mercoledì 6 febbraio 2019

Postille ad alcune riflessioni su FSSPX e FSSP - parte 2

Vedasi qui la prima parte.



Scrive il prof. Kwasniewski:

Il celeste patrono della Fraternità Sacerdotale di San Pietro ci mostra anch'egli due facce in contraddizione tra loro: il Pietro che professò Cristo quale Figlio di Dio e ricevette le chiavi del regno dei cieli; e il pietro che provò a lamentarsi della follia di Cristo e ricevette il suo rimbrotto: "Va' dietro di me, Satana". Nel Nuovo Testamento vediamo il Pietro che predicò la prima omelia nella prima Pentecoste e guadagnò migliaia di anime alla Chiesa; vediamo pure il Pietro che, per umano rispetto, rinnegò il suo Maestro durante la Passione, e successivamente rifiutò di associarsi ai Giudei convertiti, per la qual cosa egli si meritò il duro rimprovero del suo compagno, l'apostolo Paolo. Come ha mostrato Joseph Ratzinger nel suo libro "Chiamati alla Comunione", il lungo corso della storia della Chiesa ha mostrato ambedue le facce di Pietro, quando i suoi successori hanno agito quale stabile roccia dell'ortodossia dottrinale e sicura guida, oppure come uomini che agiscono con le loro fallibili iniziative, ambiziose, mondane, dissolute e compromettenti.

Lasciando da parte questa dualità, possiamo affermare che il patronato di S. Pietro equivale a prendere una delle due forme della Chiesa Cattolica, del periodo Tridentino e specialmente del post-Vaticano I. Questo santo può simbolizzare sia l'aderenza all'autentica tradizione apostolica, che lo porrà contro il Protestantesimo e i suoi frutti in materia di dottrina, etica e culto; oppure può simbolizzare lo spirito dell'ultramontanismo, una falsa esaltazione del papa, un culto della personalità del papa, che taluni hanno chiamato iperpapismo o papolatria.

Giungendo a parlare della FSSP, l'autore non può esimersi dal far notare l'atteggiamento papista che caratterizza questo istituto: certamente esso ha una storia particolare e nasce come sezione accordista del mondo tradizionale, che vuole restare unita anche a livello ufficiale con la Sede Romana, ma questo non giustifica in alcun modo un atteggiamento che Kwasniewski assai saggiamente paragona agli eccessi ultramontani della fine del XIX secolo. Questo atteggiamento contamina anche altri istituti "in piena comunione": penso all'Istituto di Cristo Re, i cui chierici (in fondo replicando un'aberrazione diffusa nelle diocesi prima della riforma liturgica) sono tenuti a dire in perpetuum l'orazione imperata pro Papa. Nondimeno, la San Pietro resta la più "scandalosa" in questo campo. Sono del resto difficilmente giustificabili affermazioni come la recente dichiarazione del nuovo superiore della FSSP, padre Andrzej Komorowski: "Non c’è possibilità di andare in Paradiso senza essere uniti al Papa". Bisognerebbe dirlo a un bel po' di santi della Chiesa, che in Paradiso ci sono, e a quanto pare senza esser stati uniti al Papa (o almeno a quello "giusto")...

La papolatria, la trasformazione del primato giurisdizionale del Vescovo di Roma nella venerazione di una figura come emissario particolare di Dio, dotato di chissà quali virtù soprannaturali, trova indubbiamente le sue origini teoriche in una lettura del Concilio Vaticano I; da Pio IX in poi l'ufficio papale tenderà a essere esaltato a dismisura, fino appunto a giungere all'aberrazione odierna per cui ogni parola che esce dalla bocca del Papa viene accolta come legge divina quasi superiore al Vangelo. Il Comune dei Sommi Pontefici, la trasmissione via radio (e poi via TV) delle Benedizioni prima e degli Angelus poi, le udienze pubbliche, la moltiplicazione delle messe pubbliche, i viaggi intercontinentali... tutto concorre alla creazione di una figura che non è più il Vescovo di Roma e il custode dell'ortodossia, sibbene un vero e proprio rex sacrorum, padrone di fare quello che gli pare del patrimonio di Fede che gli è affidato in semplice custodia (se n'è parlato a proposito delle riforme liturgiche del Novecento).

Immagine dell'ultramontanismo: dipinto di Batoni in cui Benedetto XIV
scrive una bolla sotto l'ispirazione dello Spirito Santo e dei Santi Pietro e Paolo

Le manifestazioni dell'ultramontanismo contemporaneo possono essere evidenti o nascoste. Per manifestazioni evidenti dobbiamo solo guardare alla cerchia di sicofanti che applaudono a ogni singola parola o gesto del papa. Per una manifestazione nascosta, si consideri l'assordante silenzio da parte di molti tradizionalisti circa le più terribili azioni e dichiarazioni del papa; la volontà di proiettare un'immagine di "tutto va bene" in pubblico, facendo il contrario in privato. Si capisce che, in tempo di persecuzioni, i membri delle comunità religiose tradizionali vogliano tenersi al sicuro, per paura delle rappresaglie; ma si penserebbe che, per rispetto di se stessi, i membri di dette comunità non dovrebbero permettersi di parlare contro i Cattolici che alzano la loro voce per protestare contro le deviazioni dalla tradizione dominica, apostolica ed ecclesiastica.

L'autore conclude riassumendo le contraddizioni presenti nei due istituti e invocando una maggior umiltà dalle due parti, per una proficua collaborazione nel nome della Tradizione. Purtroppo, sebbene siano stati evidenziati con dovizia di particolari i difetti maggiori delle due comunità, non tutti i problemi sono stati presentati. La domanda di fondo che bisogna porsi è: si può pensare che questi istituti possano salvare la chiesa dalla deriva attuale? La risposta a parer mio è no, in quanto la discesa verso l'abisso procede a una velocità tale che sarà difficile fermarla in qualche modo, senza un intervento divino. A questo punto, gl'istituti dovrebbero essere almeno dei "porti sicuri" per la liturgia e la spiritualità. Lo sono? Ancorché a molti potrebbe parere così, mi permetto di dissentire.
I problemi liturgici, che abbiamo menzionato nel post precedente, sono estremamente perniciosi, e discendono direttamente da una formazione liturgica scarsissima, praticamente assente; nei seminari non vengono insegnati i principi della liturgia, ma tutt'al più viene impartita qualche insegnamento che cerca di riprodurre la pessima ars celebrandi (e la conseguente mentalità) degli anni '50 del secolo scorso, quelle stesse ars e mentalità che crearono terreno fertile per le scellerate riforme. Raramente ho visto sacerdoti di istituti tradizionali celebrare in modo veramente preciso: nei più si può ravvisare la mancanza di preparazione sin da come tirano i colpi di turibolo durante l'incensazione. I liturgisti veri non hanno vita facile negl'istituti, si pensi al santo prete che fu don Franck Quoex.
Anche la formazione teologica (e questo non lo dico io, ma gente che in quei seminari ci ha studiato e, ricevuta l'ordinazione, ha avuto l'umiltà e l'intelligenza di mettersi a studiare per bene le cose) lascia sovente a desiderare; per non parlare del senso pratico della gestione di una parrocchia, completamente assente nella quasi totalità dei chierici usciti dagl'istituti, che sembrano vivere sulle nuvole. La formazione mistica sembra non pervenuta.
Pietismo ottocentesco, possibilmente da dimostrare in modo palese: a questo si riduce la formazione di molti chierici degl'istituti tradizionali, in cui non si troverà altro che quel clero pericolante della chiesa latina degli ultimi due secoli, il clero che gettò le basi agli stravolgimenti dell'ultimo mezzo secolo. E per di più, con una certa mondanità diffusa: fino agli anni '60, a Roma, erano sospesi a divinis i preti che si recavano nei bar o a teatro. Conosco più di un sacerdote di istituto tradizionalista che nei bar o nei club ci va spesso e volentieri, a notte fonda e in compagnie equivocabili.
Purtroppo, non è certo questa la soluzione per chi vuole ricercare lo spirito apostolico, il ritorno alla purezza della Chiesa antica.
Sembra che un buon numero di chierici crei problemi, più che risolverli. Tutto questo, bisogna dirlo, affonda le sue radici nella generale e comune miseria della condizione umana, sviluppata dal fatto di sentirsi parte di una élite alla quale va dato ascolto e reverenza "a priori" e indipendentemente da tutto: un atteggiamento settario e clericalista, per cui il prete ha ragione perché è prete, ontologicamente superiore ai laici. Per esempio, ricordo un prete cui mi trovai a dover servire la messa, che mi rimproverò ad alta voce durante la liturgia sull'altare per un gesto che avevo fatto, quasi curandosi che tutto il popolo udisse il suo rimbrotto; quando poi, dopo la messa, feci sommessamente notare che quanto avevo fatto era perfettamente previsto e richiesto dalle rubriche, laddove le sue pretese apparivano espressione pura di quel pietismo antiliturgico di cui sopra, per tutta risposta egli mi gridò che lui era prete e dunque doveva avere ragione. Quasi che il fine della vita cristiana non sia l'acquisizione dello Spirito Santo (come diceva san Serafino di Sarov) ma diventare preti, privilegio concesso solo ad alcuni.

4 commenti:

  1. Intendiamoci: il discorso di cui sopra non significa certo che negli istituti non vi siano santi preti. Io stesso ne ho conosciuti alcuni e sono loro profondamente grato e riconoscente per quanto hanno potuto darmi. Semplicemente, mi preme di mettere in luce come il sistema rappresentato dagl'istituti tradizionalisti (tanto "in piena comunione" quanto "ribelli") non possa, nelle sue condizioni attuali, costituire un presidio saldo dell'autentica Tradizione apostolica. Da questo punto di vista, è molto più valido lo sforzo in favore della Tradizione da parte di tanti diocesani che, sfuggiti al conformismo pietista degl'istituti, si sono da sé procurati una sana e autentica formazione cristiana.

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  2. Trovo assai significativo questo intervento in due parti che puntualizza alcuni aspetti imprescindibili che possono aiutare a portare chiarezza (qualora lo si volgia fare...), come ad es. la papolatria, la pietà ottocentesca, la poca cultura teologica, il ruolo di Pio X ecc.
    Mi permetto di dissentire, però, da questa affermzione: " se è comprensibile sostenere che, nelle condizioni attuali, sia poco prudente o poco utile andare a riprendere gli usi pre-piani"; se ho compreso bene il pensiero è la stessa logica (pericolosa) di molti ambienti tradizionalisti.

    Grazie per i sempre interessanti commenti.

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    1. Cerco di spiegare meglio la frase che lei riporta, ch'effettivamente potrebbe risultare pericolosamente ambigua. Anzitutto, per usi 'pre-piani' s'intendono quelli precedenti la Divino Afflatu del 1911.

      La mentalità di molte comunità tradizionaliste può sintetizzarsi in due posizioni distinte:
      - Obbedienza cieca e incondizionata alla lettera della legge che impone i libri liturgici del 1962, che vengono pertanto considerati tutto sommato accettabili ancorché non perfetti;
      - Considerazione (illogica) dei libri liturgici del 1962 (ovvero di quelli del '55 o altri) come in qualche maniera superiori ai precedenti.

      Inutile dire che questa mentalità non mi appartiene. Per spiegare la mia posizione, che è critica di TUTTE le riforme (fintantoché vengono intese come costruzione di una nuova forma), occorre fare una distinzione tra quanto attiene la messa e quanto attiene l'Ufficio Divino. La riforma della tabella delle precedenze (che di fatto si limita a restituire alla domenica la sua prevalenza) non la considero in sé una grave riforma, perché di fatto sana una discordanza che si era venuta a creare nel momento in cui le feste doppie si moltiplicavano senza badare più all'antica limitatezza del rito doppio, e le domeniche (che mantenevano dall'antichità il rito semidoppio) erano penalizzate senza alcun senso.

      La riforma di Pio X tocca assai limitatamente il messale: eccettuata qualche variatio (come la nuova rubrica sull'Ultimo Vangelo speciale), di portata comunque minima, la sostanza è la medesima dei messali precedenti.

      Più complesso è il discorso che concerne l'Ufficio Divino. Le criticità della riforma piana sono evidenti e le ho più volte menzionate. Ma se noi prendessimo il Breviario così com'era nel 1910 (il sito divinumofficium.com, quantunque zeppo d'inevitabili errori, può dare un'idea di ciò), ci troveremmo davanti a una situazione comunque problematica, a un rito ingolfato da una moltiplicazione di feste, con tanto di "duplicazione selvaggia", che vanno a cancellare praticamente il salterio settimanale. Anche se non frutto di una riforma generica, ma risultato del lavoro di molti scriteriati liturgisti lungo i secoli, il Breviario Romano del XIX secolo è insostenibile (non nel senso che sia troppo lungo o complesso, ma perché ha perso gran parte del suo carattere originario). La riforma di Pio X poteva essere saggia e moderata (assegnare i salmi feriali alle feste doppie e semidoppie è cosa giusta e sensata, nel momento in cui il rito doppio è assegnato casualmente a quasi ogni festa), e invece ha voluto essere esagerata e distruttrice (stravolgimento completo dell'ordine tradizionale dei salmi). Scegliere il Breviario post-piano secondo me è "utile" perché almeno permette di recitare abitualmente tutti i 150 salmi, secondo lo spirito dei Padri; prendere il Breviario del 1910 significa ritrovarsi in quella decadenza che portò alla riforma piana. Purtroppo non possiamo farci la nostra riforma personale, e bisogna scegliere una delle due alternative. Per i motivi suddetti ho scelto l'ufficio piano, ma non intendo assolutamente sostenere che sia migliore ex sese. *

      Quando parlo di utilità o prudenza intendo semplicemente che, vista la situazione generale in cui ci si trova, capisco (non necessariamente condividendo) chi mi dice, pur conscio e critico della riforma piana, che preferisce dire l'ufficio del 1911 per un certo 'sentire cum Ecclesia'. Non capisco viceversa chi, come il sacerdote della SSPX che ho menzionato, sostiene che la riforma piana sia "la perfezione del rito romano".

      Spero di esser stato più chiaro.

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  3. * Secondo me, il problema risiede nell'Ufficio romano stesso: ingombrato dal santorale a danno del temporale, con una salmodia eccessivamente preponderante e una certa qual povertà testuale nelle parti di composizioni ecclesiastica... il problema fu la base scelta nel 1568, ch'era uno dei vari in uso nell'Urbe ma forse il meno ricco. E nel momento in cui s'iniziano a moltiplicare le feste, tutte le criticità della costruzione del Breviario Romano affiorano.
    Altri uffici, come quelli monastici, usi locali particolari (penso anche l'ambrosiano, sebbene lo conosca poco), mi paiono più ordinati, in grado di rispondere positivamente all'aumentare delle feste, senza sbilanciarsi e mantenendo la loro tradizionale completezza e unità. Anche l'ufficio bizantino, che trovo particolarmente ricco ed efficace a livello spirituale, è caratterizzato da una straordinaria armonia tra temporale e santorale.

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