martedì 9 aprile 2019

Aneddoti da un monastero (parte 2) - S. Giovanni Climaco

Vedasi qui la prima parte

Fra' Angelico, Tebaide (dettaglio), 1418-20
Verrebbe meno il tempo della mia vita, o santo capo e diletta di Dio congregazione, a narrare le virtù di quelli beati e la loro celestiale vita degna di essere seguitata; ma più utile cosa è adornare lo nostro parlamento delle fatiche e de' dolori e de' sudori di quelli dolenti, ed incitar noi al zelo della santità, che delle proprie e vili ammonizioni mie; imperò che questo è vero sanza contradizione, che la cosa men buona s'adorna per la migliore; ma di questo vi prego, che non mi abbiate a sospetto ch'io scriva niuna cosa composta, però ch'egli è costume ed opera d'infidelità nelle cose che sono sante e veraci, guastare l'utilità perversamente, cioè colle menzogne e colle falsitadi; ma seguiremo il parlamento cominciato. Uno de' principi della città d'Alessandria, lo cui nome è Isidero, inanzi a questi anni rinunziò al mondo nel predetto monasterio, il quale io ci trovai. Questo Isidero quando quello santissimo pastore lo ricevette, udendo ch'egli era uomo crudele e forte e arrogante, pensò per umana spirazione saviamente come sagacissimo l'astuzia delle demonia e disse ad Isidero: "Se tu veramente ài eletto di prendere sopra te il giogo di Cristo, conviensi che tu sii provato ed esercitato nella obedienzia"; ed Isidero disse così: "Come il ferro si mette nelle mani del fabbro, che faccia quello che a lui piaccia, così, padre santissimo, mi do io a te"; e quello grande pastore, essendo satisfatto di questa bella parola, incontanente il mise alla pruova come il ferro, e disse così a lui: "Io voglio che tu permanghi alla porta del monasterio e ad ogni uno ch'entra ed esce, tu t'inginocchi e dica: Priega Iddio per me, però ch'io sono peccatore"; ed obbedì così perfettamente, come l'angelo obbedisce a Dio. E perseverando in quella obedienzia sette anni, e venendo in profondissima umiltà e compunzione, voleva quello santo padre dopo gli sette anni e dopo la sua inestimabile pazienzia, ordinarlo e farlo essere dispensatore del monasterio de' frati, come persona di ciò molto degna; ed egli fece fare molti preghieri all'abate per me e per li altri, che gli lasciasse compire il corso della vita sua in quello stato, dando quasi ad intendere che il fine della vita sua e la sua vocazione s'appressava. E così fu fatto, però si riposò in pace, e lo settimo dì della sua dormizione, prese a sé lo portinaio de lo monasterio, però che gl'avea inanzi detto: "Se io averò confidanza in Dio, in breve tempo sarai giunto con meco"; e questo fu fatto per dare perfetta certezza della sua beatitudine, la quale acquistoe per la perfetta umiltà ed obedienzia sua.
Domandai io questo grande Isidero inanzi la sua morte, che mi dicesse che operazioni avea la sua mente stando alla porta, e non me lo celò per fare utilità ad altrui; questo santo sempre da ricordare disse così: "Nel principio io pensava d'esser venduto per li miei peccati, e però facea quella operazione; onde con molta amaritudine e violenza facea quella penitenzia. Compiuto il primo anno, vivea senza tristizia di cuore, aspettando da Dio alcuna mercede della penitenzia e della obedienzia. Compiuto il secondo anno, con sentimento di cuore mi reputava indegno di stare nel monasterio, e di vedere e di parlare con quelli padri e di ricevere li Sacramenti divini, e di vedere la faccia di niuno; perciò ragguardava pure in terra, e con subietta prudenzia dimandava l'orazione di quelli che entravano e uscivano". Una fiata sedendo noi a mensa quello grande prelato e dottore inchinando la sua santa bocca agli orecchi miei disse: "Vuogli ch'io ti dimostri nella profonda canutezza la divina prudenzia?" e pregandolo di ciò, chiamoe il giusto pastore uno della seconda mensa, che avea nome Laurenzio, stato quarantotto anni nel monasterio, ed era il secondo prete della chiesa; e venendogli e inginocchiandosi umilmente dinanzi all'abate, ricevette la benedizione; ed essendo levato di terra, l'abate non gli disse nulla, ma lasciollo stare dinanzi alla mensa sanza mangiare, ed era al principio della refezione, e così stette quasi per due ore, sì ch'io mi vergognava di guardarlo in faccia, però ch'era tutto canuto, vecchio di ottant'anni. Ed essendo stato senza parlare insino al compimento della refezione, levandosi da mensa l'abate il mandò al predetto Isidero, che li dicesse il principio del salmo trigesimo; ed io come uomo malizioso non fui negligente a dimandare quel vecchio, che avea pensato, stando a quel modo inanzi all'abate, ed egli rispuose così: "Io attribui all'abate la imagine di Cristo, cioè feci ragione che l'abate fosse Cristo, e però non solamente. Onde, o padre Ioanni, io non stava come chi sta dinanzi alla mensa degli uomini, anzi stava come chi sta dinanzi all'altare di Dio ad adorare, non avendo al postutto niuna rea intenzione né cogitazione inverso del pastore per la fede e per la carità che io porto a lui, come dice Santo Paolo, che la carità non pensa male. E questo sappi, padre, che quando alcuno con inocenzia e con simplicitade si mette nelle mani altrui, da indi inanzi non darà luogo né ora al maligno in se medesimo contra di lui".
E veramente quel giusto pastore delle pecore razionali e salvatore per Gesù Cristo Dio e Signore nostro cotale dispensatore avea delle cose del monasterio, casto e mansueto come molti pochi se ne truovano. Contro a questo dispensatore, questo grande padre per utilità degl'altri si mosse ad ira sanza cagione, e comandò molto aspramente che fosse cacciato dall'oratorio; e conoscendo io ch'era sanza offesa di quello che l'abate lo incolpava, facea la scusa per lui all'abate segretamente; ed egli savio si disse: "Saccio che non ha colpa, ma come è cosa miserabile ed ingiusta rapire il pane dalle mani del fanciullo affamato, così quegli che àe reggere l'anime, offende sé ed il discepolo suo, se non gli fa acquistare a tutte l'ore corone per ingiurie e vergogne e per disprezzamenti, quando conosce che ne possa portare. Ed in tre cose massimamente l'offende, primamente che'l priva de la mercede della reprensione; il secondo danno è che priva gli altri dell'essemplo che riceverebbono dalla virtù altrui; il terzo male è gravissimo, però che spesse volte quelli che sono estimati d'essere portatori di pene e pazienti, non essendo toccati per tempo, e quasi uomini virtuosi non essendo dagli prelati ripresi, furono privati di quella mansuetudine e pazienzia, che prima era stata in loro, e però San Paolo comandò al suo discepolo Timoteo così: Riprendi, priega, fa le vergogne, non cessare, o che piaccia o che dispiaccia, e questo è a dire opportune et importune; e litigando me di questa cosa contro quello abate, e allegando la infermità dello spirito di questa presente generazione, come spesse fiate per le reprensioni che son fatte quasi senza cagione, si turbano e partonsi dalla greggia, quegli che era casa di sapienza, rispuose e disse questa bella e notabil parola: "L'anima che per Gesù Cristo s'è offerta e legata dalla carità, e dalla fede del pastore infino al sangue, non si partirà, massimamente se à ricevuto da esso benefici spirituali sopra le piaghe de' suoi peccati, ricordandosi delle parole di San Paolo quando disse che Né Angeli né Arcangeli né Principati né Virtuti né altra creatura partirà noi dalla carità di Cristo e del pastore; ma l'anima che non è così legata, fissa e congiunta, se in quel luogo non dimora vanamente cioè inutilmente, al postutto me ne maraviglio, perciò che alla persona infinta non l'è bastevole la subiezione che è pure in apparenzia"; ed imperò quello grande santo non mentie a sé medesimo, ma guidoe l'anime e condussele a perfezione ed offersele a Cristo ostie immaculate.
Udiamo la divina sapienzia, e meraviglianci come si truova in vasi di terra. Essendo io in quello monasterio, mi maravigliava della pazienzia e della fede di quelli che venivano novellamente, e della smisurata sofferenza delle reprensioni e delle ingiurie che facevano gli prelati, ed alcuna fiata riceveano persecuzioni non solamente dagli prelati, ma da minori; onde per cagione ed edificazione una fiata domandai io uno, che era istato quindici anni nel monasterio, il quale avea nome Abachiro, il quale io vedea singularmente essere offeso da tutti quanti, ed alcuna fiata dagli servidori era cacciato dalla mensa (però che quel frate era un poco sfrenato della lingua, e questo avea per natura), e dissi a lui: "Frate Abachiro, perché è questo, ch'io ti veggio quasi per continuo esser cacciato dalla mensa, ed ire a dormire sanza refezione?". Ed egli risupose così: "Padre, credimi che questi miei padri mi pruovano se io son degno d'esser fatto monaco, e nol fanno in verità per iniquità; e però io conoscendo la 'ntezione loro e dell'abate, ogni cosa sostegno sanza pena, e pensando questo, abbo portato quindici anni, però che dal principio quando c'entrai, si mi dissono che trenta anni si debbono provare quelli, che renunziano al mondo; e giustamente è fatto questo, padre Ioanni, però colui che non sta alla pruova non è perfetto". E sostenendo anche questo nobile Abachiro per tempo di due anni, dapoi ch'io fui in quel monasterio, si riposò in pace; e disse questa parola alli padri del monasterio, quando venne a morte: "Grazie rendo a Gesù Cristo nostro Signore ed a voi, che, però che voi m'avete tentato per la mia salute, sono stato dieci sette anni non tentato dalle demonia"; e morto egli, quel pastore dal giusto giudicio, come confessore il fece degnamente collocare colli santi, che si riposano in quel monasterio.

S. Giovanni Climaco, La Scala del Paradiso, volgarizzazione del testo latino di frate Agnolo de' Minori (inizio XIV secolo). Testo di lingua corretto su antichi codici mms. per Antonio Cerruti (1830-1918) dottore dell'Ambrosiana.

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