giovedì 31 marzo 2022

Una fonte documentaria altomedievale sull'interpretazione di Matth. 16

 Più volte ci siamo trovati ad affrontare (ad esempio qui) l'annoso problema dell'interpretazione del cap. 16 del Vangelo di Matteo, il cui intendimento tradizionale è stato radicalmente mutato durante la riforma gregoriana per creare l'immagine del Papa successore di Pietro come detentore di una potestà di giurisdizione speciale e universale da cui discenderebbe quella di tutti gli altri vescovi; abbiamo avuto più volte modo di vedere come questa interpretazione non corrisponda, e anzi sia contraria, a quella di molteplici Padri della Chiesa, e in generale all'intendimento che la stessa Chiesa Romana ne ha professato nel primo millennio della sua esistenza.

Presentiamo oggi un ulteriore documento storico che ci fornisce risvolti interessanti sull'esegesi latina tradizionale del passo evangelico in questione. Si tratta di una relazione fornita dai vescovi franchi, avente per primo estensore assai probabilmente Ebbo di Reims, in occasione della pubblica penitenza a cui l'imperatore Ludovico il Pio ebbe a sottoporsi nell'833 (da non confondersi con la più nota penitenza resa dal medesimo imperatore ad Attigny undici anni prima). Non entriamo nello specifico delle motivazioni della penitenza di Ludovico, né delle lotte con Lotario o dei tentativi dell'episcopato franco di imporre l'autorità ecclesiastica su quella imperiale, o della questione della pubblica penitenza all'epoca declinante in favore della penitenza privata di origine anglosassone: su tutti questi problemi, che richiederebbero pure una necessaria analisi di tutte le fonti coeve, il lettore troverà ampio materiale in M. De Jong, "Power and humility in Carolingian society: the public penance of Louis the Pious" in Early Medieval Europe 1 (1992), pp. 29-52.

Incisione di J. von Bulow in Memorabilia of European History, s.l. 1863
raffigurante la penitenza di Ludovico il Pio

Andiamo invece a leggere l'introduzione della Relatio e a considerarne i risvolti ecclesiologici ed esegetici:

Omnibus in christiana religione constitutis scire convenit, quale sit ministerium episcoporum, qualisque vigilantia atque sollicitudo eis circa salutem cunctorum adhibenda sit, quos constat esse vicarios Christi et clavigeros regni caelorum. Quibus a Christo tanta collata est potestas, ut, 'quodcumque ligaverint super terram, sit ligatum et in caelo, et quodcumque solverint super terram, sit solutum et in caelo'.

Conviene che tutti color che son costituiti nella religione cristiana sappiano quale sia il ministero dei vescovi, e quale vigilanza e sollecitudine debbano avere per la salvezza di tutti, i quali [vescovi] è noto che sono i vicarj di Cristo e i clavigeri del regno dei cieli. A loro è stato dato da Cristo un sì grande potere, che 'qualunque cosa abbiano legato sulla terra, è legata pure in cielo, e qualunque cosa abbiano sciolto sulla terra, è sciolta pure in cielo'.

Episcoporum de poenitentia quam Hludovicus Imperator professus est, relatio compendiensis, ed. in Monumenta Germaniae Historica: Capitularia regum Francorum, II, Hannoverae 1897, n. 197, pp. 51-52.

Come si nota, i vescovi in generale vengono definiti vicarj di Cristo e clavigeri del regno dei cieli, attributi tipicamente assegnati unicamente al Papa di Roma nella vulgata interpretativa post-gregoriana; gli estensori della relazione sembrano invece ben consapevoli che, come già attesta S. Girolamo (Liber III commentariorum in Matth. 16, ed. PG 26:116-117) specificando che Pietro parla ex persona omnium Apostolorum, il dialogo in Matteo 16 tra l'Apostolo e Nostro Signore è riferito a tutto il collegio apostolico, e le potestà ivi conferite si riferiscono a tutto il collegio apostolico, a cui pervengono senza mediazione: il potere delle chiavi, il potere di sciogliere e di legare, è direttamente conferito agli Apostoli, come direttamente Cristo consegna il pastorale - simbolo di giurisdizione - al vescovo nella nota miniatura di Fra' Angelico qui sotto riprodotta. In tal senso, è tutt'altro che peregrino il volgere al plurale il versetto 16, come fa il prologo della relazione, affermando esplicitamente quello che tutti i Padri della Chiesa vedono descritto implicitamente nell'Evangelo, ovvero che tale somma potestà apostolica è stata concessa all'intero collegio, ed ergo a tutti i vescovi, e non solo a Pietro (e di lì, per qualche misterioso motivo, al suo successore romano e non a quello antiocheno) come professa la dottrina ildebrandiana.

mercoledì 23 marzo 2022

La vicenda di Papa Onorio in un pregevole pamphlet anti-infallibilista dell'Ottocento (parte II)

Mons. De Hefele
Presentiamo in traduzione la seconda parte del pregevole opuscolo anti-infallibilista redatto in latino come "documento di posizione" in occasione dei lavori del Concilio Vaticano I da mons. Joseph de Hefele (1809-1893), sintetizzando quanto presentato dal vescovo stesso in una più ampia opera in tedesco uscita in contemporanea. De Hefele fu docente di Patristica e Storia della Chiesa all'Università di Tubinga, autore di una fondamentale edizione critica dei Padri Apostolici e di una apprezzabile e monumentale Storia dei Concili della Chiesa in sette volumi.

Nella seconda sezione del suo opuscolo l'Autore si dedica alla refutazione delle obiezioni che molti teologi infallibilisti hanno mosso nei secoli per contrastare la verità dei fatti riguardanti Papa Onorio. Particolarmente estese sono la confutazione dell'opinione del Baronio, che inventa un'improbabile e insostenibile avvenuta falsificazione degli atti conciliari per scagionare il papa eretico, e di quella del teologo francese de Margerie, il quale ardisce a tal punto rivoltare la verità storica, arrivando temerariamente a proporre che il Concilio Costantinopolitano II avrebbe asserito l'infallibilità papale. L'Autore, smentite con acribia e precisione documentaria tutte le siffatte tesi pseudo-storiche, conclude dimostrando così che gli atti del VI Concilio Ecumenico e la prassi indiscussa della Chiesa negano in ogni modo la tesi ultramontana dell'infallibilità e dell'ingiudicabilità del papa.

C.J. De Hefele, Causa Honorii Papae, Neapoli, De Angelis, 1870, 28 pp. Trad. it. di Nicolò Ghigi ©

LA CAUSA DI ONORIO PAPA

Sezione seconda

Svariati autori hanno cercato, per quanto possibile, di sminuire la forza e il valore dei fatti e degli argomenti che abbiamo riportati nella prima Sezione.

 I. Già il trascrittore della lettera di Onorio a Sergio, l'Abate romano Giovanni, in una sua epistola indirizzata all'Imperatore dei Greci [sic] Costantino Eraclio, affermò che in quella lettera di Onorio nulla affatto veniva detto circa la volontà divina in Cristo, ma piuttosto si negava la volontà peccaminosa, e si rivendicava al massimo la buona volontà umana in Cristo, la quale sarebbe quell'ἕν θέλημα di cui parla Onorio; ma della volontà divina Onorio non avrebbe detto nulla, dacché rispondea soltanto a quanto gli era stato dimandato da Sergio (Mansi, t. X, p. 739). Allo stesso modo in seguito Papa Giovanni IV, secondo successore di Onorio, cercò di ripulire il suo predecessore (Mansi, l.c., p. 682 s.). Ma siffatta asserzione, per parlar chiaramente, non è affatto vera; infatti:

a) Sergio stesso dichiara a chiare lettere che "il termine δύο ἐνέργειαι è di scandalo, poiché ne conseguirebbe che si debba stabilire che vi siano in Cristo due volontà tra loro opposte, cioè la divina volontà, che volle soffrire, e l'umana, che volle resistere alla passione" (Mansi, t. XI, p. 534). Si capisce adunque chiaramente che Onorio abbia parlato circa la volontà umana e divina, e pertanto è manifestamente vana e falsa l'asserzione dell'Abate Giovanni, con la quale egli sostenne che Onorio avesse del tutto taciuto circa la volontà divina in Cristo, dacché nemmanco Sergio l'avea menzionata.

b) E' certamente vero che Onorio neghi la volontà umana peccaminosa in Cristo, e ciò non si allontana dalla verità; ma per questo è sufficiente che dica: "rimane dunque nell'umana natura di Cristo soltanto la buona volontà umana, che si conforma in tutto alla volontà della natura divina", ma Onorio rischiosamente prosegue: "perciò soltanto una volontà vi è in Cristo", che asserisce esser la divina. Ciò appare più chiaro del sole dai fatti seguenti: Onorio opina che Cristo, dicendo "non sia fatta la mia volontà ma la tua", non avrebbe parlato in senso proprio e ovvio, ma riguardo noi, cioè affinché noi eseguiamo non la nostra volontà ma quella di Dio. E Onorio non avrebbe affatto potuto parlare in questa maniera, se avesse ritenuto che oltre alla divina volontà in Cristo vi fosse pure la buona volontà umana.

c) L'Abate Giovanni nella sua apologia di Onorio ha giustificato soltanto un suo errore (ossia l'asserzione ἕν θέλημα); ha taciuto invero dell'altro suo errore, per cui egli ha rigettato il termine specificatamente ortodosso δύο ἐνέργειαι. Da questa macchia Giovanni non ha avuto la presunzione di ripulire Onorio.

d) Del resto, la summenzionata difesa di Onorio già al tempo in cui fu redatta dall'Abate Giovanni non godé di approvazione nella stessa città di Roma; conosciamo un solo uomo degno di menzione che l'abbia approvata, S. Massimo Abate. Diversamente, i Legati della Sede Apostolica al VI Concilio Ecumenico, quando si trattava di imporre l'anatema contro Onorio, non ardirono affatto intentare una difesa di tal schiatta, per stornare dalla Sede romana una sì grave sciagura. Ma neppure Leone II, né i suoi Successori in alcun momento sembrano aver dato alcun valore alla scusante elaborata da Giovanni.

II. Quello stesso Abate Giovanni sostenne in oltre che la prima epistola di Onorio a Sergio fosse stata corrotta nel testo, e il VI Concilio Ecumenico avesse giudicato dei documenti falsati. Invero, nel VI Concilio Ecumenico non fu letta pubblicamente soltanto la traduzione greca dell'epistola di Onorio, ma prima della traduzione greca fu letto l'esemplare latino autentico della medesima lettera a Sergio, portata dall'archivio patriarcale, e la traduzione fu sollecitamente collazionata col testo originale punto per punto dai Deputati romani [oltre ai tre Legati propriamente detti (Cardinali) il Papa insieme al Sinodo da lui previamente celebrato aveva inviato al Concilio Ecumenico altri tre Deputati]. "Similmente fu presentata... la lettera latina autentica di Onorio, allora Papa di Roma, a Sergio... insieme alla traduzione, e la lettera latina medesima fu collazionata da Giovanni, reverendissimo vescovo della città di Porto, che fu uno del concilio dell'Antica Roma" (Mansi, t. XI, p. 547). Forse che è probabile che i Legati e i Deputati della Sede Apostolica abbiano ignorata l'autentica epistola di Onorio, o abbiano a tal punto collaborato nel produrre un esemplare corrotto? Forse che Papa Leone II e i suoi successori non si sono accorti in alcun modo che negli atti del sesto Concilio Ecumenico, che si conservavano pure a Roma, si trovasse una lettera di Onorio dolosamente corrotta? Dovrebbe per altro quell'Abate Giovanni indicare il luogo specifico che egli asserisce esser stato viziato dai Greci. E' vero, e infatti dice che la versione greca avesse le parole "in Cristo vi fu semplicemente una volontà", ma il vocabolo "semplicemente" sarebbe fittizio. Ma nell'esemplare greco, per così dire ufficiale, che ci è pervenuto, questo passaggio non è interpolato. Può darsi che in altri apografi (privati) di detta epistola vi fossero delle corruzioni di tal schiatta. Ma al Concilio, come abbiamo visto, fu presentato il testo della lettera originale e la sua traduzione verificata dagli stessi deputati pontifici.

III. Nel XVI secolo il Cardinal Baronio ha intentato una nuova strada per ripulire Onorio da quella macchia. La sua opinione è questa: poco prima della convocazione del VI Concilio, Teodoro patriarca di Costantinopoli fu deposto dalla sede in quanto favorevole al Monotelismo, e al suo posto era stato promosso Giorgio. Ma, morto Giorgio non molto dopo la fine del VI Concilio Ecumenico, avvenne che Teodoro fu ripristinato nella pristina carica. Senza dubbio (!) - aggiunge il Baronio - il VI Concilio Ecumenico aveva pronunziato l'anatema pure su Teodoro, ma una volta ricuperata la sede patriarcale si cancellò il suo nome dagli atti, e in suo luogo si inserì dolosamente il nome di Onorio, scrivendo ΟΝΩΡΙΟΝ in luogo di ΘΕΟΔΩΡΟΝ, aggiungendo al contempo negli atti del Concilio tutti quei passi che trattano di Onorio, e segnatamente quelle due lettere di Onorio e le (finte) discussioni tenute su di esse dal Concilio (ad esempio, la collazione del testo greco con quello latino). Di conseguenza, il Baronio è stato costretto a dichiarare molte altre parti come spurie, molteplici versi, e la gran parte degli atti sinodali.

Invero quest'ipotesi estremamente audace, e destituita di qualsiasi solido fondamento, già da lungo tempo è stata confutata persino dai teologi romani; così il Mamachi (Originum et antiq., t. VI, p. 5), il Ballerini (De vi ac ratione Primatus, p. 306), e in più il professor Palma, prelato domestico del Pontefice, che fu ucciso al Quirinale dai nemici mentre restava al fianco di Pio IX (Praelectiones hist. eccles., t. II, pars I, p. 149, Romae 1839). Per ricordare un sol fatto: i Legati romani ritornarono a casa da Costantinopoli con la loro copia degli atti del VI Concilio, prima che quel Teodoro fosse restituito alla dignità patriarcale. Il suo predecessore Giorgio, infatti, come testimonia lo storiografo bizantino Teofane, sopravvisse per altri tre anni dalla fine del VI Sinodo Ecumenico, cioè almeno fino all'anno 683. In quale modo dunque Teodoro avrebbe potuto adulterare pure quell'esemplare degli atti che si conservava a Roma? Avrebbe forse potuto modificare gli atti nell'archivio di Costantinopoli, ma non affatto quelli che già erano stati portati a Roma, ad Antiochia, ad Alessandria, etc. (furono infatti preparati cinque esemplari degli atti del Concilio, destinati alle cinque sedi patriarcali). Ma nemmeno la rasura del luogo indicato sarebbe stata così semplice come vuol persuadercene il Baronio, allorché non si tratta della singola parola ΟΝΩΡΙΟΝ , ma di intere righe che erano ivi apposte. A ciò si aggiunge il fatto che il diacono e notaio Agatone, che svolgeva le funzioni di segretario al VI Concilio Ecumenico, espressamente annota: "Furono anatemizzati Sergio e Onorio" (Combefis, Novum actuar., t. II, p. 204; Mansi, t. XII, p. 190).

Stando così le cose, nessuno potrebbe realmente stupirsi del fatto che altri uomini dotti, ai quali pur premeva di ripulire e rivendicare la memoria di Onorio, han creduto di dover intraprendere una via diversa dal metodo del Baronio. Soltanto uno, il gesuita Damberger nella sua storia sincronica, abbondante di supposizioni arbitrarie (t. II, p. 119 ss.), risuscitò quasi immutata l'ipotesi del Baronio; e non solo non la migliorò affatto, ma pure la restituì peggiore, e in nessun luogo la rese meritevole di approvazione.

IV. Poco soddisfatto dall'ipotesi del Baronio, il Bellarmino ne propose un'altra (Lib. IV de Rom. Pontif., c. 2), e parimenti Turrecremata (De Eccl., c. 93) e Giuseppe Simone Assemani (Biblioth. juris orient., t. IV, p. 113), sostenendo che "il VI Concilio Ecumenico ha condannato sì Onorio come eretico; ma ha commesso un errore di fatto, un errore possibile e scusabile, forsanche inevitabile, essendo stati proposti al Concilio degli esemplari viziati delle epistole di Onorio. Detti autori dunque si sono dedicati a una nuova distinzione, al modo dei Giansenisti, tra questione di diritto e di fatto, assumendo al contempo l'asserzione dell'Abate Giovanni Romano, che aveva scritto la lettera di Onorio. Ma è cosa certissima che, come abbiamo sopra dimostrato, al Concilio fu presentato l'esemplare originale latino delle lettere di Onorio, e i Deputati romani hanno attentamente controllato se la traduzione greca concordasse pienamente con l'originale latino. Laonde non si può certo negare che il Concilio abbia pronunziato la propria sentenzia su Onorio informato da atti genuini. E ciò era contenuto manifestamente in questi atti, cioè che Onorio:
a) ha proibito il termine specificatamente ortodosso δύο ἐνέργειαι, e
b) ha prescritto il termine specificatamente eretico ἕν θέλημα
era senza dubbio infetto dalla macchia dell'eresia, e sonava eretico; e proprio queste asserzioni, e non già l'opinione interiore di Onorio, ha fornito al Concilio la base per giudicare la causa.

V. Ancora un altro metodo per risolvere la questione di Onorio è stato assai recentemente seguito dal de Margerie, professore di filosofia a Nancy, nell'opuscolo "Le Pape Honorius (contra P. Gratry), Paris 1870". La sua argomentazione è la seguente:

1. Papa Agatone ha dichiarato in due lettere l'infallibilità del Romano Pontefice;

2. Il VI Concilio Ecumenico ha solennemente riconosciuto queste lettere di Agatone, e con esse l'infallibilità del Papa.

3. Perciò non sarebbe stato affatto possibile che il medesimo Concilio avesse condannato come eretico papa Onorio in senso proprio.

Consideriamo dunque una per una codeste asserzioni e conclusioni:

1. Nella prima lettera indirizzata all'Imperatore, che papa Agatone consegnò ai suoi Legati diretti al VI Concilio Ecumenico, afferma le seguenti cose: "godendo della sua (di Pietro) protezione, questa chiesa apostolica (quella romana) giammai è caduta dalla via della verità in qualsiasi parte dell'errore... Questa è infatti la vera regola della fede (cioè il dioteletismo) che, nelle fortune e nelle avversità, questa madre spirituale (cioè la chiesa di Roma) ha vivamente mantenuto e difeso, non avendo - per grazia di Dio onnipotente - mai errato dalla tradizione apostolica, né mai essendo stata soggetta alle innovazioni degli eretici, etc." (Mansi, t. XI, pp. 239-242). Dichiara dunque papa Agatone che "la chiesa romana non è mai caduta in errore"; e aggiunge il fatto storico che questa provata costanza della chiesa romana nella fede universale deriva dalla protezione di san Pietro. Dell'infallibilità, invero, non parla, né affronta in alcun modo la questione, se il caso di Onorio possa o meno essere congruente con la sua tesi generale (riguardante l'ortodossia della sede romana sino ad allora costantemente serbata). Ci sia permesso di osservare:
a) che si possa sostenere l'infallibilità della chiesa romana senza per questo sostenere l'infallibilità personale del papa; e
b) che queste due asserzioni, "Onorio ha prescritto una formola eterodossa" e "La chiesa romana non è mai stata affetta dall'errore monotelitico", possono ben coesistere e conciliarsi.
Ancora giova aggiungere che Agatone stesso impugna la dottrina di Onorio, e infatti
a) insegna apertamente e direttamente che in Cristo si devono distinguere due volontà; e
b) interpreta assai rettamente le parole della Sacra Scrittura citate da Onorio, "Non sia fatta la mia, ma la tua volontà", in favore del dioteletismo (Mansi, t. XI, p. 246), mentre di contro Onorio cercava di contrastare la loro autorità di prova del dioteletismo.
Lo stesso si può dire dell'altra epistola, parimenti consegnata all'Imperatore, che i Legati del Pontefice portavano con sé, corredata dalla sottoscrizione di Papa Agatone e di 125 vescovi. Pur essa contiene l'affermazione che la chiesa romana non sarebbe giammai caduta in eresia (Mansi, l.c., p. 287), e ciò che si è detto poco fa riguardo a tale affermazione vale pur qui. Mi stupisco dunque, né si può capire in che modo e con che diritto il sig. Margerie possa considerare questa seconda epistola come un'istruzione data ai Legati pontifici; una tale idea non potrebbe venire in mente a nessuno che l'abbia letta tutta. Considerati tutti questi punti, non appare affatto veritiero ciò di cui vuol persuaderci il Margerie, ossia che papa Agatone abbia asserito l'infallibilità personale del romano Pontefice.

2. Non meno della prima, pure la seconda asserzione del signor de Magerie [non] concorda con la verità quando egli dice che "il VI Concilio Ecumenico confermò questa affermazione di Agatone sull'infallibilità del Papa"; nel trattare la presente materia, sembra decisamente che gli sia mancata una più accurata conoscenza degli atti del Concilio; infatti

a) Afferma che "entrambe le epistole del pontefice furono lette per la prima volta nella IV sessione del VI Concilio Ecumenico, il giorno 17 novembre 680" (p. 51), ma tale sessione si era già svolta il 15 novembre.

b) "Tre settimane dopo, durante la VI sessione (trois semaines après, à la sixième session) tutti i vescovi, eccetto uno, approvarono votando singolarmente la lettera sinodale di Agatone", afferma Margerie (p. 21). Ma la sessione VI si tenne non tre settimane dopo la IV, ma addirittura il 12 febbraio 681, trascorsi dunque almeno 3 mesi; infine ciò che riferisce Margerie non accadde affatto in detta VI sessione, sibbene nella VIII, il 7 marzo 681. Cosa dunque si fece nella VIII sessione? Forse che l'epistola di Atagone fu approvata dal Concilio in tutto il suo contenuto? Nient'affatto. Difatti:

a) Nel VI Concilio Ecumenico fu anzitutto esaminato se la dottrina di Agatone (dioteletismo) godesse dell'autorità dei padri antichi. Infatti, Giorgio Arcivescovo di Costantinopoli e primo dei votanti testimoniò: "Controllando i libri dei santi... padri che si custodiscono nel mio venerabile atriarchio, ho trovato che tutte le testimonianze dei santi patri... che Agatone ha citati in favore del dioteletismo... sono consone etc., e pertanto le approvo e così professo". I Padri conciliarj dunque esaminarono dapprincipio la sentenza di Agatone, e non la reputarono affatto infallibile senza indugio.

b) I Padri conciliarj, dipoi, non approvarono l'intero contenuto di detta epistola, né specialmente i suoi elogi alla chiesa romana, ma soltanto la dottrina dioteletica profferita nell'epistola in questione.

c) Cosa abbia pensato d'altra parte il Sinodo dell'affermazione storica di Agatone che "la chiesa romana non è mai caduta in errore", forse si può dedurre dal fatto che nello stesso spirito con cui lodò Agatone, sottopose Onorio all'anatema.

d) Se pertanto il signor Margerie così giudica il discorso riportato nella XVIII seessione: "Il est, je pense, impossible d'imaginer une approbation plus solenelle et plus explicite à un énoncé plus distinct de la dotrine infallibiliste", non noi, ma gli atti stessi gli possono rispondere. Il Concilio in questo discorso non fa assolutamente menzione della infallibilità pontificia, ma, avendo avanti agli occhj soltanto il dioteletismo proposto da Agatone, ha dichiarato: "Pietro ha parlato per mezzo di Agatone" (Mansi, l.c., p. 666), e poche righe prima aveva detto: "Sottoponiamo all'anatema Teodoro, Sergio, etc., e con loro Onorio... nella misura in cui li ha seguiti in questa [eresia]". Di conferma di una qualche pretesa infallibilità pontificia non si troverebbe giammai la minima traccia.

Dimostrata adunque l'inconsistenza del fondamento di tutta l'argomentazione del sig. de Margerie, dobbiamo por fine alla nostra dissertazione; ma per comprendere più accuratamente il carattere e lo spirito del suo opuscolo, varrà la pena di analizzarlo ancora un po' nel dettaglio. Il fatto gravissimo che si pone contro Onorio è quello contenuto nella sua affermazione, con la quale egli asserisce che in Cristo via sia una sola volontà (ἕν θέλημα), sicché ha positivamente affermato un'eresia. Invero, il signor De Margerie, per persuaderci che tale passaggio sarebbe spurio e interpolato, non osa affermarlo apertamente, ma da parte sua non omette di sollevare un sospetto sull'autenticità del passo in questione, e agisce quasi come se si sia impossessato di una nuova prova con cui dar credito a tale sospetto, chiamando in testimonio l'Abate Massimo, autore del secolo VII (pp. 29 ss. e 45 ss.), che raccoglie l'asserzione dell'Abate romano Giovanni, cioè che:
a) il testo dell'epistola di Onorio fosse stato corrotto dai Greci, e
b) che Onorio abbia parlato soltanto di una volontà umana in Cristo (quella buona).
L'Abate Giovanni e il suo pedissequo seguace Massimo non negano in alcun modo, come abbiamo visto, che Onorio abbia fattivamente usato il termine ἕν θέλημα, addirittura confermano che tale termine compaia nella sua lettera, confermano dico, scusando questa caduta di Onorio, sostenendo che avrebbe parlato soltanto dell'unica (buona) volontà umana in Cristo, e tacendo invece di quella divina. Ma che questa scappatoia sia vana l'abbiamo già sopra considerato.

3. Dopoché il sig. Margerie aveva affermato che il VI Concilio Ecumenico avesse decretato l'infallibilità del Papa, egli ritenne assai necessario di dover interpretare in un altro senso e mitigare tutte quelle frasi e parole del Concilio che impongono l'anatema all' "eretico" Onorio. E poiché chi cerca trova, anche il sig. Margerie ha trovato che la parola "eretico", quando impiegata nei confronti di Onorio, non avrebbe mai il significato proprio di eretico, e così pure per le espressioni consimili (p. 57). Noi, però, quei passi con cui il VI Concilio Ecumenico e molti Romani Pontefici, nonché altri Sinodi ecumenici posteriori hanno pronunziato la propria sentenza riguardo Onorio li abbiamo acclusi sopra (nella prima sezione), ai quali piaccia al lettore volgere di nuovo la propria attenzione.

Persino il sig. Margerie fatica alquanto poi nel voler dimostrare che papa Onorio non avrebbe giammai parlato ex cathedra (p. 42). Che cosa straordinaria! Se infatti, come si sostiene, le epistole di Onorio più volte menzionate non contengono nulla che sia detto a sproposito o falsamente, è del tutto superfluo sollevare la questione se egli abbia parlato ex cathedra oppure no. Chi infatti non potrebbe capire quanto sia difficile discernere quando in definitiva si debba ritenere che un Papa abbia parlato ex cathedra. Il sig. Margerie ci propone due criterj dai quali si potrebbe capirlo:

a) Se il papa pronunzia in modo positivo una qualche affermazione come articolo di fede, cosa che Onorio non avrebbe fatto. Ma forse che non ha detto in modo positivo: "affermiamo che vi sia una sola volontà del Signore Gesù Cristo" (Mansi, t. XI, p. 539). E ancora: "Noi dalla Sacra Scrittura abbiamo compreso non l'esistenza di una o due operazioni del Signore Gesù Cristo, ma che egli ha operato in molti modi" (l.c., p. 542). Forse che Onorio non propone questo a credersi? Addirittura ammonendo alla fine della lettera: "Questo predichi insieme a noi la vostra fraternità, esortandovi a evitare di parlare di una singola o di una duplice operazione, come indotto da queste nuove voci etc." (Mansi, t. XI, p. 543). Ancor più chiaramente nella seconda lettera: "Per quanto pertiene al dogma ecclesiastico... dobbiamo... definire... che nel mediatore non vi siano una o due operazioni distinte". Ordunque, Onorio certo pronunziò in modo positivo la propria tesi, e la propose a credersi.

b) Si obietta dipoi che Onorio non l'avrebbe prescritto al mondo intero, la qual cosa nel pensiero del sig. Margerie costituisce l'altro criterio della locuzione ex cathedra (p. 43). Non so proprio se sia assolutamente necessario che un'affermazione che si debba intendere come emanata ex cathedra debba esser rivolta a tutta la Chiesa. In tal caso, neppure quella celeberrima epistola dommatica di Leone I a Flavio potrebbe dirsi esser stata emanata ex cathedra. Tuttavia, non v'è dubbio che Onorio intendesse e volesse che la Chiesa universale credesse a ciò ch'egli avea proposto nel suo insegnamento (e non già la sola chiesa Costantinopolitana).

Infine, il sig. Margerie concede che il VI Concilio Ecumenico abbia giudicato papa Onorio, e lo abbia condannato con parole severe, ma - ritiene il sig. Margerie - soltanto a causa della sua negligenza, "mauvaise administration" (p. 47). Ma come si potrebbe ciò conciliare con quell'antico assioma, per cui il sig. Margerie parimenti e strenuamente si batte: "la prima sede non è giudicata da alcuno" (cfr. pp. 24 e 60)? Se tale assioma esponesse una regola del diritto comunemente accettata già nella chiesa antica, come avrebbe potuto il VI Concilio giudicare papa Onorio?

Inoltre, tanto il Corpus juris canonici, quanto tutti gli autorj del medioevo affermano che "il Papa può esser giudicato e condannato per la sola eresia". Già Adriano II (sec. IX) ebbe a dire: "Sebbene infatti l'anatema a Onorio fu dichiarato dagli orientali dopo la morte, bisogna tuttavia sapere che egli era accusato di eresia, per la qual sola cosa è lecito resistere agli atti dei superiori". Che dunque, chiedo, avrebbe detto papa Adriano dell'asserzione del sig. Margerie che Onorio sarebbe stato giudicato dal Concilio per la sola "mauvaise administration"?

NOTA DELL'AUTORE

Recentemente a Roma è uscito un libello pei tipi della Civiltà cattolica, contenente "Alcuni monumenti riguardanti la causa di Onorio". A chiunque vorrà confrontare le notule che vi sono aggiunte con gli argomenti da noi sopra presentati apparirà chiaro che queste sono di assai poco valore e invalide a ripulire Onorio [delle sue accuse]. Aggiungerò una sola cosa: perché l'autore di quel libello ha del tutto taciute quelle parole del VI Concilio Ecumenico: "il diavolo ha disseminato l'eresia per mezzo di Onorio" (Mansi, l.c., p. 635)?

La vicenda di Papa Onorio in un pregevole pamphlet anti-infallibilista dell'Ottocento (parte I)

Papa Onorio nel mosaico absidale    
di S. Agnese fuori le mura

 Presentiamo in traduzione la prima parte del pregevole opuscolo anti-infallibilista redatto in latino come "documento di posizione" in occasione dei lavori del Concilio Vaticano I da mons. Joseph de Hefele (1809-1893), sintetizzando quanto presentato dal vescovo stesso in una più ampia opera in tedesco uscita in contemporanea. De Hefele fu docente di Patristica e Storia della Chiesa all'Università di Tubinga, autore di una fondamentale edizione critica dei Padri Apostolici e di una apprezzabile e monumentale Storia dei Concili della Chiesa in sette volumi.

Nella prima parte del suo opuscolo, steso secondo il metodo della quaestio, tipico della trattatistica teologica latina medievale, l'Autore analizza i documenti storici relativi a Papa Onorio e al Concilio Costantinopolitano II, concludendo che Onorio realmente professò solennemente (ex cathedra) un'eresia e che il Concilio medesimo lo condannò come eretico, ricusando dunque con argomenti storici le due erronee credenze del neo-cattolicesimo che il Papa sia infallibile e che egli sia superiore al Concilio (e dunque da esso non giudicabile).

C.J. De Hefele, Causa Honorii Papae, Neapoli, De Angelis, 1870, 28 pp. Trad. it. di Nicolò Ghigi ©

LA CAUSA DI ONORIO PAPA

Sezione prima

Non si discetta del fatto se Papa Onorio nell'intimo del suo cuore avesse un intendimento eterodosso oppure no; ma il primo quesito in assoluto è questo:

I. Forse che Onorio ha prescritto qualcosa ex cathedra come dogma di fede, che in verità tuttavia era qualcosa di eretico?

A questo si aggiunge un secondo quesito:

II. Forse che qualche Concilio Ecumenico si è arrogato il diritto di pronunziare una sentenza riguardo il Pontefice che così ha deciso, e di condannarlo dunque come eretico?

In terzo luogo infine ci si chiede:

III. In quale senso tale condanna fu recepita e ritenuta dai contemporanei, e specialmente dai Romani Pontefici?

PRIMO QUESITO.

1. Nel quinto secolo dell'era cristiana Nestorio Patriarca di Costantinopoli, asserendo che in Cristo vi fossero due nature (l'umana e la divina), osò avanzare al punto di distruggere l'unità della persona. Detta eresia di Nestorio fu condannata dal III Concilio Ecumenico, celebratosi in Efeso nell'anno 431.

2. Nell'errore esattamente opposto incorse pochi anni dopo Eutiche, archimandrita di Costantinopoli, affermando che Cristo constasse sì di due nature, che tuttavia sarebbero associate tra loro per unità così intimamente da renderle una natura soltanto; sicché dunque Cristo sarebbe composto da due nature, ma non consisterebbe in due nature. Il quale errore, il Monofisismo, fu rigettato dal IV Concilio Ecumenico Calcedonese nell'anno 451.

3. Entrambi gli errori, ancorché sconfitti, non scomparvero tuttavia del tutto; in verità, nell'impero greco romano il Monofisismo soprattutto annumerava molteplici seguaci; e poiché le forze dell'impero medesimo venivano a soffrire a cagione di tali liti religiosi, agl'imperatori premette particolarmente il ripristino della pace e dell'unità.

4. Spinto da tal desiderio, ancorché trattando la materia in modo infelice, l'imperatore Eraclio nell'anno 627 circa, tenuto consiglio con Sergio, Patriarca di Costantinopoli, e coi vescovi Ciro, Teodoro e altri, propose che da quel momento si tramandasse quale vera dottrina che in Cristo vi sarebbero sì due nature, ma una sola volontà, e una sola operazione, cioè energia. Tale esperimento di ripristinare la concordia si chiama Monotelismo. Detta formola si sperava avrebbe riconciliato i Monofisiti con la Chiesa; parea loro infatti che asserendo la duplice natura di Cristo essa fosse conforme alla dottrina della Chiesa, e al contempo speravano che potesse placare i Monofisiti affermando l'unità di volontà ed energia.

5. Pochi tra i teologi compresero il carattere di detta formola d'unione proposta; diversamente, difficilmente avrebbe potuto sfuggir loro che questa si piegava completamente al Monofisismo. La volontà pertiene senza dubbio alla natura, e non alla persona; così ad esempio nella Santissima Trinità si distinguono tre persone, ma una sola natura o sostanza, e perciò nella Trinità non si riconoscono tre volontà, ma una soltanto. Poiché già confessiamo che in Cristo vi siano due nature realmente distinte, conseguentemente dobbiamo riconoscere che vi siano in Lui pure due volontà. E quanto detto circa la volontà, vale parimenti per l'operazione, cioè per l'energia. Cristo mangiò, dormì, bevve; in ciò identifichiamo una sola, umana operazione; lo stesso Cristo pure risuscitò i morti e sanò miracolosamente i malati, e in ciò vediamo una distinta operazione o energia.

6. Uno degli autori del monotelismo, Ciro Arcivescovo di Alessandria (già di Faside in Colchide), nel 633 circa ripristinò l'unione con alcuni Monofisiti d'Egitto, insistendo nella formola che in Cristo vi fosse una sola energia (μία ἐνέργεια). Alla quale i Monofisiti aveano ben donde applaudire, sendoché a lor soli, e non alla Chiesa universale, questa formola arrideva. Nel medesimo tempo in Alessandria eravi quel famoso e dotto monaco Sofronio di Gerusalemme (che sarebbe ivi divenuto poi Patriarca), che avversava codesta nuova formola. Ma poiché Ciro lo ignorava, Sofronio si recò a Costantinopoli, ricercando il patrocinio di Sergio; ignorava infatti che anche Sergio aderisse alla nuova eresia. Il recarsi presso Sergio non fu tuttavia del tutto inutile, poiché quegli, volendo serbare una via mediana, propose che, pur non parlandosi in alcun modo di due energie (e volontà), come avrebbe voluto Sofronio, non si sarebbe utilizzato neppure il termine μία ἐνέργεια. Sergio dipoi si rivolse a Papa Onorio e al suo parere, ricercando un pari consenso. Nella sua lettera, Sergio scrive che non si dovrebbe concedere a nessuno di affermare che vi siano una sola oppure due energie; il termine μία ἐνέργεια infatti sarebbe stato sospetto, come se si negassero le due nature di Cristo (cosa che sarebbe da monofisiti); parimenti l'affermare l'esistenza di due energie avrebbe offeso non pochi, nella misura in cui da ciò sarebbe conseguito che si debbano ascrivere a Cristo due volontà tra loro contrarie (θελήματα). (E certo sarebbe falso dire il contrario!)

7. Papa Onorio rispose a Sergio, e la sua epistola (I) si conserva integralmente nell'originale latino e in un'antica traduzione greca. Si riporta di seguito un sunto di ciò che il Papa disse in questa epistola:

a) Bene facesti a vietare l'uso del termine μία ἐνέργεια, nella misura in cui si potrebbe sospettarlo di Monofisismo; parimenti nel termine δύο ἐνέργειαι si potrebbe trovare del Nestorianesimo, e nessuno dei due termini del resto è biblico. Per il resto il termine δύο ἐνέργειαι si deve reputare falso; Cristo infatti ἐνέργησε πολυτρόπως, cioè ha operato in molti modi (ad esempio, ora mangiava, beveva, dormiva, insegnava, sanava gl'infermi, etc.). Onorio dunque confondeva l'ἐνέργεια, cioè il modo dell'operazione in sé, con le sue singole manifestazioni. Le sue parole riguardo a tal punto così sonano: "Non è opportuno volgersi indietro circa questi dogmi ecclesiastici, che non paiono esser stati spiegati né dai vertici sinodali che hanno indagato su ciò, né dall'autorità canonica, cioè che qualcuno osi predicare che in Cristo vi siano una o due nature, etc" (Mansi, Collect. Concil., t. XI, p. 542). E poco dopo: "Noi infatti non abbiamo compreso dalle sacre scritture se Nostro Signor Gesù Cristo e il suo Santo Spirito abbiano operato con una soltanto o con due operazioni, ma solo che ha operato in molti modi" (Mansi, l.c.). E infine: "Questo insieme a noi predichi la vostra fraternità... esortandovi a fuggire dall'uso della parola 'una operazione' o 'duplice operazione', indotta dalle nuove proposte, [confessiate] con noi un solo Signore Gesù Cristo..." (Mansi, l.c., p. 543).

b) Nel modo in cui in tale esposizione Onorio rifiutò il termine ortodosso δύο ἐνέργειαι, così al contempo prescrisse quale regola di fede un termine eretico, asserendo: "Laonde diciamo che sia una sola la volontà (ἕν θέλημα) di Nostro Signor Gesù Cristi, poiché egli certamente assunse la nostra natura, ma non la nostra colpa; quella natura, cioè, che fu creata prima del peccato, non quella corrotta dopo la prevaricazione... Non è dunque stata assunta dal Salvatore la natura corrotta, che ripugnerebbe la legge della sua mente". (Mansi, l.c., p. 539). Onorio dunque argomenta così: "Cristo ha assunto la vera umanità, la piena natura umana, non però la natura umana corrotta dal peccato, ma così com'era prima della caduta; perciò in Cristo non v'era la legge della carne, che avverserebbe la legge della mente". Fin qui dice rettamente, ma da qui dovrebbe aver ragionato nel seguente modo: "Perciò in Cristo non v'era la volontà carnale, peccaminosa, ma soltanto la buona volontà umana, conforme in tutto alla divina volontà; e per questo preciso motivo eranvi due volontà: la divina cioè l'umana, quella buona". Onorio tuttavia confuse queste due volontà, e trascese la buona volontà umana, consona in tutto alla divina volontà, giungendo ad affermare così: "Perciò affermiamo che vi sia una sola volontà del Nostro Signore". Con queste parole, prescrisse come dottrina di fede della Chiesa la formola principale, il termine tecnico del Monotelismo.

8. Poco dopo, Papa Onorio inviò un'altra lettera a Sergio, della quale epistola II sopravvivono soltanto due frammenti. In questi Onorio ripetutamente rifiuta il termine ortodosso δύο ἐνέργειαι, dicendo e prescrivendo: "certamente il vocabolo relativo all'unica o alla duplice operazione, introdotto di recente, è estraneo alla predicazione della fede", affermando al contempo che fosse sconveniente che al Salvatore si attribuissero una o due operazioni (Mansi, l.c., p. 579). Così nel primo frammento. Nel secondo, dalla conclusione dell'epistola, si legge: "Per quanto poi pertiene al dogma ecclesiastico, dobbiamo definire che non vi siano una o due volontà nel mediatore tra Dio e gli uomini" (Mansi, l.c.). Da tali citazioni è chiaro che Onorio volea dare una definizione dommatica, enunziare un dogma della Chiesa, e al contempo rigetto un termine dommatico ortodosso. Circa il termine "una o due volontà" in codesti frammenti nulla è contenuto, ed è ignoto se  ne parlasse nella parte perduta della seconda epistola.

Da quanto detto si deduce ormai chiaramente che Papa Onorio abbia rigettato il termine tecnico ortodosso δύο ἐνέργειαι, e che abbia dichiarato come vero un termine specificatamente eretico, ἕν θέλημα, e che dunque così abbia prescritto di credere a questo duplice errore, come aveva fatto anche la Chiesa Costantinopolitana. Al termine della II sezione ritorneremo sul termine "parlare ex cathedra".

SECONDO QUESITO.

Entrambe le epistole di Onorio furono lette al VI Concilio Ecumenico Costantinopolitano nell'anno 680; la prima nella XII sessione generale, la seconda nella sessione XIII, alla presenza e con la presidenza di tre legati del Papa Agatone, i due Cardinali presbiteri Teodoro e Giorgio, e il Cardinale diacono Giovanni.

a) Sin dall'inizio della XIII sezione il Concilio dichiarò: "Ritrattando le epistole dommatiche, sia quella di Sergio ad Onorio, allora Papa dell'Antica Roma, e similmente pure l'epistola scritta da lui (cioè da Onorio) in risposta al detto Sergio, e trovandole del tutto estranee ai dogmi apostolici... in quanto seguono le false dottrine degli eretici, le rigettiamo in ogni modo e le aborriamo come dannose per l'anima. E di questi, cioè tra coloro i cui empj dogmi aborriamo, giudichiamo si debbano cancellare dalla Santa Chiesa di Dio i lor nomi, quelli cioè di Sergio, di Ciro, etc., i quali tutte pure Papa Agatone cancellò, [come da lui detto] in una comunicazione privata all'Imperatore". (Papa Agatone diede ai legati che inviò al VI Concilio Ecumenico una lettera indirizzata all'Imperatore Costantino Pogonato, nella quale rigettava i detti autori del Monofisismo. Del suo predecessore Onorio, tuttavia, non faceva in essa alcuna menzione). Ma il VI Concilio Ecumenico, volendo sottoporre pur lui a una censura, proseguiva nel suo decreto nel modo seguente: "Con questi poi abbiam ritenuto (συνείδομεν) di rigettare dalla Santa Chiesa universale di Dio, e parimenti di anatemizzare, anche Onorio, che fu Papa dell'Antica Roma, poiché abbiamo trovato negli scritti che da lui son stati rivolti a Sergio, che seguì in tutto il pensiero di quest'ultimo, e confermò gli empj dogmi (Mansi, l.c., p. 554 sq.). Il Concilio giustamente non affrontò la questione se Onorio pensasse realmente ciò, ma pronunziò la propria sentenza sui fatti, cioè sull'aver approvato l'eresia nella sua lettera.

b) Alla fine della medesima XIII sessione fu letta anche la seconda epistola di Onorio, e dal Sinodo fu decretato che fosse bruciata insieme agli altri documenti come dannosa per le anime; la qual cosa fu eseguita (Mansi, l.c., p. 582).

c) Alla fine della XVI sessione, il Sinodo proclamò: "A Sergio eretico anatema, a Ciro eretico anatema, a Onorio eretico anatema, a Pirro eretico anatema" (Mansi, l.c., p. 622).

d) Di ancora maggior peso sono i fatti avvenuti nella XVIII e ultima sessione (16 settembre 681). Nel decreto di fede che fu allor promulgato, e che costituisce il principale documento del Sinodo, leggiamo: "Ma poiché colui il padre della malizia si trovò una serpe per collaboratore, e per mezzo di questi portò morte velenosa all'umana natura, e così volse alla propria volontà i suoi organi, intendiamo Teodoro che fu episcopo di Farana, Sergio, e pure Onorio, che fu papa dell'Antica Roma, Ciro, che fu Papa di Alessandria, etc..., non mancò per mezzo loro di suscitare gli scandali dell'errore nella pienezza della Chiesa, disseminando l'eresia" (Mansi, l.c., p. 635).

e) Dopoché tutti i Padri Conciliari, e i tre legati pontifici, ebbero sottoscritto questo decreto di fede, il Sinodo acclamò: "Tutti dunque professiamo... molti anni all'Imperatore... a Teodoro di Farana anatema, a Sergio e Onorio anatema, a Pirro e Paolo anatema... a tutti gli eretici anatema". (Mansi, l.c., p. 655).

f) Dipoi, in un memoriale consegnato all'Imperatore da tutti i presenti al Sinodo, compresi ancora i legati pontifici, il Sinodo ripeté l'anatema di Onorio: "Anatemizziamo Teodoro, Sergio... e con questi Onorio, che fu presule di Roma, nella misura in cui li seguì in questa (eresia)" (Mansi, l.c., p. 666).

Da tutto ciò consegue che il VI Concilio Ecumenico:

1) si arrogò il diritto di pronunziare una sentenzia su un Papa che parlava ex cathedra; e

2) di condannare il decreto di fede da lui pronunziato ex cathedra, e di anatemizzarlo pel fatto che avesse confermata una dottrina eretica.

Di fatto dunque fu emesso un giudizio sulla decisione dommatica del Sommo Pontefice.

TERZO QUESITO.

Invero non si troverebbe nessuno di quell'epoca che credesse che il Concilio avesse agito non giustamente o senza la competente autorità nel procedere contro Onorio, e infatti:

a) tutti i vescovi presenti al Sinodo approvarono sottoscrivendo la sentenza;

b) gli stessi leganti pontifici presenti e che presiedevano al giudizio diedero il proprio assenso, non opponendo alcunché, né contro la competenza del Concilio né contro la correttezza materiale della sentenza sinodale.

c) Tale sentenza sinodale fu confermata non solo dall'Imperatore, ma pure dal sommo Pontefice, che la ripeté con le proprie parole. Così infatti Papa Leone II (Agatone era intanto morto il 10 gennaio del 682), in un rescritto all'Imperatore dice: "Parimenti anatemizziamo gl'ideatori di questo nuovo errore, cioè Teodoro di Farana, Ciro di Alessandria, Sergio, etc., nonché Onorio, che non illustrò questa chiesa apostolica con la dottrina della tradizione apostolica, ma tentò di sovvertire la fede immacolata con un profano tradimento (secondo il testo greco: permise di sovvertire, παρέχωρησε), e tutti coloro che sono caduti nel suo errore" (Mansi, l.c., p. 731).

d) Lo stesso Papa Leone II in una lettera ai vescovi di Spagna dice: "Furono multati con l'eterna condanna Teodoro, Ciro, Sergio, etc., insieme a Onorio, che non spense la fiamma del dogma eretico che principiava ad ardere, come sarebbe convenuto all'autorità apostolica, ma con la sua negligenza la attizzò (Mansi, l.c., p. 1052).

e) Similmente scrisse al Re delle Spagne Ervigo: "Furono condannati... e insieme a loro Onorio di Roma, che lasciò che fosse macchiata l'immacolata regola della tradizione apostolica" (Mansi, l.c., p. 1057). Papa Leone II toccò con esattezza la materia scrivendo: "la attizzò con la sua negligenza" e "lasciò che fosse macchiata". Si rendeva infatti conto dalla I lettera di Onorio che a lui era stata presentata davanti agli occhj la retta dottrina sulla persona di Cristo, cioè la dottrina Calcedonese, ed egli tuttavia avea concluso che fosse falsa, e anche qualora non avesse un sentimento eretico nel cuore, purtuttavia fattivamente egli condannò un termine specificatamente ortodosso (δύο ἐνέργειαι), e approvò un termine specificatamente eretico (ἕν θέλημα). Onorio non fece ciò mosso da una cattiva volontà, ma per negligenza, e così permise e consentì che fosse macchiata la dottrina. Perciò Papa Leone II riconobbe la condanna conferita dal Sinodo ecumenico ad Onorio come dotata di giusti motivi; né gli venne in mente di mettere in dubbio la competenza del Concilio.

f) L'anatema rivolto ad Onorio fu ripetuto continuativamente dai Concili Ecumenici VII e VIII, a entrambi i quali erano presenti i legati pontifici; pure Papa Adriano II (867-872) riconobbe come giusta tale condanna, poiché Onorio "era stato accusato di eresia, pel qual solo fatto fu lecito resistere alle sue azioni". Dacché a tutti è noto che pure nel medioevo, quando il potere papale era al massimo del suo fiorire, era dottrina universale della Chiesa che il papa a causa dell'eresia, ma anche pel solo motivo dell'eresia, potesse essere deposto, la qual dottrina è entrata pure nel Corpus juris canonici (*).

g) Nel Liber diurnus, cioè nel formulario della Curia Romana (dal V all'XI secolo) si ritrova un'antica formula di giuramento pontificio, senza dubbio ordinata da Gregorio II (all'inizio del secolo VIII), con la quale qualsiasi Pontefice, prima di ricevere l'incarico, era tenuto a giurare di riconoscere il VI Concilio Ecumenico, che condannò all'anatema sempiterno gli autori della nuova eresia (il Monotelismo), cioè Sergio, Pirro, etc., con Onorio, "poiché diede fomento alle asserzioni degli eretici" (Liber diurnus, ed. Eugène de Rozière, Paris 1869, n. 84).

Da ciò consegue che fino al secolo XI ogni Pontefice che desiderava l'incarico dovea affermare con giuramento:

A) Che il Concilio Ecumenico possa giudicare un Papa almeno per eresia;

B) Che Onorio fu a buon diritto condannato dal VI Concilio Ecumenico, poiché col suo editto di fede approvò l'eresia.

(*) NOTA DELL'AUTORE: Dicono taluni che si posa agire contro un papa per eresia soltanto come uomo privato; ma se questo accadesse, secondo il caso in cui un papa cada in eresia, perché non potrebbe accadergli di pronunziare pure ex cathedra l'eresia che accoglie nel cuore, talché dovrebbe tenersi per certo come dottrina cattolica? E in ciò non si deve presumere in lui una cattiva volontà!

venerdì 11 marzo 2022

Introduzione al concetto di "giorno aneucaristico"

di Luca Farina

Introduzione

Un elemento antichissimo delle tradizioni liturgiche romana, ambrosiana e bizantina è quello della presenza di giorni aneucaristici, ovverosia senza la celebrazione della Divina Liturgia. Spesso, anche in ambito ecclesiale, si usa, per ignoranza, il termine “aliturgico”. In questa sede, invece, si mostrerà come i giorni aneucaristici non siano affatto aliturgici e, quindi, più poveri, ma siano espressioni di una tradizione celebrativa molto antica. Si offrirà una semplice introduzione al concetto e alle sue declinazioni in alcune distinte tradizioni liturgiche orientali e occidentali, senza una pretesa di esaustività per la quale si dovrebbero compilare degli studi specifici su ciascuna di dette tradizioni.

La tradizione romana

È forse poco noto che il rito romano prevedeva giorni aneucaristici: difatti, nei primi secoli, i giovedì di Quaresima possedevano questa peculiarità (escluso il Giovedì Santo). A conferma di ciò, si può notare nel Messale come i testi dei cinque giovedì siano gli stessi di altri giorni. Soprattutto, nel Comes di Wuerzburg (il più antico lezionario conservato, erede del Sacramentario gelasiano) riporta l’indicazione di tutte le Stationes, ma manchi l’indicazione della Statio, cioè la chiesa romana il cui Papa, quel giorno, avrebbe officiato, per i giovedì di Quaresima. Questa omissione indica che né il Papa né alcun altro sacerdote avrebbero celebrato la Messa in quel giorno.

Il Liber Pontificalis spiega che fu Papa Gregorio II (il quale aveva accompagnato, in qualità di arcidiacono, l’allora Papa Costantino al Concilio Trullano del 692, di cui si parlerà anche dopo) ad interrompere questa pratica, introdotta, o, quanto meno ratificata, da Papa Milziade all’inizio del IV secolo.

Altro giorno aneucaristico è, naturalmente, il Venerdì Santo, durante il quale si celebra la cosiddetta Missa Sicca o Missa Praesanctificatorum, durante la quale il celebrante si comunica ad una particola consacrata il giorno precedente, nella Missa in Coena Domini. Solo a seguito delle riforme della Settimana Santa del 1955 sotto Pio XII fu eliminato questo antichissimo costume, consentendo anche al popolo di poter ricevere il Sacramento. La nuova usanza fu aspramente criticata dall’insigne liturgista Leon Gromier, secondo il quale veniva a mancare, insieme a molti altri elementi di questa riforma, un tratto spiccatamente tradizionale poiché di antica origine. A titolo d’esempio, furono altresì eliminati altri elementi che potevano far ricordare una Messa come le varie orazioni sacrificali o le incensazioni offertoriali more solito.

La tradizione ambrosiana

La tradizione ambrosiana fu caratterizzata, fin dai primi secoli, dall’assenza di Messa ogni venerdì di Quaresima. Il motivo qui sotteso è quello per cui nel giorno in cui si commemora la morte di Nostro Signore Gesù Cristo non è possibile celebrarlo vivo nell’Eucarestia. Ma, a differenza della tradizione romana e bizantina, l’assenza è pressoché totale: non è assolutamente possibile esporre o impartire la Benedizione col Santissimo Sacramento, né concedere la Santa Comunione, se non come viatico ai moribondi. Se vi è conopeo lo si chiude quasi a mo’ di velo funebre attorno al tabernacolo, coprendolo (immagini qui nell’articolo sulla Quaresima ambrosiana).

Secondo il Cardinale Schuster, tale origine è da ricercarsi nel fatto che a Milano le Messe del venerdì fossero celebrate in serata dopo una lunga preghiera vespertina e, pertanto, andavano a collocarsi nel giorno di sabato (secondo la concezione ebraica e tuttora viva nella tradizione liturgica cristiana, per cui il nuovo giorno inizia al tramonto); è però da considerarsi che Schuster travisa ed esagera sovente, anche nello studio della liturgia romana, il concetto di pannychis. È gravemente proibito per i sacerdoti, sia pure per devozione, recarsi in chiese di rito romano per celebrare la Messa. La stesso vale ai fedeli, ma come calda raccomandazione (io stesso, essendo ambrosiano e trovandomi in una chiesa di Dublino durante un venerdì di Quaresima, non assistetti alla celebrazione).

Nel venerdì della Settimana Autentica non vi è neppure un elemento che si avvicini alla Messa, e non avrebbe senso che ci fosse: il Santissimo Sacramento rimane nello stesso tabernacolo di riposizione dalla fine della Missa in Coena Domini alla Veglia Pasquale.

La tradizione bizantina

Anche nella tradizione bizantina sono presenti giorni aneucaristici, ma in questo caso significa che non si effettua la consacrazione. In tutti i giorni della Grande Quaresima, infatti, non è lecito offrire la Divina Liturgia, eccezion fatta per i sabati (la cui caratteristica di minor penitenza è in comune con la tradizione ambrosiana) e le domeniche. Nella concezione bizantina, infatti, anche la Comunione rompe il digiuno: non è quindi possibile comunicarsi al mattino - il solo tempo in cui, invece, è lecito consacrare, secondo la prassi comune con quella occidentale - dacché le regole prescrivono di cibarsi solo dopo il Vespero.

Lo stesso concetto della celebrazione della Divina Liturgia appare inadatto all’aspro rigore penitenziale bizantino. Sia il concilio provinciale di Laodicea (364) che il Quinisesto (692) confermano questa prassi, proibendo l’offerta del Sacrificio e prescrivendo, invece, la Liturgia dei Presantificati, da effettuarsi con agnelli consacrati nella Liturgia della domenica precedente e riposti nell'artoforio (tabernacolo).

Un momento della Liturgia dei Presantificati. Si nota l'Agnello con un colore violaceo (poiché bagnato la domenica in cui è stato consacrato con del vino consacrato), mentre il diacono riempie con altro vino il calice.

Questa non è un semplice rito di Comunione, come poteva essere ad esempio l'Ufficio dei Salmi Tipici (una sorta di messa secca) in uso nei monasteri palestinesi almeno fino al secolo XII, ma una vera e propria Liturgia, in cui da una parte si utilizza un Agnello già consacrato, ma dall'altra si consacra per intinzione il vino Sacro Calice. Nella prassi ordinaria, si celebra questo rito ogni mercoledì e venerdì di Quaresima e nella festa dei Santi Quaranta Martiri (9/22 marzo), mentre nei monasteri può officiarsi anche tutti i giorni. Nemmeno la festa del Santo patrono ammetterebbe eccezione, e si celebrerebbero comunque i Presantificati.

L’unica eccezione ammessa è l’Annunciazione, ma la Divina Liturgia è cantata - seppur al mattino  infra i Vesperi, in modo che sembri non essersi rotto il digiuno.

La consacrazione “per contatto” è un interessante caso di teologia sacramentaria: sebbene il metropolita di Kiev san Pietro Moghila (1596-1646) non vi credesse, la Tradizione afferma il contrario: ne sono prova due lettere di due patriarchi di Costantinopoli, Michele II e Michele III, in cui si afferma chiaramente che il calice si consacra in questo modo. Inoltre, anche la Messa dei presantificati che si celebra al Venerdì Santo nel rito romano, contiene evidenti indizi di questa prassi, dacché si prepara del vino nel calice in cui viene intinta l'ostia preconsacrata, e le preghiere lasciano intendere il carattere sacramentale di tale vino venuto a contatto col Sacramento.

Conclusione e riflessioni collaterali

Si nota come quello di non celebrare la Messa sia una tradizione liturgica antichissima motivata in maniere differenti. Ad alcuni occhi materialisti e razionalisti anche di coloro che si proclamano “tradizionalisti” questa pratica è assurda poiché “ridurrebbe il conteggio di Messe celebrate”, e, in un’assoluta predominanza dei Sacramenti, si rimarrebbe privi della grazia. Ragionamenti di questo tipo, uniti ad un devozionismo, hanno prodotto mescolanze liturgiche gravemente erronee, come il rito del Venerdì Santo celebrato secondo le rubriche tradizionali, ma con la distribuzione della Comunione al popolo, come purtroppo molte parrocchie "tradizionaliste" sogliono fare.

Non bisogna d'altro canto pensare che senza sacramenti sia impossibile ricevere la grazia, poiché secondo l'Aquinate (che, spesso, ha un’impostazione schematica) “gratia non alligatur sacramentis”. Ci sono molte figure di Santi come Maria Egiziaca che ricevettero due volte l’Eucarestia, ma non per questo mancarono di santità.

sabato 5 marzo 2022

Una omelia di Teolepto di Filadelfia per l'inizio dei digiuni

1. Il trascorrere del tempo ci ha già condotti ai giorni più sacri della continenza, dai tempestosi flutti del rilassamento della carne al porto spazioso e calmo dell'angustia del digiuno. Da domani inizieremo infatti a percorrere questa strada. Non appena giungeremo all'inizio, afferreremo anche la fine, perché, superando il digiuno nella sua interezza, coglieremo l'intera guarigione che ne deriva. Quando parlo dell'inizio della continenza, non intendo il primo giorno di quelli inclusi nel numero, e ancora, quando parlo della fine, non intendo il giorno che completa i quaranta, che è l'ultimo di quelli che lo precedono. Chi considera la durata dei giorni destinati al digiuno e si immagina di trascorrerli poco a poco manifesta la mollezza della sua anima. Afflitto dai limiti del digiuno, egli osserva he la sua durata è limitata e ne allevia il peso che deriva dalla propria mollezza. Egli pensa che al termine dei quaranta giorni si riempirà di nuovo di cibi abbondanti e vari senza alcun timore. Quello che intendo come inizio e fine del digiuno non è questo: contare i giorni è proprio degli amanti del piacere e di quelli che hanno adottato la forma esteriore del digiuno, ma non la sua sostanza.

2. Con "inizio del digiuno" intendo l'astinenza dai molti e abbondanti cibi, con "fine del digiuno" lo sradicamento delle passioni e degli errori. Il digiuno fisico è stato prescritto a tal fine e dà beneficio se si unisce al digiuno spirituale, cioè al rifiuto del male, che completa la definizione di digiuno. Per imparare che questo è il vero digiuno, ricorda la legge scritta, che è divisa in lettera e Spirito e che guida dalla lettera allo Spirito chi si attiene al significato della legge. Per questo motivo l'Apostolo dice: La lettera uccide, lo Spirito dà vita. La legge del digiuno ha un significato simile: comprende l'astinenza dai cibi e il rifiuto delle passioni, e per mezzo della privazione del nutrimento del corpo, guida colui che digiuna alla purezza dell'anima.

3. Bada dunque, astenendoti dai cibi, di non pensare che ciò da solo ti sia sufficiente, e di trascurare il più elevato digiuno, istupidendoti come i giudei che digiunavano secondo la lettera della legge, osservando così un digiuno giudaico. Coloro che seguono la legge del corpo non hanno raggiunto la legge spirituale. Colui che limita il digiuno all'astinenza dei cibi pratica il digiuno nella sfera sensibile, ma nutre l'anima di passioni irrazionali, di parole e di disposizioni malvagie ed è colpito da una duplice freccia, perché si diletta dell'amore delle passioni e si inorgoglisce dell'osservanza del digiuno. Piacere e vanagloria sono i dardi più appuntiti del Maligno. Allontana l'anima dal corpo e il corpo appare morto. Separa il digiuno dall'anima ed essa sarà messa a morte dalle passioni. Congiungi l'anima al corpo e lo solleverai a vita rinnovata. Unisci il digiuno all'anima e avrai un'anima vivente, vigile nelle opere buone.

4. Ti mostrerò con un esempio i vero digiuno e la sua riuscita. Il digiuno è tra la carne e lo Spirito come un ponte su un dirupo scosceso e profondo o su un fiume che divide la superficie visibile della terra. Il ponte infatti unisce due punti di terra separati, e portando sul propri dorso quelli che passano, rende transibile un luogo impraticabile e permette il passaggio senza pericolo all'altra sponda.

5. Nel nostro caso, il digiuno con la sua pratica fornisce medicine e guarisce le malattie. Risolvendo fazioni e liti, riconcilia e unisce i contendenti. Con uno stile di vita frugale e con la moderazione nella dieta preserva la vita del corpo e lo rende attento, leggero e vigoroso per gli agoni ascetici, in modo che possa con zelo compiere veglie, salmodie e genuflessioni, frequentare le sinassi in chiesa e adempiere con entusiasmo al servizio che gli è stato affidato. Alla mente, a sua volta, dona una disposizione sobria e attenta, liberata dallo stupore e dalla fantasia, a motivo di una partecipazione misurata e semplice delle necessità. Allora la mente rimane imperturbata e conserva la sua prontezza, perché non è oppressa, come si è detto, dalla nebbia della ghiottoneria. Conserva pure la sua facoltà visiva e percepisce così le disposizioni delle abitudini vane e le parole che in modo sconsiderato e senza discrezione fuggono dalla bocca.

6. La mente vede con chiarezza i pensieri che strisciano nella ragione, osserva l'ignominia delle passioni e, non sopportando l'odiosità della vergogna, rigetta i mali come se la privassero della speranza di salvezza e della libertà in Dio. In modo infallibile discerne che non c'è alcun vantaggio nell'astenersi dai cibi quando le passioni abbaiano come cani con i loro pensieri e le parole malvagie e quando mordono l'anima con i loro strumenti viziosi.

7. Che rapporto c'è tra luce e tenebra? Cosa c'è di comune tra Cristo e Beliar? Servo Cristo con il digiuno visibile, ma sono servitore di Beliar con le passioni e il riposo della mia cattiva condotta. Guai a me che sono in errore! Guai a me ipocrita! Ho fatto mostra di essere discepolo di Cristo, ma sono diventato schiavo del nemico col peccato. Speculo sulla grazia del digiuno. Mescolo i l digiuno e la dissolutezza come l'acqua e l vino. Non metto carne in bocca, ma divoro mio fratello coi denti della calunnia, della condanna, dell'insolenza e della dissimulazione. Mi astengo dal pesce, ma nell'anima possiedo il rancore che sta in agguato e colpisco il fratello con pensieri non espressi. Non mangio formaggio, ma macchino contro il prossimo e gli tendo un agguato per colpirlo. Non ungo la mia gola d'olio, ma i piaceri della carne ungono la mia anima in modo disgustoso. Tutti i giorni porto sulle labbra il verso del salmo e dico: Mi percuota il giusto e il fedele mi rimproveri, ma l'olio dell'empio non profumi il mio capo.

8. Il digiuno che mi rende giusto, la più importante e inseparabile virtù, mi accorderà correzione e comprensione con la privazione misurata di nutrimento. Mi correggerà nella misericordia, ovvero nella piccola prova del modo di vivere angusto; è scritto infatti: A te abbiamo gridato nella prova, che è la tua correzione. Mi accuserà di compiere il digiuno a metà, astenendomi dai cibi ma non essendo libero dalle passioni. Non lasciare che l'olio del peccatore, cioè il piacere distruttivo del peccato, unga con l'inganno la mia testa, la mente che domina sui miei sensi.

9. Evito di bere vino, ma indulgo nell'ubriachezza dell'ira irragionevole. Pratico il silenzio, ma emetto urla di collera. Sto lontano dalla donna, ma riempio gli occhi dal desiderio impudico. Sono casto nella carne, ma dipingo graziose immagini nella ragione e traggo piacere dai pensieri. Sono lento nel mangiare, ma veloce a parlare contro il mio prossimo. Mi curvo per fare un atto di adorazione, ma non piego del tutto il mio pensiero all'umiltà. Piego il ginocchio per pentirmi, ma volo sulle ali dell'orgoglio. Dimostro di essere puro nelle parole, ma mi rendo impuro immaginando cose straordinarie in mio potere. E' un abominio per il Signore ogni cuore superbo. Come giusto, non mi sottraggo a rimproverare gli altri, ma non tollero di accettare da un altro un consiglio o un qualsiasi rimprovero. Non mi stanco di denunciare gli errori dell'altro e di schernire mio fratello, ma esito e rimando di considerare i miei falli e di provare una contrizione appropriata.

10. Da invidioso, calunnio il progresso concreto del prossimo, o da superbo mi definisco mistagogo e sono orgoglioso di denunciare come vero il supposto suo errore. Da superbo, lodo il fratello che s'inchina servilmente davanti a me reputandomi superiore, e da vanaglorioso, in cambio, celebro chi mi loda, perché voglio sottolineare che gli encomi su di me pronunciati vengono da un uomo importante. Rifuggo come abominio colui che mi vuole avvicinare e parlare. Quando si umilia per la supplica, mi riempio di furore.

11. Il digiuno permette che la mente veda questi invisibili e molteplici atteggiamenti, impulsi e azioni. Con la serenità che proviene dalla continenza, la mente percepisce tutte queste cose come fossero nell'aria e riconosce la detestabilità delle passioni e l'odiosità delle azioni malvagie. Così, illuminata dalla luce del discernimento, si muove verso pensieri buoni che suggeriscono le disposizioni della correzione.


Teolepto di Filadelfia, Discorso XI. Discorso sul digiuno, letto nella Domenica dei Latticini. Trad. it. di A. Rigo e A. Stolfi in A. Rigo (a cura di), Teolepto di Filadelfia. Lettere e discorsi, Magnano 2007, pp. 177-181.


Teolepto metropolita di Filadelfia (1250-1322) fu zelante asceta, distintosi nella difesa dell'ortodossia contro i tentativi unionisti, e poi per la difesa dell’ἀκρίβεια nella disputa arsenita, che lo portò a separarsi dalla comunione con la sede di Costantinopoli per dieci anni; la sua fama di asceta fu tale che venne assunto quale modello di santità tanto dai palamiti quanto dagli antipalamiti lungo tutto il XIV secolo. Per la biografia cfr. D. Constantelos, “Mysticism and Social Involvement in the Later Byzantine Church: Theoleptos of Philadelphia, a Case Study”, in Byzantine Studies / Études Byzantines 6 (1979), pp. 83-94; A. Rigo, “Nota sulla dottrina ascetico-spirituale di Teolepto Metropolita di Filadelfia (1250/51-1322)”, in RSBN 24 (1987), pp. 165-200; A. Constantinidis Hero, Theoleptos of Philadelphia (ca. 1250-1322): from Solidarity to Activist, in S. Ćurčić - D. Mouriki (edd.), The Twilight of Byzantium. Aspects of Cultural and Religious History in the Late Byzantine Empire, Princeton 1991, pp. 27-38.