lunedì 22 aprile 2019

Perché cantiamo i testi liturgici?

Un utilissimo contributo del noto e apprezzato professore americano Peter Kwasniewski circa l'importanza e il significato del canto dei testi liturgici, che meriterebbe d'esser fatto leggere a qualche "tradizionalista" poco tradizionale che sostiene che la messa letta (naturalmente "dialogata", come piace ai vari estimatori della liturgia anni '50) sia equivalente o addirittura migliore (sic!) della messa cantata...

di Peter Kwasniewski

In tutte le religioni del mondo, si troverà che vengono cantati i testi sacri. Una convergenza tanto sorprendente suggerisce che v'è un naturale collegamento tra la venerazione della divinità e il canto dei testi relativi ai riti sacri; ovvero, c'è una connessione basata sulla natura dell'uomo, della parola e del canto.

La filosofia del cantare i testi religiosi

Questa pratica universale deriva da un senso intuitivo, per cui le cose sacre e i sacri sentori che le accompagnano non possono essere raccontati come le cose ordinarie e quotidiane, ma debbono essere elevate a un livello più alto attraverso la modulazione musicale, oppure nascoste nel silenzio. I riti autentici, pertanto, tendono ad alternare silenzi (per la meditazione, oppure durante azioni simboliche) e canto (che può essere o meno accompagnato da altre azioni).

Gli atti di culto pubblico sono resi più solenni, e il loro contenuto è più facile da approcciare e memorizzare, venendo cantati dal clero, dai cantori, dal coro e dal popolo. Inoltre, il contrasto tra il canto (massima vetta dell'espressione mana) e il silenzio (una sospensione deliberata e "apofatica" del discorso) colpisce molto più del contrasto tra il parlare e il non parlare. Il primo rassomiglia al formarsi e al frangersi delle onde dell'oceano, mentre il secondo appare più come accendere e spegnere una lampadina.

Parlare è un atto in primis discorsivo e istruttivo, destinato all'ascoltatore, mentre il canto, che può con maggior facilità unire molte voci in un solo corpo, è capace di essere in più foriero di sensazioni spirituali e di un significato che trascende quello delle parole, incrementando grandemente il potere penetrante delle parole stesse. Vediamo questo specialmente nei melismi dei canti, le lunghe elaborazioni melodiche su di una singola sillaba, che danno voce a sensazioni e aspirazioni interiori che la parola non può completamente esprimere.

Nessuno ha commentato in modo più profondo del filosofo della musica Victor Zuckerkandl circa il potere mistico del canto, che unisce tra loro chi canta, e unisce il soggetto all'oggetto. Nel suo libro L'Uomo Musicista, pubblicato pei tipi dell'Università di Princeton nel 1973, egli scrive:

"La musica è appropriata, è d'aiuto quando è richiesto l'abbandono di sé, quando l'Io va oltre se stesso, quando soggetto e oggetto si uniscono insieme. Le tonalità musicali sembrano costituire un ponte che rende possibile, o almeno facilita, l'attraversamento dell'abisso che separa i due. (24-25)
[...]
Cantare è l'espressione naturale e appropriata del gruppo, della solidarietà degl'individui facenti parte del gruppo. Se questo è il caso, possiamo supporre che il canto esprime essenzialmente non l'individuo ma il gruppo; più precisamente, esprime l'individuo nella misura in cui questi è membro del gruppo; ancor più precisamente, esprime l'individuo quanto nella misura in cui la sua relazione con gli altri non è semplicemente "stare di fronte agli altri", ma è una relazione solidale.
Mentre le parole volgono le persone le une verso le altre, i toni musicali li volgono tutti nella medesima direzione: ciascuno segue i toni nella loro strada e nel loro ritorno. Nel momento in cui i toni musicali risuonano, la situazione in cui una parte guarda in faccia l'altra viene trasformata in una situazione di solidarietà, e i molti individui distinti vengono trasformati in un gruppo (27-29).
[...] 
Se le sue parole non sono meramente dette, ma cantate, esse costruiscono un ponte vivo che lo collega con gli oggetti delle sue parole, che trasforma la distinzione e la separazione in comunanza. Attraverso i toni musicali, colui che parla va oltre le cose, porta le cose dall'esterno dentro di sé, in modo che non siano più "l'altro", qualcosa di estraneo da sé, ma in modo che l'altro e lui stesso siano una cosa sola. Chi canta resta se stesso, ma il suo Io è arricchito, la sua gamma vitale è ampliata: essendo quello che è, ora può, senza perdere la sua identità, stare con ciò che non è; e l'altro, essendo quello che è, può, senza perdere la sua identità, stare con lui. (29-30)"

In definitiva, si tratta di questo: noi cantiamo quando siamo una cosa sola, o desideriamo essere una cosa sola, con la nostra attività o con l'oggetto della nostra attività. Questo è vero quando noi amiamo un'altra persona. Ed è massimamente vero quando noi amiamo Dio. Qesta è l'origine dell'incomparabilmente grande tradizione musicale della Cristianità. Sant'Agostino dice: "Solo chi ama, canta". Noi cantiamo... e sussurriamo... e cadiamo nel silenzio.

Nel corso della trattazione, Zuckerkandl fa un appunto che mi richiama dolorosamente alla memoria gli anni trascorsi nel Novus Ordo, con il popolo che recitava insieme il Gloria o il "Santo, Santo, Santo".

"Può alcuno immaginare che della gente si raduni per recitare dei canti? Si potrebbe, ma solo come possibilità logica: nella realtà sarebbe assurdo. Trasformerebbe qualcosa di naturale in qualcosa di terribilmente innaturale. (25)"

La recita dei testi normalmente cantati durante una Messa Bassa "funziona" solo perché il prete dice i testi da solo, e lo fa all'altare, rivolto a Oriente. [1] Egli non sta rivolgendo le parole di un canto ad alcuno, eccetto Dio. Esse allora acquisiscono un valore rituale paragonabile a quello della recita del Canone [quindi, concludiamo, dovrebbero esser dette a bassa voce come il Canone, ndt]. La recita di testi cantati non è liturgicamente ideale; infatti questa forma di Messa si sviluppò per la devozione personale del prete, quando celebrava a un altare laterale, solo con un chierico. Tuttavia, avere una chiesa piena di gente e dire allora i testi da cantare piuttosto che cantarli, dovrebbe apparire a tutti come qualcosa di strano. Ma possiamo lasciare da parte questo punto, di cui ho già parlato qui [e che cureremo di tradurre quanto prima, ndt]

Ragioni pratiche del cantare i testi

Ci sono anche delle ragioni pratiche del cantare. Come è provato dall'esperienza, i testi che vengono cantati con corretta dizione vengono uditi assai chiaramente e distintamente in una grande assemblea di persone, meglio dei testi letti a voce alta o persino urlati. La musica è un modo di trasportare le parole e farle penetrare nelle orecchie e nelle anime degli ascoltatori. Nei tempi antichi, l'epica e la poesia lirica, e persino parti dei discorsi politici, erano cantate, proprio per questa ragione.

L'amplificazione elettronica non era necessaria, quando gli architetti sapevano costruire spazi con un'acustica adeguata, e i ministri liturgici imparavano come cantare. Una chiesa ben costruita con dei cantori ben formati non ha affatto bisogno di amplificazione artificiale. Inoltre, non ogni cosa della liturgia dev'essere udita da chiunque, contrariamente a una delle assunzioni chiave che sottostanno alla rinnovazione/distruzione dei riti.

E' difficile immaginare un aeroporto moderno senza altoparlanti per gli annunci. E', al contrario, una tragedia quando la stessa tecnologica, prammatica, impersonale e generalizzata modalità di produzione sonora invade le chiese. In una chiesa, il microfono uccide l'intimità, l'umiltà, la località e la direzionalità della voce umana. La voce diventa ora quella di un gigante senza posto, un Grande Fratello, venendo da ogni parte e da nessuna parte. Mettere microfoni e altoparlanti in una chiesa non intensifica un processo naturale, sibbene lo sovverte. Non c'è continuum tra la voce umana e la voce artificialmente amplificata: sono due fenomeni separati, con fenomenologie pure differenti.

Quando i testi rituali sono adornati dalla propria musica, il loro messaggio viaggia, sia fisicamente che spiritualmente.

Il Canto Gregoriano come ideale dei testi cantati

Le otto caratteristiche del Gregoriano sono:

  • Primato della parola
  • Ritmo libero
  • Canto all'unisono
  • Vocalizzazione non accompagnata
  • Modalità
  • Anonimato
  • Moderazione delle emozioni
  • Chiara sacralità

Queste caratteristiche, prese insieme, mostrano che il canto gregoriano non è solo un po' differente dagli altri tipi di musica vocale, ma radicalmente e profondamente diverso [2]. Esso è fino in fondo una musica liturgica, che esiste solo per il culto divino, perfettamente confacente alla sua natura verbale e sacrale, e ben adatto ad aiutare i fedeli ad associarsi a questo culto, trovandolo insieme magnifico e inusuale, proprio come Dio Stesso è.

Ora possiamo vedere meglio perché il canto è una parte necessaria e integrale della liturgia solenne, perché esso conferisce nobiltà alla celebrazione, e perché è particolarmente necessario al Rito Romano e merita il posto più importante al suo interno.

Quando eseguito in modo edificante, il canto gregoriano in sé e per sé "si accorda con lo spirito dell'azione liturgica", cosa che non può esser fatta da nessun altro genere musicale. In altre parole, il canto gregoriano fornisce la definizione di cosa significhi "accordarsi con lo spirito dell'azione liturgica", e gli altri lavori musicali devono essere valutati, per così dire, sulla base di questo supremo criterio; come ebbe a dire Papa S. Pio X nel suo motu proprio Tra le sollecitudini: “È del tutto legittimo stabilire la seguente regola: più strettamente una composizione sacra si avvicina ai movimenti, all'ispirazione, e assapora la forma del canto gregoriano, più diventa sacra e liturgica; e quanto più non è in armonia con quel modello supremo, tanto meno è degna del tempio”
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NOTE dell'Autore

[1] Questa è la mia principale obiezione alla Messa dialogata, almeno in quanto essa comporta la recita di quei testi che dovrebbero normalmente essere cantati.

[2] E' stato spesso fatto notare che la forte connessione tra il canto gregoriano e il Cattolicesimo è ben compresa dai direttori cinematografici di Hollywood, i quali, ogniqualvolta intendono evocare un'"atmosfera cattolica", si assicurano che vi sia qualche canto gregoriano di sottofondo. Se solo il clero odierno avesse la metà del loro "senso del business"!

[Fonte - Traduzione di Traditio Marciana]

4 commenti:

  1. All'opposto di questo sta una tendenza molto diffusa tra i "tradizionalisti", quella del c.d. "messabassismo". Ne parlerò prossimamente. Ci sono poi diverse tematiche sollevatesi nelle recenti settimane su cui intendo intervenire, non avendo potuto farlo prima per impegni accademici e liturgici cogenti.

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  2. Posso farle una domanda puramente personale: cosa ne pensa della proposta, avanzata da più parti, di permettere il canto del Canone in alternativa alla preghiera a voce bassa?

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    1. Se questa era la prassi antica (come parrebbe suggerirci il fatto che ai presantificati del Venerdì Santo il prete canta, e non dice sottovoce, il Libera nos dopo il Pater), non vedo perché no. Penso che in realtà in antichità non tutto il canone fosse cantato, ma nemmeno tutto recitato sub segreto (si vedano per esempio le anafore orientali, in cui le parti χαμηλοφόνως sono intervallate da numerose εκφωνήσεις).

      Piuttosto che la scelta (che in liturgia non è mai una buona trovata), sarebbe meglio comunque scegliere una via univoca. Quindi, nel caso, cantato alla messa solenne (con o senza sacri ministri) e sottovoce alla messa privata.

      Peraltro, sarebbe da fare anche un discorso sul silenzio: ha certamente la sua importanza, ma molti tradizionalisti la esagerano e la fraintendono, soprattutto perché danno al silenzio il significato di un tempo per la devozione personale (la qual cosa è in spirito del tutto anti-liturgico). Io sotto questo aspetto sono abbastanza "greco", anche se non giungo a certi eccessi (un liturgista russo dell'Ottocento, di ritorno da un viaggio in Grecia, scrisse che aveva notato che il clero locale non amava troppo i momenti di silenzio durante la liturgia, e disse di aver visto che, terminato dal coro l'Έλεον ειρήνης, mentre il vescovo ancora stava sottovoce dicendo il prefazio, un concelebrante già cantava Τον επινίκιον ύμνον άδοντες etc., per fare iniziare il Sanctus dal coro e non lasciar la chiesa in silenzio), e preferisco magari l'esecuzione di un canto durante il Canone.

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    2. quello del devozionalismo legato alla liturgia è stato un problema, soprattutto quando legato alla Messa drammatica (in cui ai momenti della Messa si associavano vari eventi della vita/passione di Cristo), e ha contribuito allo sfacelo attuale, in quanto, scomparsi nel nuovo rito i momenti di silenzio per meditare, non hanno lasciato niente per frenare la 'partecipazione passiva' sia interiore che esteriore

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