L'avv. Ferro Canale, immaginiamo con cognizione di causa e non semplicemente trascinato dall'astio secolare che oppone veneziani e genovesi, arriva a dire che le nostre considerazioni hanno "il sapore, se non la sostanza, dello scisma", se non "di eresia". Lasciando stare la gratuità di queste affermazioni, che riguardano questioni che non spetterebbe all'avv. Ferro Canale dirimere, e la lesione della buona fama della mia persona (tutelata, oltreché dalla legge civile, anche dal can. 220 del Codice di Diritto Canonico) cui contribuiscono gli ingiuriosi e diffamanti commenti che anonimi lettori appongono agli articoli di MiL, faccio notare che nel nostro blog è presente una sezione informativa ("Chi siamo"), in cui è effettuato un preciso disclaimer: "Seppur di chiaro indirizzo cristiano, il Circolo non è un'organizzazione religiosa né è in alcun modo affiliato ad alcun gruppo religioso od altra organizzazione". Lo scopo del sito è anzitutto fornire materiale di studio e riflessione sui principi della liturgia e della teologia liturgica in modo oggettivo e documentato, non di propagandare l'adesione alla Chiesa Cattolica, a quella Ortodossa o ad altri gruppi. I membri del Circolo e gli autori dei post non sono nemmeno necessariamente tutti romano-cattolici. Dunque, se una disquisizione documentata nel merito è gradita e pertinente, la discussione di patenti di eresia e di scisma risulta, oltreché eticamente inopportuna e sgradevole, del tutto non pertinente agli scopi e alla natura di questo sito. Chiusa questa premessa, che ci consente di citare autori anglicani in virtù della correttezza oggettiva di alcune loro analisi storiche senza dover essere accusati dal nostro di simpatie sovversive per la Chiesa d'Inghilterra, passiamo ad altro.
Il nostro contraddittore elabora tutta la sua lunga e articolata riflessione con gli occhi del giurista e del canonista, e non del liturgista, quale egli in premessa ammette difatti non essere, e basandosi pertanto su un solo argomento: la legge, intesa come legge canonica e positiva. Questo dimostra tuttavia almeno l'ignoranza del fatto che la Liturgia è un sistema complesso che deriva direttamente dagli istituti di Cristo e degli Apostoli, rielaborati in forme sin da subito differenti a seconda dei luoghi, da un complesso di principi stabiliti e non modificabili senza detrimento dell'essenza stessa del culto, e non è semplicemente il "culto legale" stabilito da una legge umana. La Tradizione, liturgicamente parlando, è il principio fondante, e non è a sua volta fondata dalla legge positiva.
La nostra opposizione, infatti, diversamente da quanto rileva l'avv. Ferro Canale, riguarda TUTTE le riforme del XX secolo, incluse dunque quelle di Papa Pio X (la nostra edizione dell'Ordo giusta le rubriche della VI edizione dopo la tipica del 1920 [1952] fu motivata dal venire incontro alle richieste del pubblico, e si trattò di un lavoro puramente compilativo e non argomentativo, e dunque non può essere preso a emblema delle nostre posizioni), e pure alcune anteriori. Ciò può avvenire perché le nostre riflessioni si basano su un'analisi storica, teologica e contenutistica dei principi liturgici e delle riforme, e non sulla negazione della "autorità papale" dei singoli pontefici che hanno promulgato le dette riforme [1]. Quest'ultimo è invece l'argomento dei sedevacantisti, che su nulla si basa se non sull'ipertrofia dell'autorità papale; tale ipertrofia, da posizione diversa, è riproposta dall'avv. Ferro Canale, il quale afferma in modo acritico che è potere del Papa abrogare qualsiasi legge, tradizione e consuetudine. Egli ammette però che il papa non possa cambiare la dottrina (i più infallibilisti sostengono talora pure questo, e nei fatti si è veduto): ma, come insegna S. Prospero d'Aquitania, legem credendi lex statuat supplicandi [2]. Nonostante l'interpretazione contraria data negli ambienti cattolici negli anni più recenti (nella Mediator Dei di Pio XII si afferma di fatto che lex credendi legem statuat supplicandi, con una serie di pesanti interventi liturgici resi possibili in conseguenza), l'intendimento dei Padri è che la tradizione liturgica apostolica fonda la dottrina. E dunque non sarebbe possibile per l'autorità cambiare in modo radicale la liturgia senza cambiare anche la dottrina.
Nella visione dell'avv. Ferro Canale, la semplice promulgazione da parte dal papa di una legge liturgica ne comporta l'infallibilità e il dovere di osservarla; ne consegue che l'avv. Ferro Canale, se fosse vissuto negli anni '70, si sarebbe dovuto schierare con i persecutori, poiché la legge liturgica allora imposta, il messale di Paolo VI, sarebbe stata per lui sovrana e inderogabile, e non sarebbe stato possibile rifarsi alla forma precedente, fatti salvi i casi nei quali egli stesso sancisce lecita una resistenza, ossia: a) che Paolo VI non fosse vero papa (o fosse "meno papa" dei predecessori, o, come si sostiene in certi ambienti della FSSPX, "non sapesse usare la propria autorità papale"); b) che la riforma liturgica del 1969 fosse una legge ingiusta secondo la definizione restrittiva che egli ne dà: in entrambi i casi, al netto dei difetti logici dell'opzione a), egli pone gravi problemi rispetto alla sua dichiarata posizione cattolica, e rischia di dare adito a una posizione purtroppo condivisa da molti negli ambienti tradizionalisti cattolici, quella del "sedevacantismo implicito", per cui appunto da Paolo VI in poi non vi sono più papi, o non vi sono più papi con autorità, s'ignora per quale ragione. Né l'avv. Ferro Canale può usare a sua difesa l'indulto di Giovanni Paolo II o il motu proprio di Benedetto XVI che, al di là della natura e della tesi degli stessi provvedimenti su cui si può discutere, sono figli della strenua e sofferta resistenza delle pie anime di molti sacerdoti che, agendo contra legem, hanno ritenuto doveroso conservare i libri liturgici antichi piuttosto che adottare quelli moderni. E queste pie anime, almeno quelle di cui mi è dato conoscere la storia, quale il "nostro" don Siro Cisilino [3], come sulla scorta della propria coscienza e della propria conoscenza si rifiutavano di adottare i libri riformati nella seconda metà degli anni '60, giungevano inevitabilmente a condannare il complesso delle riforme liturgiche della metà del XX secolo [4], e a celebrare il rito che oggi definiremmo "pre-Pio XII"; l'adozione universale da parte dei "tradizionalisti" del Messale del 1962, un messale di transizione destinato a essere dimenticato (cfr. infra), fu storicamente lo sciagurato frutto di avvicendamenti interni alla FSSPX, culminati nel 1983 con il diniego dell'uso del vecchio messale, diventato "patrimonio" dei sedevacantisti americani di Dolan e pochi altri.
La posizione legalista dell'avv. Ferro Canale, è da dire, è il naturale frutto di un processo storico che egli stesso menziona nella seconda parte del suo scritto, ossia la progressiva avocazione a sé dell'autorità liturgica da parte della Sede Romana. Come egli giustamente rileva, la Costituzione Apostolica Quo primum tempore di Papa Pio V costituisce storicamente la prima azione di autorità centralizzata in materia liturgica da parte della Sede Romana; si tratta però di un'azione assai blanda, poiché infatti, pur concedendosi a tutti i sacerdoti la facoltà dell'uso del Messale Romano (restitutum e proclamato in una forma tipica, ma di fatto non riformato e riproducente, con poche differenze soprattutto rubricali, i modelli di pochi decenni precedenti del Missale secundum consuetudinem curiae romanae, particolarmente quello impresso a Venezia nel 1494, vent'anni dopo la prima edizione a stampa [Milano, 1474]), non mette mano ai riti locali o propri che possano vantare oltre duecento anni di antichità (ciò significherebbe anche un rito nato a metà del XIV secolo!). La condanna dei riti con meno di duecento anni d'età, si potrebbe arguire, è un atto di dottrina piuttosto che di liturgia, poiché si tratta di riti sorti negli anni dei grandi movimenti ereticali (quello di Tyler e Wycliff in Inghilterra, quello di Jan Hus in Boemia, e infine il luteranesimo nelle terre germaniche) ed esprimenti dunque una dottrina contraria a quella apostolica. La diffusione universale del rito romano avvenne indipendentemente dalla lettera del provvedimento e, oltreché per l'insistente predicazione degli ordini religiosi come i Francescani, sommi difensori dell'imperio papale, anche per l'eccessivo e deferente zelo [5] di certi vescovi e soprattutto dei visitatori apostolici nell'imporre ovunque l'uso romano, non senza talora l'opposizione del clero locale e la persistenza continuata per molti secoli di riti locali o almeno di loro vestigia (come l'assoluzione al tumulo more veneto).
E' vero che, come arguisce l'avv. Ferro Canale, il summenzionato atto di Papa Pio V segna l'inizio del declino del diritto consuetudinario, cioè dello sviluppo organico della liturgia basato sull'azione del πλήρωμα della Chiesa, ma da qui a dire che la potestà legislativa in materia liturgica fu sottratta ai vescovi dal Tridentino ne passa: anzitutto, nel Decretum super Indice librorum, Catechismo, Breviario et Missali della XXV sessione del Concilio di Trento (4 dicembre 1563) sono i vescovi stessi, cui i padri scelti durante la II sessione hanno presentato i propositi di azione sui libri liturgici, che, vista la difficoltà di esaminare tutti i testi nell'assise conciliare, per la prima volta demandano al Pontefice Romano la propria autorità di occuparsi della pubblicazione degli stessi, e non la Sede Romana che avoca a sé tale potere. Proprio la Sacra Congregazione dei Riti, inoltre, col decreto n. 46 del 15 ottobre 1593, afferma il principio generale che Consuetudo, quae sacris canonibus non repugnare videtur, probatur, senza dover sottoporre a indagine il singolo costume, salvo che si paventino violazioni dei canoni [6].
Il can. 1257 del Codice di Diritto Canonico del 1917 che egli cita è a tutti gli effetti una innovazione, anzitutto giacché non i vescovi demandano alla Sede Romana un ruolo liturgico (come nel Tridentino), bensì la Sede Romana impone se stessa in materia sopra i vescovi. Fino ad allora, per esempio, per la ufficialità di un libro liturgico era sufficiente l'imprimatur del vescovo locale; dal 1917 è richiesto l'imprimatur della Santa Sede, persino per i propri locali, e da allora solo i pochi editori autorizzati direttamente da Roma possono stampare i libri liturgici. Inoltre, secondo autorevoli interpretazioni, questo canone implicitamente intende abrogare il summenzionato decreto della SRC, sopprimendo del tutto il principio consuetudinario, la cui distruzione difatti potrà pochi anni dopo essere ribadita da Giovanni XXIII (Rubricarum instructum, 3). Si completa il lento processo di trasformazione della liturgia, che non fallacemente è stata definita culmen et fons della vita del Cristiano, in una branca del diritto canonico; forse il frutto più grave di quella trasformazione della curia romana in una efficientissima macchina burocratica iniziata nel basso Medioevo e che già S. Bernardo aveva a temere, quando affermava che nel palazzo papale si facea udir più la legge di Giustiniano che quella di Cristo [7]. Lo stesso avv. Ferro Canale, dunque, spiegando la propria concezione legalista della liturgia, conferma che essa è frutto di una pesante modifica storicamente avvenuta del modo in cui la Chiesa ha tradizionalmente sviluppato la propria liturgia.
Frontespizio di un'edizione veneziana del 1578 del Messale Tridentino |
Non vi è qui lo spazio per intraprendere una disamina punto per punto della storia del Messale, né delle rubriche del 1960: ci si limiterà dunque a procedere per alcune tappe fondamentali. La "Messa tridentina", strettamente parlando, è il rito promulgato nel 1570 in forza del Concilio Tridentino, de facto il Messale secondo la consuetudine della curia romana dei secoli precedenti con limitatissime modifiche nell'ordinario [10] e una più consistente pulizia del santorale; esso, insieme al Breviario promulgato due anni prima [11], resterà in vigore poco più di una trentina d'anni. Non occupandoci qui della prima variazione occorsa con l'introduzione del calendario gregoriano nel 1583, in una nuova edizione del Breviario nel 1602 e del Messale nel 1604 (Papa Clemente VIII) vengono apportate consistenti modifiche al Tridentino. Nel rito della Messa, al netto di interventi minori (come la soppressione del verso Introibo in domum tuam all'ingresso del celebrante nel luogo sacro prima della Praeparatio, e quella del salmo 140 all'incensazione dell'Introito, solo per fare esempi), spiccano l'abolizione della triplice benedizione alla fine della Messa (che viene riservata ai vescovi: sembra che da qui inizi pure il malvezzo di leggere la benedizione anziché cantarla) e una modifica nell'ordine delle parole e dei gesti alla consacrazione del calice nel Canone Romano. Nel Breviario c'è un accorciamento generale di tutte le lezioni, fino alla sparizione completa di alcune, e la soppressione o sostituzione di alcuni inni (per esempio quello del Vespro delle domeniche di Quaresima, Ad preces nostras deitatis aures), oltre a diverse modifiche rubricali. Queste modifiche, seppure talune di una certa gravità e pure contestabili in linea di principio, in ogni caso consegnano un rito che nella sostanza non è troppo differente da quello di Pio V: strettamente non è più il rito tridentino, ma è un rito che è tridentino nella sua sostanza.
Non ostanti interventi successivi più o meno deprecabili (per esempio la versione classicista degli inni di Urbano VIII; o, parlando del messale, l'estensione da parte di Benedetto XIV del Prefazio della Trinità a tutte le domeniche che non avessero già un prefazio assegnato), talora forse apprezzabili (per esempio il recupero di qualche santo che godeva di culto antichissimo, come S. Anna, ed era stato eliminato dall'eccessiva acribia dei revisori tridentini), la sostanza del Breviario e del Messale resta simile fino al XIX secolo, e perciò si può ragionevolmente parlare ancora di "liturgia tridentina". Sul finire di questo secolo, una serie di cambiamenti nelle rubriche (particolarmente la traslazione delle feste e la precedenza) o di innovazioni come gli uffici votivi (che sanciscono la scomparsa della salmodia del tempo dalla vita di preghiera del chierico) danno inizio al processo di riforma liturgica che esploderà nel secolo successivo. Non discuterò qui le motivazioni che hanno portato alla riforma, di cui abbiamo tante volte parlato e tante volte ancora parleremo. Fatto sta che tra il 1911 e il 1913 si consuma la più grande riforma liturgica che la Storia avesse fino ad allora mai visto: sfruttando proprio un intransigente principio di autorità, Papa Pio X promulga i documenti (De diebus festis, Divino afflatu, Abhinc duo annos) che conducono alla creazione di un nuovo Breviario. Si potrebbero analizzare, e sotto molti aspetti criticare, tutti i cambiamenti apportati da questo Breviario, ma ci limiteremo a menzionarne uno notissimo, quello del Salterio. Il Salterio è il cuore del breviario romano, per eredità della sua antica tradizione sinagogale che pone sulla salmodia, e non sulle preci ecclesiastiche, il centro della lode quotidiana: non v'è nulla di strano che la distribuzione tradizionale del Salterio dai cattolici venisse ritenuta "sullo stesso piano del Canone della Messa quanto a impossibilità di essere cambiata, emendata o riorganizzata", come spiega il coevo liturgista anglicano John Wickham Legg [12]. L'antica distinzione tra salmi mattinali e salmi vespertini, la recita quotidiana del salmo 118, i salmi fissi della Compieta e molti altri, ma soprattutto l'immemorabile costume, comune a tutti i riti cristiani perché rimontante direttamente alla pratica della Sinagoga, di recitare i salmi laudativi 148-149-150 all'alba (donde il nome "Lodi" dell'ufficio), vengono barbaramente stralciati. A un'analisi comparata risulterà che, a eccezione delle Piccole Ore (Terza-Sesta-Nona) della Domenica e dei Vespri e dei Mattutini di qualche festa di rango liturgico tale da richiedere la salmodia festiva anche sotto Divino afflatu, nessuna ora liturgica dal 1913 risulta detta uguale a come si è detta nei secoli antecedenti. I Vespri della domenica pomeriggio mantengono invariati i salmi, ma inspiegabilmente vengono modificate le antifone tradizionali con alcune composte ex novo, per fare un esempio della libertà presa dai novatori di poter stravolgere ogni parte del patrimonio liturgico romano, anche laddove non urgeva la motivazione che si era data come pretesto.
Prosegue Legg: "Essi [il Salterio e il Canone] erano la sacra arca della Liturgia, che nessun uomo può toccare. [...] In questa riforma si è compiuto qualcosa che può essere descritto solo come una sbalorditiva rivoluzione liturgica, una completa redistribuzione del Salterio, in luogo di una vecchia distribuzione che può vantare la più venerabile antichità; che Benedetto XIV e i suoi consulenti nella proposta di riforma del Breviario non hanno osato toccare, poiché essi non riuscirono a trovare che la Chiesa di Roma ne avesse mai usato un altro. Ormai questo antichissimo Salterio, e - va ricordato - il Salterio e l'ossatura del Breviario, è scomparso per quanti usano il rito romano solo pochi anni fa, nel 1911. Chi, allora, può accusare i riformatori inglesi del XVI secolo di una mancanza di riverenza per l'antichità nel cambiare la distribuzione del Salterio, quando la Santa Sede stessa ha compiuto un simile rovesciamento, solo in ritardo nel tempo dell'esecuzione? Difatti la pretesa romana dell'antichità del Breviario è sparita; il loro nuovo Breviario è una cosa di ieri. E Pio X nella Bolla Divino afflatu, che ha autorizzato i nuovi libri, ha promesso già ulteriori cambiamenti" [13]. Come è chiaro, dal 1913 non possiamo più parlare di Breviario Tridentino: abbiamo un rito costruito a tavolino da una commissione di ecclesiastici e promulgato da un Papa sulla sola base della propria autorità, seppur col pretesto di venire incontro a delle "necessità del clero". L'avv. Ferro Canale potrà dire che a suo avviso questo rito è liturgico perché corrisponde alla legge positiva; sicuramente non è tradizionale, perché non corrisponde affatto in pur minima parte al rito seguito nei secoli precedenti.
Ulteriori riforme del Breviario avverranno in seguito, allontanando sempre più i nuovi prodotti editoriali degli stampatori vaticani dai libri liturgici storici: dopo la distruzione del Salterio, durante gli anni '50 e '60 anche il resto della struttura tradizionale dell'ufficio (preci feriali, suffragi, etc.) verrà smantellata. Persino il costume antichissimo di far iniziare le feste al Vespro della sera precedente (direttamente derivato dalla pratica ebraica e antica di contare il giorno da tramonto a tramonto, e comune alla quasi totalità dei riti cristiani), e dotare eventualmente le feste più solenni di un secondo Vespro, è soppresso, talché molte feste da allora hanno i secondi Vespri, qualcuna rara ha anche i primi, alcune non ne hanno nessuno (anomalia sanata nel 1960, dando però a queste il secondo Vespro): in precedenza esistevano feste senza secondi Vespri, ma tutte avevano i primi, ovviamente.
Nel frattempo, nel 1920 era stata pubblicata una nuova edizione tipica del Messale Romano, per adattarla ai cambiamenti che, operati nel decennio trascorso sul Breviario, influenzavano anche la celebrazione della messa, per esempio la modifica della tabella delle precedenze, dell'ordinamento delle ottave etc., i quali furono riportati in un'apposita sezione di rubriche (Additiones et variationes in rubricis Missalis Romani), e non integrati nel testo di quelle clementine che fu invece riprodotto fedelmente [14]. Oltre agli adattamenti, gli interventi originali sono pochi e limitati, come per esempio l'introduzione di ulteriori Ultimi Vangeli speciali (Additiones et variationes IX, 3). Dunque, benché nel frattempo non vi sia più un Breviario romano tradizionale, si continua a usare un Messale rispondente al modello tridentino e, dunque, alla tradizione liturgica romana. Ma questa situazione durerà pochi decenni.
Attraverso le minori, eppur contestabili, innovazioni introdotte in quegli anni (la festa di Cristo Re, il Comune dei Papi, la nuova messa dell'Assunta...), si arriva a quelle più pesanti operate nel 1955-56, come la soppressione della quasi totalità di vigilie e ottave, di cui la riforma dei riti della Settimana Santa è certamente la più grave e notevole. Il nostro contraddittore la liquida come una "legge inopportuna", arguendo peraltro che tale riforma sarebbe stata necessaria per permettere al popolo di partecipare ai riti della Settimana Santa (partecipazione in orario mattinale che invece nei paesi dell'Est avviene abbondantemente tutt'oggi: forse più che gli orari si sarebbe dovuto aggiustare l'interesse di certa parte della popolazione occidentale per la liturgia...): se si fossero limitati a cambiare gli orari! Le riforme furono molteplici e disastrose, andando a toccare l'intera sostanza dei sacri riti (per esempio la liturgia dei Presantificati del Venerdì Santo fu sostituita da una "celebrazione della Parola" con Comunione), e nel caso della vigilia di Pasqua non si verificarono solo, come dice l'autore, "tagli drastici", bensì la completa sostituzione della celebrazione vesperale della vigilia della Risurrezione e della discesa di Cristo agli Inferi con una inesistente, per quanto suggestiva, veglia notturna (ne abbiamo ampiamente discettato qui). Per non parlare della completa soppressione della vigilia della Pentecoste, e di molto altro. Una dissertazione completa su un argomento su cui esiste moltissima letteratura è chiaramente impossibile da dare in queste righe, e si invitano pertanto i lettori a leggere i nostri e gli altrui interventi volti a dimostrare un punto molto semplice: la nuova liturgia della Settimana Santa non è una semplice modifica (leggera o pesante) della vecchia, ma in massima un'invenzione originale. Il rito tridentino, o tradizionale romano che dir si voglia, per quanto concerne la Settimana Santa, è finito in quegli anni.
L' "assenza di scandalo" che l'avv. Ferro Canale vorrebbe addurre a pretesto della giustizia delle riforme della Settimana Santa è un argomento falso e ridicolo. Come rimarcato alla nota 13, già le riforme di Pio X avevano portato non poco scandalo; e non si tratta di un fenomeno solo moderno, perché è sufficiente leggere Lo sviluppo organico della liturgia di dom Alcuin Red per rendersi conto di quanto anche minime innovazioni degli anni precedenti fossero state sovente contestate dal popolo. Lo stupore per questo atto rivoluzionario patito dai fedeli di quegli anni è raccolto in numerose testimonianze: il prof. Cosimo Tridente qui raccoglie quello del popolo molfettese [15]; il sottoscritto può raccontare quello dei propri familiari più anziani, che smisero di partecipare alle funzioni quando furono spostate alla sera. Su un blog statunitense, che ora non mi riesce di recuperare, lessi la storia di una famiglia che soleva trascorrere la Settimana Santa in vacanza in un paese della costa est, frequentando quotidianamente le liturgie mattutine; dopo la riforma, continuò a trascorrere la vacanza ivi, ma andando solo alla liturgia della domenica di Pasqua, non essendo loro familiari gli orari - per non parlare dei riti - del nuovo ordo. E meno male che la partecipazione di popolo sarebbe aumentata! Né si può obiettare che i casi presentati siano rappresentativi di una minima parte della popolazione cattolica, perché il medesimo argomento potrebbe essere usato anche per quanti resistettero alla riforma di Paolo VI. Il sito di Una Voce Venetia raccoglie numerose testimonianze della "buona battaglia" per la messa antica combattuta negli anni '70, dalle quali, tuttavia, non può che evincersi che il numero di quanti si fossero accorti della gravità riforme (o, almeno, che avessero con risoluzione deciso di opporvisi) fosse comunque assai limitato. Ancor oggi, nonostante si organizzino grandi pellegrinaggi romani per farsi vedere tanti, il numero di "tradizionalisti" (intendendo così in modo generico le persone che frequentano la liturgia anteriore al 1969) è comunque una percentuale minima sul numero di cattolici nel mondo, piaccia o non piaccia. Inoltre, come detto, chi si oppose alle riforme di Paolo VI per ragioni liturgiche (quindi escludiamo quanti si opposero al Concilio per ragioni dottrinali ma continuarono per qualche anno a celebrare la messa del '65), almeno fino agli anni '80 ordinariamente rifiutavano parimenti le riforme di Pio XII.
Tornando alla nostra breve storia, Pio XII non pubblicò mai un'edizione del Messale né del Breviario (anzi, curiosamente proibì agli stampatori di includere le modifiche da lui apportate nell'apparato rubricale dei nuovi breviari impressi, forse per invitare il clero a sviluppare la propria memoria, o iniziarlo all'arte dei foglietti volanti); i suoi cambiamenti, insieme ad altri ulteriori, furono incorporati nel nuovo codice delle rubriche, pubblicato nel 1960. In osservanza a questo, furono dati alle stampe nel 1961 il nuovo Breviario e nel 1962 il nuovo Messale. Benché questo nuovo Messale si apra dichiarando se stesso essere ex decreto Sacrosancti Concilii Tridentini restitutum Summorum Pontificum cura recognitum (i nomi dei Papi che lo revisionarono non vengono più menzionati), difficilmente può essere considerato ancora il messale tridentino. Intanto, in apertura non riporta più il codice di rubriche clementino con addizioni e variazioni, ma il nuovo codice di rubriche proclamato da Rubricarum instructum. Almeno su questo punto, il Messale del 1962 è veramente "di ieri", e non "di sempre". Tanti e tali sono gli elementi che differenziano questo messale dai precedenti che difficilmente potrebbero essere riassunti in poche righe, a partire dalle commemorazioni dei santi contro cui si scagliano anonimi commentatori su "MessainLatino", e che eppure fanno parte non solo del secolare uso liturgico latino (non solo romano), ma anche dei riti orientali: per esempio, alla liturgia domenicale bizantina, durante il Piccolo Ingresso, dopo l'apolytikio della domenica del tono corrispondente si cantano quelli dei santi occorrenti quel giorno (per non parlare dell'ingegnoso sistema di commemorazioni al Vespro e al Mattutino bizantini) [16]. Su tutti questi punti si potrà fare una disamina puntuale e approfondita in un altro momento.
Molti cattolici sono usi riferirsi, con pia ingenuità, alla messa tradizionale come "messa di sempre": questa definizione può essere tacciata da qualche modernista di essere falsa. Ora, il rito tridentino, se non è certamente del XVI secolo come accusano certi incalliti contestatori, ma rimonta a secoli più addietro, inizia la sua formazione nucleare (il Canone) nel III-IV secolo e giunge a una formazione definita in età carolingia (subendo poi degli aggiustamenti minimali nei secoli successivi). Ma in esso ci sono molti elementi che sono senza dubbio di venerabilissima antichità. Uno di questi è l'uso delle poenulae plicatae e della poenula traversa (stolone) da parte del diacono, raffigurato persino nei dipinti delle catacombe. Questo paramento è abolito nel Messale del 1962. L'avv. Ferro Canale rimarcherà che i paramenti non sono di diritto divino, ma non ci si può illudere che una messa quaresimale con le dalmatiche sia qualcosa "di sempre". E' qualcosa di cinquant'anni fa. E proprio questa è la riflessione che noi vogliamo suscitare nei nostri lettori: il Messale del 1962 non è "giusto" o "sbagliato", semplicemente è un rito che - nonostante abbia il Canone Romano [17] come suo cuore e mantenga alcune preghiere tridentine in più rispetto al Messale del 1965 o a quello del 1969 - è stato rielaborato a tavolino cinquant'anni fa. Potrebbe essere umanamente legittimo, ancorché assai discutibile sul piano delle motivazioni, preferire soggettivamente un rito di 50 anni fa a quello di oggi, e persino rispetto a quello di Pio V: non è legittimo né corretto chiamare il rito di 50 anni fa "di sempre", e nemmeno "tridentino".
Il prof. Andrea Grillo in alcuni suoi recenti interventi (qui), certo caratterizzati come sempre da molta ideologia nel difendere ciò che è nuovo e attaccare ciò che è antico, centra nondimeno un punto importante. Non ha senso - egli afferma - tenere in vita il Messale del 1962, perché esso era pensato come un Messale di transizione verso il nuovo rito che sarà proclamato dopo il Concilio, come un aggiornamento provvisorio e incompleto. Leggendo le parole del protagonista delle riforme, mons. Annibale Bugnini, abbiamo conferma di ciò (cfr. nota 4): e allora vorrei che si spiegasse, ma non lo si potrà perché difficilmente ne esiste spiegazione, la ragione per cui è opportuno celebrare un rito che ebbe tre anni di vita e che fu pensato e costruito come fase transitoria di un aggiornamento liturgico che si completa negli anni '70. La successione frenetica di tre diverse edizioni tipiche negli anni '60, delle quali la prima comunque prodotta appena quarant'anni dopo la precedente tipica, del resto è prova ulteriore di come queste fossero intese come tappe successive di un unico processo. Il clima liturgico del XX secolo è tale che si potrebbe arguire senza difficoltà che, anche se il Concilio non ci fosse mai stato, la nuova messa sarebbe comunque stata prodotta, come naturale e consequenziale evoluzione del succitato grande processo di riforma novatrice in atto. Sostenere il Messale del 1962 rappresenta allora veramente, come dice Grillo, un'incapacità di aggiornarsi, perché se si ammette in linea di principio la possibilità di avere un aggiornamento, non v'è ragione per non completarlo, ma accontentarsi di una sua fase. Sarebbe questo un atteggiamento forse nostalgico, ma assai difficilmente difendibile: una seria e documentata comparazione tra ciò che è tradizionale e ciò che è ritus modernus può avvenire tra il Messale di Paolo VI e il Messale tridentino, non certo tra il Messale di Paolo VI e una sua fase embrionale quale quello del 1962.
Nello scritto non abbiamo analizzato, per ragioni di brevitas diremmo seguendo i principi di Lucio Cornificio, le motivazioni che spinsero, o che furono usate come pretesto, alle singole riforme liturgiche. Nonpertanto converrà qui fornirne un conciso specchio. I pretesti addotti furono in massima parte il venire incontro a delle presunte necessità "pastorali", fossero esse rivolte al popolo (come nel caso della Settimana Santa o della nuova messa), oppure al clero (come il Breviario di Pio X): questi motivi pastorali si sarebbero più ragionevolmente sanati con la correzione dell'ignoranza liturgica che sovente pervadeva gli ambienti nei quali si registravano tali necessità. La pesantezza del Breviario patita dal clero di fine Ottocento, per esempio, è la triste conseguenza di un'incomprensione del significato dell'Ufficio Divino, ridotta a preghiera silenziosa e privata come obbligo (onus) del clero, piuttosto che atto liturgico solenne di tutta la Chiesa, decadenza alla quale contribuì non poco la soppressione di conventi e capitoli nell'età delle Rivoluzioni, facendo perdere al clero la familiarità con il vero Ufficio, quello cantato solennemente in coro. Venendo però alle motivazioni più profonde, notiamo che in passato l'atteggiamento tradizionalmente dimostrato dalla Chiesa davanti ai riti liturgici fu quello di limitare il più possibile gli interventi, riconoscendo che essi costituiscono un patrimonio fondante ereditato in custodia, piuttosto che in proprietà. Anche laddove la mentalità teologica si fosse distaccata da quella dell'età patristica, non si osò per secoli modificare il rito, che pure esprimeva la teologia patristica, ma al massimo fornirne una diversa interpretazione. Quando invece nel XX secolo questo rispetto reverenziale venne meno, attestato dalla Mediator Dei che è la dottrina a stabilire la liturgia e non viceversa, ecco che si aprirono le porte della modifica, per sostituire ai riti stabiliti dai Padri delle cerimonie più congruenti con la mentalità dei nuovi teologi.
Quale che sia la lettura di questo punto, ci accingiamo a concludere. L'avv. Ferro Canale, nel suo lungo scritto, utilizza un solo argomento: l'autorità positiva. Questo potrebbe (o forse no) bastare se egli dicesse: "si usa il Messale del 1962 perché così è stato stabilito dall'autorità ecclesiastica"; egli tuttavia afferma che è moralmente inammissibile ritenere il Messale del 1962 una corruzione della liturgia, e - in qualche modo - suggerisce anzi essere questo una forma ideale, essendo quella formulata dall'autorità ecclesiastica. Molto ci sarebbe da discutere su questa interpretazione assolutista dell'autorità, e sul suo effettivo potere sulla tradizione liturgica. Egli si chiede, sempre comparando la materia liturgica a una qualsiasi branca del diritto canonico o della legge positiva: "il legislatore non ha forse il potere di mutare la legge in vista del bene comune? Non è forse questa la definizione stessa della potestà legislativa?". Una leggenda narra che Pio IX avesse asserito: "Io sono la tradizione". Se, sulla falsariga di questa quanto meno discutibile autoaffermazione, i nostri interlocutori ammettono che sia nella completa facoltà dell'autorità ecclesiastica sovvertire la liturgia in vista di un ipotetico e fantomatico bene comune (le "ragioni pastorali", appunto), ritorniamo al problema visto in precedenza: perché a Pio X e a Giovanni XXIII concedono questa facoltà, e a Paolo VI no? La consegna totale della liturgia nelle mani della assoluta volontà dell'autorità ecclesiastica, di cui abbiamo ripercorso storicamente le tappe, e che ebbe gran mostra di sé con la riforma di Pio X, trova identica applicazione sotto Giovanni XXIII e sotto Paolo VI [18]: acconsentire a una riforma, e soprattutto al principio di autorità sopra la tradizione che si porta a motivazione di tale riforma, implica, in questo senso, acconsentire a tutte. Da parte mia spero di aver spiegato con sufficienza di dettagli come, da un punto di vista storico e oggettivo, non sia possibile identificare il Messale del 1962 come un messale tridentino e tanto meno tradizionale. Se altri vorranno farne affari di validità, legittimità e liceità, sarà affare delle loro coscienze, su cui non intendo certo sindacare.
Dato in Venezia, lì 18 luglio 2020
al Vespro del Santissimo Redentore
Nicolò Ghigi
Università "Ca' Foscari" di Venezia
Presidente del Circolo Traditio Marciana
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NOTE
[1] Anche i decreti della Sacra Congregazione, pur venendo presentati in quanto indubbiamente fonte storica non di secondo piano e auctoritas in materia liturgica, sono da noi all'occorrenza sottoposti ad esame critico e a giudizio. Non si tratta, come detto, del fedele che contesta l'autorità ecclesiastica (nella Chiesa antica, e ancora nell'Ortodossia, il πλήρωμα della Chiesa è comunque superiore alla singola autorità, gioverebbe ricordare; nella Chiesa cattolica forse la mentalità è stata un po' forzata in altra direzione), ma dello studioso che analizza criticamente il fatto.
[2] Prospero d'Aquitania, De gratia Dei et libero arbitrio contra collationes, 8, in PL 51:209 (1861).
[3] Cfr. P. Zolli, 1987-2002: quindici anni dalla morte di don Siro Cisilino, sacerdote fedele alla messa antica, in «Una Voce Notiziario», 79-80 (1987), pp. 8-11.
[4] Annibale Bugnini, protagonista di queste riforme, ne scrisse un libro memoriale intitolato La riforma liturgica (1948-1975): quale miglior testimonianza che quella dell'autore stesso della riforma, per capire che essa costituisce un'unicum, seppur suddivisa in più fasi temporali? Lo stesso, in particolare circa le innovazioni della Settimana Santa, è affermato da un altro attore della riforma, C. Braga, "Maxima Redemptionis Nostrae Mysteria" 50 anni dopo (1955-2005), in «Ecclesia Orans» 23 (2006), p. 33.
[5] Verrebbe da paragonarlo allo "zelo senza conoscenza" biblico (cfr. Proverbi 19,2; Romani 10,2).
[6] L'avv. Ferro Canale, ravvisando la sopravvivenza del diritto consuetudinario e dei riti non romani in età tridentina, commette alcuni errori: per esempio, quando afferma che il Rituale Romanum sia l'unica fonte normativa in materia di distribuzione di Comunione, dimentica che indicazioni sono espressamente fornite anche dal Caeremoniale Episcoporum parlando della Comunione pasquale (II, xxix); oppure, affermando che vi fu una edizione del Messale Aquilejese a "fine Cinquecento", quando l'ultima edizione di detto Messale, ovvero secondo la consuetudine della Basilica Patriarcale di Aquileja, risale al 1519 (le edizioni successive di libri liturgici di famiglia patriarchina, ancora fino al tardo Settecento, riguardano esclusivamente la consuetudine della Ducale Basilica di S. Marco in Venezia, ma non sono libri liturgici aquileiesi pur essendo diretta derivazione degli stessi); è vero viceversa che molti altri riti locali, poi scomparsi nel corso del XVII secolo, conobbero edizioni dei propri libri liturgici in fine del secolo XVI.
[7] "Et quidem quotidie perstrepunt in palatio leges, sed Justiniani, non Domini", Bernardo di Chiaravalle, De Consideratione, 4, in PL 182:731 (1859).
[8] Il Dizionario Treccani, s.v. "autentico", dà come primo significato: "Che è vero, cioè non falso, non falsificato, e che si può provare come tale"; il significato cui vorrebbe far riferimento l'avv. Ferro Canale è quello di "rispondente all'intenzione dell'autorità legislativa", che è però secondario in italiano (conciossiaché etimologico e primario nel latino authenticus e nel greco αὐθεντικὸς) e proprio del solo lessico giuridico (interpretazione autentica). Se dovessi scrivere in latino, parlerei di traditio romana verax, ma "verace" in Italiano fa pensare piuttosto a dei molluschi bivalvi...
[9] La citazione, riportata dal nostro contraddittore, è del card. Siri (in G. SIRI, Esercizi spirituali, Bologna, 1962, p. 283), che a sua volta fa riferimento a un paragrafo dell'Instructio de musica sacra et de sacra Liturgia approvata da Pio XII. Si ravvisa ancora un concezione legalista della liturgia, cui volendo si era confermata nella Mediator Dei la base fornita dal Codice, per la quale tuttavia si attribuisce non alla Chiesa, ma all'autorità ecclesiastica, la facoltà di cambiare arbitrariamente ciò che la Chiesa (il fatto che si definisca "Chiesa" una parte sola della stessa, cioè l'autorità ecclesiastica, è simbolo di una distorta concezione della Chiesa medesima) ha stabilito.
[10] L'unica grande riforma innovativa è l'introduzione, per sottolineare la presenza reale e in funzione antiprotestante, di una genuflessione prima e dopo l'elevazione di ciascuna specie, laddove i messali della curia romana parlavano di un inchino prima dell'elevazione del Corpo e di uno dopo quella del Sangue (la genuflessione è menzionata, tra i testimoni che ho potuto consultare, soltanto dal Messale Ebroicense del 1497, dal Missale Rothomagense del 1495 e dal Missale Sagiense del 1500: ma tutti questi libri di usi non romani parlano di una sola genuflessione per ciascuna specie). Altre modifiche minori riguardano sostanzialmente la fissazione del numero e del testo delle preghiere segrete, che in precedenza potevano presentare delle variazioni (soprattutto aggiunte di preghiere all'inizio e alla fine del rito), diverse da edizione a edizione, che riflettevano la pietà del compilatore piuttosto che una vera differenza liturgica. La "leggenda" della soppressione di sequenze è infondata, poiché il numero di sequenze del Tridentino è uguale a quello del Messale della curia romana dei decenni precedenti: la soppressione delle sequenze nell'orbe è una conseguenza dell'abbandono dei riti locali.
[11] Anch'esso sostanzialmente il Breviario secondo l'uso della curia romana dei decenni precedenti, al netto di una severa espunzione di agiografie leggendarie e della limitazione e fissazione delle preghiere segrete e dei suffragi. L'unica seria riforma riguarda i salmi 21-25 di Prima della Domenica, che erano stati assegnati a quell'ora da S. Gregorio il Grande togliendoli al Mattutino della Domenica: per non appesantire l'ufficio domenicale, sotto Pio V essi vengono distribuiti nell'ufficio quotidiano di Prima, uno al giorno dal lunedì al venerdì.
[12] J.W. LEGG, Some vindications of the Book of Common Prayer appearing in unexpected quarters, London, SPCK, 1916, p. 4
[13] Ibidem, pp. 4-5. Sottolineature nostre. Quest'opera, e molte altre che si potrebbero citare, anche di autori cattolici, dimostrano come l'accoglienza della riforma di Pio X e delle successive fu tutt'altro che pacifica e priva di scandalo (come vorrebbe far credere l'avv. Ferro Canale), tanto che si dové rimarcare che il precetto della recitazione quotidiana dell'ufficio non sarebbe stato soddisfatto dai chierici che avessero continuato a dire l'ufficio tradizionale. Seppur su argomenti secondari e senza particolari discettazioni, perché ovviamente priva di scienza liturgica, persino una pia donna qualsiasi in quegli anni non di rado provava indignazione per certune riforme, come Carolina Salina ne Il gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa, o zia Julia Morkan in The Dead (in Dubliners di J. Joyce).
[14] E' da ritenere, secondo alcuni, che tuttavia questa scelta di tenere le Additiones et variationes separate rispetto alle rubriche sia sintomo della provvisorietà di queste postille, in vista di una totale revisione del corpus rubricale che poi avverrà nel 1960. Ulteriori modifiche al messale sarebbero state infatti i further changes promessi da Pio X di cui parla Legg, ma che non poterono essere allora messi in atto stante la morte del pontefice.
[15] Si legge, tra l'altro, della strenua resistenza della cittadinanza al tentativo di riforma del vescovo Pasquale Gioia, che dal 1922 cercò indarno di cambiare gli orari delle tradizionali processioni paesane, o almeno la statua da portare in processione, in ossequio a una certa visione razionalista dell'atto. Le insistenze dell'autorità furono inutili fino al 1934, quando per l'unica volta l'Arciconfraternita della Morte decise di adeguarvisi, salvo ritornare agli usi tradizionali alla morte del vescovo, occorsa l'anno seguente.
[16] L'avv. Ferro Canale dimostra di non gradire le comparazioni con il mondo orientale. Tratti di similitudine tra riti diversi sono invece testimonianza degli altiora principia della liturgia, rimontanti all'antichità apostolica e patristica, che per questo si manifestano in modo comune nelle pur diverse manifestazioni rituali del Cristianesimo. La risposta data dal nostro, cioè che "il diritto consuetudinario non si applica per analogia fuori delle terre che gli sono proprie", dimostra ancora una volta come il ragionamento puramente giuridico sia inapplicabile a una scienza come quella liturgica.
[17] Com'è noto, anche il Canone Romano verrà violato dopo poco, attraverso l'introduzione del nome di S. Giuseppe. Questa fu decretata l'8 dicembre del 1962, e quindi non rientra strettamente nella tipica del Messale del 1962, ma è successiva. L'introduzione del nome di un santo nel testo più sacro e intoccabile di tutti, cui nessuno aveva mai osato mettere mano (la summenzionata modifica di Clemente VIII riguarda l'ordine dei gesti cerimoniali, non il testo), con la sola motivazione della devozione personale di papa Giovanni XXIII, che l'aveva eletto patrono del da poco inaugurato Concilio Vaticano II, è indice della mentalità con cui vennero condotte certe riforme, ponendo la volontà individuale sopra il principio tradizionale. Per una critica, Carol Bryne, St. Joseph in the Canon: an innovation to break Tradition (qui).
[18] Ci si può domandare, a un certo punto, infatti, se la facilità con cui l'imperio autoritario di Pio X abbia cambiato un aspetto così antico e venerabile del rito quale il salterio non abbia ispirato coloro che poi furono preposti a studiare le riforme della Messa negli anni successivi. "A young cleric who had used the old Breviary, bound to the obligation of reciting his Office, would have experienced significant change between 1911 and the edition of the new Breviary, as a result of mandated liturgical changes from the heart of Rome. Such men forty years or so later, perhaps involved with the Liturgical Movement, or perhaps now bishops or curial officials, would have seen how liturgical texts and rites could be changed by authority in their own lifetime. How did this prepare them for the changes that then took place?", P. Cavendish, An Introduction to the Reform of the Roman Breviary 1911–13, in «Usus Antiquior», 2.2 (2011), p. 147.