Più volte ci siamo trovati ad affrontare (ad esempio qui) l'annoso problema dell'interpretazione del cap. 16 del Vangelo di Matteo, il cui intendimento tradizionale è stato radicalmente mutato durante la riforma gregoriana per creare l'immagine del Papa successore di Pietro come detentore di una potestà di giurisdizione speciale e universale da cui discenderebbe quella di tutti gli altri vescovi; abbiamo avuto più volte modo di vedere come questa interpretazione non corrisponda, e anzi sia contraria, a quella di molteplici Padri della Chiesa, e in generale all'intendimento che la stessa Chiesa Romana ne ha professato nel primo millennio della sua esistenza.
Presentiamo oggi un ulteriore documento storico che ci fornisce risvolti interessanti sull'esegesi latina tradizionale del passo evangelico in questione. Si tratta di una relazione fornita dai vescovi franchi, avente per primo estensore assai probabilmente Ebbo di Reims, in occasione della pubblica penitenza a cui l'imperatore Ludovico il Pio ebbe a sottoporsi nell'833 (da non confondersi con la più nota penitenza resa dal medesimo imperatore ad Attigny undici anni prima). Non entriamo nello specifico delle motivazioni della penitenza di Ludovico, né delle lotte con Lotario o dei tentativi dell'episcopato franco di imporre l'autorità ecclesiastica su quella imperiale, o della questione della pubblica penitenza all'epoca declinante in favore della penitenza privata di origine anglosassone: su tutti questi problemi, che richiederebbero pure una necessaria analisi di tutte le fonti coeve, il lettore troverà ampio materiale in M. De Jong, "Power and humility in Carolingian society: the public penance of Louis the Pious" in Early Medieval Europe 1 (1992), pp. 29-52.
raffigurante la penitenza di Ludovico il Pio
Andiamo invece a leggere l'introduzione della Relatio e a considerarne i risvolti ecclesiologici ed esegetici:
Omnibus in christiana religione constitutis scire convenit, quale sit ministerium episcoporum, qualisque vigilantia atque sollicitudo eis circa salutem cunctorum adhibenda sit, quos constat esse vicarios Christi et clavigeros regni caelorum. Quibus a Christo tanta collata est potestas, ut, 'quodcumque ligaverint super terram, sit ligatum et in caelo, et quodcumque solverint super terram, sit solutum et in caelo'.
Conviene che tutti color che son costituiti nella religione cristiana sappiano quale sia il ministero dei vescovi, e quale vigilanza e sollecitudine debbano avere per la salvezza di tutti, i quali [vescovi] è noto che sono i vicarj di Cristo e i clavigeri del regno dei cieli. A loro è stato dato da Cristo un sì grande potere, che 'qualunque cosa abbiano legato sulla terra, è legata pure in cielo, e qualunque cosa abbiano sciolto sulla terra, è sciolta pure in cielo'.
Episcoporum de poenitentia quam Hludovicus Imperator professus est, relatio compendiensis, ed. in Monumenta Germaniae Historica: Capitularia regum Francorum, II, Hannoverae 1897, n. 197, pp. 51-52.
Come si nota, i vescovi in generale vengono definiti vicarj di Cristo e clavigeri del regno dei cieli, attributi tipicamente assegnati unicamente al Papa di Roma nella vulgata interpretativa post-gregoriana; gli estensori della relazione sembrano invece ben consapevoli che, come già attesta S. Girolamo (Liber III commentariorum in Matth. 16, ed. PG 26:116-117) specificando che Pietro parla ex persona omnium Apostolorum, il dialogo in Matteo 16 tra l'Apostolo e Nostro Signore è riferito a tutto il collegio apostolico, e le potestà ivi conferite si riferiscono a tutto il collegio apostolico, a cui pervengono senza mediazione: il potere delle chiavi, il potere di sciogliere e di legare, è direttamente conferito agli Apostoli, come direttamente Cristo consegna il pastorale - simbolo di giurisdizione - al vescovo nella nota miniatura di Fra' Angelico qui sotto riprodotta. In tal senso, è tutt'altro che peregrino il volgere al plurale il versetto 16, come fa il prologo della relazione, affermando esplicitamente quello che tutti i Padri della Chiesa vedono descritto implicitamente nell'Evangelo, ovvero che tale somma potestà apostolica è stata concessa all'intero collegio, ed ergo a tutti i vescovi, e non solo a Pietro (e di lì, per qualche misterioso motivo, al suo successore romano e non a quello antiocheno) come professa la dottrina ildebrandiana.
Riane però il fatto che solo a Pietro viene cambiato il nome a seguito della professione di fede, e non a tutto il collegio apostolico, fatto salvo il nome collettivo di Boanerghes.
RispondiEliminaSicuramente l'assenza del dogma pontificio aiuterebbe molti cattolici nella presente situazione legata a Bergoglio, così come nel 1969, nel 1955 o anche nel 1910.
D'altra parte, come ci ha insegnato in questi anni relativamente alla liturgia, non è chiaro con quale rito lo Spirito Santo scenda sul novello pontefice, stante che manca un rito specifico, a differenza della consacrazione episcopale. Quando diventa infall8bile il candidato? Con il termine dei conti, con la frase di accettazione, con la incoronazione?