Originariamente pubblicato in «Templum Domini», VIII, 2021, pp. 46-49
Una preghiera
controversa, mal interpretata, mal tradotta: stiamo parlando della celebre
orazione per gli Ebrei prevista dalla liturgia del venerdì santo. Non pochi
sono i problemi, infatti: alcuni polemisti hanno addirittura visto qui le
giustificazioni teologiche alla Shoah.
Le orazioni sono proclamate in cornu epistolae come le collette (foto di NLM) |
Per capire a
pieno quali siano state le questioni intorno ad essa è necessario analizzare il
sostrato teologico di riferimento e la liturgia in cui essa è situata [1].
Il popolo
d’Israele era l’eletto di Dio: tutto l’Antico Testamento è la storia della
prima alleanza; nel nome di Jahvè gli Ebrei vincono le guerre, conquistano i
territori, offrono i sacrifici, nell’attesa del Messia. Colui che i patriarchi
hanno acclamato e di cui i profeti hanno parlato (cfr. antifona ambrosiana Omnes
Patriarchae) è poi venuto sulla terra: Gesù Cristo Salvatore, fondatore
della nuova ed eterna alleanza nel Suo sangue; la Chiesa diventa verus Israël.
La precedente, quindi, è annullata: la salvezza non è più data
dall’appartenenza etnologica e dal segno carnale della circoncisione, ma
dall’adesione, tramite il sacramento del battesimo, alla vita di grazia nella
fede trinitaria. Da ciò consegue una necessità impellente per il popolo ebraico
che desidera salvarsi: andare oltre l’Antico Testamento (non rifiutare la Torah,
ma giungere al suo perfetto compimento, perché la grazia ha superato la legge)
e riconoscere Gesù Cristo come Messia.
Ora, queste
espressioni potranno sembrare a qualcuno come esempio di antisemitismo: nulla
di più falso! L’antisemitismo si basa su una visione protestante che lega
intrinsecamente il comportamento di un individuo (e quindi anche la sua
religione) con la sua origine etnica. Non è un caso, infatti, che il nazismo
perseguitò non solo gli ebrei osservanti, ma anche coloro che avevano
semplicemente origini giudaiche (si pensi al caso di Edith Stein, che nel 1942
si era già convertita ed era divenuta monaca carmelitana).
Desiderare, invece,
la conversione di qualcuno non è violenza od odio, ma la più grande carità:
quella della Verità. È con questo spirito che la Chiesa ha pregato e continua a
pregare per la salvezza del popolo ebraico.
La preghiera è
situata nel cuore dell’anno liturgico, proprio all’interno del Sacro Triduo.
Illustriamo quindi la funzione secondo le rubriche del Messale di Pio V,
rimaste integre fino alla nefasta riforma pacelliana di cui parleremo in
seguito.
Il venerdì santo
(Feria Sexta in Parasceve) è caratterizzato dall’assenza della Messa
vera e propria: al suo posto si celebra, secondo la dizione più antica, la Missa
Presanctificatorum. I sacri ministri giungono all’altare con tutti i
paramenti, di colore nero, e si prostrano a terra davanti all’altare. Dopo le letture,
hanno luogo le preci solenni, l’adorazione della Croce e la comunione del solo
celebrante con le Sacre Specie consacrate il giorno precedente e portate in
solenne processione.
È nel momento
delle preci che va a collocarsi l’orazione incriminata. Dopo aver pregato per
la pace e l’unione della Chiesa, il papa, il clero e il popolo, l’imperatore, i
catecumeni, la liberazione dai mali, il ritorno di eretici e scismatici, la
penultima recita così:
Oremus
et pro perfidis Judaeis ut Deus et Dominus noster auferat velamen de cordibus
eorum; ut et ipsi agnoscant Jesum Christum, Dominum nostrum. [senza Levate né
Flectamus genua, subito si prosegue]
Omnipotens
sempiterne Deus, qui etiam judaicam perfidiam a tua misericordia non repellis:
exaudi preces nostras, quas pro illius populi obcaecatione deferimus; ut,
agnita veritatis tuae luce, quae Christus est, a suis tenebris eruantur.
L'orazione nella formulazione tradizionale |
Possiamo
facilmente individuare i sintagmi che hanno creato imbarazzo: pro perfidis
Judaeis e judaicam perfidiam. Dove sta il fraintendimento? Non
dobbiamo farci ingannare dal significato dell’aggettivo perfidus: la
filologia della parola ci spiega infatti che l’espressione perfidus ha
una doppia etimologia: da un lato abbiamo foedus come bruttezza morale,
e quindi perfidus è il malvagio; dall’altro lato, quello che i Padri
hanno applicato qui, foedus significa patto, e il perfidus è
colui che viene meno alle promesse, manca ad una fede intesa in senso
teologico; in sostanza, diventa sinonimo di infidelis. In tal senso, gli
Ebrei vengono così caratterizzati per essere venuti meno alle profezie bibliche
che anticipavano Cristo. Del resto, così commenta S. Agostino il salmo 54:”
Iniquus est qui non habet fidem; quod ergo hic ait iniquitatem, perfidiam
intellige”. Questa è anche la linea espressa nella bolla Coeca et
obdurata hebraeroum perfidia di Clemente VIII.
Questa preghiera
è nata, secondo alcuni studiosi, nel VI secolo, attingendo al testo Περὶ
πάσχα di Melitone di Sardi (II secolo). Secondo
altri, vi fu l’esplicita volontà di rispondere, con carità cristiana, a ben
altre espressioni presenti nella Birkat Ha Minin, come la seguente: “Che
per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il
regno dell'orgoglio; e periscano in un istante i nozrim [i nazareni] e i
minim [gli eretici]; siano cancellati dal libro dei viventi e con i
giusti non siano iscritti. Benedetto sei tu che pieghi i superbi” [2]. Si
capisce con quale spirito la Chiesa abbia risposto: espressioni che forse,
oggi, possono sembrarci un po’ forti ma che possiamo sintetizzare con questa
espressione Francesco Cancellieri, studioso delle cerimonie pontificie “rimproveri,
ma paterni e affettuosi”. [3]
Appurata l’onestà dei
compilatori del Messale Tridentino, dobbiamo considerare come l’orazione veniva
tradotta nei messalini e nei foglietti per i fedeli. Molti, infatti,
travisarono il senso originario della parola e tradussero con “perfidi”,
offrendo il fianco alle critiche: così Pio Alberto Del Corona nel 1893, Edmondo
Battisti nel 1921.
Altri, invece, misero in
luce l’infedeltà: nel 1915 il benedettino Schuster pubblicò, per i tipi della
Tipografia poliglotta vaticana, un libretto, accompagnato dalla benedizione di
Benedetto XV, in cui venivano riportate e tradotte le orazioni del venerdì
santo: i sintagmi erano tradotti con “infedeli giudei” e “non scacci neppure
gli stessi giudei” [4].
Mentre nell’Europa laica
serpeggiavano sentimenti (quelli sì) di antisemitismo, un gruppo di chierici,
insieme alla convertita dall’ebraismo Francisca von Leer, fondarono
l’associazione Amici Israël, dedita alla rimozione delle immagini
negative sul popolo ebraico affinché essi potessero abbracciare con più
facilmente la fede cristiana. Nel 1928, essi domandarono a Pio XI la revisione
della prece incriminata; il pontefice girò la questione alla Sacra
Congregazione dei Riti, che consultò Schuster come perito: egli rispose dicendo
che era necessario eliminare tutto ciò che poteva generare inutile
superstizione nel popolo (già condannata da Gregorio Magno) come la mancata
genuflessione [5]. Il Sant’Uffizio si oppose però: secondo il card. Merry del
Val e Padre Sales bisognava invece accettare il termine perfidus in
quanto etimologicamente corretto e non aprire la strada a riforme di riti così
antichi. Su quest’ultimo punto videro in modo estremamente corretto.
Un’apologia del termine
venne nel 1931 dal gesuita Louis Escoula sulla Revue apologétique: erano
le traduzioni in volgare a fraintendere un significato teologicamente corretto.
Mentre intanto si continuavano a produrre opuscoli e sussidi; il 10 giugno
1948, interrogata in merito, la Sacra Congregazione dei Riti rispose
affermativamente alla richiesta di poter tradurre perfidus/perfidia con
infedeli/infedeltà.
Dopo il dramma della
persecuzione nazista, alcuni studiosi ebrei chiesero a Pio XII di cambiare o di
sopprimere l’orazione perché, secondo alcuni, addirittura correa dello
sterminio. Molto più cauta la posizione del sacerdote convertito dall’ebraismo
John Oesterreicher, che sosteneva la necessità di adeguate traduzioni e
spiegazioni, anche in merito alla mancata genuflessione.
La riforma
pacelliana del 1955, a cui Padre Bugnini e Padre Braga stavano già lavorando da
alcuni anni per ordine di Pio XII portò a scardinare la Messa dei
Presantificati e a reintrodurre, soprattutto su pressione del card. Bea, la
genuflessione, uniformandosi alle altre otto orazioni.
L'orazione con le modifiche pacelliane |
Nel giro di
pochi anni, a questo punto, mutarono molte cose: nel 1959 Giovanni XXIII
soppresse i termini perfidi/perfidia: ciò fu apprezzato (e, per certi
versi, desiderato) da Jules Isaac, che avrà poi un grande impatto su Nostra
Aetate. Ma il grande cambiamento avvenne col messale montiniano: l’orazione
del 1970 è molto diversa dalla precedente, e così recita:
Oremus et pro Iudaeis, ut,
ad quos prius locutus est Dominus Deus noster, eis tribuat in sui nominis amore
et in sui foederis fidelitate proficere. Omnipotens sempiterne Deus, qui
promissiones tuas Abrahae et semini eius contulisti, Ecclesiae tuae preces
clementer exaudi, ut populus acquisitionis prioris ad redemptionis mereatur
plenitudinem pervenire.
Quest’orazione riflette un
cambio d’atteggiamento: se è giusto evitare forme di discriminazione e di
violenza, è altrettanto giusto e doveroso avere il dovere di predicare la
verità. Se fioriscono momenti di preghiera comune cristiano-ebraica, come si
può annunciare che Gesù Cristo è la vera via?
La Chiesa ha quindi pregato
nel modo corretto: non per la rovina e la perdizione dei Giudei, ma per la loro
salvezza; la giudaica perfidia non consiste in riproporre stereotipi di cui
facciamo volentieri a meno, ma nell’indicare con franchezza che l’antica
alleanza è venuta meno, e Cristo è l’unico, necessario e universale Salvatore.
Bibliografia di
riferimento
G. Menozzi, Giudaica
perfidia. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia, Bologna, Il
Mulino, 2014 [il testo è stato utilizzato per attingere alla vasta mole
documentaria; se ne ricusa l’ottica relativistica e indifferentista sul piano
religioso]
Note:
1: il presente è
voluto: diverse comunità (non necessariamente sedevacantiste) usano ancora
questo antico formulario.
2: tratto da J.
Maier, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica,
Brescia, Paideia, 1994; brano presente in un frammento, in originale ebraico,
della Geniza del Cairo.
3: tratto da F.
Cancellieri, Descrizione delle funzioni della settimana santa nella cappella
pontificia, Roma, Luigi Perego Salvioni, 1789.
4: tratto da I.
Schuster, Le sacre stazioni quaresimali secondo l’ordine del messale romano,
Roma, Tipografia poliglotta vaticana, 1915.
5: già citata
prima, diamo qui spiegazione: per motivi non chiariti (indagati soprattutto da
Canet e da Peterson) quest’orazione non presenta il flectamus genua col
relativo gesto; ciò è stato interpretato come una risposta alle finte
adorazioni rivolte a Cristo durante la Passione, compiute però dai soldati
romani (cfr. Mt XXVII 27-29)
Grazie per l'approfondito articolo: ce n'è davvero bisogno !
RispondiEliminaAnche Benedetto XVI aveva modificato il testo per l'Usus Antiquior. In seguito Francesco ha autorizzato il Triduum ante 1954. A rigore, credo che solo la versione storica, sia quella vigente... Una grande confusione però !.
RispondiEliminaBattuta: e se ogni religione si limitasse a pregare per sé e lasciasse in pace le altre? Della serie: farsi i fatti propri. Gli ebrei mica pregano per la conversione dei cristiani. Se io fossi ebreo, mi darebbe fastidio che nelle chiese cattoliche si dicesse che ho bisogno di farmi cattolico, così come mi dà fastidio che loro s'intromettano nella beatificazione di Pio XII. Ognuno padrone a casa sua 🙂
RispondiEliminaE come si concilia questo con Matteo 28,19?
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