quali rifiutò, per il titolo nefando di superbia, gli atti del sinodo che presso di voi era stato riunito in favore della causa del nostro allora fratello e co-episcopo Gregorio, e proibì di celebrare messa insieme a voi all'arcidiacono, che secondo consuetudine aveva mandato alla corte imperiale. Dopo la sua [di Pelagio] morte, invero, essendo stato condotto io indegno al governo della Chiesa [Per S. Gregorio Magno ogni vescovo prende parte al governo della Chiesa, risedendo l'autorità nell'episcopato (W. Guettée), ndt], e prima per mezzo dei miei inviati, e ora per il nostro comune figlio il diacono Sabiniano, ho avuto cura di rivolgermi alla vostra fraternità non già per iscritto, ma di persona, affinché rinunciasse a tale presunzione. E qualora rifiutaste di correggervi, gli ho proibito di celebrar messa insieme alla vostra fraternità, per instillare alla vostra santità un qualche timore della vergogna, prima che, qualora il nefando e profano orgoglio non potesse correggersi con la vergogna, di procedere per le vie prescritte e canoniche. E poiché prima di amputare la ferita essa va palpata dolcemente, vi prego, vi supplico, e v'imploro con quanta dolcezza posso, che la vostra fraternità si opponga a tutti i suoi adulatori e a quanti gli attribuiscono un titolo errato, e non permetta di farsi chiamare con un titolo tanto stolto e superbo. In verità piangendo lo dico, e con profondo dolore del cuore attribuisco ai miei peccati il fatto che un mio fratello non ha voluto sino ad ora ritornare all'umiltà, lui che si è stabilito solo nella dignità episcopale per ricondurre all'umiltà le anime degli altri; che colui che insegna agli altri la verità non la insegnerebbe a se stesso, né vi consentirebbe, nonostante le mie preghiere.

Considera, ti prego, che da questa presunzione temeraria è turbata la pace di tutta la Chiesa, e che contraddici alla grazia che su tutti è stata comunemente effusa. Nella quale tu potresti assai tanto più crescere, quanto più in te stesso ti umilierai. E tanto più grande diverrai, quanto più ti asterrai dall'usurpazione di tanto stolto e superbo titolo. E tanto trarrai profitto, quanto non ti adopererai per arrogartene a scapito dei fratelli. Ama dunque, fratello carissimo, l'umiltà con tutto il tuo cuore, per mezzo della quale possa esser custodita la concordia di tutti i fratelli e l'unità della santa Chiesa universale. Certamente Paolo apostolo quando udiva alcuni dire: Io son di Paolo, io d'Apollo, io invero di Cefa (I Cor. 1, 13), temendo assai fortemente tale dilacerazione del corpo del Signore, in conseguenza della quale le membra del suo corpo si attaccavano ad altri capi, esclamava dicendo: Forse che per voi è stato crocifisso Paolo, o siete stati battezzati in nome di Paolo (Ibid., 13)? Se dunque quegli si sforzava d'evitare che le membra del corpo del Signore fossero attaccati come a capi ad alcuni che non fossero Cristo, ancorché questi fossero apostoli, tu che dirai a Cristo, ovvero al capo della chiesa Universale, nell'interrogatorio dell'estremo giudizio, tu che tutte le sue membra vuoi sottomettere a te col titolo di univerale? Chi ti proponi a modello, ti domando, in questo perverso titolo, se non colui che, sprezzate le legioni di angeli costituite con sé in società, tentò di elevarsi al culmine della singolarità, acciocché non paresse sottomettersi ad alcuno ed anzi a tutti esser capo lui solo? Colui che pure disse: Salirò al cielo, esalterò il mio soglio sovra gli astri del cielo. Siederò sul monte dell'alleanza, sulle rocce dell'Aquilone. Salirò sopra la vetta delle nubi, sarò simile all'Altissimo (Isaia xiv, 13).

Cosa son dunque i tuoi fratelli, tutti i vescovi della Chiesa universale, se non le stelle del cielo, la cui vita e il cui insegnamento risplendono tra i peccati e gli errori degli uomini come tra le tenebre della notte? Quando per titolo ambizioso brami di elevarti al di sopra di loro, e svilire il loro titolo a confronto del tuo, che altro dici se non: Salirò al cielo, esalterò il mio soglio sovra gli astri del cielo? Forse che non son tutti i vescovi le nubi, che stillano le parole della predicazione, e splendono della luce delle buone opere? Quando la vostra fraternità, disprezzandoli, tenta di conculcarli sotto di sé, che altro dice, se non ciò che fu detto dal nemico antico: Salirò sopra la vetta delle nubi? E mentre piangendo veggo tutto ciò, e temo gli occulti giudizj di Dio, crescono le lacrime, i miei gemiti traboccano dal cuore, perché il signor Giovanni, quell'uomo così santo, di sì grande astinenza e umiltà, per la seduzione delle lusinghe dei parenti, è giunto a tal grado di superbia che, per la brama di quel titolo perverso, tenta d'esser simile a quegli che, volendo superbamente esser simile a Dio, perdè pure la grazia della somiglianza che gli era stata donata; e perciò perdè la vera beatitudine, poiché bramava una falsa gloria. Certamente Pietro, primo degli apostoli, e membro della santa e universale Chiesa, Paolo, Andrea, Giovanni, che altro sono se non capi di certi popoli? E pure tutte le membra son sotto un solo capo. E, per dir tutto in breve, i santi prima della Legge, i santi sotto la Legge, i santi sotto la grazia, tutti questi formano il corpo del Signore, son costituiti membri della Chiesa, e nessuno volle mai esser chiamato universale. La vostra santità dunque riconosca quanto sia gonfio, poiché brama d'esser chiamato con quel titolo con cui nessuno che fu veramente santo ebbe la presunzione di farsi chiamare.

Come sa la vostra Fraternità, forse che il venerando Concilio di Calcedonia ha, per l'onore tribuito, dato il titolo di universale ai vescovi di quella sede apostolica di cui, per volontà di Dio, io son servitore? E pure, nessuno mai avrebbe voluto essere chiamato con tale titolo, nessuno si attribuì un tanto temerario titolo, affinché, bramando la gloria della singolarità nella dignità episcopale, sembrasse negarla a tutti i fratelli.

Ma so che questo è stato conferito alla vostra santità da quelli che con capziosa familiarità vi adulano, contro i quali chiedo che la vostra fraternità sia solertemente vigile, e che non si lasci ingannare dalle loro lusinghe. Tanto più infatti debbono esser ritenuti pericolosi i nemici, quanto più adulano con finte lodi. Scaccia queste persone; e se devono necessariamente ingannare, almeno ingannino i cuori degli uomini terrei, e non dei sacerdoti. Lascia che i morti seppelliscano i loro morti (Lucas ix, 60). Voi invece col Profeta dite: Si ritirino subito arrossendo, quanti mi dicono: Bene! Bene! (Psal. lxix, 4). E ancora: Ma l'olio del peccatore non profumerà il mio capo (Psal. cxl, 5). Laonde bene ammonisce il Saggio: Con molti tu sia in pace, ma il tuo consigliere sia uno solo tra mille (Eccli. vi, 6). Le cattive parole corrompono infatti i buoni costumi (I Cor. xv, 33). Quando infatti l'antico nemito non può penetrare in un cuore robusto, cerca persone deboli che gli siano vicine, e per mezzo loro, come scale appoggiate contro alte mura, vi ascende. Così ingannò Adamo per la donna che le era vicina (Genes. iii), così quando uccise i figli al beato Giobbe e gli lasciò la moglie malata (Job ii, 10), affinché, non essendo da sé in grado di giungere al suo cuore, almeno potesse penetrarvi per le parole della moglie. Quanti dunque presso di voi sono infermi e mondani, siano scacciati nella loro adulazione e lusinga, poiché da lì proviene l'eterna inimicizia di Dio, da dove essi si mostrano come adulatori perversi.

Un tempo l'apostolo Giovanni certò gridava: Figliuoli, questa è l'ultima ora (I Joan. ii, 18); ora avviene secondo la predizione della Verità. Peste e spada infuriano per tutto il mondo, le nazioni insorgono l'une contro l'altri, è scosso l'universo, la terra sia per inghiottire i suoi abitanti. Tutto ciò che è stato previsto, infatti, accadrà. Il re della superbia è vicino, e, cosa orribile a dirsi, gli è pronto un esercito di sacerdoti, poiché pensano solo a elevarsi, loro che sarebbero stati stabiliti solo per condurre gli altri all'umiltà. Ma in questo, ancorché la nostra lingua non sia minimamente contraria, s'ergerà a vindice della sua virtù contro l'insuperbire colui che è per se stesso speciale avversario del vizio della superba. Perciò infatti sta scritto: Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà grazia (Jac. iv, 6). Perciò ancora è detto: Impuro agli occhi di Dio è colui che si esalta in cuor suo (Proverb. xvi, 5). Perciò contro l'uomo che s'insuperbisce è scritto: Perché dovresti esser superbo, tu che se' terra e cenere (Eccli. x, 9)? Perciò la Verità stessa dice: Chiunque si esalta, sarà umiliato (Luc. xiv, 11). E per ricondurci sulla via dell'umiltà, Ella s'è degnata di mostrarlo nella propria persona, dicendo: Imparate da me, ché son mite ed umile di cuore (Matth. xi, 29). Per questo infatti l'unigenito Figlio di Dio ha preso la forma della nostra debolezza, per questo l'invisibile è apparso non solo visibile, ma pure disprezzato; per questo ha sopportato oltraggi, insulti, tormenti, peché l'uomo imparasse da un Dio umile a non esser superbo. Quanto grande dunque è la virtù dell'umiltà, dacché per insegnarci questa sola in verità colui che è grande senza comparazione, si è fatto piccolo sino al patir la morte? Poiché infatti la superbia del diavolo fu la fonte della nostra perdizione, fu trovato per istrumento della nostra redenzione l'umiltà di Dio. Il nostro nemico infatti volea esser esaltato sopra tutto le creature in mezzo alle quali era pur lui; il nostro Redentore invece, pur restando grande sovra ogni creatura, s'è degnato di diventar piccolo fra tutte. 

Perché dunque ci chiamiamo vescovi, noi che abbiam ricevuto la nostra dignità dall'umiltà del nostro Redentore, ed eppure imitiamo la superbia del suo nemico? Ecco, sappiamo che il nostro Creatore è disceso dalla vetta della sua grandezza per dare gloria all'umanità, e noi, infime creature, ci gloriamo dell'aver privato i fratelli. Iddio umiliò se stesso insino alla nostra polvere, e la polvere umana brama di porre lasua bocca sopra il cielo e sfiorare appena la terra, e non se ne vergogna, non teme d'elevarsi l'uomo che non è altro che sporcizia, il figlio dell'uomo che non è che un verme (Job xxv). Rimembriamo, fratello carissimo, ciò che fu detto dal saggissimo Salomone: Il fulmine precede il tuono, e il cuor s'esalta pria di cadere (Eccli. xxxii, 14). E d'altra parte soggiunge: Prima della gloria ci s'umilia. Umiliamoci dunque nel cuore, se vogliamo giungere a una solida grandezza. Che gli occhi del nostro cuore mai non siano oscurati dal fumo dell'orgoglio, che più in alto s'eleva, tanto più in fretta svanisce. Riflettiamo sui precetti con cui ci ammonì il nostro Redentore, dicendo: Beati i poveri in spirito, poiché di questi è il regno de' cieli (Matth. v, 3). Poiché infatti per mezzo del profeta disse: Su chi riposerà il mio Spirito, se non sull'uomo umile e mansueto, che riverisce le mie parole (Isaias lxvi, 2)? E volendo certo chiamare all'umiltà i cuori ancor deboli dei suoi discepoli, il Signore disse: Se qualcuno tra voi brama esser primo, sarà di tutti il più piccolo (Matth. xx, 27). In ciò ci fa apertamente capire che veramente esaltato è colui che ne' suoi pensieri s'umilia. Temiamo dunque di esser tra coloro che cercano i primi posti nelle sinagoghe, e i saluti nella pubblica piazza, e voglion farsi chiamare maestri dagli uomini. Poiché in contrario il Signore ha detto ai suoi discepoli: Voi invece non fatevi chiamare maestri. Uno infatti è il vostro maestro; voi invece tutti siete fratelli. E non chiamate qualcuno Padre sulla terra, uno infatti è il Padre vostro (Matth. xxiii, 7-8).

Che dirai allora, fratello carissimo, in quel terribile interrogatorio del giudizio venturo, tu che non solo padre, ma pure padre universale brami d'esser chiamato nel mondo? Si faccia dunque attenzione al pravo consiglio dei malvagi, si fugga ogni istigazione allo scanalo. E' invero necessario che accadano scandali, ma guai all'uomo per mezzo del quale viene lo scandalo (Matth. xviii, 7). Ecco, a causa di questo nefando titolo di superbia, la Chiesa è divisa, i cuori di tutti i fratelli son scandalizzati. Avete forse dunque dimenticato ciò che dice la Verità: Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, convien per lui che gli sia appesa al collo una macina girata da asini, e che sia gittato nel profondo del mare (Ibid.)? Invero sta scritto: La carità non cerca ciò che le appartiene (I Cor. xiii, 4). Ecco, la vostra fraternità brama ciò che non le appartiene. Ancor sta scritto: Onoratevi gli uni gli altri (Rom. xiii, 10). E tu cerchi di togliere a tutti quell'onore che illecitamente desideri usurpare ai singoli. Dov'è, fratello carissimo, ciò che fu scritto: Abbiate ne' riguardi di tutti la pace, e la santimonia senza la quale niuno vedrà Iddio (Ibid.)? Dov'è ciò che fu scritto: Beati i pacifici, poiché saran chiamati figli di Dio (Matth. v, 9)?

Vi conviene badare che non vi blocchi una radice di amarezza che nuovamente germina nel vostro cuore, e dalla quale molti son contaminati. Se infatti trascuriamo di considerarla, i giudizi saran vigilanti sopra il gonfiore di tanta superbia. E noi ne' confronti di coloro dai quali una sì grande colpa è stata commessa per un empio azzardo, serbiamo i precetti della Verità, dicendo: Se il tuo fratello ha peccato contro di te, va' e riprendilo tra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello. Se invece non ti ascolterà, porta teco uno o due, affinché tutto stia nella bocca di due o tre testimoni. E se questi non li ascolterà, dillo all'assemblea. E se non ascolterà nemmeno l'assemblea, sia per te come un pagano o un pubblicano (Matth. xvii, 3). Io dunque per mezzo de' miei legati ho cercato una e due volte di correggere con umili parole il peccato che vien commesso contro tutta la Chiesa, e ora da me stesso lo scrivo. Qualunque cosa umilmente dovevo fare, non l'ho tralasciata. Ma se son sprezzato nella mia correzione, mi resta solo d'appellarmi alla Chiesa.

Iddio onnipotente vi renda manifesto da quanto amore son preso ne' vostri confronti parlando così, e di quanto m'addoloro in questa faccenda non contro di voi, ma per voi. Ma per quanto riguarda i precetti evangelici e le istituzioni canoniche e il vantaggio dei fratelli, non posso preferire una persona, nemmeno quella che molto amo.

Ho ricevuto da vostra santità scritti dolcissimi e sinceri circa la causa dei presbiteri Giovanni e Atanasio, circa la quale, con l'aiuto del Signore, risponderò in altre lettere che seguiranno, poiché sono astretto da tali tribolazioni e premuto dalle spade de' barbari, che non m'è lecito non solo occuparmi di molte cose, ma a malapena respirare.

Dato alle calende di gennajo, indizione decimaterza.

S. Gregorio Magno, Epistolarium, lib. v, ep. xviij (PL 77:738-743). Trad. it. di Nicolò Ghigi.

S. Gregorio Magno ispirato dallo Spirito Santo
(Treviri Stadtbibliothek, miniatura 983)

COMMENTO

Si vede, da questa prima lettera di papa san Gregorio Magno: 1° che l'autorità ecclesiastica risiede nell'episcopato, e non in un tal vescovo, per quanto elevato possa essere il suo rango nella gerarchia ecclesiastica; 2° che non fu la sua causa particolare ch'egli difese contro Giovanni di Costantinopoli, ma quella di tutta la Chiesa; 3° ch'ei non aveva il diritto di giudicare personalmente questo caso, e che doveva deferirlo alla Chiesa; 4° che il titolo di vescovo universale è contrario alla parola di Dio, superbo, criminale, stolto ed inetto; 5° che nessun vescovo, nonostante l'elevatezza del suo rango nella gerarchia ecclesiastica, può rivendicare un'autorità universale senza incidere sui diritti dell'episcopato intero; 6° che nessun vescovo nella Chiesa può pretendere di essere il padre di tutti i cristiani senza attribuirsi un titolo contrario al Vangelo, superbo, stolto e criminale.

Chiediamo ai neo-cattolici di riflettere seriamente su queste verità espresse così chiaramente in questa prima lettera, e che appariranno con nuove evidenze in quelle che seguiranno.

San Gregorio aveva risparmiato Giovanni di Costantinopoli, pur dicendogli la verità sulle sue ambiziose pretese. La ragione di questa riserva era stata il rispetto che aveva per l'imperatore Maurizio, che Giovanni si era guadagnato alla sua causa. Giovanni aveva persuaso Maurizio che, avendo la città di Costantinopoli rimpiazzato Roma come capitale dell'impero, il titolo di primo vescovo della Chiesa gli apparteneva, poiché i concili l'avevano concesso a quello di Roma solo per l'importanza della sua sede, e unicamente perché questa città era la prima dell'impero romano. Era sulla base di questa pretesa che aveva usurpato il titolo di ecumenico o universale. Aveva persino ingaggiato Maurizio per intervenire contro Gregorio, in modo che quest'ultimo chiudesse un occhio sulle sue pretese e vivesse con lui in buono spirito. Troviamo questi dettagli nella lettera di san Gregorio al diacono Sabino, che era allora suo agente presso l'imperatore, e che fu poi suo successore sul soglio di Roma (Lettere di san Gregorio, lib. V ; lettera 19e, ed. con licenza).

Archimandrite Wladimir Guettée, La Papauté moderne condamnée par le pape saint Grégoire le Grand, Paris, Dentu, 1861, pp. 18-19. Trad. it. di Nicolò Ghigi. Corsivi e maiuscoli originali.

mercoledì 4 agosto 2021

San Gregorio Magno e il Papato moderno - parte I

 In seguito alla pubblicazione del Motu Proprio "Traditionis Custodes", in alcuni ambienti cattolici, è iniziato un interessante dibattito su quali possano essere le prerogative e le limitazioni del potere papale. Tale discussione appare certamente utile e necessaria, e per aiutare quanti - anche tra i nostri lettori - vogliano dedicarsi a tali riflessioni, proporremo alcuni spunti per ragionare attorno alla figura papale provenienti dagli scritti di uno dei più grandi santi che sedettero sul trono patriarcale di Roma, ovvero San Gregorio il Grande. Prima di riportare alcuni testi della penna dello stesso San Gregorio, a mo' d'introduzione presentiamo questo confronto generale tra la dottrina patristica e quella ultramontana in merito.


San Gregorio Magno e Giobbe piagato
Affreschi del Sacro Speco di Subiaco

Al giorno d'oggi insegnano, in nome della Chiesa, e in favore del vescovo di Roma, questa dottrina che san Gregorio denunziava con tanta energia. Così il signor abate Bouix, nel suo corso di diritto canonico composto a Roma e pubblicato con l'approvazione di Roma; così monsignor Parisis, vescovo d'Arras, in un corso di diritto canonico ch'egli ha approvato per l'insegnamento dei suoi chierici, e che è seguito in parecchi altri seminari; così il quotidiano Le Monde, che è il giornale più autorizzato dal papa e dalla sua corte; e così è che cento altri scrittori ultramontani insegnano in tutti i modi che il papa ha una autorità universale; che egli è vescovo universale; che egli è il solo vescovo propriamente detto; la sorgente da cui scaturisce ogni dignità ecclesiastica, ivi compreso l'episcopato, che è solo indirettamente e mediatamente di diritto divino.

Questo è l'insegnamento che vorrebbero darci oggi come insegnamento cattolico. I nostri moderni novatori sanno che papa san Gregorio Magno avrebbe considerato diabolica una simile dottrina, e che ha chiamato anticipatamente Anticristo questo papa rivestito di un preteso episcopato universale?

San Gregorio non prese nessuna decisione importante senza darne conoscenza agli altri patriarchi. Così egli scrisse a quelli di Alessandria e di Antiochia per informarli di come si era comportato nei confronti del nuovo patriarca di Costantinopoli. Eulogio, patriarca di Alessandria, si lasciò persuadere, e annunciò a Gregorio che non avrebbe più conferito al vescovo di Costantinopoli il titolo di universale; ma, credendo di adulare Gregorio, che amava e che gli aveva reso servizio in svariate occasioni, diede questo titolo a lui medesimo, e scrisse che se non lo assegnava più al vescovo di Costantinopoli, era per sottomettersi agli ordini di Gregorio. Questi subito gli rispose, e troviamo nella sua lettera il seguente brano che mostrerà quale idea avesse san Gregorio della sua autorità come vescovo di Roma:

«Vostra Beatitudine si è premurata di dirci che scrivendo ad alcuni, ella non ha più dato loro titoli che avevano solo che l'orgoglio per origine, ma ella usa queste medesime espressioni nei miei confronti: come avete ordinato. Io vi prego, non fatemi mai più sentire questa parola ordine, ché io so chi sono e chi siete voi. PER IL VOSTRO POSTO, VOI SIETE MIO FRATELLO; per le vostre virtù, mi siete padre. Perciò io non ho ordinato; io mi son solamente premurato d'indicare alcune cose che mi pareano utili. Io non trovo però che Vostra Beatitudine abbia voluto perfettamente ritenere ciò che precisamente volea io affidare alla sua memoria, dacché ho detto che voi non avreste dovuto conferire questo a titolo più a me che ad altri; ed ecco che, nella sottoscrizione della vostra lettera, voi conferite, a me che l'ho proscritto, i superbi titoli di universale e di papa. Che la Vostra Dolce Santità più non lo faccia in futuro, la prego; dacché togli a te stesso ciò che di troppo dai a un altro. Io non dimando di crescere ne' titoli, ma nelle virtù. Non considero un onore ciò che fa perdere ai miei fratelli la lor propria dignità. Il mio onore, è quello di tutta la Chiesa. Il mio onore, è la fermezza incrollabile dei miei fratelli. Mi considero veramente onorato allorché a nessuno vien rifiutato l'onore che gli merita. Se Vostra Santità mi chiama papa universale, ella nega di essere ciò che io sarei intiero. Ah, Dio nol voglia! Lungi da noi parole che gonfiano la vanità e feriscono la carità! Vero è che, nel santo concilio di Calcedonia, e da allora dai Padri che son succeduti, questo titolo fu offerto ai miei predecessori, come Vostra Santità sa; ma nessuno di loro volea prenderlo, affinché amando in questo mondo la dignità di tutti i sacerdoti, potessero conservare la loro agli occhi dell'Onnipotente».  [Lettera a Eulogio, luglio 598, ndt]

Papa san Gregorio condannò dunque, nella persona medesima di vescovo di Roma, il titolo di papa universale; ei riconobbe che il patriarca di Alessandria è suo pari, che non ha ordini da dargli, e che conseguentemente non ha autorità su di lui.

Come conciliare questa dottrina ortodossa di papa san Gregorio il Grande con quella dottrina moderna che attribuisce al papa una autorità universale di Diritto Divino? Sta agli ultramontani rispondere a questa domanda.

Entro la discussione circa il titolo di universale, san Gregorio si esprimeva così in una lettera ai patriarchi di Alessandria e Antiochia:

«Ho ammesso alla comunione alla messa degli inviati di Ciriaco, poiché mi priegavano umilmente, e poiché anche, come ho scritto al serenissimo imperatore, gl'inviati del nostro fratello e co-episcopo Ciriaco hanno dovuto comunicare con me, per la ragione che grazie a Dio non son punto caduto nell'errore della superbia. Ma il mio diacono non ha potuto comunicare alla messa con il nostro fratello Ciriaco, per la ragione ch'egli è caduto e persiste nella colpa della superbia pretendendo un titolo profano» (Lettere di san Gregorio, lib. VII; lettera 34e, ed. con licenza).

 Così, secondo san Gregorio, gl'inviati del patriarca di Costantinopoli sarebbero venuti meno al loro dovere se, a Roma, avessero comunicato con lui, nel caso in cui avesse assunto il titolo di universale. Da ciò ne consegue che la comunione con il vescovo di Roma non è una condizione necessaria per appartenere alla Chiesa; che questo stesso vescovo può essere egli stesso fuori dalla Chiesa; e che gli basta, per essere fuori dalla Chiesa, assumere il titolo di universale.

Onde una domanda molto seria: il vescovo di Roma appartiene alla Chiesa se, non contento del vano titolo d'universale, pretende di avere l'autorità universale, cioè il titolo messo in pratica? Colui che usurpa questa autorità forse non è più usurpatore di quegli che semplicemente s'impadronisce della parola che ne è solo il segno?

Lasciamo al lettore la cura di trarre tutte le conseguenze che scaturiscono dai principi di san Gregorio su quest'ultimo punto, e gli chiediamo solo di prendere atto di questo serio insegnamento di un grande papa in ciò che concerne la comunione col vescovo di Roma. E' ovvio che ai suoi occhi si può appartenere alla Chiesa senza essere in comunione con lui. L'insegnamento di san Gregorio è formale su questo punto.


Archimandrite Wladimir Guettée, La Papauté moderne condamnée par le pape saint Grégoire le Grand, Paris, Dentu, 1861, pp. 43-46. Trad. it. di Nicolò Ghigi. Corsivi e maiuscoli originali.