Nel calendario proprio del Patriarcato delle Venezie, il giorno 31 gennaio viene commemorata, col grado di doppio maggiore, la festa della Traslazione in Venezia delle Reliquie del Santo Evangelista Marco, Patrono Principale della Città, del Patriarcato, nonché della Repubblica.
Il corpo del santo evangelista fu conservato e venerato a lungo ad Alessandria. Oltre la testimonianza di Palladio abbiamo quella degli Atti di san Pietro, vescovo di quella città nel quarto secolo, (la stesura però di questa “passio” è molto posteriore) che ci dicono come nella località del martirio di san Marco, a Bucoli, c’era una chiesa costruita nel 310, appena i cristiani poterono costruirne una all’aperto, e un cimitero che prendeva il nome del santo. Il corpo di San Marco era molto probabilmente ancora lì, custodito in una bella tomba di marmo, in una chiesa situata presso il porto all’entrata della città quando nel secolo ottavo essa cadde in mano degli Arabi.
Il monaco franco Bernardo però che verso la fine del secolo nono compie il suo pellegrinaggio in terra santa ci assicura (il manoscritto che abbiamo è abbastanza tardo ma sembra doversi ricondurre ad una fonte più antica) che il corpo dell’evangelista non si trovava più in Egitto ma era stato trasportato a Venezia. Queste le voci che il monaco raccoglie sul posto e che confermerebbero la tradizione.
Secondo questa infatti nel 828 dieci navi veneziane spinte dal vento contro la volontà dei loro marinai, “navigantes velut inviti” avrebbero approdato ad Alessandria d’Egitto contravvenendo ai decreti dell’imperatore bizantino Leone V l’Armeno (813-820), confermati dal duca veneziano Giustiniano Partecipazio, che proibivano il commercio con gli arabi; contravvenzione però avvenuta “Deo volente … divino nutu”, tiene a ripetere l’estensore del racconto. Tra gli occupanti di quelle navi, che tra l’altro da buoni mercanti avevano approfittato di quella sosta forzata per fare affari, si trovavano i tribuni Buono da Malamocco e Rustico da Torcello. Costoro oltre che buoni mercanti erano anche uomini pii e ogni giorno si recavano nella chiesa dove era sepolto il corpo di san Marco, vicino al porto, per venerarlo. Entrarono così in amicizia con i custodi del tempio e soprattutto col monaco Staurazio e il prete Teodoro, quest’ultimo secondo il costume orientale, sposato. Data l’usanza instaurata dal califfo abasside Mamum di spogliare le chiese cristiane per costruire delle moschee e la paura che regnava tra i cristiani di vedere distruggere i luoghi di culto e profanare le preziose reliquie, i due veneziani propongono ai due alessandrini di trafugare il corpo dell’evangelista. E’ vero, essi rispondono alle obiezioni di quest’ultimi, che il santo ha evangelizzato Alessandria e sarebbe giusto che vi restasse il suo corpo, ma prima ancora ha evangelizzato Aquileia e la regione veneta “unde nos sumus primogeniti filii eius” (e noi siamo i suoi figli primogeniti), per cui non si tratterebbe che di un ritorno “nos Dominus hic velut invitos adduxit ut nobis eundem nostrum sanctissimum patrem restituat” e poi ci sarà anche una buona ricompensa per voi da parte del duca veneziano.
Staurazio e Teodoro da principio non cedono ma poi, anche perché il pericolo di profanazione diventa sempre più prossimo ed uno degli altri custodi del tempio è già stato arrestato, acconsentono ai desideri di Buono e di Rustico. Il corpo dell’evangelista viene imbarcato sotto gli occhi degli arabi con uno stratagemma: la cesta che lo contiene viene riempita di foglie di cavoli e di altri ortaggi e di carne porcina alla cui vista essi si mettono a gridare “Kinzir, Kinzir” (maiale, maiale) e si allontanano sputando. Forse tale sistema viene adoperato per ingannare non solo i mussulmani ma anche i cristiani alessandrini, attaccati al loro santo patrono e una frase del racconto potrebbe farcelo sospettare. Incomincia così il viaggio di ritorno e la leggenda fiorisce a questo punto di miracoli. Al passaggio delle sacre spoglie si sparge attorno un insistente profumo; la nave di Buono e Rustico va a piantarsi velocemente sul fianco di un’altra i cui occupanti li deridevano dicendo che era stata data loro una mummia e non il corpo del santo e non si stacca finché questi ultimi non riconoscono la verità; il salvataggio nella tempesta; gli isolani che vanno incontro alla nave, prodigiosamente avvertiti del trasporto; il demonio che si impossessa del negatore più ostinato. Arrivano finalmente in Istria, ad Umago e si fermano incerti sul da farsi. Mandano allora a Giustiniano Partecipazio un’ambasceria per dargli il lieto annuncio e farsi perdonare la trasgressione dei suoi ordini. Il duca accoglie con gioia la notizia e si prepara con il vescovo Orso e il popolo a ricevere “talem thesaurum”. E la preziosa reliquia arriva a Rivo Alto. Le autorità religiose e civili gli si fanno processionalmente incontro e altri miracoli segnano il suo trasporto. Mentre ci si avvia per la scala che porta al palazzo ducale non c’è neppure il più tenue soffiar di vento, ma il manto che copre il corpo santo si agita come se fosse mosso da una impetuosa e misteriosa forza e i portatori, cui prima il corpo pesava moltissimo, non fanno più nessuna fatica. Lo si depone in una stanza vicina la palazzo in attesa di costruirvi la chiesa. Morto nel 829 Giustiniano, secondo quanto egli stesso dispone nel suo testamento viene eretto dal fratello Giovanni “infra territorio sancti Zachariae”, una basilica “elegantissimae formae, ad eam similitudinem, quam supra domuni tumulum Hierosolimis viderat” cioè a pianta centrale e vi si depone “honore dignissimo venerabillimum corpus”.
I valori religiosi e civili nel culto di san Marco si potenziano a vicenda e si fondono in una infrangibile unità, destinata a durare nei secoli. L’evangelista diventa il simbolo della patria, le monete e le bandiere si fregeranno del leone alato, la basilica marciana diventerà tempio e arengo. “Viva San Marco!”; con questo grido i veneziani saluteranno le loro vittorie e si rinfrancheranno dopo le loro sconfitte. (1)
Fino alla caduta della Repubblica, la festa era solennemente celebrata nella Basilica Ducale: il Primicerio cantava solennemente il Pontificale alla presenza di tutto il Capitolo, e il Doge vi assisteva insieme a tutta la Signoria. Ancora con una certa solennità il Patriarca, trasferitosi nella Basilica dopo l'imperiosa riorganizzazione napoleonica del territorio ecclesiastico veneziano occorsa nel 1806, celebrava la festa del 31 gennaio sino al 1965, quand'essa venne abolita nell'uso riformato.
Il Calendario proprio delle Venezie prevede per questa festa la Messa "Mihi autem nimis" dal Comune degli Evangelisti, con le orazioni proprie. Propria è anche la lettura evangelica, ch'è una pericope dal capitolo XVI del Vangelo secondo S. Marco; tale Vangelo, che tiene luogo del brano di S. Luca previsto nel Comune, si legge secondo la consuetudine veneziana anche nelle altre due feste del Santo Evangelista. Si commemora S. Giovanni Bosco, che ricorrerebbe in tal giorno nel Calendario Universale.
L'Ufficio è preso parimenti dal Comune degli Evangelisti, con orazione e antifone proprie al Magnificat di ambo i Vesperi e al Benedictus. Nel II notturno del Mattutino si leggono due letture agiografiche, più un brano dal 2° sermone su S. Marco di S. Pier Damiani; i responsori sono propri. Nel III notturno si legge il Vangelo della Messa e stralci dell'omelia 29 di S. Gregorio Magno, sicché vii e viii lettura sono identiche alle rispettive della festa del 25 aprile nel medesimo Proprio veneziano degli Uffici. I responsori del III notturno nella festa del 31 gennaio, tuttavia, sono quelli del Comune degli Evangelisti, perché quelli propri impiegati il 25 aprile hanno un carattere troppo marcatamente pasquale. Si commemora S. Giovanni Bosco al I Vespero, alle Laudi e al II Vespero, nonché se ne legge l'agiografia breve come ix lettura del Mattutino; inoltre naturalmente si commemora S. Martina al I Vespero e S. Ignazio al II Vespero.
(1) La storia della traslazione è tratta da:
A. NIERO, Culto dei Santi a Venezia, Venezia, Studium Cattolico Veneziano, 1965.
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