«Il greco e il latino non servono a niente. Nella società di oggi è molto
più utile studiare le lingue moderne e le materie scientifiche. Per questo il
liceo classico andrebbe drasticamente riformato per adattarsi alle esigenze
attuali». Questo genere di argomentazioni rappresenta un cliché di
vecchia data, ma è divenuto specialmente oggi moneta corrente e trova
attualmente rappresentanti di rilievo perfino nelle autorità deputate alla
gestione e all’ordinamento delle istituzioni scolastiche.(1) Chi ha ragione? E
quali argomenti si possono obiettare alla logica, all’apparenza così
stringente, del «non serve a niente»? Per capirlo, dovremo prima sgombrare il
campo da alcuni equivoci, cioè da alcuni argomenti fallaci e controproducenti
ai quali alle volte certe apologie del latino e del greco si lasciano andare (I
parte); poi vedremo perché, in via generale, l’uomo colto europeo non può fare
a meno del patrimonio linguistico, storico e letterario greco e latino (II
parte); e, infine, perché più in particolare il cristiano non può non sentirsi legato,
e ad un titolo ancora più specifico, alla cultura classica (III parte). A
conclusione di queste osservazioni, noteremo (IV ed ultima parte) come di
conseguenza la difesa del liceo classico, appunto in quanto veicolo
privilegiato (e ormai pressoché unico nel quadro europeo) di questa cultura, si
riveli necessaria per chiunque voglia salvaguardare la “buona scuola” (quella
vera) .(2)
I) Qualche mito da sfatare
È successo senz’altro a molti di sentire,
a giustificazione dello studio obbligatorio del latino e del greco nella
scuola, argomenti di questo genere: «Il greco e il latino sono lingue più
logiche delle altre e insegnano a ragionare»; oppure: «Apprendere il latino e
il greco è indispensabile a chi studia materie scientifiche per conoscere i
termini tecnici di quei settori, che sono tutti di origine latina»; o, ancora,
si è spesso insistito su una presunta “attualità” dei testi classici, che
sarebbero in grado, in una sorta di appiattimento spazio-temporale, di
“parlare” all’uomo moderno come se fossero stati scritti ieri. Chiaramente –
come tutti i miti – anche questi non sono privi di un fondo di verità. Studi
recenti, in effetti, confermano che la traduzione dal latino e dal greco, come
del resto da qualunque lingua letteraria (infatti il latino e il greco non
sono, di per sé, lingue più “logiche” delle altre)(3), contribuisce a
sviluppare il cosiddetto problem solving, cioè l’attività
intellettuale che si mette in atto per la risoluzione di un problema.(4) Né si
può negare che lo studente di Medicina che proviene dal liceo classico si trovi
maggiormente a suo agio quando incontra per la prima volta parole come gastralgia e iatrogeno.
O ancora che il lirismo e il valore artistico di certi brani del mondo antico
sono espressione di sentimenti così universali dell’animo umano che l’uomo
contemporaneo li può leggere quasi senza avvertire lo scarto di tempo e di
civiltà che lo separa da essi. Questi argomenti, tuttavia, presentano un
duplice limite di fondo. Il primo limite è che hanno un valore dimostrativo
molto limitato: non si vede come si possa convincere ragionevolmente qualcuno a
studiare due lingue non più parlate per cinque anni di scuola, e per cinque ore
alla settimana, solo per questi vantaggi tutto sommato accidentali e comunque
conseguibili anche con lo studio di altre discipline. Ma, soprattutto, questo
modo di argomentare ha il difetto di accettare il principio di fondo dei
detrattori del latino e del greco, e cioè di piegare lo studio di queste (come
delle altre) discipline a degli scopi meramente utilitaristici, cercando
insomma di mostrare che, come l’inglese serve ad andare in giro per il mondo,
la geometria a far stare in piedi le case e la chimica a produrre medicinali,
così anche il latino e il greco “servono” a qualcosa. Ma è una gara persa in
partenza: su questo terreno le lingue classiche non hanno alcuna speranza di
competere non solo con quelle moderne, ma neppure con un semplice corso accelerato
di cucina o di cucito, che hanno riscontri pratici senz’altro maggiori. Il
problema va quindi spostato su un piano più elevato: bisogna dapprima chiedersi
se la formazione della persona umana si debba fondare solo su discipline che
offrono un’immediata fruibilità pratica sul piano del guadagno e della
produzione commerciale, o anche (e in primo luogo) su quelle discipline che, in
quanto mettono al centro l’uomo, la sua anima e gli interrogativi che
l’indagine di questi campi inevitabilmente fa porre, la vulgata tràdita
chiama humanæ litteræ. Per chi ha una concezione
materialistica della vita, non ha senso proseguire oltre: il greco e il latino,
bisogna ammetterlo, non gli possono “servire” a niente (o forse gli
servirebbero proprio a mettergli sotto gli occhi una concezione diversa della
vita). Solo a chi è convinto che l’uomo non è unicamente una macchina da
produzione, ma in primo luogo un essere razionale il cui bene proprio «è
l’attività dell’anima secondo virtù» (Aristotele)(5), solo a chi è quindi
convinto che le discipline umanistiche debbano occupare un posto di primo piano
nella formazione scolastica, potranno dire qualcosa gli argomenti in favore
dello studio del greco e del latino che ci sforzeremo ora di riassumere.
II) Le ragioni del greco e del latino
Posto, dunque, che lo scopo della vita
dell’uomo su questa terra non può essere ridotto solo al soddisfacimento dei
suoi bisogni fisici e all’accrescimento dei beni materiali, resta da chiedersi
perché, tra tutte le discipline che potrebbero concorrere alla formazione umana
e spirituale della persona (e non parliamo quindi solo dei professionisti del
settore, dei classicisti di professione, ma di qualsiasi persona di cultura che
vive nel continente europeo), è bene che proprio il greco e il latino occupino
un posto di primo piano.
- Cominciamo dalle “ragioni del
greco” (anche se, chiaramente, la maggior parte degli argomenti potrebbero
valere tanto per l’una quanto per l’altra lingua).
- Come
accennavamo all’inizio, gli argomenti che intendiamo sviluppare per adesso
sono di ordine storico e razionale. Dovrebbero quindi poter essere
sottoscritti anche da chi non condivide la prospettiva particolare dalla
quale noi abbordiamo il problema (cioè quella cattolica, che svilupperemo
più nello specifico nel paragrafo seguente), e in particolare, come si
diceva, da qualunque uomo colto europeo. Perché da qualunque “uomo colto
europeo”? Perché qualsiasi europeo, se ripercorre all’indietro il cammino
della sua civiltà (operazione alla quale non può sottrarsi se aspira
realmente ad essere un uomo “di cultura”), trova all’origine i Greci.
Tutti i campi del pensiero speculativo che hanno costituito l’oggetto
dell’indagine dei secoli successivi fino ai giorni nostri hanno la loro
origine nel pensiero greco: «L’intera vita intellettuale dell’Europa, il
suo pensiero filosofico, morale, politico ed estetico trova origine
nell’opera dei pensatori greci, e ancora oggi si può ritornare ripetute
volte a ciò che è rimasto dell’attività greca nel campo intellettuale per
trarne stimolo e incoraggiamento. Coi Greci, come con nessun’altra civiltà
antica o contemporanea, l’uomo moderno sente una innegabile affinità di
spirito. Quali circostanze ambientali, culturali, biologiche fecero sorgere
quella brillante fioritura dell’intelletto umano nella Grecia del periodo
classico noi non lo sapremo mai con certezza. Possiamo soltanto essere
riconoscenti che tutto ciò sia accaduto».(6) Tutto questo non sminuisce la
grandezza di altre civiltà che hanno preceduto quella greca e dalle quali
la civiltà greca stessa ha imparato molto né di tutte le altre che la
storia dell’umanità ha conosciuto (anche, per esempio, la tradizione
cinese o quella indiana sono rispettabilissime e degne di studio).
Tuttavia, da una parte bisogna riconoscere che, perlomeno nell’ambito del
pensiero filosofico, «la superiorità dei Greci rispetto ad altri popoli,
su questo specifico punto, è di carattere non puramente quantitativo ma
qualitativo, in quanto ciò che essi crearono, istituendo la filosofia,
costituisce una novità in un certo senso assoluta»(7); e, dall’altra, che
«certo prima vi sono state anche altre grandi civiltà: l’egizia, la
mesopotamica, da cui anche i Greci hanno imparato. Ma noi abbiamo imparato
dai Greci: se in assoluto non dovessero valere più di altri popoli, essi
valgono più d’ogni altro per noi. Sono i nostri capostipiti».(8) Ecco
perché lo studio del greco (e a fortiori del latino) non
potrebbe essere in alcun modo surrogato da quello di una qualsiasi altra
“lingua morta”: perché per noi questo studio ha un valore
più importante, lo stesso valore che può avere per un indiano lo studio
del sanscrito o per un cinese quello del cinese antico. È un po’ come –
volendo ricorrere ad un’analogia – il motivo per cui ad un certo punto
della propria esistenza un uomo avverte il bisogno di sfogliare l’album di
famiglia per scoprire chi c’era all’origine della sua genealogia. Non lo
fa per disprezzo verso gli alberi genealogici delle altre famiglie, ma
perché per lui, e per la sua famiglia, è più importante. La civiltà greca
è appunto, sul piano della cultura, il corrispettivo di quello che
rappresenta, sul piano degli affetti familiari, l’album con le
informazioni e le foto dei nostri avi: un patrimonio storico (della nostra
storia) privati del quale non oseremmo più definirci persone colte. La
civiltà greca, insomma, rappresenta «un mondo la cui conoscenza rimane
fondamentale per la comprensione di quello attuale e per il quale non ci
sembra enfatico parafrasare Croce affermando che, in qualche modo, “non
possiamo non dirci Greci”».(9)
- Quest’ultimo
punto fornisce un ulteriore argomento in favore dello studio della civiltà
greca. Anche se non si volesse riconoscere alla conoscenza del proprio
passato un valore autonomo e si desse importanza solo al presente, si
potrebbe dire che perfino in quest’ottica lo studio della civiltà greca
sarebbe indispensabile, perché, appunto per l’influenza che i Greci hanno
esercitato sulle scienze speculative (e anche, sebbene più indirettamente,
su quelle sperimentali) dei secoli successivi, numerosissimi aspetti di
tante branche del sapere risulterebbero incomprensibili senza la
conoscenza della civiltà greca: «Letteratura, architettura, scultura,
filosofia, scienza, psicologia utilizzano miti, parole, elementi, simboli,
forme e riferimenti greci. Innumerevoli opere della civiltà europea
diventano mute e opache se non si conoscono i Greci».(10)
- Tutto
questo, come si vede, va ben al di là del saper riconoscere le radici
etimologiche di espressioni del lessico tecnico delle scienze. Quello non
è che l’aspetto che emerge maggiormente in superficie di una realtà molto
più profonda: si tratta del fatto che i canoni della civiltà greca
costituiscono, per così dire, il nostro “codice genetico”, e così
«studiando i Greci è possibile ricostruire la formazione del codice,
osservarlo nella sua originaria semplicità, capirne meglio gli effetti nel
tempo. È cioè possibile capire meglio noi stessi».(11)
- Si sarà
notato che fin qui abbiamo parlato soprattutto dello studio della
«civiltà» greca, quindi del mondo greco in tutti i suoi aspetti, non solo
quello linguistico. L’influenza della civiltà greca riguarda infatti, come
abbiamo visto, quasi tutti i campi del sapere e merita quindi di essere
studiata in toto. Tuttavia, poiché la lingua è il veicolo attraverso cui
una civiltà esprime nel modo più compiuto il proprio pensiero (a tal punto
da plasmarla e da rendere certi idiotismi quasi intraducibili in altre
lingue), l’apprendimento della lingua resta sempre una tappa
indispensabile per chiunque voglia accostarsi allo studio serio di una
civiltà. Ecco perché tutti gli argomenti che militano in favore dello
studio della civiltà greca costituiscono in definitiva altrettanti
argomenti in favore dello studio della lingua greca.
- Alla
luce di quanto detto fin qui, ancora più cogenti risulteranno,
evidentemente, le ragioni dello studio del latino(12), vista la
“discendenza” ancora più diretta della nostra civiltà da quella
dell’antica Roma. Le ragioni in favore del greco che abbiamo riassunto
valgono quindi, mutatis mutandis, anche per il latino e qui ci
limitiamo, dunque, ad aggiungere solo qualche importante corollario.
- Lo
studio del latino, come si accennava all’inizio, acquisisce realmente un
senso solo se inteso come parte di una concezione non materialista e non
puramente utilitaristica della vita, partendo cioè dal presupposto che non
si deve studiare solo ciò che ha un’utilità pratica, ciò che insegna a
“fare” qualcosa e che “produce” beni materiali, ma anche – e in primo
luogo – ciò che contribuisce alla formazione intellettuale e spirituale.
Ecco perché è molto limitativo (e anche controproducente) l’approccio di
chi, come alcuni tra quelli che oggi si presentano in teoria come
difensori del latino, sembra ridurre l’interesse del suo studio
all’apprendimento di una serie di “curiosità antropologiche” del tipo:
“come mangiavano e bevevano i Romani”, “la moda nell’antica Roma”, ecc.
(per poi andare a parare, a dire il vero, quasi sempre sui particolari più
sconci, che permettono di piazzare meglio i libri sul mercato). Le ragioni
del latino sono ben più profonde e riguardano la natura razionale e
spirituale dell’uomo e la sua storicità.
- Il
latino non è, come spesso si sente affermare, una “lingua morta”. Più
esatto è dire che è una lingua storicamente conclusa, cioè una lingua che
non è più la lingua madre di alcun popolo. Il latino, però, ha continuato
a vivere anche dopo aver smesso di essere una lingua nazionale, diventando
la lingua culturale dell’Europa: ancora fino a pochi decenni fa le
pubblicazioni scientifiche erano redatte in latino.(13)
- Ma,
vivo o morto che lo si voglia considerare, in ogni caso il latino è una
lingua vitale. La sua vitalità si manifesta non solo nell’uso
che se ne è continuato a fare anche dopo la caduta dell’Impero romano
d’Occidente, ma anche nelle tracce che, in tutti i campi del sapere, il
latino ha lasciato di sé nelle lingue e nelle culture moderne: dalle
iscrizioni nelle chiese alle lapidi dei monumenti, dalle nomenclature
scientifiche all’ortografia delle lingue contemporanee(14), dalle
espressioni latine utilizzate ancora oggi fino, non ultimo per importanza,
all’uso del latino nella liturgia e nei documenti della Chiesa cattolica
(di cui è la lingua ufficiale).
- L’italiano
è una lingua neolatina e perciò deve moltissimo, nelle sue strutture
lessicali e morfosintattiche, al latino, tanto nel registro linguistico
popolare quanto in quello dotto. Ciò non significa che non si possa
parlare, né tantomeno parlare bene l’italiano senza conoscere il latino.
Conoscere il latino, però, significa conoscere meglio – cioè in modo più
consapevole e più completo – l’italiano (e un discorso analogo vale
ovviamente anche per tutte le altre lingue romanze).(15)
- Studiare
il latino non è sinonimo di esterofobia e nostalgia del passato. Il latino
si rivela estremamente utile anche per l’apprendimento delle lingue
moderne, e non solo di quelle neolatine, ma anche, ad esempio,
dell’inglese (il cui lessico è formato per più della metà da vocaboli di
derivazione direttamente o, più spesso, indirettamente latina). È un dato
di fatto incontrovertibile che chi ha studiato il latino apprende con
maggiore facilità e rapidità le lingue moderne, specialmente (ma non solo)
quelle romanze: «Noi vediamo, per esempio, che gli studenti di Lettere
delle nostre università, i quali, di solito, se hanno scelto quella via,
vengono dal liceo con una buona preparazione nelle lingue classiche, riescono
con non molta applicazione e senza perder troppo tempo a intendere alla
meglio un testo, supponiamo, tedesco, anche se il tedesco non l’hanno
studiato a scuola… Quest’attitudine ad orientarsi rapidamente
nell’apprendimento di una lingua vivente, da che cosa deriva se non
dall’avere studiato in modo decente il latino?»(16)
- Sintetizzando:
se è certo da evitare l’eccesso che ha caratterizzato per diverso tempo lo
studio del latino e del greco – cioè la tendenza a presentare un mondo
classico “idealizzato” (e al suo interno idealizzare ulteriormente certe
fasi “auree” rispetto ad altre “di decadenza”), storicamente inattendibile
e reinterpretato in funzione dei nostri codici culturali(17) – e se non va
senz’altro trascurato l’apporto dato alla conoscenza del mondo antico
dalle scienze più recenti come l’antropologia, l’interesse dello studio
del mondo classico, tuttavia, non può essere ridotto a semplici curiosità
antropologiche né paragonato a quello dello studio di qualsiasi altra
civiltà del passato. È invece fondamentale recuperare le ragioni storiche
e umane che stanno alla base dello studio del greco e del latino:
storiche, in quanto nostro patrimonio culturale e “genetico”; umane,
perché la natura stessa dell’uomo – essere razionale dotato di un’anima spirituale
e destinato alla contemplazione del sommo bene – richiede per la sua
formazione lo studio di discipline storiche ed umane, che gli ricordino e
siano all’altezza di questa sua vocazione contemplativa. Trascorrere in
questo modo gli anni della propria formazione, lungi dal costituire una
perdita di tempo (sottratto a materie più pratiche e più “utili”),
valorizza quindi quanto di più nobile vi è nell’uomo: «La semplificazione,
il livellamento e l’annacquamento che prevalgono oggi nell’educazione, tranne
in rarissimi casi privilegiati, sono criminali. Si tratta di disprezzo per
le nostre capacità latenti. Le crociate contro il cosiddetto elitismo
nascondono una condiscendenza volgare: verso tutti coloro che vengono a
priori giudicati incapaci di miglioramento. Sia il pensiero […] sia
l’amore pretendono troppo da noi. Ci umiliano. Ma l’umiliazione, persino
la disperazione davanti alla difficoltà – abbiamo sudato tutta la notte
eppure l’equazione rimane irrisolta, la frase greca incompresa – possono
trovare l’illuminazione all’alba».
III) Cristianesimo e cultura classica
Abbiamo detto che l’europeo colto non
saprebbe veramente considerarsi tale se non conoscesse la civiltà greca e
quella latina. Se poi è cristiano – ciò che è in ogni caso culturalmente, in
quanto, come diceva Croce, sotto questo profilo «non possiamo non dirci
cristiani», ma qui intendiamo dire: se è cristiano nel senso che è di fede
cristiana – rifiutare il patrimonio del mondo greco-romano significherebbe per
lui rifiutare, se non la fede cristiana stessa, tutto l’apparato storico,
culturale e intellettuale di cui essa si riveste. Lungi dall’aver contribuito o
addirittura causato la scomparsa della civiltà classica, infatti, la Chiesa
cattolica romana rappresenta al contrario, sul piano culturale, l’erede diretta
e l’autentica continuatrice della cultura della Grecia e della Roma antica, «di
quella Roma onde Cristo è romano», per dirla con Dante. Anche questo tema,
chiaramente, è stato oggetto di grandi dibattiti, fin dall’antichità. Qui ci
limiteremo a sottolineare due aspetti: in primo luogo vedremo, citando solo
alcuni degli esempi più macroscopici, come gli stessi autori cristiani (con
poche eccezioni e quasi sempre di autori poco rappresentativi) si rifacciano
esplicitamente ai classici greci e romani quali modelli di lingua e di
pensiero; e poi cercheremo di tratteggiare a grandi linee i principali aspetti
della religione cristiana e della vita della Chiesa cattolica che sarebbero
impensabili e incomprensibili senza considerare tutto quello che devono
all’eredità greco-romana.
- I campi
in cui l’eredità classica riveste la funzione più preponderante nella
cultura cristiana sono senz’altro quelli che più direttamente e più
compiutamente sono espressione del pensiero umano: la filosofia e le
lettere.
- In un
certo senso, che l’universo greco-romano fosse chiamato in modo speciale
ad esprimere la fede cristiana attraverso le categorie del pensiero e gli
strumenti retorici sviluppati dal V secolo a.C. in poi, è adombrato già
dalle Scritture quando san Paolo annuncia ai Giudei lo spostamento della
predicazione del Verbo incarnato da Israele ai “gentili”: «Era necessario
che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la
respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci
rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho
posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino
all’estremità della terra”» (At 13,46-47). Anche nel celebre discorso
all’Areopago di Atene (At 17,22-31), l’Apostolo delle Genti dichiarò di
annunciare agli Ateniesi, «persone molto religiose da ogni punto di
vista», il «Dio ignoto» che essi adoravano «senza conoscerlo». E, del
resto, Gesù Cristo stesso aveva già constatato «di non aver trovato tanta
fede in Israele» quanta presso i pagani, i quali «verranno dall’oriente e
dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel
regno dei cieli».
- Dopo le
tensioni iniziali e qualche prima reticenza, esempi di compenetrazione di
cultura classica e religione cristiana si trovano fin dai primi secoli,
tanto tra gli autori latini che tra i greci. Tra i primi possiamo
ricordare Minucio Felice (seconda metà del II secolo d.C.), il quale
scrisse un dialogo, l’Octavius, in cui sosteneva la superiorità del
cristianesimo sulla religione pagana utilizzando un’impostazione e uno
stile estremamente classici e seguendo tutti i canoni della retorica
latina tradizionale (era probabilmente oratore di professione e si
convertì in età matura). Circa un secolo dopo fu attivo un altro
apologeta, Lattanzio, che Pico della Mirandola definirà «il Cicerone
cristiano» per l’eleganza dello stile (che segue senza deroga il latino
letterario dell’età cesariana) e la matrice classica del pensiero. Tra il
IV e il V secolo diversi letterati si cimenteranno nella trasposizione dei
contenuti della fede cristiana nello stile e nei metri classici: così
Aquilino Giovenco scriverà una sinossi dei quattro Vangeli in esametri
virgiliani, Prudenzio e san Paolino da Nola saranno autori di carmi religiosi
in distici elegiaci e strofe saffiche. Ma la vetta di questo connubio tra
classicità e cristianesimo è stato raggiunto senza dubbio dai quattro
Padri della Chiesa latina (sant’Ambrogio, san Gerolamo, sant’Agostino e
san Gregorio Magno), i quali, provenendo chi dal campo della retorica e
della grammatica (Gerolamo e Agostino), chi da quello della politica
(Ambrogio e Gregorio), erano da ogni punto di vista figli della società
romana e seppero trasfondere l’eredità classica nella cultura cristiana
non semplicemente con un’imitazione fredda e pedissequa dei modelli
antichi (rispetto agli autori precedentemente menzionati, infatti, il loro
stile è di impostazione classica, ma non ricusa l’impiego di un nuovo
lessico e di nuove forme per esprimere i contenuti della nuova fede),
bensì facendoli vivere in essi come una radice, per quanto sotto terra,
vive ancora nell’albero a cui ha dato origine, mentre recisa da esso
potrebbe forse essere osservata meglio, ma resterebbe senza vita. L’Impero
romano d’Occidente ebbe fine nel 476 d.C., «ma la linfa vitale della
cultura romano-cristiana, affidata alle scuole monastiche, rimaneva a
fecondare il terreno dell’Occidente, come la lava dopo le eruzioni, e
avrebbe dato, negli ultimi secoli del Medioevo e nei primi dell’età
moderna, la sua nuova splendida fioritura: Dante avrebbe additato il suo
maestro in Virgilio».
- Il
mondo greco si presenta non meno ricco di testimonianze che vanno nella
stessa direzione. Come per gli autori latini, ci limiteremo a citare i più
significativi. Il primo nome che spicca è senz’altro quello di san
Giustino («filosofo e martire», come lo definisce Tertulliano, del II
secolo d.C.), che è noto soprattutto per la sua dottrina dei semina Verbi:
secondo Giustino la dottrina dei filosofi dell’antichità, o perlomeno
della loro pars sanior, non è incompatibile con la dottrina
cristiana; anzi, la Provvidenza divina stessa li ha suscitati, gettando in
loro – come al popolo ebraico aveva affidato la Rivelazione – dei “semi
del Verbo” (λόγοι σπερματικοί), che hanno permesso loro di conoscere
almeno parzialmente la verità. Questo lo spinge a qualificare con termini
molto lusinghieri i grandi filosofi greci: «Quelli che vissero secondo il
Verbo sono cristiani, anche se furono stimati atei, come tra i Greci Socrate
ed Eraclito ed altri simili a loro»; di Socrate in particolare dice che
«conobbe il Cristo in parte». Tali giudizi non sorprendono, se si pensa
che i cardini a partire dai quali si è sviluppato il pensiero filosofico
cristiano (il fatto che vi sia una causa prima all’origine dell’universo,
l’immortalità dell’anima, la contemplazione del sommo bene come vera
beatitudine dell’uomo, l’esistenza di una morale oggettiva, l’importanza
delle virtù nella vita morale, ecc.) sono tutte conclusioni alle quali, anche
se talora frammiste ad errori e non sempre con rigore argomentativo,
giunsero già i più grandi pensatori dell’antichità, specialmente Socrate,
Platone, Aristotele («lo maestro dell’umana ragione», nel quale la natura
ha riposto «’ngegno eccellente e quasi divino», secondo il noto giudizio
di Dante), ma anche Cicerone e Seneca (che Tertulliano non si peritò di
definire sæpe noster, «spesso uno dei nostri») e ancora molti
altri. Giustino fu un apripista: dopo di lui l’uso delle categorie
della filosofia greca per difendere o sviluppare i contenuti della fede
cristiana divenne una prassi corrente. Ricordiamo ad esempio, per il II
secolo, i nomi di Atenagora di Atene e Clemente di Alessandria (che per
primo tentò di leggere i miti dell’antichità pagana come allegorie di
verità cristiane), nel III secolo Origene e, nel quarto, uno dei Padri
della Chiesa greca, san Basilio, autore tra l’altro di un opuscolo dal
titolo molto significativo: «Esortazione ai giovani sul modo di trarre
profitto dalla letteratura pagana».
- Tutto
il patrimonio letterario, filosofico e teologico del cristianesimo dalle
origini fino ad oggi sarebbe impensabile senza questo sostrato
greco-romano. Tutto ciò non vuol dire, ovviamente, che tra il pensiero
pagano e quello cristiano non vi siano profonde e sostanziali differenze.
La differenza fondamentale sta nel fatto che la risposta ai grandi
interrogativi che si sono posti – che sono gli stessi del pensiero
cristiano – i Greci e i Romani l’hanno cercata (quasi) unicamente dove non
potevano trovarla, cioè nell’uomo. Ecco perché i punti di contatto tra
pensiero pagano e pensiero cristiano sono sporadici e non sistematici,
accidentali e non sostanziali: la religione pagana è fondamentalmente
antropocentrica, quella cristiana teocentrica. Si pongono le stesse
domande, ma trovano risposte diverse: anzi, una le trova (perché si
trovano solo in Dio, nell’unico vero Dio fatto uomo), l’altra non le trova
o al limite resta nel dubbio e nel desiderio di trovarle. Tuttavia,
«sarebbe un grave errore credere che questa enorme differenza comporti
solo insanabili antitesi. In ogni caso, anche se qualcuno oggi è di questo
avviso, non fu questa la tesi dei primi cristiani, che, dopo il primo
brusco impatto, lavorarono alacremente per costruire una sintesi [...]. In
effetti, l’uomo, che il greco aveva pur tuttavia tanto esaltato, risulta
per il cristiano qualcosa di assai più grande di quanto il greco non
pensasse, ma in una dimensione diversa e per ragioni diverse: se Dio ha
ritenuto di dover affidare agli uomini la diffusione del proprio
messaggio, e se, addirittura, si è fatto uomo per salvare l’uomo, allora
la “misura greca” dell’uomo, pur così alta, diventa insufficiente e deve
essere a fondo ripensata. Nascerà, nel grandioso tentativo di costruire
questa nuova “misura” dell’uomo, l’umanesimo cristiano».
- Di
quanto la Chiesa sia debitrice al mondo classico in tutti gli altri campi
della cultura e della fede (arte, diritto, liturgia, ecc.) possiamo dare
qui sono un rapidissimo cenno. Quanto all’arte, è evidente a chiunque
metta piede in una chiesa che non potrà capire quasi nulla delle sue
colonne, delle sue sculture, dei suoi affreschi e della sua architettura
senza conoscere l’arte greca e romana. Anche il diritto canonico sarebbe
inimmaginabile senza il diritto romano, specialmente nella forma
codificata dall’imperatore Giustiniano (527-565 d.C.) con il Corpus
iuris civilis. E anche ciò di cui la Chiesa vive quotidianamente e più
visibilmente, cioè la liturgia, è piena di elementi ricollegabili,
direttamente o indirettamente, all’antichità (specialmente romana): si
pensi, per citare appena qualche esempio tra moltissimi, alle ore del
Breviario, numerate ancora secondo il sistema romano, o ai paramenti che
indossa il sacerdote per celebrare la Messa, che derivano tutti da abiti
indossati nella Roma tardoantica, o ancora all’uso dell’incenso, desunto
probabilmente dalle pratiche cerimoniali della magistratura romana.
IV) Una élite di europei cristiani e
colti
Ora il quadro ci sembra un po’ più
completo. Chi non ha le stesse radici perché appartenente ad altri continenti e
altri popoli (ma ne avrà altre, rispettabilissime, da conoscere e da studiare),
chi non ha aspirazioni culturali e chi non è cristiano potrebbe sentirsi
estraneo a questo discorso. Chi invece è almeno una di queste cose, dovrebbe
condividere almeno in parte quanto abbiamo scritto fin qui. Ma chi è tutte e
tre le cose dovrebbe fare dello studio e della salvaguardia della cultura
classica una delle sue priorità. Rinunciarvi significherebbe rinnegare sé
stesso. In Italia, in particolare, abbiamo una vera “eccellenza” – per usare un
termine in voga – che è ormai appannaggio esclusivo della nostra nazione
(nonostante sia il bersaglio di continui tentativi di eliminarlo o snaturarlo):
il liceo classico, una scuola nella quale il latino si studia per cinque ore
alla settimana e il greco per quattro (ridotte rispettivamente di una nel
triennio conclusivo). Scegliere di difenderlo e lottare per la sua salvaguardia
è una scelta di campo: chi lo vuole abolire è necessariamente contro la cultura
razionale, spirituale e cristiana su cui ci siamo diffusi in queste colonne;
chi invece è per questa cultura, non può che abbracciare la causa della difesa
del liceo classico (a partire dal suo nome: che non è quello di un liceo dove
si studia “antropologia del mondo antico”, ma la civiltà classica). Per
concludere, un dato storico. Fino al 1960 la maturità classica era l’unico
titolo che permettesse di iscriversi a qualsiasi facoltà universitaria (e fino
a qualche decennio fa anche l’unico corso di studi proposto nei seminari
minori). L’idea che stava alla base di questa scelta è molto chiara: si
riteneva che non certo solo i classicisti, ma tutti i professionisti di un
certo livello (magistrati, medici, ingegneri, uomini di scienza), il clero e la
classe dirigente non potessero fare a meno di questo bagaglio culturale. Una
persona che avesse occupato incarichi di rilievo nella società senza conoscere
il latino sarebbe stata considerata come un sommelier che non
sapesse prendere in mano una forchetta. E quindi la grande accusa che si leva
contro i difensori del liceo classico è: volete tornare indietro, volete
tornare ad una scuola elitaria. A questo noi rispondiamo senza timore che se
per elitaria si intende una scuola riservata a dei gruppi di élite,
non siamo d’accordo; ma se una scuola elitaria è una scuola che forma delle élite,
allora sì, vogliamo questa scuola: non vogliamo tornare indietro, vogliamo
andare avanti, e per farlo vogliamo formare delle élite di
europei cristiani e colti.
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1. In particolare l’ultimo quindicennio ha
conosciuto un vero revival di questa annosa diatriba. Ne è la prova la
proliferazione di pubblicazioni che fanno il punto sulla situazione del
dibattito o prendono apertamente partito per l’una o l’altra posizione. Si
segnalano tra gli altri: L. Canfora, Noi e gli antichi. Perché lo
studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, BUR,
Milano 2004; id., Gli antichi ci riguardano, Il Mulino, Bologna
2014; S. Settis, Futuro del ‘classico’, Einaudi, Torino 2004; I.
Dionigi (a cura di), I classici e la scienza. Gli antichi, i moderni,
noi, BUR, Milano 2007; U. Cardinale – A. Sinigaglia (a cura
di), Processo al liceo classico, Il Mulino, Bologna 2014; M.
Bettini, A che servono i Greci e i Romani?, Einaudi, Torino 2017;
M. Ruggeri, Giù le mani dal Liceo Classico, BookTime, Milano 2017; M.
Napolitano, Il liceo classico: qualche idea per il futuro, Salerno
Editrice, Roma 2017; L. Russo, Perché la cultura classica. La risposta
di un non classicista, Mondadori, Milano 2018.
2. Va da sé che la vastità dell’argomento
impedisce che, in un breve articolo come questo, sia trattato in modo
esauriente e in tutte le sue sfaccettature. Qui ci limiteremo, perciò, ad un
profilo molto sintetico delle riflessioni che traiamo dal pensiero di grandi
studiosi in materia. Nelle note si troveranno comunque brevissime indicazioni
bibliografiche relative al materiale utilizzato, a cui rinviamo i lettori per
maggiori approfondimenti.
3. «Il pregiudizio opposto [a quello per
cui le lingue fossero un tempo più “primitive” e si siano evolute nel corso del
tempo fino ad arrivare allo stato “progredito” attuale] è quello secondo cui vi
sono lingue per eccellenza “logiche” (status spesso attribuito a
lingue come il latino o il greco, per esempio): gli argomenti per contrastare
questo punto di vista sono esattamente gli stessi di quelli per contrastare la
visione “primitiva”. Non esistono lingue logiche e lingue illogiche: tutte le
lingue hanno una loro logica interna per il semplice motivo che sono un
prodotto della mente umana e debbono poter essere apprese e tramandate» (G.
Graffi – S. Scalise, Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla
linguistica, 3a edizione, Il Mulino 2013, p. 49).
4. Sul valore formativo della traduzione
cfr. M. Bettini, Vertere. Un’antropologia della traduzione nella
cultura antica, Einaudi, Torino 2012, pp. 189-251 (con notevoli riferimenti
alla teologia patristica); in particolare sul suo ruolo nello sviluppo
del problem solving, si veda D. Antiseri, Dalla parte degli
insegnanti, Editore La Scuola, Brescia 2013, pp. 35-54, 105-123 e 125-145.
5. Etica Nicomachea, A7.
6. R. H. Robins, Storia della
linguistica, trad. di G. Prampolini, Il Mulino, Bologna 1995, p. 29.
7. G. Reale – D. Antiseri, Il
pensiero occidentale dalle origini ad oggi, Editrice La Scuola, Brescia 1983,
p. 3.
8. G. A. Privitera – R.
Pretagostini, Lo studio della grecità e le sue motivazioni,
in Storia e forme della letteratura greca, Einaudi Scuola, Milano
1997, vol. I, pp. 9-10.
9. G. Monaco – M. Casertano – G.
Nuzzo, Prefazione degli autori a L’attività letteraria nell’antica
Grecia, Palumbo, Palermo 1997, p. XXVI.
10. G. A. Privitera – R.
Pretagostini, op. cit., p. 10.
11. Ib.
12. Cfr. L. Miraglia, Latine doceo,
Edizioni Accademia Vivarium Novum, Montella 2000, pp. 11-17 (di cui
riprendiamo l’impianto e le idee fondamentali); id., Il latino e noi,
in Nova via. Latine doceo, Edizioni Accademia Vivarium
Novum, Montella 2009, pp. 1-6. Qui prescindiamo ovviamente dalla querelle
tra “metodo natura” e “metodo grammaticale-traduttivo” (che occupa buona parte
del testo del prof. Miraglia), attenendoci unicamente alle motivazioni dello
studio del latino, che dovrebbero trovare d’accordo i sostenitori di entrambi i
metodi.
13. Cfr. P. Burke, Lunga vita di
una lingua morta. Come e perché il latino ecclesiastico, accademico e
pragmatico sopravvisse all’affermarsi del volgare, in Prometeo. Rivista
trimestrale di scienze e storia, vol. VII, n. 27, settembre 1989, pp. 30-39.
14. Ad esempio, la conoscenza del greco e
del latino rende chiaro – e sono solo un paio di esempi nella selva di quelli
possibili – perché in francese (più fedele dell’italiano, sotto questo profilo,
all’ortografia latina) si scrive mythe (dal greco μῦθος,
passando per il latino mythus) e herbe (dal
latino herba), laddove in italiano si hanno mito ed erba, o ancora
perché solo una parte delle parole (appunto quelle che derivano dal
latino) che cominciano per h presentano la liaison (l’herbe, ma la
hache).
15, Cfr. E. Mandruzzato, Il
piacere del latino, Mondadori, Milano 1989, pp. 13-18.
16. U. E. Paoli, Latino sì o
latino no?, in L’osservatore politico e letterario, dicembre 1959.
17. Cfr. L. E. Rossi, Introduzione
a Letteratura greca, Le Monnier, Firenze 1994, p. 16.