mercoledì 8 aprile 2020

La liturgia del Giovedì Santo nella Basilica Cattedrale di Aquileia

Missale Aquileyensis Ecclesie, fol. 55v.
Ed. anastatica a cura di G. Peressotti, Udine,
LEV - Istituto Pio Paschini, 2007.
Com'è noto, anticamente in Roma in questo giorno venivano celebrate tre messe, una per la riconciliazione dei penitenti, una per la consacrazione del sacro crisma, e una per la commemorazione della Cena del Signore. Questo giorno triliturgico subì presto un'evoluzione organica che lo portò a stabilizzarsi dall'età altomedievale, con una sola grande liturgia al mattino (unita al Vespero), che nella sua versione pontificale comprende il rito della consacrazione degli oli santi durante il Canone, mentre la riconciliazione dei pubblici penitenti, espulsi dalle chiese il mercoledì delle ceneri, avviene nel rito pontificale senza la messa, di primo mattino. Sulla costituzione di quest'ordine liturgico abbiamo già scritto, e molti lo han fatto anche meglio di noi.

In queste pagine intendiamo invece spiegare lo svolgimento dei riti odierni nella Basilica Cattedrale di Aquileia, traendo le rubriche dal Missale Aquileyensis Ecclesiae del 1517 (Venetiis, in officina Petri Liechtenstein), foll. 55v-56, e confrontandole ovviamente con la prassi romana.

Questa lunga rubrica è posta all'inizio del rito del Santo Giovedì:

In cena domini finitis horis dominus po(n)tifex vadat ad sacrarium cum ministris et induatur orname(n)tis nigris stricta dalmatica cappa ejusdem coloris ibidem cum convenientibus clericis ordinetur processio cum cruce candelabris et thur{r}ibulo precedentibus ceterisque more solito subsequentibus usque in porticum basilice ante valvas principales cum silentio et illic statione facta atque penitentibus prostratis dominus pontifex incipiat officium penitentium quo incepto et ordine libri pontificalis imposito circa orationes et mysteria inibi facienda intrent basilicam ubi in medio navis ante altare sancte crucis prosternant se circu(m)quaque penitentes et facta a pontifice super eis benedictione et absolutione cum disciplina et cerimoniis s(e)c(un)d(u)m ritum pontificalis revertantur ad chorum et tunc dominus po(n)tifex cu(m) ministris induantur preparame(n)tis albis et solemnibus et missa inchoetur.

La facciata della Basilica di Aquileia
con il Portico di Massenzio
La rubrica dice finitis horis, dunque dopo Nona, e quindi subito prima di celebrare la messa che, come detto, è celebrata insieme al Vespro, come del resto in pressoché ogni tradizione rituale questo giorno. I paramenti indossati sono neri, in segno di penitenza e macerazione della carne: l'attribuzione di questo significato al colore nero è tipico dei riti germanici, si pensi all'ambrosiano, laddove a Roma esso ebbe piuttosto un carattere di lutto. Indossa la cappa (= il piviale) con la dalmatica (e dunque si presume la tonacella). Si compie una processione penitenziale, sul modello dunque di quelle rogative, in silenzio, che termina presso il portico antistante l'edificio sacro, fatto edificare dal Patriarca Massenzio nel IX secolo, davanti alle porte della cattedrale. Ivi attendevano prostrati i penitenti. Rispetto alle cerimonie descritte dal Pontificale Romano, dunque, non v'è il canto dei salmi penitenziali e delle litanie, né l'invio dei suddiaconi e dei diaconi con i lumi accesi, né l'invito dell'Arcidiacono.
Il Patriarca inizia poi l'officium penitentium secondo l'ordine del liber pontificalis: poiché non ci è pervenuto il Pontificale Aquileiese, dobbiamo fare riferimento al Pontificale Romano, che comunque è un Pontificale romano-germanico, e dunque è possibile supporre realisticamente che il suo contenuto non sia troppo difforme da quello aquileiese. Dunque a questo punto si collocano il salmo 33 con l'antifona Venite, venite, venite, le invocazioni dell'arciprete e il prefazio. Il clero entra poi in basilica, dopo l'ammissione della degnità dei penitenti d'essere riaccolti, e la prostrazione dei penitenti per il canto delle orazioni, della benedizione e dell'assoluzione, secondo le cerimonie del predetto rito pontificale, nelle quali probabilmente dunque devono annoverarsi anche i salmi 55 e 56 e i versetti loro sussequenti. Queste cerimonie avvengono in medio navis, davanti all'altare della Croce. Quindi, il Patriarca ritorna all'altare del coro e ivi assume i paramenti "bianchi e solenni" per la messa.

Tra le cose più notevoli nel proprio della messa, rispetto a quella romana, è il Gloria Patri all'introito: la dossologia infatti non è omessa nel tempo di Passione, secondo l'uso aquileiese. Il Gloria in excelsis è cantato, come nell'uso di Roma, e la colletta è la medesima, eccezion fatta per l'aggettivo proditor aggiunto accanto a Judas. Identiche sono le letture, mentre l'offertorio non è il verso del salmo 117 prescritto dal messale romano, ma un'antifona di composizione ecclesiastica: Protege domine plebem tuam per signum sancte crucis ab omnibus insidijs inimicorum omnium ut tibi gratam exhibemus servitutem et acceptabile tibi fiat sacrificium nostrum.

Durante il Canone, s'inserisce la consacrazione degli oli santi. La rubrica dà le indicazioni per la processione degli stessi dalla sagrestia, rimandando al pontificale per l'ordine della loro consacrazione. Il codice, parlando dell'inno di Venanzio Fortunato che accompagna la processione degli oli (O redemptor sume carmen), lo identifica con altro titolo, ametrico: O redemptor summe carmine, ch'era una versione medievale in uso in molti luoghi.

All'Agnus Dei, la terza volta, anziché dona nobis pacem è cantato nuovamente miserere nobis, coerentemente con l'omissione del bacio di pace in obbedienza al precetto di non imitare il bacio di Giuda. Alla messa romana il bacio di pace è omesso, ma l'Agnus Dei si canta come di consueto.

Dopo il Communio, che è lo stesso del messale romano, è riportata questa rubrica:

Fractis a pontifice oblatis co(m)munice(n)t primo clerici: deinde laici: postea sumat sacerdos de ipsis oblatis duas integras ad conservandum usque in parasceven. Et finita co(m)munione diaconus tene(n)s calicem iuxta altare incipiat an(tiphonam) super ps(almos) ad Vesperas. 

Missale Aquileyensis Ecclesie, fol. 56r.
In obbedienza alla legge di Papa Sotero si ordina dunque la comunione del clero, e poi anche del laicato. Dalle oblate, poi, il Patriarca trae due particole, e non una sola, da conservarsi per il Venerdì Santo. Subito dopo, il diacono, tenendo il calice presso l'altare, dà inizio al canto del Vespero dalla prima antifona. Nel messale romano tridentino il Vespro è cantato tra la processione di reposizione e la denudazione degli altari; in questo è erede del Missale secundum morem Ecclesiae Romanae del XV secolo [1], il quale non menziona la reposizione (soltanto dice, prima del Communio: hodie reservat sacerdos in loco honesto et co(n)venie(n)ti una(m) hostia(m) c(on)secrata(m) p(ro) sequente [sic] die: in quo non conficit(ur)) e nemmeno il Vespro, anche se dà per scontato che questo venga cantato quando dice che la spoliazione degli altari si compie post refectionem, e questa in tempo di digiuno non può prendersi prima del canto del Vespro per legge ecclesiastica.
Invece, nell'uso di Aquileia molto spesso delle ore liturgiche si inseriscono all'interno della Liturgia Eucaristica, segnatamente tra la Comunione e il Postcommunio, in modo simile a quanto avviene a Roma limitatamente al Sabato Santo; un altro esempio tratto dai libri liturgici patriarchini sono per esempio le Laudi di Natale, cantate infra la messa di mezzanotte ("in gallicantu"), e non subito dopo come a Roma.
Il Vespro aquileiese è qui identico a quello romano, compresa l'omissione di capitolo, inno e verso; non si dice però Christus factus est, né il Miserere in fine. Il postcommunio della messa tiene il posto dell'orazione del Vespro.

La messa termina con Benedicamus Domino anziché con Ite missa est, quest'ultima formula ritenuta nell'uso di Roma. Giova ricordare che invece nell'uso di Aquileia non esiste l'Ultimo Vangelo.

 Quibus finitis dominus pontifex ferat duas de dictis oblatis ad sacrarium sub camerorum custodia qui honorifice deponant in loco mu(n)do.

Con queste parole si descrive la reposizione dei presantificati per la Parasceve. Il messale, a differenza di quello romano, non fa cenno né alla spoliazione degli altari, né al rito del Mandatum, cioè la lavanda dei piedi.

Per completezza, del rito del Venerdì Santo, che analizzeremo in un'altra occasione e il cui ordine è da ricostruirsi collazionando le rubriche contenute nel Messale e quelle contenute nell'Agenda, riportiamo solo la parte della Comunione, in modo da chiarire la ragione delle due ostie consacrate in questo Santo Giovedì.

Una oblata viene consumata come da rituale dei Presantificati; l'altra viene processionalmente portata, avvolta da un lenzuolo (syndone) e legata al petto della Croce, al canto del responsorio Ecce quomodo moritur justus a bassa voce. La Croce viene riposta nel sepolcro, e il Vescovo la copre (revolvat lapidem ad ostium monumenti), e mette due camerari a guardia del sepolcro sino al giorno della risurrezione. Quindi il clero ritorna all'altare al canto del responsorio Sepultus Dominus, per subito incominciare il canto del Vespro. Questo suggestivo rituale, che assume i contorni di dramma sacro nell'esatta ripetizione dei fatti evangelici, si può di fatto denominare come Vespro della Reposizione, trovando così eloquenti paralleli negli altri riti di ambito germanico (si pensi semplicemente all'ambrosiano) e pure in quelli orientali, anche se particolarmente aquileiese è il costume di riporre un'ostia nel Sepolcro, a significare che pur nella morte dell'umanità di Cristo, la Sua divinità, rappresentata dal pane vivo disceso dal cielo, non muore, ma vive, e prepara la risurrezione del Corpo che avverrà nel giro di tre giorni, quando quest'ostia sarà gloriosamente ricondotta all'altar maggiore.

[1] Edizione di riferimento per la trascrizione delle rubriche: Missale secundum morem Sancte Romane Ecclesie, s.l., 1493

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