di Luca Farina et al.
La celebrazione ambrosiana del Venerdì Santo (
Feria Sexta in Parasceve) ha caratteristiche del tutto peculiari, che la rendono completamente diversa dal rito romano e da altri riti occidentali. Contiene, viceversa, alcuni elementi che lo avvicinano molto alla prassi bizantina. Sono a risaltare, in particolare, la totale assenza del mistero eucaristico, non essendoci alcun rito di comunione, né del celebrante né dei fedeli (coerentemente con gli altri venerdì di Quaresima) e l’utilizzo del colore liturgico rosso (e non nero) poiché più che l’aspetto luttuoso della Passione e della Morte se ne mette in risalto quello sacrificale. La descrizione dei riti è contenuta nel Messale e descritta dal manuale di liturgia di Padre Borgonovo (1).
Per essere precisi, però, i riti di questo giorno iniziano al pomeriggio del giorno precedente (in Duomo verso le 15.30) con il canto anticipato dei Mattutini, contenenti le tre
Passiones (Marco, Luca e Giovanni) che non verranno lette nella funzione solenne del venerdì. L’ufficio delle
Tenebrae è completamente sconosciuto nel rito ambrosiano.
Nella mattina del Grande Venerdì si canta invece l'ufficio della parasceve vero e proprio. L’intero rito è assai lungo, essendo composto da ben quattro ore liturgiche nella loro interezza, due catechesi, la Passione e l’adorazione della croce. Pertanto, è usanza ometterne alcune parti (prassi consentita) come Terza all’inizio o i Vespri alla fine. Osserviamo ora i riti più nello specifico.
La celebrazione inizia con il canto di Terza, in cui i ministri possono (ma non è necessario) pararsi in piviale, dalmatica e tunicella. Piviale e tunicella andranno comunque rimossi alla fine di Terza, poiché il rito è officiato in abito corale. Pertanto, chi ha diritto alla cappa magna la deve indossare, portandola sciolta a terra o raccolta sul braccio (mai col caudatario) (2). Le candele sull’altare sono normalmente accese. Si inizia col saluto
Dom. vob. da parte del celebrante e subito si canta la Lezione (Is XLIX 21-50) da parte dell’ultimo diacono coi paramenti della Messa (cioè, dove vi fosse clero sufficiente il meno degno) o, in sua assenza, da uno dei chierici. Dopo il salmello (
Foderunt manus meas), viene cantata l’orazione, segue la seconda Lezione (Is LIII 1-12), con le stesse modalità della precedente. Indi vi è il responsorio
Tenebrae factae sunt, che nella Metropolitana è intonato dall’Arcivescovo. Chi deve cantare il Vangelo (il diacono vero e proprio, uno dei sacerdoti presenti [3], o lo stesso celebrante) si para
more diaconali, come sopra e canta, da solo, la
Passio (Matth XXVII 1-50) con i soliti segni (incensazioni, lumi…). Nulla differisce da una normale proclamazione del Vangelo.
All’annuncio della Morte (“emisit spiritum”) il canto è interrotto, e i suddiaconi (o, in loro assenza, i chierici che ne fanno le funzioni) provvedono a spogliare l’altare, togliendovi tutto (croce, tovaglie, candelieri, reliquiari…) e, se presente, avvolgendo attorno al tabernacolo il padiglione. Vengono spenti tutti i ceri e tutte le luci della chiesa, suonano le campane (usualmente a morto, sebbene si dica di suonare come per l’Ave Maria). In tono più basso si completa il canto della pericope, dal versetto 51 al 56, i prodigj dopo la Morte e la confessione del centurione.
Tutti coloro che fossero parati, depongono ogni paramento, e rimangono in abito corale. Finita l’eventuale predica, il celebrante canta, al posto del consueto saluto, “
Benedictus Dominus, qui vivit, et regnat in secula seculorum”. a cui si risponde
Amen e subito dopo si cantano orazione e versetti conclusivi soliti. E’ infatti terminata una parte del rito: la celebrazione prosegue con il canto di Sesta e Nona in coro. Ad ogni salmo, è omesso il Gloria e tutti i saluti sono sostituiti dalla formula succitata. Terminate le due ore consecutive, i ministri ed i chierici si recano in sacrestia, sempre in abito corale. Ivi, dopo una breve preghiera silenziosa avanti alla Croce (la stessa che era precedentemente sull’altare o, preferibilmente, una che contenga reliquie della Santa Croce) e le due orazioni che seguono, ha inizio l’Adorazione della Croce. (4)
Si snoda dunque la processione con la Croce, portata da due ministri
in sacris (con solamente camice ed amitto, assunti in sacrestia o, in loro assenza, il celebrante). La processione incede verso l’altare, ma si ferma per tre volte (solitamente in fondo alla chiesa, a metà navata e poco prima delle balaustre). Il celebrante canta ogni volta “
Ecce lignum Crucis, in quo salus mundi pependit”, alle parole di risposta “
Venite, adoremus” (e non dopo, ma intanto) chi ha in mano la Croce la eleva, e tutti i presenti genuflettono verso di essa.
Dopo le tre soste, la Croce viene collocata sui gradini dell’altare, generalmente su dei cuscini, per ricevere l’adorazione del celebrante, dei ministri e dei chierici. Prima di accostarsi al bacio, a coppie, si effettuano tre genuflessioni. Non è previsto che il popolo compia alcun gesto in questo momento. (5). Mentre, a piedi scalzi, i ministri e i chierici baciano la Croce, il coro esegue il salmo
Beati immaculati in via, alternandosi con tre antifone. Non esistono quindi gli
Improperia.
Dopodiché la Croce viene collocata sull’altare. Dopo l’Orazione e i versetti finali, termina un’altra parte del rito. Soprattutto nelle chiese più piccole, la celebrazione si chiude così e al termine della funzione, la Croce nuovamente tolta dall’altare e collocata su un tavolo ricoperto da drappi rossi per essere offerta al bacio del popolo per il resto della giornata. In tal caso è incaricato della traslazione lo stesso celebrante, in abito corale. Naturalmente, è proibito, tenere esposti due crocifissi, uno sull’altare ed uno in navata.
Alla sera sarà possibile radunare il popolo per un altro momento di preghiera (non liturgico) come la Via Crucis, o una predicazione, purché non si impartiscano benedizioni. E’ preferibile, invece, cantare i Vespri, che contengono le Orazioni speciali. Afferma perentorio il Borgonovo che cantarle a parte come rito a sé è un arbitrio e non un rito liturgico.
Il rito nella sua interezza, invece, prosegue là dove eravamo rimasti. Con il saluto
Benedictus Dominus ha inizio un’altra catechesi. L’ultimo chierico canta il brano biblico di Dan III 1-24. Terminato, un solista intona il cantico
Tunc hi tres, il cantico dei tre fanciulli nella fornace, a cui si risponde Amen dopo ogni versetto. Dopo l’ultimo verso, il penultimo chierico prosegue la lettura profetica, dal verso 91 al 100. In parallelo con la prima catechesi (ultimo per dignità, penultimo e primo), la seconda catechesi, dopo il cantico
Supra dorsum meum prevede il canto, da parte del diacono più degno (vale quanto detto sopra), del brano della deposizione e sepoltura (Matth XXVII 57-61). Non si usano né lumi né incenso e non ci sono saluti o risposte.
Si cantano i Vespri e, dopo l’ultimo responsorio, si cantano le Orazioni speciali o solenni. Lo schema per ogni orazione (esclusa quella per gli ebrei) è
Flectamus genua (tutti genuflettono tranne il sacerdote che canterà l’orazione), introduzione all’orazione,
levate (tutti si alzano) e orazione vera e propria. Le orazioni sono, in quest’ordine, per questi soggetti: Chiesa, Papa, clero e popolo, imperatore (6), catecumeni, bisognosi, eretici e scismatici, ebrei, pagani.
Dopo un’ultima orazione, seguono i versetti finali col
Pater Noster in segreto, e il rito si chiude con il
Sancta Trinitas nos semper salvet et benedicat. Amen.
Terminato tutto il rito, si rientra in sacrestia e può ora essere esposta ai fedeli la Croce, secondo le modalità adottate sopra per la forma più breve.
Dicevamo che l'ufficio presenta delle similarità con il rito bizantino, segnatamente con l'ufficio delle
Ore regali, celebrate al mattino del Venerdì, non foss'altro che per l'uso di disporre i riti di parasceve all'interno delle ore quotidiane e non di una liturgia dei presantificati come negli altri riti latini; anche il fatto di cantare tre passioni al Mattutino di questo giorno, anticipato alla sera del Giovedì, trova eloquenti paralleli nel lunghissimo ufficio dei Dodici Vangeli, cioè il mattutino bizantino del Grande Venerdì. Le Ore Regali, ufficio che si celebra in tutti i giorni penitenziali che hanno comunque un carattere solenne (per esempio, la Vigilia di Natale o quella dell'Epifania), consistono nella celebrazione consecutiva dell'Ora Prima, Terza, Sesta e Nona, le quali sono arricchite -rispetto alla normale forma che prevede semplicemente salmodia, tropari del giorno e orazione finale- da un'incensazione (effettuata non con il turibolo ma con un piccolo incensiere manuale "domestico"), da una lettura profetica da Geremia o Isaia (che può paragonarsi alle "catechesi" ambrosiane), da una lettura apostolica e da un Vangelo della Passione, talché -seppur in forma abbreviata- tutte le quattro Passioni vengono oggi rilette. A Nona, prima delle lezioni, si compie l'ostensione e l'adorazione della Croce, al canto del lento e solenne tropario Σήμερον κρεμᾶται ἐπὶ ξύλου. Subito dopo le ore viene cantato il vespro "della deposizione", durante il quale, oltre a poetiche stichirà piene di dolore sulla Santa Croce e in memoria di Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, si cantano una lunga lettura dall'Esodo, un apostolo, e il racconto della deposizione in una lunghissima pericope evangelica fatta dalla collazione delle quattro testimonianze circa il medesimo episodio. Dopo l'apolisi il corpo viene rimosso dalla grande croce che si è venerata all'ora Nona, e viene deposto l'epitafio nel suo luogo, per il canto del Mattutino del Grande Sabato, che avverrà in serata, sul Cristo Morto. Come si vede, dunque, non poche sono le similitudini nel disporre le cerimonie. Tra l'altro, il salmo 118, che nel rito ambrosiano è cantato al cospetto del Cristo in Croce, nel rito bizantino è cantato al Mattutino del Sabato, al cospetto del Cristo nel sepolcro, intervallato con il meraviglioso poema Ἡ ζωὴ ἐν τάφῳ.
Di seguito, alcune foto della liturgia ambrosiana del Venerdì Santo celebrata presso la chiesa di S. Maria della Consolazione in Milano nel 2018. Si possono vedere il canto della Passione dal diacono parato con lumi e incenso, l'ingresso processionale della Croce e l'adorazione della stessa.
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NOTE
1: per la sua autorevolezza, può essere considerato una fonte rubricale e non un semplice manuale di commento. Non così invece altri -seppur insigni- come il Dozio od il Germani. Padre Giustino Borgonovo O.SS.C.A. ricevette un’approvazione totale e pubblici elogj da parte degli arcivescovi di Milano Tosi e Schuster, nonché di Pio XI.
3: se vi fossero solo due sacerdoti (o un sacerdote e un diacono) e mancasse chi potesse ministrare come suddiacono, è possibile comunque svolgere la funzione che, in modo assai singolare, avrà solo due ministri sacri.
2: in Arcidiocesi di Milano ne hanno diritto in modo speciale i prevosti, di colore nero di 1 metro di lunghezza. Il motivo dell’uso della cappa lasciata strisciare in questo giorno potrebbe significare che di fronte alla Morte di Cristo tutti gli onori, anche ecclesiastici, sono un nulla.
4: questa particolarità ci porta ad una considerazione, cioè a quella della sacrestia come spazio celebrativo sui generis, ma comunque da tenere con ordine e decoro, cosa che non sempre, invece, non accade.
5: fanno eccezione i rappresentanti delle Confraternite (purché in numero ridotto e vestiti del proprio abito); in Duomo sono ammessi invece i vecchioni di Sant’Ambrogio, incaricati del servizio e dell’ordine nella cattedrale. Pur essendo di ambo i sessi, solo gli uomini erano ammessi a varcare le soglie del presbiterio.
6: quest’orazione ha una storia particolare: secondo alcuni l’orazione fu omessa già dal 1806 quando Francesco II d’Asburgo-Lorena proclamò lo scioglimento formale del Sacro Romano Impero; secondo altri bisogna aspettare il 1866, con l’annessione della Lombardia al nascente Regno d’Italia. L’orazione venne però stampata sempre sui Messali, e forse utilizzata da alcuni sacerdoti “nostalgici” fino alla deposizione di Carlo I d’Austria. Con certezza, invece, si racconta da alcuni anziani che l’orazione veniva regolarmente utilizzata tra il 1936 ed il 1941 in quanto Vittorio Emanuele III si fregiava del titolo di Imperatore d’Etiopia.