Nella prima e nella quinta settimana della Grande Quaresima, dapprima diviso in quattro parti e poi tutto insieme, durante il suggestivo servizio della Grande Compieta, la Chiesa invita i fedeli a piangere i propri peccati con un meraviglioso e lunghissimo poema, il cosiddetto Canone di S. Andrea di Creta, composto dal vescovo di Gortina nella prima metà dell'VIII secolo.
Le prime due delle 250 strofe del Canone introducono l'argomento dell'intera opera, ovverosia il pianto che l'anima (cui è diretta l'allocuzione del poeta in moltissimi loci) è invitata a compiere dei peccati e delle trasgressioni della propria vita passata, meditando sulla punizione dei modelli negativi dell'Antico Testamento (Adamo caduto, Eva tentata, Caino, Lamech, Esaù...), dei quali si dichiara peggiore e pertanto più meritevole di condanna, e rimpiangendo di non aver imitato i modelli positivi (Abele, Noè, Abramo, Giuseppe...). Particolarmente, nella prima strofa, il poeta si chiede donde può iniziare a piangere i propri peccati, e invoca la misericordia divina e il perdono, che innumerevoli volte implorerà lungo il poema.
Πόθεν ἄρξομαι θρηνεῖν τὰς τοῦ ἀθλίου μου βίου πράξεις;
Ποίαν ἀπαρχὴν ἐπιθήσω, Χριστέ, τῇ νῦν θρηνῳδίᾳ;
Ἀλλ᾿ ὡς εὔσπλαγχνός μοι δὸς παραπτωμάτων ἄφεσιν.
Donde incomincerò a compiangere le azioni della mia miserevole vita?
Quale inizio porrò, o Cristo, al lamento che ora intono?
Ma tu, misericordioso, concedimi remissione delle mie mancanze.
La domanda retorica πόθεν ἄρξομαι nell'incipit della lamentatio, dotata di grande efficacia, non è certo un'invenzione del santo innografo, bensì ha un'ampia tradizione largamente presente in brani simili della tradizione letteraria greca classica e cristiana.
Ζεῦ Ζεῦ, τί λέγω, πόθεν ἄρξωμαι
Zeus, Zeus, che dire, donde potrei incominciare
(Eschilo, Coefore, 855)
Οἴμοι, τὶ φῶ δύστηνος; Ἄρξομαι πόθεν;
Ahimè, che dirò io sventurato? Donde incomincerò?
(Euripide, Ifigenia in Aulide, 442)
Νῦν δὴ μώνα ἐοῖσα πόθεν τὸν ἔρωτα δακρύσω;
Ἐκ τίνος ἄρξωμαι; Τίς μοι κακὸν ἄγαγε τοῦτο;
Or che son sola, donde mi metterò a piangere il mio amore?
Da dove potrei incominciare? Chi questo mal mi recò?
(Teocrito, Incantatrici [Φαρμακεύτριαι], 64-65)
Oltre alla poesia, l'incipit godé di una certa fortuna nella prosa retorica, ove il modello è platonico: Πόθεν οὖν δὴ ἅρξομαι καὶ τί πρῶτον ὑποθήσομαι; - Donde dunque incomincerò, e quale indizio porrò per primo? (Parmenide, 137b). Si noti che, benché le edizioni critiche moderne preferiscano volgere questi verbi alla prima plurale, la tradizione nota agli antichi li poneva al singolare, cfr. pure Proclo, In Platonis Parmenidem (ed. Cousin, Paris, 1867: 1031).
Più di un Padre della Chiesa fa uso di quest'incipit nella propria omiletica, per esempio S. Gregorio Nazianzeno nella sua Oratio XXXII (PG 36:176 [1858]), e S. Giovanni Crisostomo nel De Poenitentia (PG 60:695 [1859]). In quest'ultimo si segnala la costruzione di una seconda interrogativa con ποῖος: Πόθεν οὖν ἄρξωμαι; ποῖον δὲ σφάλμα, ἢ ποῖον νόσημα προσαγάγω; (Donde potrei incominciare? Quale errore dunque, o quale infermità potrei addurre?).
Alcuni di questi passi erano sicuramente conosciuti da S. Andrea, che si era formato nella grande Lavra di San Saba, dotata di una ricca biblioteca, e successivamente era stato arcidiacono della Grande Chiesa a Costantinopoli, avendo dunque accesso ai tesori librari custoditi nella capitale dell'Impero. In particolare, mentre il verso eschileo (che probabilmente però funge da modello agli altri) è in un contesto più generico, sia il trimetro euripideo, posto nei primi versi del lamento di Agamennone, sia l'esametro teocriteo, posto all'inizio del lamento di Simeta, introducono un testo del medesimo tenore del Canone di pentimento; sicuramente noto era poi il modello prosastico del Crisostomo, sempre su un tema ad esso vicino. I vari modelli del topos riecheggiano nella mente dell'innografo, che li fonde nell'incipit di un capolavoro assoluto, sia a livello linguistico che contenutistico, della poesia religiosa mediobizantina.
Nota: Nelle edizioni del Grande Canone il verbo ἄρξομαι è al futuro indicativo. I testi classici mostrati oscillano tra questa forma e l'aoristo congiuntivo ἄρξωμαι (perciò alcuni sono tradotti potrei incominciare anziché incomincerò). Tuttavia in tutti questi testi può essere normalmente letto al posto del congiuntivo il futuro, che del resto è la lectio facilior e pertanto la più diffusa nei codici. Per esempio, nei versi teocritei, il Gallavotti (dalla cui edizione critica [Roma, 1993] ho citato) sceglie la lezione ἄρξωμαι, riportata dal Laurentianus 32,16 (il famosissimo codice planudeo di poesia esametrica, copiato nel 1280) e soprattutto confortata da un frammentario papiro antinopolitano (Pap. Ant. 207) del V-VI sec.; tutta la restante tradizione manoscritta riporta il futuro. Simile discorso può valere per l'edizione di Page (Oxford, 1972) che ho preso a riferimento per le Coefore, mentre per l'Ifigenia la più recente edizione di Jouan (Paris, 1983) sceglie il futuro, contro la "classica" edizione del Murray (Oxford, 1902-13) che mette pur ivi l'aoristo congiuntivo. In definitiva, le due forme verbali, differendo per una sola vocale omofona, non hanno realmente un valore divergente.
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